Presentazione
L'oggetto di questo lavoro è la figura del dono che, nella riflessione contemporanea, oscilla tra la sua riabilitazione in ambito sociologico e le analisi della ricerca filosofica. Innanzitutto preciso che con “dono” non intendo tanto l'oggetto donato, quanto piuttosto un fenomeno intersoggettivo, che si dà come relazione orientata verso l'altro e che produce, o riproduce, i legami tra persone.
Parlare di dono non significa soltanto analizzare le nozioni ad esso collegate, come quella di gratuità, reciprocità, alterità e scambio, ma significa anche imbattersi nella sua strutturale ambivalenza. Essa riposa su una disequazione che tutti sperimentiamo: quella tra la trascendentalità dell'essere umano, il fatto che ogni uomo, possedendo diritti umani inalienabili, è un orizzonte inoltrepassabile e un fine in sé, e la finitudine della vita umana, la sua appartenenza a un tempo ed a uno spazio determinati. Da qui il paradosso del dono: la sua essenza consiste nella gratuità quindi se c'è vincolo e condizionalità non si può parlare di vero dono, ma di fatto non esiste dono che non generi un'obbligazione, reale o simbolica, e allora bisogna scegliere tra un dono puro e impossibile o un dono impuro e quindi non più tale. La sfida che l'esperienza del dono ci pone consiste proprio nella compenetrazione del vettore-gratuità e del vettore-reciprocità. Prima, però, occorre capire cosa accade se si sta al dono come pura gratuità e disinteresse fino al controsenso di pensare che si dona realmente solo se si dona per niente, senza ragione e senza misura, per non ingabbiare il dono in un meccanismo di equivalenze e, dall'altro lato, cosa succede se si nega la gratuità umana, sottolineando il versante interessato presente in ogni dono.
La prima posizione è quella di Derrida e Marion, che si soffermano sulle dinamiche essenziali della relazione del dono, il primo teorizzando l'impossibilità del dono, il secondo riducendo l'apparire di ogni fenomeno alla donazione. Riducendo il dono a pura gratuità, i due filosofi irrigidiscono il dono in una pura forma ideale, non considerando il fatto che, quando si parla di dono, si fa sempre riferimento a qualcosa di inserito in un contesto economico. Nell'Etica nicomachea Aristotele lo stabilisce con chiarezza: la reciprocità del dare e del ricevere è garanzia della compattezza della polis, non si dà, quindi, società senza scambio poiché l'uomo ha bisogno di sottostare a relazioni di reciprocità con gli altri uomini. Cosa succede, però, se riduciamo il dono alla sola reciprocità, eliminando completamente la gratuità e la generosità dell'atto di donare? È con Bourdieu, uno tra i tanti autori che hanno sottolineato l'aspetto insidioso e antagonistico del dono, che emergono i limiti di una tale concezione del dono, che non sembra rendere conto del dono nella sua totalità: ridotto o a
illusione o a semplice strumento di potere, esso sembra diventare un mezzo di autoaffermazione, che nega qualsiasi effettiva apertura all'alterità. Queste due opposte strade hanno però un medesimo esito: l'eliminazione del dono o a causa di una progressiva estenuazione del suo senso o a causa di una sua riduzione a mezzo di dominio.
I limiti di queste teorie ci aprono la via ad una terza strada, oggetto del secondo capitolo, rappresentata dall'etica e dalle teorie del riconoscimento che si sforzano di considerare il dono all'intersezione tra la verticale della gratuità e l'esigenza orizzontale dello scambio. Cercando di integrare la questione del riconoscimento reciproco e del “valore di legame” con quella della gratuità, Hénaff e Ricoeur situano il dono in un punto qualsiasi tra l'ordine del senza prezzo e l'ordine del calcolo, ma si tratta di un equilibrio instabile poiché deve rispondere a molte variabili relazionali: la scelta del dono richiede l'adattamento al contesto e alle dinamiche della donazione. La teoria del riconoscimento simbolico di Hénaff, ma soprattutto quella del mutuo riconoscimento di Ricoeur, elabora la possibilità di individuare modelli di riconoscimento non a partire da una condizione di conflittualità, ma a partire da i cosiddetti “stati di pace”, secondo lo schema della mutualità piuttosto che della simmetricità. Le loro analisi ci portano ad indagare i nessi tra dono, mercato e Stato, i cui rapporti sono approfonditi nel terzo capitolo.
