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L'architettura del viandante. Progetto di uno xenodochio sulle rovine dell'abbazia di Linari

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Politecnico di Milano

Polo territoriale di Mantova

L’architettura del viandante.

Progetto di uno xenodochio sulle rovine

dell’abbazia di Linari

Laureanda: Francesca Poggiani Relatore: Vittorio Uccelli

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L’architettura del viandante.

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L’architettura del viandante.

Progetto di uno xenodochio sulle rovine dell’abbazia di Linari

Tesi di Laurea magistrale in

Architettura

Anno accademico 2016/2017

Relatore

Prof. Vittorio Uccelli

Laureanda

Francesca Poggiani

840926

Politecnico di Milano

Polo territoriale di Mantova Scuola di architettura e società

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INDICE

ABSTRACT

LE CORTI DI MONCHIO Storia delle corti di Monchio La corte di Casarola

SAN MATTEO – CASAROLA – LINARI

Le vie di pellegrinaggio lungo il crinale appenninico Casarola: baricentro dell’asse San Matteo - Linari LO XENODOCHIO DI LINARI IERI

Storia dell’abbazia di San Bartolomeo a Linari

Xenodochi: storia e caratteristiche di una tipologia costruttiva LO XENODOCHIO DI LINARI OGGI

Progetto di uno xenodochio sui ruderi dell’abbazia di Linari Tavole

FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFIA

In copertina:

rielaborazione personale del dipinto “Il viandante sul mare di nebbia”, di Caspar David Friedrich

5 13 15 25 37 39 51 61 63 77 91 93 101

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ABSTRACT

L’Appennino tosco emiliano è costellato di borghi grandi e piccoli, più o meno sperduti, conosciuti e non, ognuno dei quali nasconde un mondo da scoprire, mettere a fuoco, interpretare. Casarola, paese situato nell’alta Val Bratica, in pro-vincia di Monchio delle Corti, è uno di questi. Posto in un territorio che per molti aspetti può essere considerato ostile, o comunque difficile da abitare, Casarola ha subìto, a partire dalla seconda metà del ‘900, un profondo fenomeno di spo-polamento, causato dalle prepotenti emigrazioni verso le città. Nonostante ciò, Casarola ha ancora “molto da offrire, ed è ancora oggi un borgo ricco di poesia, bellezza e suggestioni1.”

La presente tesi nasce esattamente da questa premessa, e si occupa di ricercare e studiare i motivi che hanno reso Casarola il paese che conosciamo oggi, e che gli hanno permesso di acquisire tale importanza da sopravvivere ad una storia diffici-le ed ingiuriosa. Il presente studio analizza, quindi, come primo tema, il contesto all’interno del quale si inserisce e si è sviluppato il borgo di Casarola: la realtà delle Corti di Monchio, che hanno rappresentato a lungo un interessante esempio di giurisdizione autonoma montanara, e che per secoli sono state la chiave o porta d’accesso alle terre apuane e lucchesi2.

Tale valenza delle corti come territorio di passaggio introduce un altro tema fondamentale per questo studio: le valli d’Enza, Cedra, Bratica e Parma sono state per secoli solcate da innumerevoli percorsi e fasci viari, utilizzati da pellegrini e da commercianti, che partivano da Parma, superavano il valico appenninico e raggiungevano terre importantissime per la religiosità (vedi il culto del Santo volto di Lucca) e per i commerci (uno su tutti: il commercio del sale). Esistevano alcuni percorsi più importanti, ed oggi più conosciuti, come la celebre via del sale, e moltissimi percorsi secondari, legati a quelli principali e altrettanto significativi

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per il collegamento delle terre emiliane a nord del crinale appenninico con quelle toscane a sud di questo. Tutti questi percorsi sono definibili attraverso gli edifici al servizio delle vie: le fondazioni monastiche e religiose che offrivano ospizi e xenodochi ai viandanti rappresentano parte integrante di quella che viene definita architettura stradale3. Attraverso l’analisi di questa viabilità storica e degli ospizi

più rilevanti lungo l’asse di collegamento tra Parma e Aulla, quindi, si scopre che Casarola è situato in posizione che si potrebbe definire baricentrica rispetto a due importanti monasteri, che costituivano punto di riferimento sicuro con il loro xenodochio: il monastero di San Matteo e quello gestito dai monaci di Altopascio di Linari, di cui oggi restano solo alcuni suggestivi ruderi. Proprio questa tensione tra i due monasteri e il borgo in questione diventa, quindi, un ulteriore elemento di studio e riflessione per la comprensione di Casarola.

Quale può essere lo scopo di scrivere di storia? Questo studio legato alla realtà di Casarola non vuole essere fine a se stesso, ma al contrario desidera diventare occasione di riflessione e spunto per un’esperienza di progetto. E così, avendo ri-percorso, proprio come moderni pellegrini, il viaggio da San Matteo a Casarola, e da Casarola a Linari, e avendo qui trovato solo rovine, sorge spontanea la volontà di riprogettare e recuperare quest’area. Per compiere un’operazione così delicata, si è reso necessario un approfondito studio di questo sito, partendo dalla ricerca di materiali cartografici antichi e da una una ricostruzione storica delle vicende che hanno interessato l’antica abbazia qui ubicata. Questo studio, reso difficoltoso dalla scarsità di fonti, ha confermato il ruolo chiave di questo complesso monasti-co nell’ambito dell’artimonasti-colato sistema di edifici volti all’acmonasti-coglienza medievale dei pellegrini. Di conseguenza, è stata conseguentemente compiuta una riflessione su cosa potesse rappresentare uno xenodochio nel Medioevo, sia dal punto di vista istituzionale sia dal punto di vista tipologico – costruttivo. L’analisi di una così complessa, ma interessantissima realtà, ha condotto a sollevare un importante quesito: cosa potrebbe rappresentare OGGI un moderno xenodochio?

L’ultima parte di questo lavoro affronta, così, il progetto di una struttura ri-cettiva, ma anche dedicata allo studio e alla conoscenza del territorio, sui ruderi dell’abbazia di Linari, nell’ottica dell’ospitalità e del ristoro che per secoli ha

carat-terizzato queste terre.

1 Fausto Giovanelli, Presidente del Parco Nazionale Appennino Tosco Emiliano 2 Ettore Paganuzzi, Pellegrini per un millenio. Religiosità, religione e fede nelle Corti

di Monchio, Parma, Grafiche STEP Editrice, 1999,

3 Filippo Fontana, Viabilità storica nelle Valli dei Cavalieri - parte terza, in Valli dei

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STORIA DELLE CORTI DI MONCHIO

Con la locuzione “corti di Monchio” ci si riferisce a un insieme di tredici paesi, situati sull’Appennino parmense, che ha per lungo tempo rappresentato una realtà politica e territoriale a sé stante, indipendente dai cambiamenti socio – culturali che hanno interessato i territori circostanti. Le corti di Monchio erano: Nirone, Valcieca, Rigoso, Rimagna, Trefiumi, Pianadetto, Valditacca, Ceda, Lugagnano, Riana, Grammatica, Monchio e, ovviamente, Casarola. Questi tredici villaggi hanno rappresentato a lungo un interessante esempio di giurisdizione autonoma montanara. Fino al 1800, infatti, l’unica autorità politica riconosciuta all’interno di questo territorio era quella del vescovo; questo ha permesso lo sviluppo di un governo piuttosto democratico, rappresentativo dei cittadini e autonomo rispetto a quello che accadeva nel resto della penisola italica. Per comprendere meglio questa realtà, è interessante analizzarne la storia1.

Le corti nascono formalmente intorno all’anno 1000, grazie ad alcune dona-zioni imperiali in favore della Chiesa. Sono, tuttavia, presenti testimonianze di molto antecedenti questo periodo relativamente alla vita in questo territorio. I primi segnali di una presenza umana lungo l’Appennino risalgono a qualche mil-lennio dopo l’ultima glaciazione, avvenuta secondo lo studioso E. Ferrarini circa diecimila anni fa. Sono state ritrovate, infatti, a una ventina di chilometri in linea d’aria, in territorio ligure, delle statue-stele databili dal terzo al primo millennio a.C.. Sono presenti nel medesimo territorio, inoltre, i resti di antiche necropoli, insediamenti e fortificazioni denominante “castellari”, databili in egual maniera. Tutto ciò è testimonianza piuttosto attendibile di una consistente presenza umana in territorio ligure ben prima dell’invasione romana; per questo motivo, è diffici-le pensare che queste popolazioni, almeno in periodo estivo, non sfruttassero diffici-le montagne appenniniche per cacciarvi la selvaggina e utilizzarne i pascoli di cui

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erano tanto ricche.

