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Ogni epoca ha il proprio mostro/diverso per antonomasia. Il 1492 segna convenzionalmente la fine del Medioevo, l’inizio della

modernità e, pur non essendosi mai spenta la voce di Satana, a partire da tale data, un’altra figura del tutto sconosciuta occuperà per molto tempo il suo posto e per incontrarla bisognerà attraversare l’oceano: è il selvaggio.

Quando Cristoforo Colombo, pur essendo convinto di essere da tutt’altra parte, scopre l’America, compie una rivoluzione, la più grande del Rinascimento, anche se non l’unica.

Sono anche gli anni della Reconquista176 spagnola: si manda via dalla Spagna il diverso, l’alterità, e si scopre l’altro al di là dell’oceano. Tocca proprio a Colombo, per la prima volta, la meraviglia di un mondo che assomiglia all’Eden e che non è affatto sanza gente.

Il suo è un incontro con una alterità della quale non si sospetta neanche l’esistenza e quindi assoluta.

L’impatto è fortissimo, destabilizzante, uno choc che può portare anche a dubitare che l’altro sia un essere umano, un simile dell’europeo che gli sta di fronte. Questo accade, anche se in misura diversa, a Colombo, a Vespucci, a Sepulveda, a Cortéz, a Pizarro e a tutti coloro che finiscono con il vedere nell’altro un oggetto di cui disporre a proprio piacimento, tutti responsabili, per la propria parte, del più grande genocidio della storia, circa ottanta milioni di morti.

176 Conclusasi il 2 gennaio 1492, la cacciata degli arabi e degli ebrei dalla Spagna lancia anche un messaggio

ideologico molto forte. Si parla di limpieza de sangre, cioè di purezza della razza: è l’ideologia che rivendica la superiorità a tutti i livelli della razza bianca.

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«La Grecia vinta fece prigioniero il duro vincitore». Sia pure. Ma questo tipo di ragionamento non può applicarsi alla conquista dell’America (né, d’altra parte, a nessuna altra conquista dei bianchi fuori d’Europa), perché troppo nette erano le differenze, troppo profonde le

incomprensioni, troppo grandi le distanze tra i gruppi a confronto.177

È lo storico Ruggiero Romano che così si esprime e le sue parole, che non sono certo una giustificazione agli avvenimenti luttuosi che caratterizzarono la conquista coloniale, sottolineano piuttosto che la scoperta dell’America rappresenta l’incontro più straordinario che sia mai avvenuto tra due culture del tutto estranee poiché evolute secolarmente senza alcun rapporto tra di loro.

La espada, la cruz y el hambre iban diezmando la familla salvaje.178

Così canta il poeta Pablo Neruda e indica nella superiorità militare per strategia e armamenti (espada), nello spirito evangelizzatore (cruz) e nella subordinazione dell’economia indigena agli interessi degli europei (hambre) ciò che permise il dominio coloniale e determinò lo sterminio di intere popolazioni, di quell’altro tanto diverso da essere negato. Dello stesso parere è R. Romano, il quale sostiene che la destrutturazione demografica, economica e sociale, fu l’elemento strategico della conquista e, successivamente, lo strumento dei dominatori per mantenere la supremazia su popolazioni numericamente preponderanti e aggiunge che:

quando gli spagnoli si sono battuti contro grossi eserciti, essi hanno potuto contare sull’aiuto di numerosi «collaborazionisti».179

Egli cita come esempi la vittoria di Hernan Cortés su Montezuma, impossibile senza l’alleanza del capo dei tlaxtaltechi, e la conquista del Perù da parte di Pizarro con l’aiuto del cacicco Quilimasa e, più in

177 Ruggiero Romano, i conquistadores: meccanismi di una conquista coloniale, trad. it. di Luigi Banfi, Mursia,

Milano 1974, p. 24 (prima ed. 1972, Flammarion, Paris).

178 Pablo Neruda, Oda a la araucaria araucana in Ruggiero Romano, i conquistadores, op. cit., p.13. 179 Ruggiero Romano, op. cit., p.17.

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generale, la collaborazione dei curaca (capi tribù), che partecipano alla riscossione dei tributi e allo sfruttamento degli indios in cambio di un certo potere sulla comunità.

