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Deforme, incolto e rozzo, figlio di una strega, Calibano è tuttavia re di un’isola, divenuto tale spodestando Ariel, spirito di quel luogo.

Prospero è il duca di Milano ma anche intellettuale, mago e possessore di una straordinaria biblioteca. Trovandosi a proprio agio più tra libri e magia che nelle pratiche di governo, non si accorge che si trama contro di lui e viene spodestato dal fratello Antonio. Condannato all’esilio e imbarcato su un vascello insieme alla figlia Miranda di appena cinque anni, giunge all’isola di Calibano, ha con sé anche parte dei suoi preziosi libri, che il fedele cortigiano Gonzalo ha provveduto a caricare sul vascello. Dodici anni dopo, Prospero, grazie alla magia, provoca una finta tempesta che fa naufragare la nave su cui viaggia Antonio in compagnia di Gonzalo, di Alonso re di Napoli e di suo figlio, il giovane Ferdinando. Trattandosi di una commedia, tutto andrà a finire bene: Prospero si mostrerà capace di perdono e riprenderà il ruolo perso, non prima però di aver liberato Ariel e restituito l’isola a Calibano mentre l’immagine di Miranda e Federico che giocano a scacchi, belli, giovani e innamorati, figli non ancora contaminati di un mondo corrotto, ci rimanda un messaggio di rigenerazione e di purificazione. Nel messaggio ottimista di Shakespeare c’è la speranza che i due giovani riescano ad essere i protagonisti di un encounter, di un modo di incontrarsi armonioso,

193 Cfr Stephen Greenblatt, Learning to Curse: Essays in Early Modern Culture, (Routledge, New York and

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non più scontro tra cultura e natura e in un mondo in cui l’unica guerra accettabile è quella che si gioca su una scacchiera.

La tempesta (1611), testo teatrale improntato all’illusionismo, alla magia del teatro, si presta a numerose interpretazioni, ma è, a mio parere, l’opera di Shakespeare più prossima a raccontare l’essenza del colonialismo ed ha il pregio di farlo con grande levità.

Calibano entra in scena pronunciando una maledizione contro Ariel e Prospero e quest’ultimo risponde con una minaccia di punizione; Calibano inveisce perchè si sente tradito:

[…] Quando

giungesti, mi stimavi molto, […]

Ti amavo,in quel tempo, ed ero io a indicarti la natura mutevole dell’isola;

e le sorgenti d’acqua dolce e i fossi d’acqua salata, i luoghi aridi o fertili. Per quest’amore, io sia maledetto! Su di voi cadano ora i sortilegi di Sicorace […]

Ero qui un tempo re

di me stesso; ora sono il solo vostro suddito. […]

La risposta di Prospero è dura ma motivata: […] Ho avuto per te

- non sei che letame – ogni cura umana; ti accolsi nella grotta, fino a quando cercasti di violare

l’onore di mia figlia.194

Calibano ha imparato la lingua dei dominatori, è stata Miranda a fargli da insegnante e il nostro mostro l’ha ricambiata tentando di stuprarla; Miranda gli ha fornito l’arma del linguaggio ed egli la usa contro di lei e contro Prospero maledicendoli:

M’hai insegnato a parlare, e questo è il frutto: so come maledirti, ora. Ti stermini

la peste rossa

124 per avermi insegnato la tua lingua!195

Egli conserva una forma di irriducibilità che gli impedisce di sottomettersi, di riconoscersi nella lingua e nella civiltà di chi l’ha reso servo. Come fa notare S.Brugnolo:

Non si può non pensare ai primi incontri tra europei e indigeni e all’intesa che qualche volta si stabilì, al di là delle lingue, attraverso gesti, segni, sguardi e sulla base di una comune umanità. Come si sa, tali intese o alleanze si rivelarono fondate su un equivoco; si capì infatti ben presto che la relazione non era e non poteva essere paritetica, che differenti erano gli interessi e gli intenti. […] Prospero anticipa certe figure di coloni in preda a deliri di potere, i quali come lui oscilleranno vertiginosamente tra la pedagogia e la repressione196