A partire dal periodo romano si cominciano ad avere anche testimonianze nel luogo stesso delle corti. Nel 183 a.C. duemila capifamiglia romani fondano le colonie di Modena e Parma, a seguito della costruzione della via Emilia2. A partire

da queste due colonie gemelle, i romani occupano pian piano tutto il territorio dell’Appennino, compreso, quindi, quello referente a quelle che saranno poi le tredici corti di Monchio. Ancora oggi si possono leggere in questi luoghi tracce dell’antica presenza romana: ritrovamenti di utensili e cimeli del periodo, antichi toponimi di evidente matrice latina, culto di martiri locali legati al periodo delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori romani, tracce di antichi culti pagani e ariani.

Se ai Romani si devono i primi insediamenti nei territori in analisi, alle inva-sione barbare si deve, invece, un forte impulso a un importantissimo evento, fon-damentale per la formazione dell’odierna civiltà: la diffusione del cattolicesimo. A partire dalla seconda metà del IV secolo, infatti, cominciano in Italia le invasioni longobarde: queste popolazioni conquistano prima le pianure del nord, per poi spostarsi verso l’Appennino. Le autorità a capo di questi popoli riconobbero fin da subito l’autorità del papa, e difesero il Cristianesimo dalle persecuzioni portate avanti dagli imperatori pagani. Probabilmente in questo periodo, quindi, i terri-tori delle Corti si riempiono di chiesette, destinate a rimanere anche nei secoli successivi punti di riferimento fondamentali nel territorio. Restano, inoltre, testi-monianze della presenza longobarda nei luoghi delle Corti nella toponomastica di questi villaggi. La corte di Rimagna, per esempio, deriva il suo nome da “Ari-manna”, termine che stava ad indicare gli antichi presidi militari barbari; Riana, invece, deve il suo nome a “ariana”, appellativo usato per indicare zone od aree di matrice longobarda.

Sempre nel periodo longobardo, inoltre, si verifica un altro importante even-to: il fiorire del monachesimo. Questo fenomeno è di estrema importanza per il periodo medioevale, e significativo per le future Corti di Monchio. In questi luoghi, infatti, sorgono monasteri che diventeranno fondamentali centri culturali, agricoli, di ospitalità e di commercio. Nel 1015 nasce la chiesa di San Matteo sul

Monte Caio, con relativo ospitale. Intorno al 1034 sorge, a poca distanza dalle Corti, in territorio lunigiano, l’abbazia di San Bartolomeo di Linari. Nel 1100, in-vece, viene inaugurata l’importantissima badia di San Basilide di Cavana: questi tre centri monastici diventeranno tappe fondamentali per i pellegrinaggi che ca-ratterizzeranno tutta l’epoca medioevale, e che, quindi, interesseranno fortemente il territorio delle Corti. Queste, infatti, rappresentando l’estrema propaggine del parmense, al confine con il territorio toscano, sono state per secoli chiave e porta d’accesso per le terre apuane e lucchesi, percorse largamente da migliaia di vian-danti. Questi, nell’attraversare l’Appennino, sfidavano un ambiente a prima vista ostile, caratterizzato dagli aspri contrafforti dei monti, dalle pareti boschive e dalle rupi di serpentino che precipitavano a fondovalle; nelle tredici corti, in compenso, i viandanti trovavano luoghi adatti per riposarsi e ritemprarsi prima di continuare i propri lunghi viaggi.

Nei secoli IX e X secolo si sviluppa, inoltre, un sistema di vita che prevalse a lungo, e che nei luoghi in analisi ebbe strascichi fino al periodo napoleonico; si sta parlando del sistema feudale. Questo era iniziato timidamente nel IV e V se-colo, con la decadenza dell’impero romano, quando, cioè, il potere centrale dello Stato non era più così forte da impedire l’accrescimento della forza delle autorità locali, che in molti casi andarono a sostituire, nei propri territori di competenza, lo Stato in ogni sua emanazione di potere. Le invasioni barbariche avevano, poi, contribuito ad accrescere questo sistema di potere frazionato, così da spianare il terreno, nei secoli IX e X, alla formazione di tanti “staterelli” autonomi: i feu-di. Questi basavano la loro economia su un’attività prevalentemente agricola, ed erano governati da signori che venivano investiti di questa autorità dai Capi delle tribù barbare prima, dagli imperatori del Sacro Romano Impero Carolingio dopo. Questi ultimi, in particolare, a partire da Carlo Magno, cominciarono a nominare dei Vescovi – conti a capo di alcuni feudi. Questo avveniva in primo luogo poiché la chiesa, in quel momento, rappresentava una forza non solo spirituale, bensì anche politica, ed un’importante alleata per il neonato impero; secondariamente, tali nomine erano più gradite al popolo per la fiducia maggiore che questo aveva nei capi spirituali.

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E’ in questo contesto, quindi, che le Corti di Monchio nascono come feudo: in particolare, nell’879 Carlomanno dona al vescovo di Parma tutti i territori di Badia di Berceto. Con successive donazioni, le Corti vanno a configurarsi come le tredici oggi conosciute, a cui capo era posto uno dei tanti vescovi-signori nomi-nati nei territori parmensi. Queste Corti erano denominate, fino almeno al XIV secolo, Corti di Rigoso; solo successivamente, infatti la Corte di Monchio diventa la più grande e potente, tanto da dare il nome a questo feudo. Si delinea, inoltre, a partire da questo periodo, il funzionamento della vita feudale delle Corti che andrà poi a consolidarsi nel XIV secolo, epoca delle grandi signorie. Seppur con lievi modifiche, inoltre, tale sistema di vita resterà pressoché invariato per tutto il periodo di sopravvivenza di questo sistema politico autonomo.

L’ordinamento giuridico delle Corti di Monchio prevedeva che a capo di queste fosse posto il vescovo: questi era la massima autorità del feudo, ed era l’unico ad avere il potere di far grazia ai condannati. Il vescovo nominava, poi, delle figure a lui subordinate, a cui si affidava per la concreta gestione delle Corti: una era quella del Podestà; questi risiedeva a Monchio, non percepiva stipendio ma riscuoteva degli onorari. Veniva eletto, inoltre, sempre dal vescovo, anche uno sbirro, unico per tutte e tredici le corti: è evidente, quindi, che il controllo della giustizia in questo territorio fosse molto blando. Oltre a queste due figure, altri personaggi venivano eletti all’interno delle Corti stesse. Ogni Corte eleggeva un console, che restava in carica per un anno; insieme a lui venivano eletti anche tre consiglieri, che avevano il compito di coadiuvarlo nelle sue attività. Il console, nello specifico, era il secondo in potere al podestà, aveva il compito di denunciare a lui le risse e i crimini che avvenivano all’interno del territorio di sua competenza e, soprattutto, si occupava delle spese e delle tasse della Corte. Console e consiglieri venivano eletti nell’ambito di un’elezione annuale che si teneva ogni volta in una casata di-versa; nel medesimo contesto veniva eletto anche il camparo, il cui compito era quello di controllare i campi.

Per quanto riguarda le condizioni economiche nelle Corti, le testimonianze sono discordanti. Di sicuro, l’essere sotto il controllo del vescovo dava a questi ter-ritori ampi privilegi, che avevano effetti positivi sull’economia delle popolazioni.

Questi territori, innanzitutto, erano gravati da miti tributi, ben inferiori a quelli richiesti nei territori sotto il controllo delle grandi casate regnanti. In secondo luogo, gli abitanti delle Corti erano esenti dal servizio militare, obbligatorio nei territori non controllati da autorità religiose. A partire dal XVI – XVII secolo, infatti, i Farnese, che governavano a Parma, chiedevano periodicamente a tutti i territori sotto il loro dominio di mandare degli uomini a fare “la mostra”, che altro non era che un periodo di servizio militare, per il quale ognuno degli arruolati avrebbe dovuto comprarsi armi e armatura. I Consoli e i cittadini delle Corti si batterono a lungo per evitare queste mostre, in quanto, secondo loro, un obbligo di questo tipo non poteva sussistere in un territorio in cui l’unica autorità politica riconosciuta era quella del vescovo. Nella seconda metà del ‘600, dopo una serie di contenziosi fra duchi, vescovi e popolazione, che avevano portato le Corti a chiedere anche l’intervento del papa, le mostre furono ufficialmente bandite dal feudo delle Corti di Monchio.

Il sistema fiscale delle Corti, inoltre, prevedeva pagamenti abbondanti per di-verse cariche. Oltre a ciò, vigeva grande liberalità di regime: la caccia era libera, e la licenza per le armi era gratis. Come si è già detto, inoltre, il controllo del territo-rio era affidato ad un unico sbirro: ciò lasciava grande libertà di azione ai cittadini. Poiché il dominio delle Corti era del vescovo, il clero in questo territorio era numerosissimo. All’inizio non tutte le Corti presentavano una propria parrocchia, ma molte erano affidate alla cura pastorale di monasteri o istituzioni vicine, o facevano riferimento alla parrocchia di una corte vicina. Col tempo questa situa-zione cambiò, tanto che, nel XVII secolo, erano presenti tredici parrocchie; le cure pastorali non erano più affidate a monaci o monache, ed in Quaresima un sacer-dote incaricato dal Vescovo predicava in tutte le parrocchie delle Corti.

