Per procedere l’elaborazione di questo capitolo è necessario fissare alcuni concetti chiave che ci accompagneranno per tutta la trattazione; uno di quesi è sicuramente quello legato al concetto di genere ed al concetto di sesso. Come ho indicato nel paragafo precedente, il dibattito riguardo il genere e la sua accezione – da sempre confusa – venne intrapreso già nel lontano XVIII secolo, dalle primissime autrici femministe. Ai fini di
34 Pande, Rekha. 2018. “The History of Feminism and Doing Gender in India.” Estudos Feministas, vol. 26, no. 3, p.11
48 un’analisi analitica degli sviluppi dell’emancipazione femminile e di una migliore comprensione della parità di genere, è necessario rifarsi ai più recenti Women’s Studies ed ai confinanti Gender Studies.
Significativo è stato anche il contributo di due forti figure femminili nell’antropologia del’inizio secolo (XX secolo). La prima fu l’antropologa statunitense Margaret Mead (1901-1978) con studi relativi alle differenze temperamentali e sociali tra i due sessi e con la teoria sulla costruzione dell’identità di genere; a seguire una simile direzione ideologica fu Ruth Benedict (1887-1948), la quale indaga sulle tradizioni patriarcali e dedica importanti riflessioni anche sul tema dell’omosessualità.
Si può definire pioneristico l’apporto di Mead al concetto di genere poiché venne teorizzato dall’accademia solo quarant’anni dopo, con l’approdo dei Women’s e Gender Studies, come precedentemente segnalavo. Mead appartiene al movimento Culture and Personality, il quale affermatosi tra le due guerre, crede che il comportamento degli adulti sia “culturalmente modellato”. Viaggiando come etnologa nelle isole Samoa, Mead, si occupò di uno studio comparato relativo alle crisi adolescenziali tra soggetti statunitensi e samoanesi. Le crisi erano presenti solamente per gli adolescenti statunitensi ed assenti negli altri, ne dedusse quindi l’origine culturale e non naturale del fattore scatenante. Il suo saggio Sesso e Temperamento (1930)35 è significativo perché introduce il concetto di sesso sociale e perché rompe con la concezione della biologia come destino. L’antropologa infatti, insisteva sul fatto che le differenze anatomiche del proprio sesso, avessero poco peso rispetto ai condizionamenti sociali; esistono società che non dicotomizzano i comportamenti mentre altre li stigmatizzano in maniera più rigida, e il non conformarsi crea ansia.
35Mead, Margaret. 1967. Sesso e temperamento in tre società primitive. trad. di Q. Maffi.2. ed. - Milano:
49 A consolidare il concetto di genere furono poi le femministe degli anni ’60 e ‘70, le quali contrastarono il pensiero determinista biologico-sessuale che da sempre legittimava la dominazione maschile.
Tra le femministe Kate Millett fu una delle prime a partecipare alla costruzione del concetto di gender ed a discuterne all’interno del suo saggio Sexual Politics (1969).36 Scrittrice e attivista femminista, Millett, sosteneva che le relazioni tra uomini e donne fossero unicamente d’ordine politico e che il dominio dell’uomo sulla donna giocasse il ruolo di complice di una politica sessista patriarcale, basata su fittizie differenze.
Rappresentativo per quanto riguarda la questione di genere è indubbiamente il saggio The traffic in women: notes on the political economy of sex”37 (1975) dell’antropologa femminista Gayle Rubin; la sua critica alla concezione della sessualità come sistema binario segnò un capitolo di svolta per i nuovi studi di genere. Rubin, nota come attivista e teorica della politica di genere, scrisse su vari argomenti tra cui il femminismo, il sadomasochismo, la prostituzione, la pedofilia, la pornografia e la letteratura lesbica, nonché studi antropologici e storie di sottoculture sessuali, specialmente in contesti urbani. Nel saggio sopra citato, Rubin, discute del traffico di donne, il quale pensa sia il risultato di un sistema da lei denominato come sex/gender system; con ciò sta ad indicare tutto quell’insieme di accordi attraverso i quali una società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana.