Le ragioni di Calibano hanno dunque ragionevole fondamento ed egli è ben consapevole che solo la superiorità culturale ha permesso all’altro di schiavizzarlo:

Nel pomeriggio, come ti dicevo, ama dormire: allora lo puoi uccidere: – ma, prima, cerca di levargli i libri – tu puoi schiacciargli il cranio con un ceppo, oppure aprirgli il ventre con un palo, o tagliargli la gola col coltello. Prima, ricorda di levargli i libri: senza libri, è uno sciocco come me197

È la scena memorabile in cui Calibano, che ha ordito una congiura ai danni di Prospero con la complicità di Stefano e Trinculo, due rozzi marinai dell’equipaggio della nave naufragata, raccomanda insistentemente a Stefano di togliere a Prospero i libri perché sono la fonte del suo potere, di quel potere che ha ridotto lui, lui che era re, alla condizione di schiavo. È la cultura che si confronta in modo spietato e vittorioso con uno stato di pura natura: rubare a Prospero la conoscenza significa poter combattere ad armi pari, significa, per il

195 Ibidem, p.41.

196 Stefano Brugnolo, op. cit., p.40.

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servo, avere la possibilità di liberarsi del padrone anche a costo di assoggettarsi ad un tiranno peggiore del primo.

Nel corso della commedia Prospero non fa che insultare Calibano rivolgendosi a lui con epiteti come fango, bastardo, schiavo velenoso, concepito da donna incinta del diavolo, mostro, essere delle tenebre e sempre lo ricaccia nella sua condizione di schiavo. Tuttavia questo essere delle tenebre Prospero lo riconosce come suo, di lui dice che ha l’anima deforme quanto il corpo ma gli perdona perfino di aver congiurato contro di lui. Emerge di continuo la dialettica servo – padrone, ma anche l’idea che servo e padrone siano legati da un doppio vincolo che non potrà mai venir meno, infatti se il servo esiste perché c’è un padrone, anche il padrone esiste perché c’è un servo. È l’idea che genererà le spinte al colonialismo moderno. E se rivolte ci saranno, sarà il colonialista a spegnerle con la magnanima superiorità della civiltà, la propria naturalmente, esattamente come fa Prospero. Ma il genio di Shakespeare non sarebbe tale se negasse spazio alle ragioni dei vinti, alle ragioni dell’altro:

CALIBANO Va bene,

e d’ora in poi sarò buono per avere il tuo affetto.198

Calibano ha già esposto chiaramente il proprio sentire in più occasioni e quel seme di irriducibilità che lo contraddistingue ci suggerisce che in queste sue ultime parole la condiscendenza è solo apparente e c’è invece un presente gravido di futuro. Questo Calibano accetta la violenza di Prospero, rimane un oppresso perché la rivolta si è consumata in tempi non maturi, ma c’è davanti un futuro in cui forse, non si sa quando, un altro Calibano, non più sottomesso o farsesco,

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porterà a compimento la vendetta del mostro sconfitto di un triste presente. Questa interpretazione, che trova conferma nelle dinamiche storiche, giustifica la grande fortuna che La tempesta ha avuto anche in rappresentazioni in versione anticoloniale così come l’ha avuta il Robinson Crusoe di Defoe riletto dal punto di vista di Venerdì, il buon selvaggio mite e sottomesso.

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XXIV

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OBINSON

&R

OBINSON

La letteratura ha da sempre una notevole responsabilità non solo nella formazione dell’immaginario sull’altro ma anche nella trasmissione di stereotipi e pregiudizi che possono fortemente influenzare il nostro incontro con persone e culture diverse.

Nella letteratura che contribuì a diffondere una violenta ondata di razzismo, che sarebbe durata fino agli inizi della seconda metà del Novecento, il romanzo di Daniel Defoe, The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe199, in cui l’incontro con l’altro avviene a partire da un ben determinato contesto storico- ideologico, occupa un posto di tutto rilievo.

Nelle riduzioni per ragazzi, edulcorate dall’adulto, Robinson appare come l’eroe, giusto, generoso e libero, capace di vincere ogni avversità. Intere generazioni di ragazzini tra i dieci e i dodici anni hanno sognato di ripercorrerne le orme, di assaporarne la libertà, di sconfiggere cannibali, di conquistare terre e di salvare tanti Venerdì che avrebbero dimostrato loro gratitudine eterna.