La vita delle Corti prosegue, così, in questa maniera fino al 1800, più o meno impermeabile ai cambiamenti politici e alle vicissitudini che interessano i territori vicini. Solo nel 1802 si verifica un avvenimento che avrà effetti enormi su questo feudo: in questo anno, infatti, Parma diventa parte dell’impero francese costituito da Napoleone, e con Piacenza forma il dipartimento di Taro. Il rappresentante di Napoleone fa chiudere l’università e altri istituti religiosi, e tutti i giovani vengono

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costretti a prestare servizio militare. In questo momento nelle Corti la situazione è simile a quella di centotrenta anni prima, come viene testimoniato da G. Cigno-lini, che ne descrive la situazione per il vescovo di Parma; in questi territori, Na-poleone viene sopportato provvisoriamente, in attesa del ritorno allo status quo. Questo, però, non avverrà: nel 1805, infatti, Napoleone sopprime formalmente ogni residuo feudale del passato; Le Corti passano ufficialmente e totalmente sot-to il controllo dei francesi.

Dal 1816 al 1847 Maria Luigia d’Austria governa Parma, e di conseguenza anche il territorio delle corti; durante il suo governo diventa usanza chiamare il console della propria corte con l’appellativo di sindaco. Dal 1847 al 1848 la figu-ra politica di riferimento è, invece, Carlo II Borbone. E’ questo, però, il periodo dei Risorgimento italiano, che porterà alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Nel 1859, quindi, gli anziani del comune di Monchio prestano giuramento in favore di Vittorio Emanuele II; nel 1860, invece, Parma chiede ufficialmente di essere annessa al regno di Vittorio Emanuele II: le Corti diventano parte del nuovo stato italiano. Questo fatto, però, non porta maggior benessere alle Corti, ma al contrario provoca il crollo totale della chiusura e del particolarismo quasi autosufficiente che aveva, per secoli, reso le Corti un territorio florido e indipen-dente. Ora, al contrario dei tempi precedenti, le Corti non possono più sottrarsi a imposizioni quali le tasse o la leva militare; di conseguenza, la miseria, già accre-sciuta col dominio francese, aumenta, e costringe molti giovani ad emigrare verso gli Stati Uniti, la Germania, la Francia.

La storia delle Corti, a questo punto, non è più indipendente, ma legata alla grande storia che interessa tutta la penisola italiana. Le Corti subiscono danni per le guerre mondiali, ma nel secondo dopoguerra sembra esserci un periodo di ripresa economica e ricostruzione. Molti lavoratori, comunque, emigrano da ottobre a giugno per lavorare in città o all’estero. Seppur le condizioni igienico-sa-nitarie migliorino e nuovi edifici vengano costruiti, anche grazie all’istituzione dei cantieri scuola, questi restano chiusi quasi tutto l’anno.

E’ questa anche la situazione attuale delle Corti: territori bellissimi, ma che a lungo andare si sono rivelati ostili, ed incapaci di fornire ai propri abitanti ciò che

serviva per restare a vivere e lavorare qui. Ciò che è interessante notare, è che nel passato il territorio delle Corti di Monchio aveva fatto del proprio isolamento ter-ritoriale, politico e culturale il proprio punto di forza. Nel momento in cui, però, l’isolamento politico e culturale è venuto a mancare, quello territoriale ha rappre-sentato un enorme problema, che ha condotto al progressivo abbandono di queste terre. Le Corti restano, comunque, un territorio ricco di storia e peculiarità, un unicum nel panorama italiano. Ciascuna corte porta ancora i segni di questa lun-ga storia che le ha forgiate e formate: Casarola è una di queste.

1 Il testo di riferimento per le notizie storiche relative alle Corti di Monchio è: Pietro

Viola, Le corti di Monchio nella storia, Grafiche STEP Editrice, 1999, Parma

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LA CORTE DI CASAROLA

“Casarola? Per le frequenti case Oppure pel cacio forse che sui deschi

abbonda”1

“…Poi una torre

Campanaria e una chiesa appartate Nel più ridente pianoro, vicino All’acqua dove i cavalli s’erano spinti Vagolando la notte, e destinata A una mole per frumento, castagne e mele, per farine e sidro di cui nutrirsi ogni giorno e ubriacarsi la domenica e i giorni consacrati.

……… La prima chiesa è caduta, sorgeva

Dove il più giovane, in un tempo lontano

asciugandosi il primo sudore, scoperte dall’alto nell’acqua azzurra prima non veduta

in pacifico pascolo specchiate

le sue bestie, volse la mente al Signore, ringraziando.

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Casarola è un piccolo villaggio arroccato sull’Appennino Parmense, nell’alta Val Bratica; è una frazione di circa ottanta abitanti del comune di Monchio delle Corti, in provincia di Parma. E’ noto per essere un luogo legato alla figura di un celebre poeta del ‘900, Attilio Bertolucci, che a Casarola ha vissuto in diversi pe-riodi della sua vita, e che di Casarola ha scritto nei suoi versi.

Casarola, come visto prima, era una delle tredici corti di Monchio, ed ha ri-vestito grande importanza nell’ambito di questo esempio, forse unico, di giuri-sdizione autonoma montanara. Questa corte è stata a lungo, infatti, una delle più popolose, con una quantità di abitanti inferiore solo a Monchio, Lugagnano, Ceda e Riana, corti di dimensioni maggiori. Per questo motivo, ha costituito a lungo punto di riferimento per le vicine corti di dimensioni minori, ed è stata protago-nista attiva nella difesa dell’assetto politico di tipo feudale che ha a lungo caratte-rizzato la storia di questo territorio.

Si è visto che la storia delle Corti affonda le proprie radici nel periodo romano. Anche all’interno di Casarola è possibile individuare un nucleo storico risalente ai tempi dei romani; sono diverse, infatti, le testimonianze di un’antica presenza romana a Casarola. Una prima testimonianza di tale genere è, infatti, il toponimo stesso del paese, che sembra essere di derivazione romana; analizzandolo, infatti, si scopre che “casa” in latino significa capanna, mentre “rola” è l’abbreviazione di “rotula”, cioè rotonda o ruota. Oltre a ciò, ci sono molti altri indizi relativi ad un antico dominio romano: il culto di martiri locali di epoca imperiale, innanzitutto. A Casarola si venera San Donnino, martire cristiano ucciso presso Fidenza duran-te la persecuzione dei cristiani a opera di Massimiano nel 292. A Casarola, inoltre, così come in altri luoghi del monchiese, sono presenti dei luoghi che attestano con il loro nome l’antica presenza del culto pagano: sono tre luoghi sopraelevati nei quali un masso erratico veniva usato come altare su cui si scannavano animali per il sacrificio agli Dei. Questo tipo di altare era chiamato “ara” dai Romani, e a Casarola un posto di tal genere viene chiamato proprio con questo nome; è situato in una zona presso l’attuale centro culturale “Le Ciliegie”3.

A partire dal nucleo romano, il centro abitato di Casarola si è successivamente espanso, fino ad arrivare alla forma e disposizione odierna. Non si hanno

testi-monianze o notizie certe su come questa espansione si sia svolta, ma è possibile, tuttavia, ricostruirla verosimilmente basandosi su ciò che si conosce della storia di Casarola.

Un primo documento significativo per conoscere la storia di Casarola è il “ro-tulus decimarum” del 1230, in cui si legge che Casarola dipendeva, insieme al mo-nastero di San Matteo sul Monte Caio, dal momo-nastero di San Giovanni di Parma. Ciò fa supporre che all’inizio dell’anno 1000 i monaci, dopo essersi stabiliti sul Monte Caio, avessero preso la cura spirituale di Casarola, alla cui chiesa si reca-vano anche gli abitanti delle vicine Riana e Grammatica; queste due corti, infatti, a differenza di Casarola, non avevano una propria parrocchia ma dipendevano da quella della corte in analisi. La chiesa a cui ci si riferisce in questo contesto è la vecchia chiesa del paese, che era situata in alto, fuori dal centro abitato. Il po-sizionamento di questa chiesa fa supporre che in questo momento l’espansione di Casarola, a partire dall’antico nucleo romano, stesse seguendo una direttrice principale, che si sviluppava in direzione nord ovest-sud est; questa era delimitata a nord ovest dalla chiesa, e a sud est da un nuovo gruppo di abitazioni. Possono esserci innumerevoli spiegazioni al fatto che l’espansione di Casarola si stesse svi-luppando secondo quest’asse; la spiegazione più plausibile, tuttavia, si lega ad un tema molto importante per il medioevo, che verrà approfondito successivamente: le vie del commercio e dei pellegrinaggi. La val Bratica, così come le valli attigue, era attraversata da innumerevoli percorsi che collegavano l’Emilia Romagna con la Toscana; con la sua posizione Casarola poteva essere un buon punto di riferi-mento per la sosta di viandanti e pellegrini, e per questo, probabilmente, con il suo sviluppo tendeva ad accrescere in maniera tale da avvicinarsi e tendere verso i percorsi più frequentati .

