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Villa Carpena L’esaltazione domestica del dittatore

Come si “pratica” nostalgia negli spaz

3.3. Villa Carpena L’esaltazione domestica del dittatore

Qualche chilometro più a nord dal cimitero di Predappio, nella località di Meldola, c’è un altro spazio che si inserisce di diritto nel circuito della nostalgia di cui ci stiamo occupando. Ci riferiamo a Villa Carpena (Figura 15), vecchia residenza della famiglia di Benito Mussolini, dal 2001 trasformata in una casa-museo dall’imprenditore Domenico Morosini che ha acquistato lo stabile dagli eredi dell’ex duce.

“Casa Ricordi”, così come si chiama oggi lo spazio museale privato, si presenta come una wunderkammer fascista, in cui oggetti della vita quotidiana della famiglia Mussolini sono esposti in maniera confusa, senza un coerente criterio museologico, con il solo obiettivo di manifestare attraverso l’accumulazione la quantitatività indessicale della nostalgia. In altre parole, la missione di questo spazio non è quella di proporre al visitatore/la visitatrice un “viaggio nel tempo” che lo catapulti in un preciso passato, quanto quello di esaltare il sistema di valori che ruota intorno al campo semantico della “casa”, declinando “domesticamente”, la stereotipica frase “Quando c’era lui” in un criterio espositivo. Il racconto dell’uomo domestico Benito Mussolini, del suo essere padre, marito ma allo stesso tempo “eroe d’Italia” viene indirizzato dalla guida attraverso un doppio canale isotopico: quello del racconto storico alternativo a quello proposto dalle scuole (tacciate di essere di sinistra e di aver occultato per motivi

ideologici gran parte delle buone opere fatte da Benito Mussolini118) e quello legato alla

costruzione della famigliarità. Man a mano che si procede nelle stanze, infatti, vengono tratteggiati i profili domestici e intimi dei componenti della famiglia Mussolini. Vengono raccontate storie sui loro gusti culinari, piuttosto che le abitudini di vita quotidiana, i vizi e i difetti (proposti come inevitabile imperfezione umana non certo come caratterizzazione negativa) di chi abitava quegli spazi.

Oltre a questo aspetto, la casa–museo si viene a configurare come Heimat, concetto tedesco che nella lingua italiana si “perde nella traduzione” ma che si può connettere generalmente al “desiderio di ritorno in patria”, “distanza dalla casa”, “nostalgia della casa materiale”. L’Heimat in questo museo viene declinato su almeno due livelli, (i) uno micro e (ii) uno macro. Lo spazio domestico (i) della casa di Mussolini rappresenta metonomicamente la patria lontana (ii), in questo caso l’Italia fascista.

118 Ci riferiamo dello stereotipo “Mussolini ha fatto anche cose buone”, diffusissimo in ambiente neofascista. Questa costruzione, che rappresenta una delle espressioni più palesi di come la nostalgia riesca a condizionare e filtrare la narrazione del passato, è stata smascherata storicamente in un lavoro condotto dallo studioso Francesco Filippi (2019). Nel suo libro,

Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare intorno al fascismo, viene

dimostrato come ogni credenza su possibili bonifiche della pianura padana, sulla fondazione del fondo pensionistico, ecc… siano il risultato di narrazioni inventate consolidatesi e diventati credibili nella ripetizione. Come abbiamo già visto, quando la nostalgia diventa strumento politico per il consolidamento delle identità collettive, produce sì un ritaglio ideologico della realtà, ma ancora più problematicamente porta all’esaltazione di false credenze, eliminando o lasciando in ombra quelle “versioni dei fatti” che potrebbero indebolire o contraddire il desiderio nostalgico. È in questa nicchia delle interazioni culturali che si alimenta secondo noi il rapporto tra memoria nostalgica e trasmissione del trauma. Se, come abbiamo visto, il desiderio del passato è brama di qualcosa che ontologicamente non esiste più, la pratica nostalgica permette a chi l’attiva di inventare letteralmente mondi possibili in cui non solo il passato è migliorato, ma gli aspetti traumatici vengono rimossi o “alleggeriti”, alimentando false verità e negazionismo (cfr. Pisanty 2001). Nel caso di “Mussolini ha fatto anche cose buone” è palese anche a livello dell’enunciazione. Si pensi a come la congiunzione “anche” non solo rafforza il rapporto copulativo con la parte precedente della frase ma esprime un punto in cui si mette in atto una forma di ridimensionamento del racconto traumatico. Questa “versione dei fatti” nostalgica oltre a riabilitare la figura politica di Benito Mussolini attraverso la parziale banalizzazione del trauma erige una memoria basata sull’immaginazione e il racconto menzognero, avvalorando una memoria falsa che non basta a renderla non credibile.

