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Vulnerabilità e amore non erotico

CAPITOLO III- Dall’alterità alla soggettività: un io “femminile”?

3.2. Un soggetto “femminile”: passività e vulnerabilità

3.2.2. Vulnerabilità e amore non erotico

Nonostante Levinas scoraggi, come si è detto, l’interpretazione in senso meramente “spaziale” della prossimità, le iperboli che utilizza per descrivere la condizione del per-Altri del soggetto non devono essere interpretate alla stregua di una pura astrazione. Infatti, accanto alle immagini più metaforiche come l’ostaggio, la sostituzione e l’ossessione, costanti sono i riferimenti all’esistenza corporea, la quale permette di chiarire anche il senso di un’espressione iperbolica alla quale avevo fatto cenno all’inizio del paragrafo senza ulteriori specificazioni, ovvero il malgrado-sè per Altri.

340

Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 266. 341

Cfr. Ibidem. 342

Levinas chiarisce come la deposizione dell’Io sovrano si realizzi concretamente a partire dalla vita corporea, che è una vita malgrado sé, per cui il soggetto è fin dentro la propria pelle un “contro di sé e per Altri”343

.

Difatti, il corpo viene considerato come centro della passività del soggetto, secondo una prospettiva già inaugurata negli anni precedenti. Per esempio, in

Totalità e Infinito Levinas indicava il corpo contemporaneamente come modo

attivo e passivo del soggetto. Da una parte, la dimensione corporea è ciò che rende possibile attività come il possesso e il lavoro, ma si tratta anche di un “corpo- servo”, colpito dalla malattia e dalla mortalità e che, dunque, può impedire come punto di incontro di forze fisiche: un corpo-effetto344.

Negli anni Settanta, Levinas recupera l’idea che la vita corporea del soggetto sia espressione stessa della sua condizione di estrema passività, luogo (non-luogo) della suscettibilità originaria e della sensibilità, due termini che vengono di frequente utilizzati come sinonimi di vulnerabilità. Levinas identifica la

vulnerabilità con la sensibilità perché la realtà del sé come l’uno-per-l’altro è data

proprio dall’«incarnazione come possibilità stessa dell’offerta, della sofferenza e del trauma»345.

La sensibilità, dunque, consiste originariamente nella prossimità stessa e non in una conoscenza. A tal proposito, Levinas chiarisce come il significato delle sensazioni non sia riconducibile alla modalità dell’esperienza di…, coscienza

di…, come se ci si trovasse di fronte ad un tema. La sensibilità è da interpretarsi

come suscettibilità (susceptio), ovvero corpo che si espone all’altro346.

Dunque, si può comprendere come il soggetto corporeo sia qualificato da Levinas come sensibile, nudo, vulnerabile, passività assoluta sin dall’interno della propria pelle, condizione evidente se si considerano gli eventi principali della corporeità: la pena del lavoro, dello sforzo, del dolore e dell’invecchiamento. Soprattutto il “dolore” diventa elemento fondamentale per comprendere lo statuto passivo della soggettività, perché si tratta di un puro subire. Infatti, la sofferenza ha un senso molto più originario della percezione di uno stimolo che produce un

343

Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 64. 344

Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 167-168 e pp. 229-240. 345

E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 64. 346

effetto nel soggetto. La percezione può essere ancora intesa come una forma di attività, di ricezione di un dato da parte della coscienza. Il senso autentico del dolore fisico è, invece, proprio la sua estrema passione, l’esclusione da ogni assunzione, l’essere malgrado me:

la soggettività del soggetto è precisamente questo non recupero [...]. Avversità raccolta nella corporeità suscettibile di dolore detta fisica, esposta all’oltraggio e alla ferita, alla malattia e alla vecchiaia, ma avversità che affligge fin dalla fatica dei primi sforzi corporali. Posso essere sfruttato perché la mia passività di soggetto, la mia esposizione all’altro, è il dolore fisico stesso [...]. È nelle forme della corporeità, i cui movimenti sono fatica e la durata dell’invecchiamento, che la passività della significazione – dell’uno-per-l’altro – non è atto, ma pazienza di per sé, cioè sensibilità o imminenza del dolore347.