L’andamento delle strade più antiche suggerisce poi che ci fosse anche un’altra direttrice, perpendicolare alla prima, che ha portato allo sviluppo delle abitazioni lungo quella che oggi è la via del Chioso: il centro abitato di Casarola stava, quin-di, crescendo ed espandendosi, mantenendosi però ad una certa distanza dall’an-tico nucleo romano4.

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da questa si apprende che Casarola ora dipendeva dalla Pieve di Corniglio, e non più dai monaci. Questo sta a significare che la vita cristiana era entrata nell’orga-nizzazione ordinaria, e probabilmente c’era già un prete stabile sul posto, che si occupava di dire messa e somministrare i sacramenti. Questo non avveniva solo a Casarola, ma anche nelle altre corti: così nel 1584 gli abitanti di Grammatica formarono la propria parrocchia, distaccandosi da quella di Casarola; nel 1618 gli abitanti di Riana fecero lo stesso.

E’ in questo periodo, quindi, che gli abitanti di Casarola costruiscono una nuo-va chiesa. Questa iniziatinuo-va, forse, è anche merito di don Gionuo-vanni Schiappa, ret-tore di Casarola e figura carismatica che si era già distinta per aver guidato una de-legazione di uomini a Roma dal pontefice, per impedire che le Corti di Monchio perdessero la propria indipendenza a seguito di transazioni di potere tra duchi. In luogo della vecchia chiesa sorgerà il cimitero, in un bel bosco chiamato ancora oggi “iesa vecia”, a ricordo di ciò che c’era prima in questo luogo. La nuova chiesa sorge a metà strada tra la parte bassa e la parte alta del paese, vicino all’antico nucleo di fondazione romana; diverse famiglie del luogo donarono possedimenti alla chiesa, e alcuni membri di queste diventarono sacerdoti. La chiesa presen-ta ancora oggi una tipica architettura seicentesca: è precedupresen-ta da una scalinapresen-ta, contenuta da un muretto. La facciata, a capanna, è preceduta da un portico a tre arcate, sormontato da una finestra quadrata. Alla sinistra del portale è presente una lapide marmorea commemorativa. L’interno è a navata unica con due cappel-le laterali, terminante in un’abside quadrata; presbiterio e cappelcappel-le laterali, inoltre, sono sopraelevati. L’unico elemento postumo della chiesa è il campanile, ultimato nel 1730; questo presenta una struttura con fusto a pianta quadrata, in muratura di pietra a vista. Si presenta diviso, in senso orizzontale, in quattro parti, da corni-ci modanate in pietra. La parte inferiore ha la porta d’accesso; quella soprastante presenta, al centro del prospetto principale, una piccola finestra quadrilobata e, quella ancor superiore, un orologio montato negli anni Trenta, con cornice in ce-mento. L’ultima porzione, corrispondente alla cella campanaria, si presenta aperta su ciascun lato da monofore ad arco a tutto sesto. La copertura, infine, presenta una cuspide a padiglione ottagonale.

La costruzione di questa nuova chiesa è stata, sicuramente, stimolo per un ulteriore accrescimento del nucleo abitato di Casarola: intorno a questa, infatti, nascono molte nuove abitazioni. Va detto che le costruzioni seicentesche sono spesso ben riconoscibili, poiché presentano grande armonia e un gusto superiore e artistico: venivano tutte costruite con pietre lavorate per portali e finestre, e de-corate con maestà o stemmi gentilizi. Questo nuovo sviluppo di Casarola mostra, inoltre, che delle due direttrici che avevano governato l’espansione fino a quel mo-mento, solo una era rimasta prevalente: quella nord ovest- sud est. Le nuove edi-ficazioni, in particolare, vanno a colmare il vuoto che si era costituito tra il nucleo romano e le abitazioni che si erano sviluppate a sud-est, cominciando a delineare quello che sarebbe poi stato l’assetto definitivo del paese5.

Fino alla prima metà del ‘900 la popolazione di Casarola ha continuato a vi-vere degli antichi mestieri che avevano portato sostentamento a queste terre, in particolare l’allevamento di bestiame e la produzione e commercio di castagne. Spesso per migliorare le proprie condizioni le persone erano costrette all’emigra-zione, soprattutto verso la Francia. Il calo demografico che nel corso del ‘900 in-teressa il territorio delle Corti, quindi, si verifica anche all’interno di Casarola. Gli abitanti del paese diminuiscono in maniera considerevole. Nonostante ciò, però, lo sviluppo del paese non si ferma: nel 1952, infatti, viene costruita una nuova strada carrozzabile verso Monchio, allo scopo di diminuire l’isolamento del paese; quest’opera, inoltre, aveva l’obiettivo di incentivare l’utilizzo di moderni mezzi di trasporto, facendo così tramontare definitivamente l’era di cavalli, asini e muli come mezzi di trasporto lungo le mulattiere. Questa nuova strada, oggi Strada Provinciale Monchio – Corniglio, comporta lo sviluppo e il miglioramento di tutta la viabilità di Casarola: a partire da questa nuova strada provinciale, si sviluppano nuove vie di comunicazione in tutto il paese. Conseguenza di ciò, è l’interramento di ampie porzioni di due dei tre fiumi che fino a quel momento avevano attraversato indisturbati l’intero paese: tale operazione dà la possibilità di costruire un moderno sistema di viabilità che attraversi l’intero paese, e lo renda interamente percorribile in automobile. Grazie a questa operazione, anche l’edi-ficazione di Casarola subisce uno sviluppo: nuove abitazioni vengono costruite

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soprattutto lungola matrice di questi cambiamenti, cioè lungo la nuova Strada Provinciale Monchio - Corniglio. Casarola, così, raggiunge l’aspetto odierno.

1 Lorenzo Guatteri, Le corti di Monchio cantate da un cuculo montano 2 Attilio Bertolucci, La camera da letto I

3 Per le riflessioni relative alle origini romane di Casarola, e per le successive notizie

storiche relative a Casarola, si fa riferimento agli studi contenuti in: Pietro Viola, Le corti di Monchio nella storia, Grafiche STEP Editrice, 1999, Parma

4 cfr. figura 04: Casarola - prima fase di espansione, pag. 31 5 cfr. figura 05: Casarola - seconda fase di espansione, pag. 31 6cfr. figura 06: Casarola - terza fase di espansione, pag. 32

ASSE DI ESPANSIONE PRINCIPALE

DIRETTRICE SECONDARIA

FIG. 03 - Casarola, nucleo di fondazione romana

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UNICO ASSE DI ESPANSIONE

NUOVA CHIESA

NUOVA ESPANSIONE EDILIZIA

NUOVA VIABILITA'

Strada Provinciale Corniglio

- Monchio delle Corti

FIG. 05 - Casarola, seconda fase di espansione

FIG. 06 - Casarola, terza fase di espansione

FIG. 07 - Casarola, nucleo di fondazione romana, foto, 2017

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FIG. 09 - Casarola, chiesa nuova, foto, 2017

FIG. 10 - Casarola, foto dall’alto, 2017

FIG. 11 - Casarola, retro della casa di Attilio Bertolucci, foto, 2017

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LE VIE DI PELLEGRINAGGIO LUNGO

IL CRINALE APPENNINICO

Le valli d’Enza, Cedra, Bratica e Parma sono state per secoli solcate da innu-merevoli percorsi e fasci viari, utilizzati da pellegrini e commercianti che partiva-no da Parma, superavapartiva-no il valico appenninico e raggiungevapartiva-no le terre apuane e lucchesi. Per poter oggi definire i percorsi che venivano utilizzati nel Medioevo è utile analizzare gli edifici al servizio delle vie stesse: le fondazioni monastiche e religiose, infatti, erano parte integrante dell’architettura stradale, in quanto offri-vano ospizi e xenodochi ai numerosi viandanti1. Conoscere la posizione in cui erano, e in molti casi sono ancora oggi, collocati questi edifici permette quindi di ricostruire con discreta certezza quei fasci viari che permettevano sia il trasporto di merci dalle terre emiliane a quelle toscane e viceversa, sia il pellegrinaggio pres-so luoghi sacri. Questi fasci viari, che in molti casi persisteranno fino al XIX se-colo, hanno la loro origine nella viabilità romana, che anche nella tarda antichità e in periodo comunale continua a essere utilizzata senza soluzione di continuità; cambia solo l’importanza gerarchica dei percorsi. E’ necessario, quindi, un breve excursus sulla viabilità romana relativa all’area di interesse per poter poi prosegui-re con lo studio dei percorsi pprosegui-refeprosegui-renziali per pellegrini e commercianti.