Attraverso alcuni studi etnografici, contenuti in Il dono del sangue. Per un'antropologia
dell'altruismo, che hanno come oggetto la donazione del sangue, è possibile pensare il
rapporto tra Stato-mercato e dono sotto una diversa prospettiva. Inoltre, se pensiamo il dono come relazione generatrice di legami che si colloca nell'intersezione tra gratuità e reciprocità, come pensare la donazione del sangue che è il dono puro e gratuito per eccellenza che non sembra implicare la reciprocità? La donazione del sangue sembra configurarsi come una sorta di “dono che non fa amici”, come afferma Aria in Le aporie della donazione del
sangue: un dono che non fa amici. Quello che occorre vedere è se le cose stanno
effettivamente così o se, invece, il dono è in grado di produrre “legami di anime” anche in questa dimensione, e se può avere valore come categoria dell'azione sociale.
Prima di cercare di rispondere a queste domande, credo sia utile disegnare lo sfondo storico in cui si colloca il dono, per mostrare non solo quello che è stato il suo alterno destino, ma anche la versatilità di questa figura, che si ramifica in un intreccio di paradigmi, trovando applicazione in varie discipline, come l'antropologia culturale, la sociologia, le scienze economiche e così via. Dopo aver accennato al complesso e variegato orizzonte in cui si colloca il dono, l'obiettivo sarà quello di concentrarsi sul dono come relazione e sulla sua capacità di produrre legami personali e sociali.
Introduzione storica Il Saggio sul dono di Marcel Mauss
La nozione di dono, come struttura economica e fatto sociale, è stata introdotta da Marcel Mauss nel Saggio sul dono uscito nel 1923-24 sull' Année Sociologique e destinato ad aprire un ampio dibattito nei decenni successivi. Tema del saggio sono i vari tipi di scambio di beni di prestigio nelle società arcaiche, i quali sono definiti prestazioni sociali totali: in essi l'aspetto economico non è pienamente autonomo in quanto indissolubilmente legato alla sfera sociale, religiosa, giuridica e politica.
Avendo fatto del dono un fenomeno collettivo, ritualizzato e comprensivo di tutti gli aspetti materiali e simbolici della società, Mauss evidenzia alcune caratteristiche comuni a questi scambi: oltre ad essere pratiche pubbliche e collettive segnate da cerimonie e riti, perlopiù compiuti dai capi dei vari clan, essi sono posti al servizio della costruzione di relazioni sociali, al contrario di quanto avviene nella moderna logica di mercato che, invece, utilizza le relazioni sociali per una maggior acquisizione di beni. Se, nella logica di mercato, il legame sociale è al servizio dell'accumulazione di beni, nel dono è il bene scambiato ad essere al servizio del legame. I beni nelle società primitive vengono scambiati non in quanto possiedono un determinato valore d'uso o di scambio, ma poiché possiedono un valore di legame, cioè hanno la capacità di (ri)produrre le relazioni sociali. Queste forme di scambio, essendo slegate tanto dalla logica mercantile quanto da quella contrattuale, possono alimentare i legami tra le parti coinvolte solo se si situano all'interno di un'atmosfera che è di libertà e, al tempo stesso, di obbligo. Più precisamente, le transazioni si articolano in tre momenti che costituiscono il triplice obbligo di dare, ricevere e contraccambiare. Affinché la catena (e la relazione) non si interrompa occorre che ciascun dono non solo sia accettato, ma anche ricambiato, e il modo in cui questo avviene dipende, più che dal valore del bene in sé, dal tipo di rapporto che esiste tra le due parti.
Il saggio fa riferimento a due casi etnografici: il potlach documentato da Boas in
L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl (1897) e il kula delle
isole Trobiand studiato da Malinowski in Argonauti del Pacifico Occidentale (1922).