Nodari può notare a questo proposito come la soggettività incarnata, da sempre centro d’interesse delle analisi fenomenologiche di Levinas, possa giungere proprio alla luce dell’attenzione alla sofferenza fino alla propria massima espressione, «quasi che si trattasse di un tentativo spasmodico – esso stesso inquieto, in-sonne – di tradurre quella significazione della sensibilità in un Dire che non venga tradito dal Detto, cui il linguaggio necessariamente deve far ricorso»348.

Proprio per questo motivo, le immagini di un soggetto “di carne e sangue” sono frequenti nelle descrizioni levinassiane della prossimità come sensibilità/vulnerabilità e non soltanto in Altrimenti che essere. Già quattro anni prima, nell’articolo Senza identità, poi pubblicato nel 1972 in Umanesimo

dell’altro uomo, il filosofo poteva parlare della soggettività etica nei termini di

una pelle offerta, oltraggio nella ferita, sofferenza e vulnerabilità da capo a piedi,

sino nelle midolle delle ossa349. Non si tratta esclusivamente di metafore, ma di

recuperare il senso concreto del corpo come “luogo” del turbamento del per -sé. Più precisamente, Levinas può usare l’immagine della sensibilità come passività malgrado sé proprio perché il dolore, che significa esposizione e passività totale, ferisce il soggetto al centro del proprio egoismo strappandolo al godimento, altro concetto che il pensatore aveva già elaborato in Totalità e

Infinito. Del godimento il filosofo sottolinea l’aspetto pre-conoscitivo, perché non

è una modalità di conoscenza, ma il modo stesso della soggettività di “prendere

347

Ivi, p. 70. 348

F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, op. cit., p. 210. 349

corpo” o, per usare un’espressione di Levinas stesso, di farsi volume. Il soggetto è un io fatto di bisogni che vive la propria vita riempiendo le mancanze e godendo della vita stessa. Si tratta dell’autocompiacimento del soggetto, senza il quale il per-Altro non sarebbe possibile perché, se l’io non godesse, non potrebbe essere sradicato dall’egoismo attraverso il dolore, che è frustrazione del godimento stesso350.

È, dunque, proprio la centralità del soggetto corporeo come soggetto sensibile del godimento e del dolore che spiega alcune espressioni apparentemente estreme di Levinas per parlare della prossimità come “strapparsi il pane dalla bocca”, “esposizione all’oltraggio e alla ferita”, “respirazione fino alla consumazione” e “emorragia del per l’altro”. Solo se il soggetto mangia, se è un corpo fisico, sensibile, un corpo di bisogni può, malgrado sé, dare all’altro, sradicandosi completamente dal proprio godimento: «non dono del cuore, ma del pane della propria bocca, del proprio boccone di pane; apertura – al di là del portamonete – delle porte della propria casa»351.

Proprio l’ultima frase usata da Levinas in questo passaggio mi sembra significativa per dare un ulteriore elemento al tema della “femminilità” del soggetto. Infatti, la metafora della dimora, altro elemento precedentemente associato all’alterità femminile, ritorna più volte nel corso della descrizione della vulnerabilità come sensibilità.

In un altro passaggio di Altrimenti che essere Levinas vi fa di nuovo riferimento in termini di ospitalità, riconducendo l’alienazione dell’io rispetto al per sé del godimento proprio all’ospite che gli è affidato, immagine presentata come equivalente al dare all’altro il pane della propria bocca352

. Dunque, la passività iperbolica del soggetto può essere considerata come una estrema elaborazione di quella che negli anni precedenti era stata la caratteristica propria del femminile nell’intimità, l’accoglienza, in questo caso spinta all’estremo fino al disinteressamento totale di sé che culmina in iperboli come lo “strappare il pane dalla propria bocca” e “l’emorragia per l’altro”.

