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Se risaliamo all’etimologia della parola mostro, in latino monstrum deriva dal tema di monstrare nel significato di avvisare, ma anche da quello di monēre nel senso di ammonire. Nel significato originario, il mostro è un avvertimento/ammonimento divino per l’uomo, qualcosa che, esulando dall’ordinario, genera meraviglia ed ha il senso di un prodigio fasto/ nefasto che rassicura/spaventa .

Il termine greco per mostro è τέρας e indica un segno divino inviato da Zeus. Le parole monstrum e τέρας subiscono nel tempo un’evoluzione semantica e oggi nella definizione della Treccani leggiamo:

Per mostro si intende un essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura. Esseri mostruosi sono largamente presenti nelle antiche mitologie e nelle tradizioni religiose e popolari, dove vengono ora assunti come reali, e caricati di significati complessi, ora come simboli di realtà altrimenti non rappresentabili ed esprimibili.97

Tornando ad Omero e alla Grecia arcaica, il mostro è l’alterità, un non simile, che non può essere ricondotto ad un modello noto e si distingue non solo per aspetto fisico ma soprattutto per cultura. L’incontro con l’altro diventa così momento essenziale per la definizione dell’identità di un’intera comunità, quella dell’Ellade, il cui intento era affermarsi come civiltà superiore alle altre.

Incontriamo l’archetipo di questo mostro nel libro IX dell’Odissea: è Polifemo, il Ciclope monocolo.

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IX

P

OLIFEMO

Accolto da Alcinoo, re dei Feaci, Odisseo si commuove al racconto che l’aedo Demodoco fa delle vicende di Troia. In un certo senso costretto a dare spiegazione delle proprie lacrime e a svelare la propria identità, viene poi invitato dal re a narrare le proprie avventure, tra queste c’è quella nella terra dei Ciclopi. Ecco come la racconta :

Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore, e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti, venimmo, i quali fidando dei numi immortali, non piantano pianta di loro mano, non arano; ma inseminato e inarato là tutto nasce, grano, orzo, viti, che portano

il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus. Non hanno assemblee di consiglio, non leggi,

ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime in grotte profonde; fa legge ciascuno

ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura. […]

Non hanno i Ciclopi navi dalle guance di minio,

non mastri fabbricatori di navi ci sono98 (Od.,IX, 105–126)

Possiamo dire che il primo mostro che Odisseo incontra non è Polifemo ma è l’isola: una terra rigogliosa mai vista che produce spontaneamente ogni tipo di frutto, un vero Eden, non può non destare stupore e ammirazione. Tuttavia è evidente che la straordinaria fertilità della terra è solo un pretesto per evidenziare, in netto contrasto, le mancanze di una comunità che culturalmente e socialmente si presenta come l’esatto opposto di quella greca. I numerosi termini composti con α privativo, cioè le negazioni (allitterazione del “non”), che Omero usa per presentarci i Ciclopi sono un modo per affermare l’identità e la superiorità greca: i Ciclopi

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non hanno capacità tecniche, non navigano, non coltivano la terra e non producono vino, non hanno organizzazione sociale, non hanno leggi, vivono isolati cioè non sanno cosa sia la civiltà, mancano di tutto quello che i Greci possiedono.

In una sorta di gioco tra positivo e negativo, che vede immancabilmente vincenti i Greci, Omero sottolinea l’alterità culturale e sociale dei Ciclopi prima che la loro alterità fisica e in Polifemo rappresenta l’alterità assoluta:

Quando dunque arrivammo alla terra vicina,

qui sull’estrema punta una grotta vedemmo, sul mare, eccelsa, ombreggiata da lauri; e qui molte greggi, pecore e capre, avevano stalla; intorno un recinto alto correva, fatto di blocchi di pietra,

e lunghi tronchi di pino, e querce alta chioma. Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi Pasceva, solo, in disparte, e con gli altri

non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto. Era un mostro gigante; e non somigliava

a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso99

d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri. (Od.,IX, 181-192)

Polifemo è marchiato a fuoco ancor prima di comparire: il suo rifugio non è una casa ma una tana in cui, per giunta, vive da solo. Quando si presenta, il suo aspetto aggiunge una significativa tessera al puzzle del pregiudizio iniziale e nell’immaginario di Odisseo e dei suoi compagni l’altro si trasforma in mostro: un gigante più simile alla cima isolata di un alto monte che ad un mangiatore di pane.