Figura 15 – Esterno di Villa Carpena (foto dell’autore)

Ci siamo dedicati all’analisi di “Villa Carpena, Casa Ricordi” (da questo momento VCCR) come si fa con un testo sincretico, il cui significato è frutto di una combinazione di diversi linguaggi che insieme, in maniera non sempre coerente, contribuiscono a definire le modalità di interazione tra “cose e persone” all’interno del testo stesso. All’analisi degli spazi, delle strategie di enunciazione all’interno delle stanze e della disposizione degli oggetti, sommiamo il percorso del visitatore/della visitatrice e le modalità con cui il ritmo del museo gli/le permette di conquistare una forma di conoscenza che è alterata dalla nostalgia e dal rimpianto della figura di Mussolini.

Nella nostra analisi del museo “Casa Ricordi” diamo particolare importanza anche al discorso proposto dalla guida che accompagna tutti i visitatori/le visitatrici, che propone un racconto indirizzato verso una “agiografia” di Benito Mussolini e di sua moglie Rachele, insistendo sulla euforizzazione della dimensione privata della loro esistenza. Una “privatezza” che si semiotizza nello spazio domestico, con l’obiettivo di fare della casa un punto sensibile per il rimpianto di Benito Mussolini, non tanto del politico o del fascista ma dell’“uomo semplice”, che in quegli spazi ha concepito i valori

e le tradizioni che oggi – stando a quanto espresso dalla guida del museo – sarebbero andati perduti.

3.3.1. Composizione degli spazi

Dopo aver pagato il biglietto di circa 12 euro, quindi dopo che il visitatore/la visitatrice si è modalizzato/a come acquirente di una esperienza, la guida (solitamente si tratta del signor Morosini o di sua moglie) invita i convenuti a visitare liberamente il giardino del museo, non prima di aver suggerito di adottare un fare “contemplativo” perché proprio lì, dicono, erano soliti passeggiare Mussolini e gli altri componenti della sua famiglia. Già da questo primo dettaglio si percepisce la manipolazione cognitiva che la guida impone al visitatore/alla visitatrice. Il suggerimento, per niente disinteressato, serve infatti a predisporre e impostare una lettura specifica che vedremo amplificarsi nelle stanze della casa.

Il giardino anticipa l’idea di accumulazione incontrollata che sarà l’isotopia centrale all’interno delle varie stanze del museo: alle statue e busti di Rachele Mussolini, Benito Mussolini, dei figli e delle figlie del dittatore, sono accostate grandi statue di cavalieri medievali a cavallo, una pietra sacrale che, stando a quanto scritto sul cartello posto vicino ad essa, sarebbe stata donata dall’imperatore giapponese Hirohito. Ancora più straniante, la presenza di una grande statua di Babbo Natale vestito di nero e non di rosso, di grandezza umana, posto tra gli alberi. Il percorso viene predisposto da alcune lapidi che ricordano gli eventi ritenuti importanti nella memoria fascista che formano come una via crucis che permette di attraversare tutto il giardino seguendo una sola direzione. In particolare, lungo il percorso tracciato si possono leggere targhe in memoria dei “Martiri della RSI a Piazzale Loreto”, citazioni affibbiate a Mussolini, come “Giuro di servire e difendere la RSI nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio. In pace e in guerra, fino al sacrificio supremo!… Lo giuro davanti a Dio e ai caduti per l’unità, l’indipendenza e l’avvenire della patria”, scritte a lettere cubitali nere su dei supporti in legno colorati di grigio (Figure 16, 17, 18, 19).

Figure 16, 17, 18, 19 – Dettagli del giardino di Villa Carpena (foto dell’autore)

Terminato il giro del giardino, la guida aspetta i visitatori davanti alla porta d’ingresso della casa.