Per quanto riguarda il potlach, esso è «una lotta dei nobili per assicurarsi una gerarchia da cui trae un ulteriore vantaggio il loro clan»1. In altre parole, esso consiste in cerimonie rituali in cui le famiglie più ricche distribuiscono e talvolta distruggono i beni di prestigio che possiedono, al fine di acquisire maggior prestigio sociale. Qui la componente agonistica è
1 Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002, p. 11.
molto forte: si dona più di quanto l'altro possa restituire o si restituisce più di quanto sia stato ricevuto al fine di “annientare” l'altro. Il potlach indebita e obbliga chi riceve con lo scopo esplicito di rendere difficile, se non impossibile, la restituzione di un dono equivalente. Si cerca di mettere l'altro in una condizione di debito quasi permanente, di fargli pubblicamente perdere la faccia affermando la propria superiorità. Proprio per il suo carattere di rivalità esasperata il potlach sfocia in una distruzione ostentativa di ricchezze, diventando una forma rara di prestazione sociale totale: «c'è prestazione totale nel senso che è tutto il clan che contratta per tutti per tutto ciò che possiede e per tutto ciò che fa, tramite il suo capo»2. Godelier, antropologo francese, in L'enigma del dono (1996) afferma che «da un certo punto di vista, lo scopo di queste competizioni è innanzitutto “politico”»3. Mauss infatti afferma che
lo statuto politico degli individui, nelle confraternite e nei clan, i ranghi di ogni specie si ottengono con la “guerra di proprietà”, allo stesso modo che per mezzo della guerra [..]. Tutto, però, è concepito come se si trattasse di una “lotta di ricchezza”. Il matrimonio dei figli, i posti nelle confraternite si ottengono solo nel corso di potlach scambiati e ricambiati4.
E più avanti:
Il potlach, la distribuzione dei beni, è l'atto fondamentale del “riconoscimento” militare, giuridico, economico, religioso, in tutte le accezioni del termine. Si “riconosce” il capo o il di lui figlio e si diviene a lui “riconoscenti”5.
Mauss insiste sul fatto che in queste società esiste un rapporto diretto tra ricchezza e potere, sottolineando che
L'obbligo di dare è l' essenza del potlach. Un capo deve dare dei potlach per se stesso, per il figlio, per il genero e per la figlia, per i suoi morti. Egli perde la sua autorità sulla tribù […] se non prova di essere frequentato e favorito dagli spiriti e dalla fortuna, di essere posseduto da quest'ultima e di possederla; né può provare di possedere la fortuna, se non profondendola, distribuendola, umiliando gli altri, mettendoli “all'ombra del suo nome”6.
2 Ibidem.
3 Maurice Godelier, L'enigma del dono, Jaca Book, Milano, 2013, p. 80. 4 Marcel Mauss, Op. cit., pp. 60-61.
5 Ivi, p. 70. 6 Ivi, p. 65.
Si capisce, quindi, che in questo universo «astenersi dal dare, così come astenersi dal ricevere e dal ricambiare equivale a derogare un impegno. L'obbligo di ricambiare è tutto il
potlach nella misura in cui non consiste in mera distruzione»7.
In questa lotta, l'obbligo di donare è paradossalmente quello di donare con l'intenzione di rompere la reciprocità dei doni, di spezzarla a proprio vantaggio. Mauss in una nota afferma, senza insistervi troppo, nonostante l'affermazione contraddica l'idea che l'obbligo di restituire sia alla base del potlach, che «l'ideale sarebbe di dare un potlach e che esso non venisse ricambiato»8.
La logica del potlach è quindi completamente diversa da quella dei doni e controdoni non agonistici e, per certi versi, inverte la logica capitalistica: acquisisce maggior prestigio non chi trattiene di più, ma chi sperpera di più. In realtà le interpretazioni del fenomeno sono controverse: lo stesso Boas, preoccupato di non far apparire gli indiani, di fronte alle istituzioni governative, come irrazionali dissipatori di ricchezze, lo leggeva in termini di una razionalità economica di fondo in cui si investe per la conquista di prestigio. Altre interpretazioni tendono a considerare il potlach come una forma di protezione dell'equilibrio del sistema economico primitivo di fronte ai turbamenti creati dal sistema capitalistico. Altri autori sono colpiti dalla componente di distruttività implicata nel potlach: in La parte
maledetta (1967), il filosofo francese Bataille ne farà il centro della teoria della dépense,
secondo cui al centro dei desideri umani non sta il possesso o il profitto, ma il dispendio. Ciò che interessa a Mauss è piuttosto il fatto che nel potlach, così come nel kula, i beni sono posti al servizio della costruzione delle relazioni sociali e non viceversa, come nella logica di mercato capitalistica.