Solo gli uomini civili sono mangiatori di pane, chi non lo è non può che essere disumano e incivile. Anche il vino, bevanda che viene offerta al banchetto in onore dell’ospite, rappresenta l’umana civiltà e dunque non c’è da stupirsi che Polifemo, disumano, asociale e

99 A questa similitudine si ispirerà Luís Vaz de Camões per la descrizione di Adamastor, il gigante di pietra de I

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incivile, non lo conosca, che inoltre affermi di non rispettare e temere gli dei e divori gli ospiti profanando il sacro vincolo dell’ospitalità:

“Sei uno sciocco, o straniero, o vieni ben da lontano tu che pretendi di farmi temere e rispettare gli dei. Ma non si danno pensiero di Zeus egioco i Ciclopi né dei numi beati, perché siam più forti.

Non certo evitando l’ira di Zeus ti vorrò risparmiare, né te, né i compagni, se non vuole il mio cuore. […]” […] con un balzo sui miei compagni le mani gettava e afferrandone due, come cuccioli a terra

li sbatteva, scorreva fuori il cervello e bagnava la terra. E fattili a pezzi, si preparava la cena;

li maciullava come leone montano; non lasciò indietro né interiora, né carni, né ossa o midollo. (Od.,IX, 273 -293)

Rozzo, incivile, asociale, privo di famiglia e di figli, privo di manualità (l’uomo si distingue dagli altri animali anche per l’uso della manualità), privo di leggi e di rispetto per l’autorità divina e per di più antropofago, Polifemo non è solo diverso per dimensioni e per quell’unico enorme occhio che gli sta in mezzo alla fronte, è un mostro, è l’alterità.

Quello che Omero ci offre nell’incontro tra Ulisse e il Ciclope è quindi il confronto tra l’uomo come essere sociale e l’altro che non lo è. Il primo risulterà vincente grazie non solo all’astuzia di cui è ben provvisto, ma grazie soprattutto a ciò che al secondo manca:

Allora io al Ciclope parlai, avvicinandomi con in mano un boccale del mio nero vino;

«Ciclope, to’, bevi il vino, dopo che carne umana hai mangiato, perché tu senta che vino è questo che la mia nave portava. […]» Così dicevo; e lui prese e bevve; gli piacque terribilmente bere la dolce bevanda; e ne chiedeva di nuovo:

[…]

Tre volte glie ne porsi, tre volte bevve, da pazzo. Ma quando al Ciclope intorno al cuore il vino fu sceso, […] e s’arrovesciò cadendo supino, e di colpo

giacque, piegando il grosso collo di lato: lo vinse il sonno che tutto doma […]

Allora il palo cacciai sotto la molta brace, finchè fu rovente; e con parole a tutti i compagni facevo coraggio, perché nessuno, atterrito, si ritirasse. […]

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nell’occhio lo spinsero: e io premendo da sopra giravo, come un uomo col trapano un asse navale trapana; altri sotto con la cinghia lo girano, tenendola di qua e di là: il trapano corre costante; così ficcato nell’occhio del mostro il tizzone infuocato,

lo giravamo; il sangue scorreva intorno all’ardente tizzone; (Od.,IX, 345-388) Il finale è noto, Odisseo salva se stesso e molti dei compagni: astuzia, vino, tecnica e lavoro di squadra, tutte cose sconosciute a Polifemo, consentono la riuscita dell’impresa.