Di fatto, nella versione integrale del romanzo, Robinson impersona l’etica puritana della classe media inglese del XVIII secolo, è il borghese timorato di Dio che “si fa da sé”, l’uomo capace di costruire la propria fortuna grazie alle proprie doti e all’aiuto di Dio, ed è anche il buon colonizzatore, colui che si sente investito di una missione

199 Daniel Defoe, Robinson Crusoe, trad. it. di Alberto Cavallari, Feltrinelli, Milano 2014; il romanzo, titolo

originale The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, viene pubblicato nel 1719, in un periodo cioè in cui massima è l’espansione commerciale e geografica della corona inglese e in cui si afferma, in generale, la superiorità della civiltà occidentale su un mondo che non si conosce ancora veramente e che tuttavia si giudica barbaro, termine usato nella sua accezione più negativa.

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divina: addomesticare, civilizzare ed evangelizzare l’indigeno, il rozzo cannibale. In realtà sappiamo che, tra XVI e XVII secolo, l’uomo bianco si muove alla conquista di nuove terre e in difesa dei propri interessi commerciali sulla base di un falso ideologico. Naufragato su un’isola sconosciuta e deserta alla foce dell’Orinoco mentre è in viaggio verso la Guinea per acquistare schiavi neri, Robinson, utilizzando quanto è rimasto sul relitto della nave del naufragio (tiene anche alcune monete d’oro sebbene non siano di utilità), si impossessa dell’isola, la sfrutta e la plasma a suo piacere ripercorrendo tutte le fasi della civilizzazione. Egli vi instaura un’organizzazione sociale secondo l’ideale di vita tipicamente anglosassone dell’epoca, fondato sul rigore religioso, sul lavoro, sul conseguimento del successo e della ricchezza, e poco importa se è contemporaneamente sovrano e unico suddito del proprio regno. Per Robinson aggrapparsi alla civiltà da cui proviene è una assoluta necessità, l’unico modo per sopravvivere. Certamente, nel corso del romanzo, il personaggio segue un percorso di crescita, ma non muta pensiero o convinzioni, neanche dopo l’incontro con l’altro, il buon selvaggio che chiamerà Venerdì, verso il quale metterà in opera un progetto educativo, ma nel quale vedrà sempre un essere inferiore, il servo su cui esercitare la propria supremazia razziale e culturale. Robinson non si lascerà conquistare neanche dalla bellezza dell’isola e, quando se ne presenterà l’occasione, farà volentieri ritorno in patria con Venerdì al seguito come schiavo: un vero vincente agli occhi del suo mondo.

Il Robinson di Defoe è diventato un mito, ma ogni mito è la storia di un personaggio che incarna un aspetto fondamentale della condizione umana e, in quanto tale, parla a tutte le generazioni.

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Nel 1967, Michel Tournier, uno degli autori francesi più importanti della seconda metà del Novecento, esordisce con Vendredi ou les limbes du Pacifique200, una riscrittura del mito di Robinson Crusoe in cui possiamo certamente riscontrare quello che S. Brugnolo chiama “tema del going native” ovvero:

la situazione per cui un soggetto occidentale che si è inoltrato negli spazi di una qualche alterità geografica e antropologica si “perde” in essi, e cioè si dissocia dai “suoi” andando verso gli altri, verso i nativi di cui tende ad assimilare modi di vita e di pensiero.201

Il romanzo ricalca per molti aspetti le vicende narrate da Defoe, ne conserva i personaggi, ciascuno con il proprio nome, ma dalla fervida e a volte grottesca immaginazione dello scrittore nasce un testo che vive di vita propria e invita il lettore a riflettere su cosa veramente significhi incontrare l’altro, su cosa potrebbe succedere in un mondo senza altri e, più pressante, fa nascere la domanda: è possibile vivere in un mondo senza altri?