La casa–museo è costituita su tre piani. Il piano terra, dove si trova la “zona giorno”, quindi la cucina, la sala da pranzo, la sala d’attesa e lo studio di Benito Mussolini; il primo piano dove si trovano le camere da letto di tutti i componenti della famiglia; l’ultimo piano, adibito a “centro studi” apertamente fascista sulla storia del fascismo, dedicato al fratello di Mussolini, Romano.

Una volta iniziato il tour, il visitatore/la visitatrice non sarà mai lasciato/a solo/a, non sarà mai libero/a di attraversare le stanze del museo senza che non sia accompagnato/a dalla guida. È lei infatti ad indirizzare il percorso della visita, a

scegliere le modalità di attraversamento, su quali oggetti focalizzare l’attenzione e su quali invece procedere velocemente. Il visitatore/la visitatrice viene quindi “forzato/a” ad una singola lettura. Questa scelta non è causale: basta attraversare le prime stanze per rendersi conto come l’enunciazione proposta dalla guida si declini su una serie di aneddotti storicamente non dimostrabili che mettono in evidenza discutibile la bontà e la generosità di Benito Mussolini. “Questa è la casa di un uomo buono, che durante la seconda guerra mondiale ha salvato molti ebrei”: è solo una delle frasi emblematiche che la guida propina al visitatore/alla visitatrice che, nel caso non fosse d’accordo e dimostrasse il suo dissenso, può vedere reciso il “contratto di visita” stipulato attraverso l’acquisto del biglietto, essendo invitato/a ad abbandonare il museo119.

119 È necessario precisare che il visitatore/la visitatrice modello di questi spazi simpatizza con i contenuti che vengono proposti nel museo. Non si tratta, infatti, di uno spazio museale “aperto a tutti”, ma di un luogo in cui poter vedere confermate le proprie convinzioni fasciste, in cui viene posta in essere una sorta di prova–provata “che la storia di Mussolini – come tiene a precisare la guida – quella che si insegna nelle scuole, è frutto di una operazione di revisionismo comunista”.

Figure 20, 21, 22 – Stanze di Villa Carpena (foto dell’autore) 3.3.2. La dimensione domestica

Una delle dimensioni sulla quale insiste maggiormente VCCR è certamente quella domestica. Si tratta infatti di un “museo del personale”, nel senso che i visitatori vengono fatti “navigare” tra oggetti e altre “prove” materiali della vita di una famiglia che è passata di lì. Il visitatore/ la visitatrice si trova quindi ad assumere una posizione voyeurista che “invade con permesso” uno spazio che, diventando museo, ha perso la sua privatezza, trasformando in un fatto pubblico le vite che hanno animato quelle stanze.

Come è facile immaginare, il vastissimo campo semantico della “casa” tocca in molte occasioni le corde della nostalgia. Come ha scritto Sharon Macdonald occupandosi del valore simbolico delle case–museo, “the sensory and affective density of domestic homes, coupled with the fact these are often locations of life intimacies and developments over more or less lengthy periods of time, shapes the particular emotive and symbolic resonance of ‘home’ […] highlighting the salience of the idea that the home and home possessions act as carriers of personal identity and memory” (2013: 96). Sfruttando la dimensione domestica, infatti, VCCR incanala un racconto legato al Mussolini padre, marito e uomo di casa, con l’obiettivo di completare il puzzle

soprattutto sul suo “essere umano”, sulla semplicità delle attività condotte nello spazio domestico come un uomo comune.

VCCR si caratterizza proprio in questi termini come spazio emozionale, provando a seminare l’idea che la nostalgia di Mussolini sia da giustificare guardando “dietro le quinte” della vita pubblica del capo del partito fascista italiano.

Inoltre, i racconti delle vite passate vengono “nostalgizzati” attraverso una delega materiale, cioè resi euforici attraverso una interdipendenza che il museo crea tra gli oggetti di vita quotidiana e i loro vecchi proprietari. In VCCR sono presenti delle quasi–reliquie, diverse da quella che abbiamo considerato a proposito della cripta della famiglia Mussolini. Esse sono “quasi” perché non alimentano primariamente una dimensione religiosa, non c’è una correlazione tra corpo morto e tracce del corpo morto. Quello che azionano è più una materializzazione immobile dello scorrere inesorabile del tempo, pur esaltando e glorificando sia il passato in cui venivano utilizzati che i soggetti utilizzatori. Questi oggetti, così esposti, vengono patrimonializzati120 non certo per il loro valore estetico ma per il loro valore

documentale.