È quindi a partire dagli anni ’70 che nel dibattito antropologico sul genere, si possono distinguere almeno tre direzioni: il “problema delle donne” nella ricerca etnografica, il problema della costituzione socio-culturale
36 Millett, Kate. 1969. Sexual Politics. publ. Granada Publishing.
37 Rubin, Gayle. 1975. “The Traffic in Women: Notes on the 'Political Economy' of Sex”, in Rayna Reiter, ed., Toward an Anthropology of Women, New York, Monthly Review Press
50 delle differenze di genere e l’analisi delle forme di dominio maschile, connesse alla “violenza simbolica”.
Per quanto riguarda la prima asserzione, ci si riferisce al problema della mancanza di un punto di vista femminile negli studi etnografici; a far emergere il problema fu l’antropologo britannico Edwin Ardener, il quale spiegò quest’assenza con l’obbligato stazionamento per le donne nella sfera domestica, escluse in molti contesti dalla vita accademica e politica.38 Ma è proprio in questo periodo che una nuova generazione di antropologhe (come M. Strathern, A. Weiner e M. Rosaldo) comincia partecipare allo studio di genere con importanti ricerche. L’idea chiave dei loro lavori è la rivendicazione dell’agency, intesa come la capacità di azione sociale che le donne hanno, nonostante la palese asimmetria dei ruoli di genere.
È a cominciare dagli anni ’80 che il concetto di gender viene introdotto nel mondo accademico ed assume ufficialmente l’accezione di un qualcosa di “contrapposto al sesso”. Da qui i Gender Studies si sviluppano in modo autonomo, concentrandosi sugli aspetti simbolici della costruzione dell’identità di genere, rifiutando di assolutizzare la dimensione sessuale o biologica. Le identità di genere che sfuggono alla netta dicotomia maschio/femmina, considerate “non convenzionali”, ricevono in questo campo di studi, una considerevole attenzione. Per l’appunto, i Gender Studies estenderanno i loro campi di ricerca fino allo studio delle identità queer o LGBT, finendo poi con il creare una branca di studi denominata Queer Studies – a cui faremo riferimento nel capitolo successivo.
A costituire le basi fondanti di questi nuovi studi, fu indubbiamente la filosofa statunitense, Judith Butler. Legata ad una logica post-strutturalista,
38 Edwin Ardener, "Belief and the Problem of Women," in The Interpretation of Ritual,
51 Butler, polarizzò la sua indagine su un contesto essenzialmente queer, senza però ignorare lo studio imprescindibile relativo al dibattito di genere. Ritengo quindi opportuno fare riferimento ai contributi che Butler diede, e tuttora da, agli studi sul femminismo; ne è prova la sua rinomata teoria sulla performatività di genere. Con quest’espressione, l’autrice di Gender Trouble (1990) e Bodies That Matter (1993) intende spiegare come gli atti di genere, reiterandosi, creino un contesto normativo in cui il genere diventa il “vero genere”, riconosciuto collettivamente. La sua performatività non è conseguenza dei singoli atti di un singolo soggetto, ma ovviamente di una ripetizione collettiva di un determinato atto. Non esiste alcun potere che “agisce” da solo, ma, come scrive Butler “un agire ripetuto che è il potere nella sua persistenza. Dunque, il giudice che autorizza a legittimare una situazione nominandola, invariabilmente cita la legge che applica. Sebbene possa sembrare che il potere vincolante della parole derivi dalla forza della sua volontà, è vero il contrario. Proprio attraverso la citazione della legge si produce l’immagine della volontà del giudice. L’atto discorsivo deriva il suo potere vincolante dall’invocazione della convenzione. Tale potere non risiede né nel soggetto-giudice, né nella sua volontà, ma nel lascito di citazioni in virtù del quale un atto contemporaneo emerge dall’insieme di convenzioni vincolanti”.39
Il meccanismo che instaura la performatività di genere, lo si può paragonare alla struttura del linguaggio, dove specifici segni per produrre un particolare effetto devono essere ripetuti. Allo stesso modo, le norme di genere che vengono ripetute diventano ineludibili.