Anche il Robinson di Tournier naufraga, ma su un’isola deserta del Pacifico, sotto il sole dei tropici e a distanza di un centinaio di anni dal primo Robinson. Come prima cosa cerca di segnalare la propria presenza sull’isola ad eventuali navi di passaggio e poi, col materiale fornito dal relitto del Virginia, la nave su cui viaggiava, si prova a costruire una imbarcazione che gli consenta di lasciare l’isola, non a caso la chiama Evasione. L’imbarcazione però si rivela troppo pesante per poter essere trascinata in mare da un solo uomo e Robinson si confronta per la prima volta con l’assoluta solitudine.

200 Michel Tournier, Vendredi ou les limbes du Pacifique (1967); Venerdì o il limbo del Pacifico,

trad. it. di Clara Lusignoli, Einaudi, Milano 1968. Tournier nasce in un’epoca non felice, attraversata ancora dal distorto pensiero che vede il mondo degli umani diviso tra chi crede di poter esercitare impunemente un potere/diritto/missione e chi deve essere sottomesso, un’epoca cui seguirà quella dei totalitarismi. Scrive il suo primo e più famoso romanzo quando nei rapporti di forza tra Occidente e resto del mondo iniziano a comparire termini come decolonizzazione e indipendenza.

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Confuso, si rifugia nei ricordi e nei volti del passato pur di trovare compagnia per non perdersi; le allucinazioni lo tormentano e infine capisce che, se vuole sopravvivere senza impazzire, deve accettare la propria condizione:

L’isola era dietro di lui, immensa e vergine, piena di promesse limitate e di lezioni austere. Avrebbe ripreso in mano il proprio destino. Avrebbe lavorato. Avrebbe consumato, senza più abbandonarsi ai sogni, le nozze con la sua sposa implacabile, la solitudine. (p.44)

Robinson non può che rivolgersi a ciò che conosce e quindi, seguendo la propria cultura, inizia un percorso da vero colonizzatore: prende possesso dell’isola, la ribattezza con il nome di Speranza, quello di un suo lontano amore, porta giù dal relitto della nave tutto quello che può servirgli per addomesticarla.

Per non perdere l’uso della parola, parla ad alta voce e decide di affidare ad un log-book le proprie riflessioni, ma sente sempre fortemente il peso della solitudine:

So adesso che ogni uomo porta con sé - e come sopra di sé – una impalcatura fragile e complessa di abitudini, risposte, riflessi, meccanismi, preoccupazioni, sogni e implicazioni che si è formata e continua a trasformarsi grazie a contatti perpetui con esseri umani…«Gli altri», chiave di volta del mio universo… contro il miraggio, l’allucinazione, il sogno ad occhi aperti, i fantasmi, il delirio, gl’inganni dell’udito…il baluardo più sicuro è un fratello, un vicino, un amico o un nemico, ma qualcuno, gran dio, qualcuno! (pp.54-56)

Allora è l’isola che diventa interlocutore di Robinson il quale la osserva, la ascolta, trae da lei il massimo attraverso lo sfruttamento intensivo e ossessivo di spazi sempre più ampi e accumula la maggior parte di ciò che produce anche se non trova un senso in tutto questo suo darsi da fare. D’altronde Robinson non ha nessun pensiero religioso, la Bibbia per lui è solo un interessante testo di letteratura,

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non ha nessuna legge di Dio da eseguire e gli sembra di subire un processo di disumanizzazione:

Colmo di disgusto per la sua persona meditò a lungo da solo a solo con se medesimo. Comprese come il volto sia quella parte della nostra carne che la presenza degli altri modella e rimodella, riscalda, anima senza posa. (p.89)

fino a quando l’isola non gli restituisce Tenn, il setter-laverack del Virginia:

Il cane è il compagno naturale dell’uomo, non della creatura nauseabonda e degenerata che la sventura può fare di lui, strappandolo alla condizione umana. D’ora in poi leggerò nei suoi buoni occhi color nocciola se ho saputo restare all’altezza di un essere civile, a dispetto dell’orribile destino che mi piega verso il suolo. (p.65)

Ed ecco che il tempo, che fino ad allora non aveva tenuto in considerazione, riprende significato e la colonizzazione si fa complicata e ingegnosa.