L’antropologa Janet Hoskins ha parlato a tal proposito di “biographical objects”, in relazione alle storie personali che vengono architettate intorno agli oggetti e che contribuiscono a generare una forma inedita di introspezione identitaria, che comporta sempre una disforica percezione del presente, in favore di una nostalgia del passato. Inoltre “biographical objects provide a point of orientation and an ‘anchor’ for storytelling […], a reflection on the self deflected through the medium of the object. The object may provide a unity of self that is not given in the narrative, just as it may ‘stand in’ for the person in ritual contexts when the person himself (or herself) cannot attend” (Hoskins 1998: 5). Ed è proprio la produzione del racconto ad effetto nostalgico, legato alle biografie dei loro proprietari, che attesta “lo stato originale di un sistema o di una situazione, valendo insomma come certificazione di una certa verità”

120 Per un approccio semiotico al concetto di “patrimonializzazione", cioè di investimento di valore culturale e istituzionale di un bene materiale o immateriale, si veda Tramontana (2007) e Galofaro, Gasperi, Proni e Ragonese, a cura di (2013).

(Fontanille, 2004: 335). Sembra che i vari arredi della casa di Benito Mussolini abbiano la capacità di condensare in essi non solo la vita quotidiana che hanno arredato ma anche le persone che li hanno usati: “come la scatola nera dell’aereo ripercorre le modalità dell’incidente aereo, così l’oggetto testimone condensa un evento di cui può fare il racconto” (Beyaert-Geslin, 2015: 81).

La consecutio concettuale che segue la guida (e il visitatore/la visitatrice subisce) ha una struttura fissa che viene riproposta a seconda della stanza e dell’oggetto sul quale essa posa la sua attenzione. I passaggi associativi che si susseguono sono sempre gli stessi: (i) esaltazione della “povertà” e della “normalità” del manufatto che diventa prova provata dell’“umiltà” di Benito Mussolini che a sua volta si lega in maniera associativa al macro-tema del fascismo come unica forma politica capace di non usare la politica per scopi personali. A questo punto, avviene una sorta di interruzione dell’enunciazione121: il processo viene quasi sospeso, ma non per fermarsi ma per

arrivare con più slancio al vero obiettivo che è quello di manifestare la terminatività di quei “momenti” di gloria e quindi il desiderio di restaurarli come escalation nostalgica di tutta la costruzione narrativa proposta. Questi passaggi vanno considerati come consequenziali, legati indissolubilmente uno all’altro. Nessun passaggio viene mai saltato, pena il malfunzionamento del sistema logico-sintattico emotivo che insieme formano. Si tratta quindi di una sorta di “climax ascendente della nostalgia” in cui i termini dell’enunciazione sono distribuiti secondo un preciso ordine di intensità semiotica, in modo da dare coerenza argomentativa alla nostalgia che diventa passione legittima e legittimata, non bisogno emotivo dettato da un anacronistico desiderio di ritorno.

121 Nella figura 23 abbiamo deciso di rappresentare questo momento “sospensivo” che genera la nostalgia con una linea tratteggiata, ad indicare l’interruzione momentanea del crescente

Figura 23 – La consecutio concettuale della guida del VCCR

In quello che è presentato come l’ufficio privato di Benito Mussolini, ad esempio, la guida si dedica a una minuziosa descrizione della semplicità e della modesta fattura degli arredi. La sedia su quale Mussolini “ha preso delle decisioni importanti per il nostro amato Paese” è il trampolino di lancio per un lungo discorso circa la corruzione dei politici contemporanei, interessati solo al potere personale. Il meccanismo discorsivo che articola la patemizzazione nostalgica parte quindi da un diniego e un’indignazione nei confronti del presente politico, che alimenta un vuoto emotivo riempito dal ricordo falsato e “domestico” del capo del fascismo. L’enunciazione, sempre uguale a se stesse, produce nella ripetizione una nostalgia “chiusa” (Jankélévitch 1974), cioè una forma di rimpianto circolare, un periplo interessato solo al rimpianto “immobile” e al compiacimento identitario che deriva da questa attività.