350

Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 89-93. 351

Ivi, p. 93. Il corsivo è mio. 352

L’ipotesi circa la possibilità di ritrovare il tratto femminile dell’accoglienza ospitale in questa nuova visione della soggettività potrebbe essere confermato estendendo a questi passaggi di Altrimenti che essere una considerazione che Derrida elaborava in merito alla trattazione della dimora in Totalità e Infinito. In quel contesto, come si è già detto nello scorso capitolo, Derrida vede una chiara influenza di Rosenzweig sul pensiero di Levinas.

Il filosofo nota come Levinas abbia tratto l’immagine della dimora come “terra d’asilo”, abitata senza essere posseduta, a partire da un passaggio del Levitico citato da Rosenzweig, il quale presenta il popolo ebraico come straniero, abitante di una terra che solo Dio possiede353. Come Derrida riconosce, questo passaggio del Levitico verrà citato esplicitamente in Umanesimo dell’altro uomo per designare la condizione di apertura estrema del soggetto etico. Scrive Levinas:

Si legge nel salmo 119: “Io sono straniero sulla terra, non mi nascondere i tuoi comandamenti”. [...] Ma il salmo fa eco a testi riconosciuti come anteriori al secolo di Socrate e di Platone, in particolare al capitolo 25, versetto 23 del Levitico: “Nessuna terra sarà alienata irrevocabilmente, perché la terra è mia, e voi non siete che stranieri domiciliati presso di me” [...]. Eco del dire permanente della Bibbia: la condizione – o l’incondizione – di stranieri e di schiavi nel paese d’Egitto avvicina l’uomo al suo prossimo. Gli uomini si cercano l’un l’altro nell’incondizione di stranieri. Nessuno è a casa propria354

.

A questa citazione esplicita si possono unire i riferimenti che, come si è visto, in alcuni passaggi di Altrimenti che essere Levinas fa all’immagine della dimora a porte aperte, ospitale, non richiusa in se stessa e, se si seguono le indicazioni del passo del Levitico, di non esclusiva proprietà del suo padrone, immagini queste che vengono associate alla soggettività etica. Il femminile non si ritrova come presenza esplicita, ma l’accoglienza, essenzialmente “femminile”, non sembra abbandonata, quanto piuttosto estremizzata. Infatti, l’intimità dell’io non è più, come in passato, soltanto la condizione indispensabile per accogliere altri resa possibile dall’incontro con Altri-femminile nel suo ritiro e discrezione.

Il soggetto stesso si fa, in senso estremo, “ritiro e discrezione”, abdicando dall’egoismo del conatus essendi per diventare “accogliente in senso iperbolico”, fino a immagini come l’ostaggio, l’ossessione, la sofferenza per altri e, come si

353

Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, op. cit., p. 105. 354

vedrà nel prossimo paragrafo, fino alla maternità. L’io è espropriato da sé al punto che la propria intimità è “abitata da Altri”.

Di Bernardo sottolinea la possibilità di questa inversione del femminile dall’altro all’io già elaborata da Levinas in Umanesimo dell’altro uomo – e poi ripresa in Altrimenti che essere – proprio relativamente al nuovo significato di

estrema apertura assunto dalla dimensione dell’interiorità:

nell'Umanesimo dell'altro uomo l'interiorità diviene una breccia sul passato anarchico, momento in cui l'io è scelto e si costituisce pre-originariamente come risposta: prima di essere volontà, infatti, l'io diventa me ed è anarchicamente sottomesso al Bene. Nell'Umanesimo dell'altro uomo, la dimensione di femminilità che in Totalità e Infinito compariva come «condizione pre-etica dell'etica» e «accoglienza della dimora», diviene origine anarchica dell'etica, accoglienza pre- originaria che «ha luogo in un luogo non appropriabile ed in un'interiorità aperta»; essa diviene elezione al Bene, responsabilità anarchica ed incondizionata, trascendenza che lascia dietro di sé le tracce di una gratuità infinita355.