Egli instaura un ordine autocratico che tende a trasformare la natura lussureggiante dell’isola in una città giardino rigorosamente pianificata: si costruisce una residenza, promulga una costituzione e un codice penale vincolanti tutti i sudditi dell’isola, costruisce fortificazioni e monumenti pubblici, perfino un Osservatorio dei pesi e delle misure; in uniforme di governatore-generale-amministratore, attende con precisione a compiti ufficiali come preparare un catasto, avviare un censimento delle tartarughe, presiedere la commissione legislativa, inaugurare un ponte di liane su un burrone… Il giorno in cui la clessidra, che ha costruito e che in un certo senso gli impone rigorosi ritmi di lavoro, si ferma, Robinson prova l’incredibile sensazione di essere padrone anche del tempo. Guardandosi intorno scopre i mutamenti che egli ha prodotto sull’isola e per la prima volta ne gode sentendosi libero e potente: tutto gli appartiene e di tutto può

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disporre a proprio piacimento senza ricadere nello stato di degrado di cui era stato vittima all’inizio di quella avventura.

È questo l’inizio di una metamorfosi spirituale di cui Robinson non è ancora consapevole. Interessante è la lunga riflessione filosofica sulla conoscenza, conoscenza di sé, delle cose e degli altri, da cui emerge insistente il bisogno dell’altro che non può essere incarnato da Tenn perché Robinson è un uomo fatto anche di carne e la carnalità ha le sue esigenze. Si tormenta all’idea di essere solo per sempre, di non avere nessuno con cui dare continuità alla vita che pulsa prepotente in lui e nello stesso tempo si sente in colpa. Si convince di dover tornare ad uno stato di innocenza.

È a questo punto che l’isola ruba la scena a Robinson e assume carattere di personaggio, naturalmente di sesso femminile: Speranza diventa prima la madre che lo restituisce a nuova vita, come un tempo aveva fatto la sua madre naturale salvandolo dall’incendio della loro casa, e poi la sposa perfetta. L’uomo ne accarezza i dossi, i prati, le increspature come si accarezzano le belle forme di una donna e infine la penetra e sparge in lei il proprio seme. Questo singolare possesso non sarà sterile: a distanza di quasi un anno genera una nuova pianta dalle foglie dentellate, la magica mandragora:

In ginocchio davanti ad una di quelle piante, ne liberò delicatamente la radice […] i suoi amori con Speranza non erano rimasti sterili ; la radice carnosa e bianca, stranamente biforcuta, raffigurava in modo indiscutibile il corpo di una bambina. Tremando di emozione e di tenerezza, rimise la mandragora dov’era e sistemò la sabbia intorno allo stelo, come avrebbe rincalzato il letto di un bimbo. (p.133)

Solo una sorta di stato allucinatorio che rasenta la follia e una distorta percezione della realtà consentono a Robinson di sopravvivere alla solitudine, all’assenza di altri.

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Il nostro naufrago ha già subito dei cambiamenti e tuttavia è ancora il colonizzatore per il quale il possesso è un diritto da esercitare non solo sulle cose ma anche su tutti gli altri esseri che considera inferiori e dunque, secondo una prospettiva assolutamente maschilista, anche sulla donna e Speranza è donna: egli pensa ancora di essere conquistatore e non sa di essere già conquistato. In un primo momento non se ne renderà conto neanche dopo il suo incontro con un giovane meticcio, vittima sacrificale designata di un gruppo di indigeni recatisi sull’isola per celebrare uno dei loro riti cannibaleschi, che egli involontariamente salva . Il ragazzo gli si sottomette:

un uomo nero e nudo, con l’animo devastato dal panico, chinava la fronte fino a terra, mentre cercava con la mano, per posarselo sulla nuca, il piede di un uomo bianco e barbuto, irto di armi, vestito di pelli di capra, con il capo coperto da un berretto di pelliccia e infarcito da tre millenni di civiltà occidentale. (p.138)

Da notare che il fatto che Robinson sia vestito oltre il necessario sta a sottolinearne la superiorità sull’altro, al contrario, completamente nudo:

Dio mi ha inviato un compagno, ma per una svolta recondita della sua Santa Volontà, lo ha scelto all’infimo gradino della scala

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