Manufatto

come

traccia

domestica

Umiltà del

dittatore

Grandezza

morale del

dittatore e

del

Fascismo

Effetto

Nostalgia

3.3.3. Wunderkammer della nostalgia

VCCR si presenta come uno spazio dell’accumulazione, dell’incremento ad infinitum, che data l’ingordigia di tracce dei suoi enunciatori e dei suoi visitatori modello si presenta come una disperata e spasmodica “caccia al segno”, in cui ogni singolo oggetto esposto conferma la natura quantitativa della nostalgia restaurativa. La ricerca del passato, il desiderio di (di)mostrare la materialità testimoniale di un tempo che non c’è più, spinge i destinanti di questo spazio ad accatastare oggetti di diversa natura senza un particolare criterio espositivo. Il tutto perché non è l’oggetto in sé ad essere posto sotto un regime di visibilità, ma il suo rapporto con gli altri. Questo per alzare l’asticella del rimpianto, secondo una logica che suona più o meno come: “più oggetti – più tracce del passato – più nostalgia”. Davanti agli occhi del visitatore/della visitatrice si presenta una wunderkammer della nostalgia, uno spazio cioè in cui gli oggetti appartenenti a regni diversi, cioè essendo di diverso tipo e di diversa fattura, assumono prestigio semiotico e passionale solamente in relazione all’ammassamento, alla “vertigine nostalgica” che crea il loro affastellamento.

La forma di collezionismo, in questo caso, “oltre a controllare un piccolo mondo inanimato che è al di fuori del tempo” (Leonini 1991: 57) si configura come forma dell’episteme tassonomica della nostalgia. La metafora delle wunderkammer rinascimentali, ci sembra congeniale anche per un altro aspetto: gli enunciatori di VCCR credono che gli oggetti siano degni di essere conservati ed esposti. La differenza sta nel fatto che per i nostalgici l’effetto meraviglia non consiste tanto nella singolarità dell’oggetto ma nella sua capacità consolatrice e mediatrice. Attraverso la loro tesaurizzazione gli oggetti si configurano come check point memoriali ai quali viene attribuito soprattutto un potere di mediazione mnestica e passionale (che spesso sfiora l’ossessione hauntologica (Derrida 1993) tra mondo presente dell’esperienza e quello del passato. Non è esposto, quindi, tutto quello che serve alla conoscenza, ma tutto quello che è necessario a provare nostalgia di Mussolini. Una nostalgia che, data anche l’Enciclopedia Locale122 degli enunciatori e degli enunciatari, si modella su un

122 Partendo dal concetto elaborato da Umberto Eco, in un saggio del 1992, Patrizia Violi propone una tipologia delle diverse “porzioni enciclopediche”. Insieme a (i) un’enciclopedia

“arroccamento memoriale” (cfr. Pirazzoli: 2010), che trasforma i visitatori di Predappio in dei San Tommaso della memoria, che più vedono segni “autentici” più hanno nostalgia.

3.3.4. L’autenticità: in compagnia di Eco, Prieto e Violi

A questo punto una serie di domande teoriche si fanno strada legittimamente. Che vuol dire che un oggetto è autentico? Che autenticamente crea una connessione con il passato che rappresenta? In cosa consiste la capacità di questi oggetti–testimoni di condensare un evento (Beyaert-Geslin 2015: 81)? È possibile avere a che fare con oggetti più autentici di altri? In che modo? Come dice Fontanille, l’autenticità attesta “lo stato originale di un sistema o di una situazione, vale insomma come certificazione di una certa verità” (Fontanille 2004: 355). A che tipo di verità ci stiamo riferendo?

Se ci interroghiamo sull’autenticità in senso semiotico, non si può non partire considerando l’esempio del veliero di Vasa proposto da Umberto Eco nel 1997 in Kant e l’ornitorinco (1997: 281):

Ora immaginiamo che il Vasa non sia affondato il giorno del suo varo, ma abbia felicemente navigato per molti mari. Come accade alle navi, specie dopo avere affrontato maremoti e tempeste, nel corso del tempo varie sue parti saranno state sostituite, una volta una parte del fasciame, una volta una parte dell’alberatura, una volta alcuni infissi, spesso i cannoni, sino al momento in cui il Vasa che fosse ora esposto nel Museo Vasa di Stoccolma non avesse più alcun elemento del Vasa originale. Diremmo che si tratta dello stesso Vasa, ovvero designeremmo rigidamente come Vasa quello che non possiede più alcuna parte materiale dell’oggetto che era stato battezzato come tale?

Le domande di Eco sono le stesse che ci poniamo nel momento in cui