Ci troviamo di fronte ad un mostro sanguinario, blasfemo e pericoloso e insieme sprovveduto e scarsamente intelligente, che tuttavia si rivela anche pastore attento e affettuoso. Significativa è la scena in cui Polifemo, ormai cieco, mentre parla teneramente al proprio montone e gli attribuisce sentimenti umani, ancora non comprende l’inganno che lo ha reso vittima:

«Caro montone, perché così m'esci dall'antro per ultimo? Di solito tu non vai dietro alle pecore, ma primissimo pasci i teneri fiori dell'erba,

a gran balzi, per primo raggiungi le correnti dei fiumi, per primo alla stalla vuoi tornare impaziente

a sera; e adesso sei l'ultimo. Forse del tuo padrone piangi l'occhio, che un malvagio accecò

coi suoi tristi compagni, vinta la mia mente col vino, Nessuno, il quale non credo che scamperà dalla morte. Oh! se avessi intelletto, se diventassi parlante,

da dirmi dove colui si ripara dalla mia furia:

allora il suo cervello schizzerebbe qua e là per l'antro, in terra, dalla testa spaccata; sollievo il mio cuore

avrebbe dalle torture, che questo Nessuno da nulla m'ha inflitto». ( Od.,IX, 447-460) Allontanandosi, Odisseo lo apostrofa con parole che suonano di scherno:

« Ciclope, non d’un imbelle sbranavi i compagni nella caverna profonda con la tua forza violenta, ma su di te doveva tornare il delitto,

pazzo, ché gli ospiti osasti mangiare nella tua casa; così t’ha punito Zeus e gli altri dèi». (Od., IX, 475-479)

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E mentre la nave si allontana, Odisseo, tacitando i timori dei compagni, provoca un’ultima volta il gigante rivendicando a proprio nome il suo accecamento, quasi per riappropriarsi di se stesso dopo essere stato Nessuno o per mantenere il vantaggio, benché effimero, che la parola gli dà sulla forza:

« Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiede il perché dell’orrenda cecità del tuo occhio,

rispondi che il distruttore di rocche Odisseo t’ha accecato, il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa». (Od., IX, 502-505)

Odisseo ha già rivelato la propria identità per ricevere ospitalità da Alcinoo:

Sono Odisseo di Laerte, che per tutte le astuzie

son conosciuto tra gli uomini, e la mia fama va al cielo. (Od., IX, 19-20)

Il nome di Odisseo viene replicato al v.512, al v.517 e al v.530 da Polifemo, il quale, non pronuncia il proprio nome, ma si presenta come figlio di un nume: la figura dell’altro prende forma proprio quando Odisseo si rivela consapevole della propria identità perché, come afferma Ryszard Kapuscinski:

per conoscere se stessi bisogna conoscere gli altri: gli altri sono lo specchio nel quale ci vediamo riflessi. […] sono la situazione, le circostanze, il contesto a decidere se, in un dato momento, vediamo la stessa persona come un nemico o come un partner. Perché l’altro può essere entrambi e proprio in ciò consistono la sua mutevole e inafferrabile natura, i suoi comportamenti contraddittori.100

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X

P

OLIFEMO OLTRE

O

MERO

La vicenda che vede protagonisti Odisseo e Polifemo è tra le più note dell’Odissea e, colma di spunti narrativi com’è, ben si presta ad essere rielaborata anche in chiave comico-grottesca.

Già a cavallo tra il VI e il V sec. a.C. Epicarmo, filosofo e commediografo siciliano, scrive un’opera dal titolo Ciclope. Goloso, bevitore, licenzioso è il Polifemo che Cratino, poeta comico ateniese, ci presenta nel suo Ulisse .

Integro ci è giunto, invece, il dramma satiresco Кύκλοψ di Euripide. Solo in parte simile al racconto di Omero, riflette la partecipazione dell’autore al dibattito filosofico-culturale del tempo.

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XI

I

L

C

ICLOPE DI

E

URIPIDE

L’azione si svolge in Sicilia, alle falde dell’Etna, dunque in un luogo ben definito. Odisseo è un astuto e meschino commerciante, privo di curiositas, che cerca di concludere un affare barattando il proprio vino con le merci necessarie al proseguimento del viaggio. Polifemo non è uno sprovveduto e non vive da solo ma in compagnia di alcuni satiri e del loro padre Sileno, ridotti in schiavitù dopo il loro naufragio sull’isola.

L’apparizione del Ciclope è improvvisa, proprio nel momento in cui Sileno sta per consegnare la merce ad Odisseo.