Nella loro lunga storia i romani furono in grado di costruire una rete stradale organizzata e capillare, che si dipartiva radialmente dai grandi centri e raggiunge-va gli angoli più remoti delle Provincie. Elemento fondamentale erano le grandi arterie consolari che partivano da Roma diramandosi verso i confini dei territori conquistati dai romani, seguendo percorsi che riflettevano le esigenze e le neces-sità proprie del tempo; furono costruite per volere dei consoli, per ragioni econo-miche o scopi militari. In Italia le strade consolari principali erano dieci: sette di queste partivano dal Foro Romano, nei pressi del Tempio di Saturno, dove nel 20 a.C. Cesare Augusto fece erigere una colonna in marmo rivestita di bronzo dorato,

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il cosiddetto Miliario aureo, che rappresentava il chilometro zero. Le altre tre par-tivano non da Roma ma dalle città raggiunte dalle strade consolari partite dalla capitale, e permettevano di raggiungere province ancora più lontane. Di queste dieci strade consolari, una percorreva l’area oggetto di studio: la via Emilia.

La via Emilia era una strada consolare che collegava la città di Milano con quella di Rimini. Rimini era terminale di un’altra strada consolare, la via Flaminia, fatta aprire dal console Caio Flaminio nel 202 a.C., che da questa città portava fino a Roma. La via Emilia era un’arteria del sistema di comunicazioni romano importantissima, tanto da dare poi il nome alla regione italiana maggiormente in-teressata da questo percorso; la sua importanza era data dal fatto che la via Emilia costituiva un asse privilegiato di collegamento fra la costa adriatica e il guado del Po’. Venne costruita nel 187 a.C. sotto la guida del console Marco Emilio Lepido, al termine di una prima fase di espansione verso l’Italia settentrionale, seguita poi da una stagione di nuove fondazioni coloniarie che avrebbero dato all’Emilia-Roma-gna lo schema insediativo giunto sino al presente. La maggior parte degli odierni centri urbani è accomunata dall’essere dislocata lungo l’asse della via Emilia, a distanza regolare e in prossimità di uno sbocco vallivo coincidente con uno degli elementi di viabilità transappenninica.

In prima battuta, la strada andò a collegare i centri preesistenti, come Piacen-za, fondata nel 218 a.C., e Rimini, fondata nel 268 a.C.. Lungo la via nacquero poi, sempre ad opera di Lepido, le colonie gemelle di Modena e Parma (183 a.C.) e quella di Reggio Emilia (175 a.C.).

La via Emilia e la via Flaminia costituirono a partire dal II secolo a.C. il tradi-zionale asse di collegamento Nord – Sud. Come si può notare dalla cartografia2, questo asse evitava completamente il crinale appenninico, girandoci intorno sen-za attraversarlo. Questo avveniva perché nell’Appennino tosco – emiliano si erano insediati da lungo tempo popoli e genti di etnia ligure, che si opposero a lungo e strenuamente all’avanzata romana. A partire dal 192 a.C. i romani impegnaro-no innumerevoli forze ed energie per conquistare questi territori: il desiderio di conquista non era dato da ragioni economiche, bensì dalla volontà di arginare e contenere la minaccia rappresentata dalle continue razzie dei liguri ai danni

della pianura attigua, allora in piena fase di colonizzazione. Secondo le fonti3, la completa sconfitta e sottomissione di questi popoli avviene intorno al 175 a.C; tuttavia, anche negli anni seguenti alcuni gruppi o bande di guerrieri liguri per-manevano nel territorio, e rappresentavano ancora una minaccia per i romani. Per questo motivo, pur essendo diventato il crinale appenninico più accessibile, la via Emilia rimaneva la via di comunicazione principale per dirigersi verso il sud della penisola.

Nel IV secolo d.C., pur con lo smembramento dell’Impero Romano in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente, l’antica rete viaria romana non venne dismessa ma, al contrario, potenziata, e questo asse continuò a rivestire notevole importanza nel collegamento dei territori nordici con quelli meridionali. E’ solo a partire dal V secolo d.C., quando ormai la minaccia delle popolazioni liguri era un ricordo lontano, l’idrovia padana sul Po’ era stata potenziata e la ca-pitale dell’Impero d’Occidente era stata spostata da Milano a Ravenna, che questo asse costituito da Emilia – Flaminia comincia a indebolirsi. Conseguenza di ciò è il potenziamento di nuovi assi transappenninici: il cambiamento della gerarchia itineraria si riflette nel mutamento onomastico delle vie e nell’impianto di nuovi percorsi preferenziali collegati da bretelle transappenniniche; è in questo contesto che diventa fondamentale il collegamento Parma – Lucca, che viene sempre più utilizzato sia dai commercianti sia dai pellegrini, che dalla città di Parma anda-vano verso Lucca, per poi proseguire verso Roma4. Lucca era una tappa molto importante all’interno del pellegrinaggio: qui, infatti, i pellegrini si fermavano per venerare il Volto Santo di Lucca, un crocifisso ligneo che la leggenda definisce essere un’immagine acheropita.

Va sottolineato che anche questo percorso era di origine antica: tra il II e I secolo a.C., infatti, con la sottomissione delle popolazioni liguri, si era verificato un riassetto amministrativo dell’area connessa all’appennino tosco emiliano, e in questa occasione era nata anche la Perme – Laca, citata già nell’Itinerarium An-toninii, di importanza secondaria rispetto alle vie consolari. Non viene, quindi, costruito ex novo nel V -VI secolo; semplicemente, a partire dal V secolo, ma soprattutto nel VI secolo (secolo caratterizzato dall’invasione longobarda) le

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con-dizioni politico – amministrative mutano, e fanno si che questo asse assuma più forza rispetto a quello tradizionale che aveva dominato fino ad allora. Il culmine di questo fenomeno si avrà nell’VIII secolo (secolo in cui cominciano a essere istituiti i ducati), e da questo momento questo asse sarà a sua volta dominante fino al XVII secolo d.C. Risulta evidente che questo nuovo tipo di collegamento tra Nord e Sud porta con sé un nuovo tema: il superamento del valico appenninico.

L’importanza del superamento del valico appenninico è facilmente intuibile; attraversarlo significava avere uno sbocco sul mar Tirreno, la qual cosa poteva rappresentare sia una risorsa sia un problema di primaria importanza, in quanto garantiva ai piccoli ducati padani una via d’accesso al mare. Il valico appenninico presenta una caratteristica morfologia, tale da diventare un crinale spartiacque alto: da questo, verso Nord si dipartono perpendicolarmente le dorsali, tra loro subparallele, che delimitano i bacini dei corsi d’acqua rivolti verso la pianura: il torrente Parma, il torrente Cedra e il fiume Enza. In particolare la vallata del Par-ma e quella dell’Enza risultano collegate, nel tratto pedemontano, dal solco vallivo di un affluente del torrente Parma, il torrente Parmossa; la valle di quest’ultimo diventò così bacino di raccolta delle naturali direttrici di traffico improntate sul corso dei bassi percorsi fluviali di Parma ed Enza.

La struttura così articolata è stata definita a pettine5; apre, in questo modo, una naturale via d’accesso al crinale al quale permetteva di salire lungo il naturale piano inclinato che i bacini acquiferi originano, dando la possibilità di arrivare a quote anche assai elevate. Viceversa, i “denti del pettine” cioè le dorsali, pur offrendo una variante in quota per raggiungere il crinale, hanno sempre rappre-sentato un altrettanto naturale ostacolo all’impianto di una viabilità in direzione est – ovest. Per quanto riguarda la viabilità a sud del crinale, invece, la situazione è diversa: qui non si parla più di struttura a pettine, bensì di bacini ellissoidali con asse maggiore Nord Ovest – Sud Est.

Sicuramente il punto d’arrivo sul crinale, relativamente alla zona d’interesse di questo studio, è da individuarsi nei Passi, da ovest verso est, del Cirone (mt. 1255), del Lagastrello (mt. 1200) e del Cerreto (mt. 1261), attraverso i quali passavano le direttrici più frequentate. La particolare conformazione stretta dell’alta val Parma

rendeva disagevole il passaggio attraverso il passo del Cirone, che dovette essere interessato da un flusso viario di minore entità rispetto ai passi più agevoli.