Alla luce di quanto emerso fino a questo momento, una certa fisionomia “femminile” nel soggetto è ravvisabile in due direzioni. La prima riguarda la possibilità di intendere la soggettività come accogliente, tratto questo che apparteneva originariamente ad altri-femminile e che viene sviluppato a partire dagli scritti degli anni Settanta fino ad una intimità totalmente aperta ad altri. Inoltre, sono emersi anche elementi come il non-luogo e la vulnerabilità, derivati dall’altro contesto nel quale il femminile come concetto autonomo aveva trovato grande espressione: l’erotico.

In effetti, a queste immagini originariamente associate all’eros se ne possono aggiungere altre, come il contatto e la carezza, che non solo non sono scomparse, ma costituiscono elementi importanti della sensibilità/vulnerabilità. Nella descrizione della sensibilità Levinas utilizza il termine contatto, unitamente all’immagine della nudità della pelle. Sono concetti che, nonostante quanto prima si diceva sulla non spazialità della prossimità, potrebbero dare l’impressione che Levinas, in effetti, si riferisca ad una vicinanza corporea che può tradursi nel “toccare fisico”. Tuttavia, il filosofo ritiene che il contatto non debba essere interpretato come modo della presa sull’oggetto:

355

M. di Bernardo, Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce

la prossimità di esseri di carne e di sangue nella materia non è, per questo soggetto, un “modo della certezza di sé”. La prossimità di esseri di carne e di sangue non è la loro presenza “in carne e ossa” – non è più il fatto che essi si disegnano per lo sguardo, presentando un fuori, delle quiddità, delle forme, offrendo immagini, immagini che l’occhio assorbe (e di cui la mano che tocca o trattiene sospende – allegramente o alla leggera– l’alterità, annullandola con la semplice presa, come se nessuno contestasse questa appropriazione)356.

Essere in contatto non è un modo di appropriarsi dell’altro, annullando la sua alterità, ma l’autentico luogo della differenza perché l’altro non viene mai “toccato”. Nel contatto, il prossimo si spoglia di ogni attributo e genere per essere un altro che non ha nulla in comune con il soggetto. Dunque, l’altro non si mostra in una forma plastica, ma in un modo non-fenomenico.

Questo modo dell’altro, come anticipavo nel primo paragrafo, è il suo volto, traccia di un passato irrappresentabile, ovvero il prossimo rispetto al quale il soggetto è “in ritardo” perché è reclamato alla responsabilità nei suoi riguardi prima ancora di conoscerlo, ossessionato e ingombrato da altri senza aver aderito volontariamente all’impegno. Accanto alle descrizioni più astratte della traccia e dell’Illeità, dunque, Levinas designa la prossimità del Volto come nudità più nuda della nudità stessa, un volto avvicinato, contatto di una pelle.

La pelle non va intesa come l’involucro esterno di un ente, forma che lo definisce e consegna alla rappresentazione e al possesso. La pelle viene descritta da Levinas come lo scarto tra il visibile e l’invisibile, non come ciò che si offre al tocco e alla palpazione, ma esattamente l’alternanza di una presenza e di un’assenza:

al di là del disvelamento e dell’esibizione del conosciuto, si alternano, sorpresi e sorprendenti, una presenza enorme e il ritrarsi di questa presenza. Il ritrarsi non è una negazione della presenza, né la sua pura latenza, recuperabile nel ricordo e nell’attualizzazione. È alterità; senza misura comune con una presenza o un passato che si raccoglie in sintesi nella sincronia del correlativo. Relazione di prossimità e proprio per questo disparità357.