Todorov ritiene che la scoperta dell'America abbia un signifcato simbolico: la scoperta dell' altro o del diverso da parte della civiltà europea. Il suo volume La conquista dell’America. Il problema dell’altro180 è il racconto dell’incontro tra l’io occidentale, egocentrico ed etnocentrico, e l’altro inteso come straniero. Scoprire, conquistare, amare, conoscere sono le quattro tappe in cui Todorov suddivide tale incontro. A ciascuna di esse assegna un attore esemplare per cui Colombo è lo scopritore, Hernan Cortés il conquistatore, Bartolomeo de Las Casas è colui che ama gli amerindi perché li considera fratelli in Cristo e infine Duran e Sahagun che dedicano la loro vita alla raccolta di reperti delle culture sconfitte, raccolta che poi contribuirà alla nascita dell’antropologia culturale.

Colombo è un semplice esploratore, è l’Ulisse della modernità, così lo presenta Tasso nel canto XV della Gerusalemme Liberata in versi che hanno il sapore di una profezia:

[…] emulo del sole.

Un uom de la Liguria avrà ardimento a l’incognito corso esporsi in prima; né ’l minaccievol fremito del vento, né l’inospito mar, né ’l dubbio clima, né s’altro di periglio e di spavento piú grave e formidabile or si stima, faran che ’l generoso entro a i divieti d’Abila angusti l’alta mente accheti. Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo lontane sí le fortunate antenne,

ch’a pena seguirà con gli occhi il volo la fama c’ha mille occhi e mille penne. Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,

180 Tzvetan Todorov, La conquête de l'Amérique. La question de l'autre (1982); La conquista dell’America. Il

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di poema dignissima e d’istoria. (GL, XV, 240-256)

Secondo il concetto di tranterstualità, elaborato ed esposto da Gérard Genette in Palinsesti. La letteratura al secondo grado181, c’è sempre qualcosa che mette in relazione, in modo più o meno manifesto, un testo con altri testi. Questo significa che ogni libro parla sempre di un libro anteriore e questo di un altro libro che lo precede e così via in un processo che si ripete all’infinito. Seguendo questo pensiero il testo di Tasso appare come un ipertesto in cui l’ipotesto è il racconto che Dante fa di Ulisse e del suo viaggio e che Tasso adatta al proprio tempo. Colombo, quindi, non è che la reincarnazione di Ulisse. Ma se Ulisse ha fallito, se il suo è stato un folle volo perché non benedetto, per forza di cose, da Dio, il viaggio di Colombo entrerà nella storia proprio perché compiuto con il benestare de Divino e questo è quanto dirà anche Camōes a proposito dell’impresa di Vasco da Gama. Quella di Colombo è dunque un’epopea moderna che nulla ha da invidiare a quelle degli antichi, e tuttavia, come sostiene Todorov, Colombo conserva una parte medievale per cui, per esempio, ritiene che la Bibbia sia uno strumento più efficace della bussola e dell’astrolabio e soprattutto anacronisticamente spera di ricavare dall’impresa oro bastante anche a finanziare una crociata contro l’Islam.

Dalla lettera a Luis de Santangel (1493), resoconto del viaggio, emerge chiaramente il modo in cui Colombo affronta la scoperta di una terra dalla natura rigogliosa, sempre immaginata vuota di anime e trovata, al contrario, popolata da esseri miti, servizievoli e soprattutto liberi.

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Pare che ognuno porti dentro di sé il ricordo ancestrale di un mondo edenico, di pace e di felicità, che in chiave psicanalitica dovrebbe essere il ventre materno, ma, se così non fosse, la Bibbia racconta del paradiso perduto di Adamo ed Eva: la straordinaria bellezza della natura induce Colombo a credere di trovarsi davvero nel Paradiso terrestre. Il suo è uno sguardo naturalista che ingloba anche gli indigeni, tuttavia egli non può non porsi domande circa una popolazione priva di parametri noti. Secondo Todorov:

la percezione sommaria che Colombo ha degli indiani, miscuglio di autoritarismo e di condiscendenza; l’incomprensione della loro lingua e dei loro segni; la facilità con cui egli aliena la volontà dell’altro in vista di una migliore conoscenza delle isole appena scoperte; la preferenza per le terre rispetto agli uomini.