Volendo stabilire una gerarchia fra le vie di comunicazione, l’asse sicuramente più frequentato ed interessato da forti flussi di pellegrinaggio era rappresentato dal tracciato che conduceva ad un altro passo, posto più ad ovest: l’odierno Passo della Cisa6. Questo passo è, rispetto agli altri tre, relativamente recente: solo nel 1808, infatti, Napoleone ordina la costruzione di una strada passante per questo valico, che in questa occasione viene potenziato e prende ufficialmente il nome di Passo della Cisa . Tale valico, però, era già esistente da lungo tempo: era stato istituzionalizzato come via di pellegrinaggio nel 718 d.C., e nel Medioevo era noto con il nome di Monte Bardone ; da qui passava un gran numero di sentieri e per-corsi che componevano la così detta via Francigena.

La via Francigena era un’antica via di pellegrinaggio che nel Medioevo costitu-iva asse di collegamento tra Canterbury e Roma; le tappe di questa via sono state ricostruite grazie alle memorie che ci sono state tramandate dal Vescovo Sigerico, arcivescovo di Canterbury, che nel 990 scrive una dettagliata relazione di viaggio descrivendo le settantanove tappe del suo lungo itinerario verso la città di Roma. In particolare, nel territorio della provincia di Parma, Sigerico transita attraverso la Via del Monte Bardone, valicando gli Appennini e arrivando, appunto, al Passo della Cisa. Va considerato che questa importante arteria di comunicazione me-dievale era ben diversa dalle odierne strade, e anche dalle antiche vie consolari romane viste prima; si trattava, infatti, di una rete di vie che rispondeva alla ne-cessità di collegamento di una diversa civiltà: una civiltà di fede, che trovava la sua risposta alla vita nel pellegrinaggio, e una civiltà di commerci, crescenti e floridi su queste direttrici. Per questo, riferendosi alla via Francigena, ma anche a tutte le altre vie di comunicazioni medievali, bisogna ricordare che non si tratta di vie uniche, bensì di percorsi racchiusi in ampi aerali.

Ma quali erano le vie di comunicazione principali che attraversavano gli altri passi7?

Attraverso il Passo del Cerreto, sulla sponda destra del fiume Enza, transitava la Strada Parmesana. Questa ha segnato il confine tra il ducato di Modena e quello

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di Parma fino a tutto il ‘600. La strada Parmesana costituiva una importante via di comunicazione che collegava la città di Parma con Luni, città da cui poi si poteva proseguire il viaggio fino a Lucca. Era conosciuta anche come “strada maestra di Fivizzano” nell’ultimo tratto, poiché Fivizzano era un’importante tappa in Lu-nigiana che si raggiungeva appena superato il crinale appenninico, da cui poi si poteva proseguire in direzione di Luni.

Attraverso il Passo del Lagastrello, invece, sulla sponda sinistra del fiume Enza, passava la via più interessante ai fini di questo studio: la via di Badia Cavana/Li-nari, o strata de Linario, o ancora via del sale. Le molteplici nomenclature con cui viene ricordata questa via – ricordandosi sempre che si sta intendendo via non come percorso lineare, bensì come “fascio di percorsi” – dà già un’indicazione sull’importanza di questo percorso.

La via di Badia Cavana/Linari rappresentava l’alternativa più utilizzata alla vi-cina via Francigena; anch’essa metteva in collegamento la città di Parma con quella di Luni, e quindi con Lucca. Come è facilmente intuibile, il nome deriva dai due capisaldi del percorso: uno era l’abbazia di San Basilide a Badia Cavana, ultimo ospizio prima di raggiungere la città di Parma; l’altro era l’abbazia di San Salvatore a Linari, situata in Lunigiana in prossimità del Passo del Lagastrello. I monaci di Linari controllavano il Passo, e offrivano ospitalità e ristoro ai viandanti che andavano verso Parma o che da Parma si dirigevano verso Lucca. Questa via è chiamata anche via del sale; questo perché questo percorso costituiva l’itinerario preferenziale per l’approvvigionamento di una merce molto preziosa, appunto il sale. Questo arrivava dal mare, percorreva la strata de Linario e arrivava all’abba-zia di Linari, dove i funzionari comunali preposti, detti corrieri del sale, accom-pagnavano le carovane con adeguata scorta e ne rispondevano ad un Massaro, diretto rappresentante del Podestà di Parma. Dall’abbazia le carovane si sposta-vano proprio verso Parma, facendo tappe lungo il percorso; solitamente luoghi che offrivano ristoro erano Rigoso, Vajro, Palanzano, Ranzano, Lalatta, Celso e, ovviamente, l’Abbazia di San Basilide. Da questa, passando attraverso Langhirano, la merce arrivava finalmente alla sua destinazione finale.

La via del sale è stata, quindi, per tutto il Medioevo un’importantissima arteria

di comunicazione tra i territori emiliani e quelli toscani. Si è detto, però, che la concezione medievale di strada era ben diversa da quella odierna: la descrizione appena fatta del percorso più conosciuto, e delle relative tappe, che permetteva il collegamento tra Badia Cavana e Linari non può, quindi, essere esaustiva per la comprensione di questa importante tensione. Poiché, infatti, in questo contesto si intende la strada come “area di strada”, cioè insieme di pluralità di passaggi di-versi – fasci viari – va tenuto presente che a questa tensione principale, descritta e riportata in mappa, si affiancavano innumerevoli tensioni secondarie: percorsi alternativi, più o meno conosciuti, alcuni più difficoltosi di altri, ma sempre sup-portati dalla presenza di ospizi e xenodochi per garantire ai viandanti di trovare luoghi sicuri per riposarsi e ristorarsi.

Il percorso che si andrà ad analizzare è uno di questi.

1 Filippo Fontana, Viabilità storica nelle Valli dei Cavalieri - parte terza, in Valli dei

Cavalieri - Rassegna di storia e di vita dell’alta val d’Enza e dell’alta Val Cedra, 2014

2 cfr. fig. 13: Via Emilia e via Flaminia, pag. 46

3 In particolare, Tito Livio, nell’opera Ab Urbe Condita, in cui narra la storia di Roma

dalle origini

4 cfr. fig. 14: Percorso da Milano a Roma attraverso Parma e Lucca, pag. 47

5 Per tale definizione, e per la descrizione del crinale, si rimanda a Filippo Fontana,

Viabilità storica nelle Valli dei Cavalieri - parte terza, in Valli dei Cavalieri - Rassegna di storia e di vita dell’alta val d’Enza e dell’alta Val Cedra, 2014

6 cfr. fig. 15: Inquadramento area di interesse, pag. 48 7 cfr. fig. 16: Viabilità medievale, pag. 49

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VIA EMILIA

VIA FLAMINIA

FIG. 13 - Via Emilia e via Flaminia

AREA D’INTERESSE

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FIG. 15 - Inquadramento area di interesse PASSO DELLA CISA PASSO DEL CIRONE PASSO DEL CERRETO PASSO DEL LAGASTRELLO FIUME ENZA TORRENTE PARMA TORRENTE CEDRA

FIG. 16 - Viabilità medievale CASAROLA

ABBAZIA DI LINARI

BADIA CAVANA

STRADA PARMESANA VIA FRANCIGENA

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CASAROLA: BARICENTRO TRA SAN

MATTEO E LINARI

E’ possibile identificare, anche per i percorsi secondari che affiancavano le tensioni principali descritte nel capitolo precedente, delle caratteristiche comuni e identificative; queste sono senza alcun dubbio di aiuto nell’identificazione di quella viabilità secondaria meno ricordata dalla storia, ma non per questo meno importante delle vie storiche analizzate in precedenza. Al contrario, questi per-corsi definiti secondari sono molto importanti per la comprensione dei territori che attraversavano, e hanno lasciato tracce comprensibili e leggibili ancora oggi.

Volendo, quindi, elencare le peculiarità di questa viabilità secondaria, bisogna partire dall’orientamento della stessa. Come per i percorsi principali, anche l’an-damento di queste vie di comunicazione era scandito dalle dorsali appenniniche: si trattava sempre, quindi, di una viabilità Nord – Sud che raramente attraversava trasversalmente le dorsali; questo, infatti, avrebbe causato percorsi disagevoli e di difficile percorrenza.

Solitamente questi percorsi secondari si appoggiavano alle medesime fon-dazioni monastiche che offrivano riparo e ospitalità lungo i percorsi principali. Quello che cambiava erano le strade percorse per raggiungere queste tappe di ristoro; al posto di usare le vie di comunicazioni principali, si usavano sentieri minori e mulattiere, passando attraverso i paesini arroccati sull’Appennino, che potevano anch’essi fornire riparo e ristoro ai viandanti che si avventuravano in questi lunghi viaggi.