La modalità principale del contatto è la carezza, intendendo con questo termine una ricerca di ciò che si assenta, di ciò che è traccia di se stesso. La tenerezza – termine che richiama il tendre della Fenomenologia dell’Eros – della pelle accarezzata significa esattamente la distanza fra l’io e l’Altro. Infatti, elemento fondamentale della carezza è il “dis-ordine” perché il contatto non colma mai la distanza, non si traduce nel possesso dell’altro, ma significa già soffrire per lui pur

356

E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 97-98. 357

soffrendo per niente, proprio perché il Volto non diventa mai presenza nella rappresentazione. Il volto non è un qualcosa: espressioni come pelle rugosa,

traccia di se stessa358, significano che non è mai stato presente, che squarcia la “giovinezza” del fenomeno e della bellezza plastica e convoca il soggetto in modo irrecusabile, senza che la prossimità possa tradursi in immagini che significherebbero ancora un dominio della coscienza. Il Volto, non-fenomeno,

denuda il soggetto, lo chiama ed ordina impedendo ogni rifugio, gettando un

“seme di follia” nell’Io perché egli si ritrova responsabile senza che la responsabilità abbia avuto origine nel presente359.

Appare chiaro, come dicevo, che in queste descrizioni della prossimità Levinas ripropone alcuni elementi fondamentali che in passato avevano caratterizzato la relazione erotica: il contatto, la ricerca senza fine della carezza, la nudità della pelle, la tenerezza, la compresenza di fenomeno e defezione del fenomeno sono tutte situazioni che avevano caratterizzato la relazione con il femminile e che, adesso, indicano la struttura della prossimità etica.

Naturalmente, queste immagini vengono depurate dal loro significato più strettamente erotico. Si può osservare come, nonostante Levinas utilizzi il termine

amore per indicare la responsabilità etica, intenda con questo termine non un

bisogno erotico, ma proprio l’anteriorità della convocazione da parte del bene: «mi ama prima che io l’ami. Grazie a questa anteriorità l’amore è amore»360. Nello stesso contesto, Levinas suggerisce come il seducente nell’erotico somigli al bene, ma ne sia soltanto un’imitazione e come la possibilità stessa di un “appesantimento di pelle fino all’osceno” sia un’alterazione del Volto. L’erotico è ancora associato da Levinas all’ambiguità, alla concupiscenza, ad una menzogna

luciferina, al male che cerca di sedurre somigliando al bene361. Naturalmente, Levinas intende l’erotico in un’accezione più ampia della sfera sessuale in senso stretto, ovvero come la pretesa del soggetto che l’egoismo sia il principio e la libertà l’ultima parola. Levinas, dunque, ripropone l’idea che l’erotico ricada in egoismo e possesso, richiamando ad una priorità della relazione etica.

358 Cfr. Ivi, p. 113. 359 Cfr. Ivi, p. 115. 360 Ivi, p. 15, nota 7. 361

In un’intervista del 1982, poi pubblicata con il titolo Filosofia, giustizia e

amore, Levinas tornerà su questi concetti, distinguendo esplicitamente l’Eros

dall’Agape, quest’ultima intesa non come amore che si può mutare in godimento e possesso, ma secondo una visione grave, a partire dalla responsabilità per altri362. Kats fa notare come, in effetti, il filosofo abbia usato in questo contesto il termine

agape-carità rispondendo ad una domanda che esplicitamente poneva il problema

della differenza fra Eros e Agape. Infatti, il termine Agape è difficilmente sovrapponibile, almeno nel suo tradizionale significato cristiano, alla responsabilità etica di Levinas363.

Nonostante, in effetti, il Vangelo di Matteo rappresenti un riferimento importante per il pensatore, rispetto al significato del comandamento che impone di “amare il prossimo come se stessi”, il filosofo lo rilegge in un’ottica che, come si vedrà più precisamente nel prossimo paragrafo, risente molto dell’influenza della spiritualità ebraica. Levinas dice più precisamente: «Ama il tuo prossimo. Tutto questo è te stesso; quest’opera è te stesso; quest’amore è te stesso»364

. L’amore cui egli si riferisce non è la carità, cristianamente intesa, ma la

misericordia, termine questo direttamente collegato alla metafora della maternità.

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