Nell’ermeneutica di Colombo questi ultimi non hanno un ruolo a parte. […] Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio.182

Lo sguardo di Colombo non va oltre la vista e quando descrive l’altro lo fa per negazione:

Le popolazioni di quest'isola, come quelle delle altre isole che ho scoperto e delle quali ho avuto notizia, vanno nude, uomini e donne, come vengono generate, per quanto alcune donne si coprano una sola parte del corpo con una foglia o una pezzuola di cotone che preparano per tale scopo. Non hanno ferro, né acciaio, né armi, al cui uso non sono adatti, non perché non siano gente ben disposta e di buona statura, ma perché sono straordinariamente paurosi.183

Anche quando le parole potrebbero sembrare di elogio finiscono in un giudizio negativo:

Qualunque cosa si domandi loro di quello che hanno, mai rispondono negativamente, anzi la offrono e mostrano tanto affetto che par vogliano dare il cuore, e, si tratti di cosa di valore oppure di poco prezzo, ugualmente la danno in cambio di qualsiasi bagattella, dichiarandosene contenti. […] e prendevano anche pezzi di archi rotti e di botti, senza discernimento, come animali.184

182 TzvetanTodorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, op. cit., pp.40-41.

183 Cristoforo Colombo, Lettera a Luis de Santàngel (1493), testo tratto da La storia moderna attraverso i

documenti, a cura di Adriano Prosperi, Zanichelli, Bologna 1974, pp. 11-‐14.

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Colombo non tiene conto del fatto che anche i “valori” sono frutto di convenzione; giudicando gli indigeni miti e molto generosi contribuirà in modo considerevole alla nascita del mito del buon selvaggio. E ancora:

Essi non professano né setta né idolatria veruna, ma tutti credono che la potenza e il bene siano nel cielo, e credevano fermamente che io con le mie navi e la mia gente fossi sceso dal cielo, e con questa persuasione mi ricevevano in ogni dove, dopo che avevano smesso le loro paure. E questo non avviene perché siano ignoranti, ma al contrario sono di ingegno molto acuto e navigano per tutti i mari ed è incredibile come sappiano dar buone informazioni su tutto, eccetto che non hanno mai visto gente vestita né navi simili alle nostre. […] catturai con la forza alcuni abitanti perché imparassero da noi […]185

In Colombo, che si compiace di essere scambiato per un dio, non c’è desiderio di conoscenza. È, il suo, uno sguardo antropologico che cerca di omologare il nuovo al noto, uno sguardo che non riconosce il diverso e nelle sue parole (catturai con la forza) già si annuncia il germe della conquista. D’altra parte la spedizione di Colombo è finalizzata alla scoperta geografica e all’annessione delle terre scoperte ai domini spagnoli, ha dunque un obiettivo essenzialmente politico ed economico. Determinato da una dinamica di potere e sul piano ideologico e su quello culturale, l’approccio all’altro non può che essere a senso unico.

Corre l’anno 1519 quando Hernán Cortés, el conquistador, giunge nella capitale dei domini aztechi, il suo arrivo visto come il ritorno del dio Quetzalcoatl dalla pelle bianca186, del serpente piumato. Cortés alimenta deliberatamente negli aztechi questa convinzione, si

185 Ibidem.

186 Quetzalcoatl, divinità di origine tolteca, venerata anche presso gli Aztechi, sotto differenti forme. Il suo nome

significa «serpente piumato»; come tale, il Q. azteco corrisponde al Kukulkan dei Maya. Mentre nell’antico pantheon messicano Q., con Huitzilopochtli e Tezcatlipoca, è una delle divinità più importanti, secondo la tradizione mitica è un personaggio realmente vissuto, grande re-sacerdote, che avrebbe insegnato ai Toltechi la metallurgia, la scrittura e sarebbe stato contrario ai sacrifici umani e alla guerra. Geloso del suo prestigio, Tezcatlipoca lo avrebbe costretto all’esilio; Q. poi sarebbe scomparso, promettendo un suo ritorno sulla Terra; perciò all’arrivo degli Spagnoli molti indigeni credettero si trattasse del ritorno di Q., cui la tradizione attribuiva pelle bianca; http://www.treccani.it/enciclopedia/quetzalcoatl/