Anche la via del Sale, o via di Badia Cavana/Linari, era affiancata da numerosi percorsi alternativi a questa viabilità principale. Questo fatto, oltre a inquadrarsi bene nel concetto di “area di strada” che dominava la viabilità del periodo, ha an-che un’altra spiegazione, legata proprio al sale stesso. Questo, infatti, era una mer-ce molto preziosa e versatile; era considerato nutrimento pregiato e salutare, utile

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alleato contro la fame e in grado di rendere appetibili anche i cibi più poveri. Il sale era, inoltre, l’elemento fondamentale per la lavorazione e trasformazione del latte in formaggi, e per la lavorazione e la stagionatura delle carni di maiale, del pesce (marino e d’acqua dolce), delle verdure, delle olive e, in alcune zone, persino delle uova: queste scorte erano l’unica salvezza nei periodi invernali e di carestia. il sale veniva ampiamente impiegato anche nella concia delle pelli, proteggendole dalla putrefazione, nella produzione delle ceramiche e del vetro (per le sue proprietà disidratanti) e nella metallurgia. Era persino usato in medicina come disinfettante per piaghe e ferite, come purgante e per provocare il vomito. Chi controllava il commercio del sale aveva, dunque, un potere immenso sulle popolazioni, per-ché controllava direttamente la loro possibilità di sopravvivenza. Parallelamente, quindi, ad un commercio regolare e controllato dal podestà di Parma, esisteva un solido contrabbando di questa merce; per i contrabbandieri, quindi, era molto utile poter utilizzare sentieri e percorsi che permettessero loro di viaggiare tra la Toscana e l’Emilia Romagna senza passare dalla via principale e più controllata1.

Si ritiene che una di queste tensioni secondarie fosse costituita da un percorso2

che partiva da Badia Cavana, come la via del Sale stessa, ma che poi si distaccava da questa andando in direzione del Monte Caio: qui i pellegrini o i viandanti po-tevano fare una sosta presso il monastero di San Matteo.

Questo monastero ha origini molto antiche, infatti il primo documento che ricorda questo oratorio risale al marzo del 1015, ed è una pergamena che lo as-segna al monastero di San Giovanni Evangelista di Parma; un altro documento nel 1145 conferma questo legame. Successivamente è sempre ricordato nelle varie pergamene che riportano le Cappelle e chiese della diocesi di Parma. Nel 1411 questo monastero viene tolto all’abbazia di San Giovanni Evangelista ed assegnato ai Lalatta dal papa Giovanni XXIII3. Il monastero di San Matteo è andato

distrut-to, ma l’oratorio è stato ricostruito nel 1901in onore del Cristo Redentore, ed è ancora oggi visitabile.

Dal Monte Caio si pensa che il percorso ripartisse e, passando attraverso il Passo della Zibana, giungesse a Casarola; si ritiene che sia lecito pensare, infat-ti, che Casarola fosse una tappa significativa lungo questa via, importante quasi

quanto i monasteri che fornivano assistenza e ospitalità.

Da Casarola il percorso, probabilmente, si snodava in direzione di Passo Tic-chiano, arrivando a Poggio Maslini. Da qui ripartiva in direzione del Monte Na-vert, poi attraversava il Passo della Colla, e passava attraverso Rocca Pumacciolo, Rocca Pumaccioletto, Monte Patino e Monte Bocco. Si arrivava così a destinazio-ne, attraversando il Passo del Lagastrello e raggiungendo l’abbazia di San Barto-lomeo a Linari, prima tappa in territorio toscano4. Questo particolare itinerario

è stato ipotizzato anche grazie all’analisi della presenza di maestà lungo esso: le maestà, infatti, sono da sempre state presenze mute, posizionate agli angoli delle strade e sui bivi all’interno degli antichi itinerari. Nascevano per particolari cul-ti, per legami con i santuari, per ricordare eventi miracolosi, per attribuire a un santo il patronato di un luogo o per devozione privata; il loro compito era quello di scandire il ritmo del cammino in pause che dovevano dare il conforto lun-go percorsi spesso difficili da percorrere. Ancora oggi le maestà accompagnano i viaggiatori lungo arcaici percorsi che dal fondovalle risalgono le pendici dell’alto Appennino parmense, inerpicandosi sul crinale per ridiscendere nel versante op-posto. In questo modo le maestà forniscono una mappa degli antichi collegamenti viari, ospizi e xenodochi, e aiutano nella ricostruzione di un’antica viabilità di cui, altrimenti, si rischierebbe di perdere memoria5.

Si è detto che si ritiene Casarola un’importante tappa lungo questo percorso appena delineato. Ci sono, infatti, diverse ragioni che permettono di ritenere il paese luogo di sosta tale dichiarazione.

Si deve tenere conto, innanzitutto, della posizione di Casarola: il paese si trova in posizione baricentrica rispetto al monastero di San Matteo sul monte Caio e all’abbazia di San Bartolomeo di Linari. Controllando le mappe del luogo, infat-ti, si scopre che Casarola si trova a circa venticinque chilometri di distanza da entrambe le fondazioni monastiche. Questa distanza è significativa: nei pellegri-naggi, ma anche nei trasporti commerciali, infatti, in una giornata si percorreva proprio questa quantità di chilometri. Lungo i percorsi, quindi, ogni venticinque chilometri circa era presente un posto per riposarsi e passare la notte6: a riprova di

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venticin-que chilometri. Poiché Casarola, quindi, si trova in venticin-questa particolare posizione, è molto probabile che i pellegrini e viandanti arrivassero dal Monte Caio dopo la loro camminata giornaliera, alloggiassero nel paese per la notte, e la mattina dopo ripartissero al fine di raggiungere in giornata il Passo del Lagastrello e, di conse-guenza, l’abbazia di San Bartolomeo a Linari.

A sostegno dell’ipotesi dello stretto legame tra Casarola e questo percorso, inoltre, va considerato anche lo sviluppo del paese di Casarola stesso. Come si è visto, l’asse di espansione principale per il paese nel 1200 – 1300 è stato l’asse nord ovest – sud est: si è detto che questo asse, probabilmente, tendeva ad avvicinare il paese ai percorsi più frequentati da pellegrini e viandanti, che a Casarola pote-vano trovare ospitalità e luoghi per ristorarsi. Come si vede dalla cartografia7, il

percorso in esame passava proprio a sud – est di Casarola. L’importanza di questo percorso, quindi, ha probabilmente portato Casarola a svilupparsi in direzione di questa tensione, diventando così esso stesso parte sempre più integrante del percorso.

C’è, inoltre, un motivo ben preciso che porta a pensare che ci fosse un col-legamento diretto tra il monastero di San Matteo sul Monte Caio e il paese di Casarola, e di conseguenza tra quest’ultimo e l’abbazia di Linari. Questo motivo va ricercato nelle assegnazioni delle cure pastorali medievali. Nei piccoli paesi di montagna o di campagna spesso non vi era una parrocchia autonoma, e non vi era, quindi, un sacerdote che risiedesse stabilmente in quel posto. Nonostante ciò la chiesa voleva comunque garantire agli abitanti di queste piccole realtà di poter partecipare alle messe e ricevere i sacramenti; per questo, una volta a settimana sacerdoti o monaci di istituzioni più grandi si facevano carico di visitare i piccoli paesi per, appunto, “prendersi cura” delle anime degli abitanti. A Casarola si veri-ficò una simile situazione. Casarola dipese, per tutto il 1200, dal monastero di San Giovanni di Parma, da cui dipendeva anche San Matteo sul Monte Caio: i monaci di San Matteo, quindi, avevano preso in carico la cura spirituale di Casarola, e si recavano qui per celebrare le funzioni religiose, a cui, si ricorda, partecipavano non solo gli abitanti del paese, ma anche quelli di Riana e Grammatica. Solo nel 1300 Casarola diventa indipendente dal punto di vista religioso, ma ormai il

solido legame con San Matteo si era costituito. E’ facile pensare, a questo punto, che a coloro che arrivavano sul Monte Caio per ristorarsi, venisse poi suggerito e consigliato di proseguire in direzione di Casarola.

Un altro indizio a sostegno della teoria dell’importanza di Casarola lungo que-sto viaggio è dato dalle altimetrie del luogo: il percorso parte da San Matteo ad un’altitudine di 1367 metri sul livello del mare, si abbassa in prossimità di Passo della Zibana e Passo Ticchiano, e poi si eleva ad altitudini maggiori. La massima altitudine raggiunta è pari a 1814 metri presso Monte Patino; da qui il percorso scende ancora fino ad arrivare a Linari, che si trova a quota 1440 metri sul livello del mare. Presso Passo Ticchiano, dove appunto il percorso si abbassa, l’altitudine raggiunta è pari a 1150 metri; Casarola, con i suoi 1000 metri di altezza sul livello del mare, è l’unico paese che si trova ad un’altitudine simile. Se, quindi, è possibile trovare altri paesi posti a metà strada tra San Matteo e l’Abbazia di Linari, questi non erano così facilmente raggiungibili come Casarola: sostare qui, infatti, signi-ficava non discostarsi troppo dal percorso e, soprattutto, non dover scendere a valle, e quindi allungare il cammino, per trovare ristoro.