I compagni di Odisseo vengono divorati cotti, solo due perché gli avvenimenti sono condensati in un solo giorno, tempo nettamente inferiore rispetto ai tre giorni omerici. A sentire le urla di Polifemo non sono gli altri ciclopi ma i satiri, che sono a conoscenza dell’inganno del nome e deridono il gigante ridicolizzandone la figura. Per esigenze teatrali non viene menzionato il masso a chiusura della caverna e dunque l’accecamento del ciclope, non necessario ai fini della fuga, appare come una semplice vendetta. Interessante è la parte in cui Polifemo, caricatura di un abile sofista, risponde alla richiesta di ospitalità da parte di Ulisse esponendo la propria filosofia di vita, quella della pancia, che nella letteratura europea avrà piena celebrazione nel Margutte101 di Pulci e nel Gargantua102 di Rabelais:

101 Margutte, personaggio letterario del poema epico-cavalleresco Morgante(1478) di L. Pulci: paradossale,

abnorme nella sua malvagità è scuro in volto, mezzo gigante, ladro, cinico e ghiottone, segue Morgante come scudiero. Alla domanda di Morgante se sia cristiano o islamico espone il suo celebre “credo”: […] io non credo più al nero ch’a l’azzurro, / ma nel cappone o lesso o vuogli arrosto; / e credo alcuna volta anche nel burro, / nella cervogia, e quando io l’ho, nel mosto, /e molto più nell’aspro che il mangurro; / ma sopra tutto nel buon vino ho fede, / e credo che sia salvo chi gli crede. E continua irridendo la Trinità :e credo nella torta

64 Il dio di chi capisce, ometto mio, sono i quattrini: tutto quanto il resto sono fanfaronate e belle frasi. Tanti saluti ai promontorî dove

mio padre ha i tempî: a che li tiri in ballo? Io, forestiere mio, non ho paura

del fulmine di Giove; e non capisco perché mai Giove sia piú dio di me. Del resto, poi, non me ne importa nulla. E sai perché? Perché, quando l'amico di lassú versa pioggia, io sto al riparo in questa grotta: e lí, pappando qualche vitello arrosto, e qualche buon boccone di selvaggina, mi consolo il buzzo, a pancia all'aria; e poi ci bevo sopra una secchia di latte, e avvento peti, e coi miei tuoni tengo testa a Giove. Quando poi versa neve il tracio Borea, m'avvolgo in buone pelli, e attizzo il fuoco, e della neve me n'infischio tanto.

E la terra, volere o non volere,

produce l'erba, e ingrassa le mie greggi; ed io non le sacrifico a nessuno,

tranne che a me, e a questo ventre, il primo degl'Immortali: e i Numi a becco asciutto! Ché bevere e mangiare alla giornata, questo è il dio della gente che capisce; e non stare a pigliarsela. E quei tali che scrissero le leggi, e complicarono la vita dei mortali, te li mando a quel paese. Io mai non lascerò di far quel che mi gusta... e di papparti. E per non farmi criticare, voglio darti doni ospitali: il fuoco, e l'acqua, e la caldaia, che col suo bolllore

e nel tortello: /l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; / e ’l vero paternostro è il fegatello, / e posson esser tre, due ed unsolo[…]. (Morgante, XVIII, 115-116); morirà per un accesso di risa e alla fine del poema comparirà all'inferno come araldo di Belzebù; citazioni tratte da Luigi Pulci, Morgante, BUR, Milano 2002.

102 Gargantua è un personaggio del romanzo in cinque libri Gargantua et Pantagruel di François Rabelais che

narra la storia del gigante Gargantua, partorito da un orecchio dalla madre Gargamelle ed educato a Parigi secondo i principi dell’Umanesimo, e di suo figlio Pantagruel. Gargantua appena nato non strillò come gli altri: Mi, mi mi: ma gridava a gran voce: Bere, bere, bere! […] Per allattarlo convenientemente furono ordinate diciassettemila novecento e tredici vacche. (Libro I, cap.VII, p.54) […] cominciava il pasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsiccie e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l'una dopo l'altra senza tregua; poi ci beveva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava. Né a bere conosceva termine o regola (Libro I, cap.XXI, pp.105-106) In quanto a Pantagruel, il bambino manifesta durante la sua infanzia un appetito straordinario: a ciascuno dei suoi pasti succhiava il latte di quattromilaseicento vacche. […]Un giorno, sul mattino, mentre lo volevano far poppare a una delle sue vacche […] prese la detta vacca per sotto il garretto e le mangiò le due mammelle e la metà del ventre, fegato e rognoni compresi: e l'avrebbe divorata tutta se essa non avesse muggito orribilmente (Libro II, cap.IV, pp.266); citazioni tratte da François Rabelais, Gargantua e Pantagruel (1532), trad. it. di Gildo Passini, Formiggini, Roma 1925

65 ti terrà caldo meglio d'un vestito.