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appropria della loro cultura per conquistare e sottomettere e alla fine, quando il buon selvaggio diventa cattivo perché non vuole sottomettersi, per distruggere e massacrare. Neanche il desiderio di arricchirsi spiega il comportamento degli spagnoli. Scrive Todorov:

Non si possono spiegare con la cupidigia il massacro di Caonao, l’impiccagione delle donne agli alberi e quella dei bambini alle caviglie delle madri, o le torture con cui si strappa brano a brano la carne delle vittime con le tenaglie; né gli schiavi lavorano meglio se il padrone va a letto con le loro mogli sopra la loro testa. […] Il massacro, invece, rivela la debolezza del tessuto sociale, il venir meno dei principi morali che garantivano la coesione del gruppo. È compiuto di preferenza in luoghi lontani, dove la legge stenta a farsi rispettare […] Il massacro è dunque intimamente legato alle guerre coloniali, condotte lontano dalle metropoli.187

Un ulteriore aspetto della conquista che molto colpisce è la rapidità, ma anche la facilità, con cui venne effettuata da un pugno di spagnoli contro migliaia di uomini. Certamente le armi da fuoco e i cavalli, che gli aztechi non conoscevano, giocarono un ruolo di una certa rilevanza, ma non il più importante.

Non è facile riconoscere l’uguaglianza nella diversità e, secondo Todorov, gli aztechi furono svantaggiati dall’avere un sistema simbolico insufficiente a cogliere il significato degli avvenimenti se non in rapporto ad un ordine cosmico prestabilito: non avendo una compiuta percezione dell’altro, non furono in grado di porsi su un piano di parità con gli avversari. Questa loro condizione facilitò di molto gli spagnoli che, spinti dal desiderio di arricchirsi e dall’istinto di padronanza, alla luce dei propri condizionamenti culturali, scambiarono la mansuetudine per stupidità e nei nativi non seppero vedere che delle creature più simili alle bestie che agli esseri umani. È proprio per decidere se la natura del selvaggio sia umana o bestiale che, nel 1550 a Valladolid, si tiene un dibattito pubblico tra Bartolomé

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de Las Casas e Juan Ginés de Sepúlveda, due intellettuali su posizioni ideologiche molto diverse. Nella disputa avrà la meglio Las Casas e agli amerindi sarà riconosciuta una natura umana, ma non si può dire che il loro difensore abbia rinunciato a incasellare l’altro nelle proprie categorie culturali. Aperto alla cultura indigena e favorevole alla resistenza nei confronti degli europei, Las Casas denuncia le atrocità perpetrate ai danni degli indios con cifre che, seppure ridimensionate dagli storici, rimangono vertiginose e li presenta non solo come creature dotate di qualità morali e intellettuali superiori a quelle degli spagnoli ma addirittura come agnelli sacrificali:

Dio le ha create semplici, senza malvagità né doppiezza, obbedientissime, fedelissime ai loro signori naturali e ai cristiani che servono; e più di ogne altre al mondo, umili, pazienti, pacifiche e tranquille […] d’intendimento chiaro, libero e vivace, assai capaci e docili per apprendere ogni buon insegnamento, adattissimi a ricevere la nostra santa fede cattolica […] Tra questi agnelli mansueti […] giunsero gli spagnoli […] come lupi, tigri e leoni crudelissimi e affamati, […] cristiani […] spinti da insaziabile cupidigia e da un’ambizione tali da non trovare raffronto al mondo […] li hanno considerati non dico alla stregua delle bestie […] ma dello sterco che si trova nelle piazze.188

In queste pur appassionate parole si avverte ancora, purtroppo, la mentalità del colonialista. Sebbene dalla parte dell’altro, neppure Las Casas sa volgere verso di lui uno sguardo del tutto sgombro da etnocentrismo.