1 cfr. http://www.viadelvoltosanto.it/index.php/Sentieri_e_vie_di_contrabbando 2 cfr. fig. 17: Percorso da Badia Cavana a Linari, attraverso San Matteo sul Monte Caio

e Casarola

3 Notizie storiche relative a San Matteo sul Monte Caio tratte da: Ettore Paganuzzi,

Pellegrini per un millenio: religiosità, religione e fede nelle Corti di Monchio, Grafiche STEP Editrice, 1999, Parma

4 cfr. fig. 18: Focus del percorso da Badia Cavana a Linari, attraverso San Matteo sul

Monte Caio e Casarola

5 Anna Mavilla, Le maestà dell’alta Val Parma e Cedra, Longo,1996, Ravenna 6 Pietro Viola, Le corti di Monchio nella storia, Grafiche STEP Editrice, 1999, Parma.

Si fa riferimento a questo testo anche per i successivi cenni storici relativi alle corti

7 cfr. capitolo “La corte di Casarola”, pag. ??

2 cfr. fig. 19: Sezione del percorso da Badia Cavana a Linari, attraverso San Matteo sul

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FIG. 17 - Percorso da Badia Cavana a Linari, attraverso San Matteo sul Monte Caio e Casarola SAN MATTEO

CASAROLA

ABBAZIA DI LINARI

BADIA CAVANA

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FIG. 19 - Sezione del percorso da San Matteo sul Monte Caio a Linari, attraverso Casarola FIG. 21 - Eremo di San Matteo, 2017 FIG. 20 - Eremo di San Matteo, 2017

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STORIA DELL’ABBAZIA DI SAN

BARTOLOMEO A LINARI

Come si è visto, il percorso analizzato precedentemente, che partiva da San Matteo e passava per Casarola, aveva il proprio luogo d’arrivo presso l’abbazia di Linari, punto di riferimento fondamentale per i viandanti medioevali: questo luogo era così importante da costituire tappa fondamentale anche per la via del sale stessa; era, infatti, luogo di sosta e ristoro prima di riprendere il cammino per addentrarsi maggiormente in territorio toscano. E’ interessante, quindi, analizzare più nel dettaglio questa struttura, partendo dall’analisi del nome stesso.

L’abbazia è oggi conosciuta come abbazia di San Bartolomeo di Linari; questo, però, non era il nome originario del complesso. L’abbazia era, infatti, anticamente dedicata a San Salvatore, e con tale denominazione viene ricordata dai documenti più antichi, fino almeno al XIII secolo1. E’ ancora oggi controverso il motivo di

questo cambio di nome, ma due sono le ipotesi più accreditate. La prima è che ini-zialmente fosse presente una doppia dedicazione, andata poi perduta in favore di una singola; la seconda, e forse più probabile, sostiene che l’iniziale dedicazione a San Salvatore sia stata sostituita con quella a San Bartolomeo quando i monaci co-minciarono ad occuparsi dei pellegrini. La dedicazione a San Bartolomeo, infatti, era spesso usata presso gli ospizi e gli xenodochi, poiché questo santo era ritenuto protettore dei viandanti.

L’abbazia di San Bartolomeo presso Linari non ha lasciato grandi testimonian-ze di sé: gli edifici di pertinenza dell’abbazia, infatti, sono andati distrutti molti se-coli fa, e le rovine che si possono osservare oggi non rappresentano propriamente i resti dell’abbazia, quanto piuttosto quelli di edifici ricostruiti dopo il crollo di altri edifici romanici che si trovavano in una località vicino2. Nonostante ciò, è

comunque possibile ricostruire in maniera precisa la storia dell’abbazia di Linari attraverso lo studio delle fonti antiche.

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Non si hanno notizie precise sulla fondazione dell’abbazia; spesso viene er-roneamente indicato che il complesso è di fondazione estense, ma in realtà, pur essendo un’ipotesi molto probabile, non esistono documenti che confermino ciò. Ciò che viene confermato dalle fonti, è un iniziale patronato generico da parte dei marchesi obertenghi d’Este su un istituto funzionante.

Il primo documento in cui si trova traccia dell’abbazia di Linari risale al 18 luglio 981: si tratta di un diploma con cui l’imperatore Ottone concedeva a Go-tifredo, vescovo di Luni, una “corticellam que dicitur linariclum in comitatu par-mense”. Sebbene l’identificazione sia ancora oggi controversa, è molto probabile che la “corticellam que dicitur Linariclum” fosse il luogo in cui poi sarebbe sorto il monastero. Per quanto riguarda la dicitura “in comitatu parmense”, invece, è da annotare una stranezza: nelle fonti posteriori, infatti, il luogo è posto nel comitato lunense. Questa discrepanza può essere spiegata con la frequenza con cui beni diversi erano ascritti al comitato parmigiano, pur essendo fuori dai suoi confini; un’altra spiegazione può essere data dal fatto che spesso i confini di un comitatus erano diversi dai confini di una diocesi3. Si ritiene giusta questa interpretazione

del diploma anche poiché all’epoca si usava spesso il toponimo “Monte di Lina-recchio” per indicare le propaggini montuose dell’area poco distante da Linari4.

Anche nel caso, comunque, in cui si trattasse solo di un caso di omonimia, e il diploma si riferisse ad un’altra località denominata Linari realmente all’interno del comitato parmense, pur non essendoci collegamento tra il monte e il diploma, resterebbe comunque valido il collegamento tra il toponimo Linari e l’abbazia.

E’ del 20 gennaio 1045, invece, il primo documento che rappresenta una vera e propria certificazione di esistenza e funzionamento dell’abbazia. Si tratta del te-stamento scritto da tale prete Giovanni all’interno del chiostro di Linari; nel testo, infatti, si legge che il testamento è “actum infra claustra monasterii sito Linare de Alpe”. Nel documento Giovanni dona un “manso” al potente convento di San Prospero: questo testimonia la probabile attività del cenobio per mantenere il con-trollo su un’importante zona di transito appenninico.

Nel 1077, invece, Enrico IV concede a Ugo e Folco, figli del marchese oberten-go Alberto Azzo d’Este, alcuni beni, tra cui l’abbazia di Linari. Si noti che l’atto che

testimonia questa donazione è in realtà privo di data; la datazione è stata fatta da uno studioso, Muratori, sulla base di due considerazioni: per prima cosa il nome di Gregorio, vescovo di Vercelli che aveva partecipato alla stesura dell’atto, e che era stato cancelliere dal 1070 al 1080. In secondo luogo la presenza di Enrico IV in Italia proprio nel 1077, in occasione della pace di Canossa.

Fino a questo momento i documenti descritti davano indicazioni esclusiva-mente sull’esistenza o la proprietà dell’abbazia. Una successiva fonte, datata 22 dicembre 1185, comincia, invece, a dare qualche notizia relativa alla fortuna del complesso monastico. In questa data, infatti, Rainaldo, abate di San Bartolomeo, nella chiesa del Beato Basilio di Sarzana, in presenza di autorità lunensi, giurò fedeltà alla chiesa lunense. Questa rappresentava una dichiarazione di soggezio-ne sacrale, ma anche un impegno di carattere politico. In un momento in cui la riforma canossiana favoriva la creazione di centri monastici riformati e legati alle autorità politiche, l’abbazia di Linari si affidava all’esclusiva giurisdizione del pre-lato-conte lunense, diventando così un avamposto della politica lunense nell’alta valle del Taverone, ai confini con le diocesi più soggette alla riforma. Questa presa di posizione da parte dell’abate Rainaldo fu, probabilmente, il motivo della cospi-cua ricchezza fondiaria del monastero.

Tale ricchezza fondiaria del monastero è ben testimoniata dalle successive fonti che si hanno a disposizione. Il 3 aprile 1207, per esempio, l’abate Rainaldo ricorda, a utilità dei suoi successori, tutti i beni fondiari e le istituzioni religiose di pertinenza dell’abbazia: sono presenti nell’elenco le aree circoscritte dalle val-late del Parma e dell’Enza, la valle del Taverone e la valle del Bagnone. Nel 1228, invece, l’abate Rainucino vende in perpetuo alcuni beni, riconferma l’affitto di un podere e, soprattutto, dà notizia di quante persone vivevano nel monastero: viene testimoniata una consistente organizzazione umana. Nel 1230 viene redatto un nuovo elenco dei possedimenti del monastero, ma non ritornano alcune dipen-denze elencate nel 1207; si erano verificate delle perdite, probabilmente per la pressione sempre più forte esercitata dal vescovo di Parma per diminuire il peso del vicino cenobio.

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