Ma entrate, via: ché stando intorno all'ara del dio dell'antro... m'ammanniate il pranzo!103

Polifemo ci appare come un rozzo ghiottone antropofago, disumano e tanto poco intelligente da essere inconsapevole oggetto di scherno e di inganno, un incivile la cui caratteristica principale rimane la ὕβρις, la tracotanza, il disprezzo delle leggi divine e umane. In una delle scene più divertenti ma anche topiche del dramma, Odisseo e Sileno rivelano a Polifemo, che non lo conosce, l’esistenza del vino ma non il modo in cui va bevuto, lo incitano ad imitare le regole del simposio ma lo dissuadono dall’allontanarsi dalla grotta per fare baldoria con altri, in questo caso con i suoi fratelli, com’è nell’uso comune greco. In tal modo il Ciclope beve in abbondanza vino puro e, crollando ubriaco nella grotta, dà ad Odisseo la possibilità di accecarlo.

Euripide si serve di un personaggio come Polifemo per ridicolizzare il mito, per lanciare uno dei suoi feroci attacchi alla religione tradizionale e alla politica del tempo e per esprimere il rifiuto di certe teorie della Sofistica. Tuttavia egli non mette in discussione il materialismo o il pensiero elementare, seppure non privo di raziocinio, del Ciclope e talvolta sembra addirittura assecondarlo come, per esempio, quando, nel dialogo con Odisseo, definisce insensata la guerra di Troia al seguito di quella “peste” di Elena.

Se in Omero Polifemo è la bestialità vinta dalla ragione che sa servirsi dell’irrazionale ed è anche la barbarie sconfitta dalla civiltà, che troveremo, molti secoli più avanti, anche nel Calibano di Shakespeare, in Euripide i contorni non sono così netti.

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C’è una grande affinità tra l’opera di Euripide e la poetica dell’umorismo di Luigi Pirandello, un misto di riso e di dolore, sentimento del contrario che ci conduce a vedere di certe maschere, galleria del grottesco, non solo il volto comico ma anche quello doloroso. Quando Pirandello, con gli amici Nino Martoglio e Rosso di San Secondo, fonda, a Roma, la Compagnia Drammatica del Teatro Mediterraneo con lo scopo di rivalutare il teatro dialettale siciliano, non è un caso che nasca ‘U Ciclopu104, che va in scena al Teatro Argentina di Roma il 25 gennaio 1919. Anche l’ambientazione siciliana del mito e certamente il genere contribuiscono alla decisione dello scrittore di trasporre in dialetto siciliano l’opera di Euripide che Camillo Sbarbaro definisce il vino più schietto di Euripide, che travasai per mio uso, nel paese dell'origano e delle farfalle, l'estate del '44105. Egli infatti traduce il dramma in prosa durante gli anni del conflitto mondiale e identifica il paesaggio siciliano con quello del Finalese in cui era sfollato. Nel 1960, ne fa la traduzione in versi dove il mostro antropofago diventa metafora degli orrori della guerra. L’alalà, grido di guerra nel Greco delle origini, che Polifemo ubriaco pronuncia, sembra riecheggiare minacciosamente l'alalà di scherani della Primavera hitleriana106 di Montale.

104 ‘U Ciclopu (1918) dramma satiresco di Euripide ridotto in siciliano da Luigi Pirandello, a cura di Antonino

Pagliaro, Le Monnier, Firenze 1967; Pirandello traspone in siciliano la traduzione di Ettore Romagnoli.

105 Paolo Zoboli, Sbarbaro e i tragici greci. Vita e pensiero, Milano 2005, p.81.

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