Chi rimane del tutto intrappolato nella gabbia dei propri valori, nei parametri della propria civiltà, è Sepúlveda:

omuncoli, nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità […] che cosa potresti aspettarti da uomini abbandonati ad ogni genere di intemperanza e nefanda libidine, molti dei quali si nutrivano di carne umana? […] distano dalla invincibile fierezza degli Sciti […] sono così ignavi e timidi che a malapena possono sopportar la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero esiguo di spagnoli che non arriva neppure al

188 Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de la destrucción de las Indias, 1542; Brevissima relazione sulla

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centinaio […] sono servi per natura […] si cibavano delle carni degli uomini immolati189

E continua su questo tono sottolineando che non solo non conoscono Dio (quello cristiano, naturalmente) ma non hanno alcuna religione e, in buona sostanza vivono come bestie, sollevati da questa primitiva e misera condizione solo dall’essersi mostrati docili agli insegnamenti degli europei. Che lo sguardo di Sepúlveda sull’altro sia quello del “buon” colonialista, che si ritiene investito di una missione civilizzatrice ed evangelizzatrice, è già evidente, ma è anche chiarissimo che ciò cui il suo sguardo rimanda è una mission impossible perché :

l’uomo comanda alla donna, l’adulto al fanciullo, il padre al figlio:cioè, i più forti e i perfetti prevalgono sui più deboli e sugli imperfetti. Quelli che superano gli altri per prudenza e per saggezza, anche se non prevalgono per la forza fisica, quelli sono, per la stessa natura, i signori; al contrario, i pigri, i tardi di mente, anche se hanno le forze fisiche per compiere tutti i lavori necessari, sono natura dei servi. Ed è giusto ed utile che essi siano servi […] E sarà sempre giusto e conforme al diritto naturale che queste genti siano sottomesse all’autorità di principi e nazioni più colte ed umane […] e questa guerra sarà giusta come lo dimostra il diritto naturale 190

Se l’umanità è distinta tra servi e padroni e la legge del più forte è legge di natura, allora gli indios non possono essere che servi e la guerra l’esercizio di un diritto e quindi giusta: è la totale negazione del diverso nella sua dimensione umana con tutta una serie di alibi ideologici che ne legittimano la sottomissione.

Sepulveda, storico ufficiale di Carlo V, ebbe la peggio e fu costretto a ritirarsi a vita privata, i suoi libri banditi dalle università e bruciati , ma la sua relazione ebbe una risonanza enorme perché cancellava la buona coscienza e i miti umanistici della vecchia Europa e, in quanto

189 Juan Ginés de Sepúlveda, Democrates Secundus (o Alter), seu de justis belli causis apud Indios (1545-1550);

Democrate Secondo, sulla giusta causa della guerra contro gli Indiani, in L’America oltre la conquista, “I viaggi di Erodoto” n.5, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 1992.

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voce interna degli stessi colonizzatori che avevano depredato, distrutto, ucciso, difficilmente poteva essere smentita.

È la dialettica servo-padrone che Shakespeare saprà brillantemente cogliere e mettere in scena ne La tempesta191 con i personaggi di Prospero e Calibano e non è un caso che l’isola in cui Prospero trova rifugio abbia una connotazione paradisiaca.

Dall’esperienza di Colombo prese infatti il via tutta una letteratura utopica, alimentata dai racconti d’oltremare, in cui ci si augurava il ritorno allo stato di natura, ad una condizione primitiva di purezza, di innocenza e di libertà ormai perduta nell’Europa repressa e corrotta del Cinquecento. Nelle pagine di numerosi autori trovò posto il mito del buon selvaggio che finì per trasformarsi in mito del cattivo selvaggio quando gli indigeni si ribellarono ai colonizzatori e vive ancora oggi che tutta la terra è stata esplorata. Oggi che la terra sanza gente è il cosmo, là ci aspettiamo di incontrare il cattivo selvaggio che, superiore a noi per cultura e tecnologia, ci meravigli e tenti di colonizzarci; potrebbe invece capitarci di abbracciare il buon ET, alieno bambino, mostruosetto ma simpatico, nato dalla geniale fantasia di Steven Spielberg, da addomesticare, magari dopo aver rispolverato l’Emilio di Rousseau. Potremmo anche scoprire, come nell’incredibile ribaltamento prospettico di Sentinella, bellissimo racconto di fantascienza dello scrittore statunitense Fredric Brown, che siamo noi ad apparire mostruosi ad una imprecisata alterità, che nei suoi aspetti umani stranamente ci assomiglia:

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni-luce da casa. […] Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla

191 William Shakespeare, The Tempest (1611); La tempesta, trad. it. di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano

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