L’indagine di Butler è, come abbiamo menzionato prima d’indirizzo post- strutturalista; lei infatti, collocò alla base del suo pensiero, l’impostazione strutturalista tipica di Claude Lévi-Strauss (1908-2009). Lévi-Strauss, uno tra i principali esponenti del metodo strutturale, argomentò in modo
39 Butler, Judith. 1993. Bodies That Matter. trad. it. a cura di S. Capelli, Corpi che contano,
52 persuasivo il raggiungimento di una consapevolezza riguardo come l'uomo sia subordinato a considerazioni strutturali, che includono processi sociali inconsci e consapevoli; sviluppò ripetutamente la sua tesi trattando con alcuni degli aspetti principali della cultura: lingua, parentela, organizzazione sociale, magia, religione e arte.
Il primo passo è la definizione delle unità costitutive di un'istituzione; questa è concettualmente equivalente ai fonemi o morfemi di una lingua – similmente a quanto dicevamo prima della performatività di Butler. Una volta che la cultura è stata ridotta ai suoi elementi strutturali, alle relazioni di opposizione e correlazione, e quelle di permutazione e trasformazione, allora può essere definita. Omologie tra istituzioni all'interno della stessa società o tra varie società possono essere spiegate, non in termini di causalità meccanica, ma piuttosto in termini dialettici. Si devono cercare corrispondenze o isomorfismi tra forme o modelli sistematizzati, astratti su diversi livelli e che possono essere confrontati sia dal loro interno che trasversalmente. Per Lévi-Strauss, la costruzione di tali modelli era fondamentale lo scopo dell'antropologia.
La prima grande opera di Lévi-Strauss è Les structures élémentaires de la parenté (1949): partendo dall’analisi di aspetti fino ad allora poco comprensibili delle relazioni di parentela, riesce a mostrare come tutti questi comportamenti siano espressione di un unico modello strutturale elaborato a partire da alcuni principi elementari.
L’apporto che Lévi-Strauss diede ai Women Studies fu molto significativo, poiché il filosofo fu il primo a decostruire le relazioni di parentela, studiando a fondo il ruolo del matrimonio nelle varie società.
L’unione matrimoniale è secondo l’autore, l’elemento centrale nella costruzione dell’unità e dei gruppi di parentela, pertanto, partendo da quest’alleanza, tutte le società umane dichiarano delle regole per definire
53 un’area, più o meno ampia, di possibilità o impossibilità matrimoniale. Quest’area è delineata dal fenomeno dell’incesto; il suo divieto rappresenta il principio che consente ai gruppi umani di passare da una condizione naturale, pre-sociale, a una condizione culturale; dunque di uscire dalla natura per collocarsi nella cultura. Secondo gli studi effettuati da Strauss, ne consegue che l’incesto è un’invarianza transculturale, necessaria allo scambio e alla comunicazione tra gruppi umani. Con la proibizione dell’incesto si esprimono e si realizzano le strutture fondamentali su cui si fonda la società umana in quanto tale. L’esogamia rende manifesto che non sarebbe possibile avere una società senza il riconoscimento di una regola.
Ai fini della mia ricerca, ritengo sia importante cogliere dall’autore, non solamente il concetto che vede la graduale creazione e espansione della società, attraverso le alleanze tra gruppi diversi; ma il ruolo della donna, la quale diviene oggetto di scambio. Questa prospettiva crea un’opposizione: da un lato c’è la figura della sorella o della figlia, che hanno il fine di essere cedute, dall’altro c’è la figura della sposa, che ha il fine di essere acquisita. Le donne non usufruibili, per via del tabù dell’incesto, vengono “allungate” ad altri gruppi, come succede per i beni materiali e con effetti analoghi.