Per quanto riguarda il secondo caso esaminato da Mauss, il kula, esso viene definito come «una specie di grande potlach»9, «un sistema di commercio intertribale e intratribale»10, che consiste nello scambio di collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche all'interno delle isole Trobiand, dove le prime circolano da est a ovest e i secondi da ovest a est. L'originalità del meccanismo sta nel fatto che un braccialetto non può mai essere ricambiato con un braccialetto, né una collana con una collana, ma i braccialetti vengono scambiati con le collane e viceversa. Mauss ha sottolineato che la circolazione di questi beni nell'anello del kula non può mai interrompersi:
7 Ivi, p. 72. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 35. 10 Ivi, p. 34.
In linea di massima, la circolazione di questi segni di ricchezza è incessante e infallibile. Non bisogna conservarli troppo a lungo, essere lenti o restii a disfarsene, gratificarne qualcuno che non sia un compagno determinato, in un senso determinato, nel “senso del braccialetto” o nel “senso della collana”11.
Questa istituzione, afferma Mauss, ha anche un aspetto «mitico, religioso e magico»12 in quanto ogni bene scambiato possiede «un nome, una personalità, una storia, perfino un romanzo»13. Lo scambio di questi beni implica uno spirito di dono e una tendenza al rilancio per cui chi riceve un oggetto cerca di ricambiare con uno ancora più prezioso. Ma cosa crea l'implicito obbligo a ricambiare, vista la mancanza di norme contrattuali e considerando il fatto che un dono acquista più valore quanto più è fatto in maniera libera e spontanea? Qui Mauss introduce una nozione destinata ad aprire numerosi dibattiti: lo hau, che i Maori della Nuova Zelanda attribuiscono ai taonga, oggetti cerimoniali che circolano in maniera molto simile ai gioielli del kula. Attraverso la testimonianza del maori Tamati Ranaipiri, Mauss afferma che lo hau della cosa donata consiste nella forza o potenza vitale e spirituale immanente alla cosa donata che è permanentemente legata alla persona del donatore. Nell'introduzione al saggio di Mauss, Aime afferma che
Quando un oggetto, che incorpora lo hau, viene donato ad altri, lo spirito dell'oggetto cerca di ritrovare il suo luogo d'origine. Gli oggetti donati possederebbero pertanto una forza propria, un loro spirito, trasmesso all'oggetto dalla persona che li possiede. Questo perché sono una sorta di prolungamento degli individui e questi si identificano nelle cose che possiedono e si scambiano14.
Lo hau rappresenterebbe il fondamento dello scambio di doni, e proprio in questo senso il dono si differenzierebbe tanto dal contratto, inteso come rapporto di interessi, che rimanda all'arbitrio di un terzo (lo stato nelle società moderne, ma anche il capo del clan nelle società primitive), quanto al baratto, perché la cosa donata eccede il suo valore quantificabile, nel senso che l'accettazione di un dono comporta l'acquisizione di una parte dell'essere del donatore.
La potenza del dono garantisce, così, l'immissione di cose e persone in uno spazio collettivo totalizzante e simbolico, dove le cose e le persone si mescolano e si fondono in un sistema profondamente coeso e integro. Osservando i rituali e le regole del dono nelle società
11 Ivi, p. 39. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 40.
14 Marco Aime, Da Mauss al MAUSS, contenuto in Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002, p. XIV.
arcaiche, Mauss constata che ciò che viene donato ritorna sempre al proprio donatore, ma sotto un'altra forma e più tardi, secondo un differimento temporale, aspetto che verrà tematizzato più approfonditamente da Bourdieu in Ragioni pratiche. La logica soggiacente a queste pratiche è di non abolire mai il debito, ma di assumerlo come intrinsecamente congiunto al dono: il debito, infatti, obbliga gli attori sociali a mantenersi in rapporto per via dello squilibrio che di volta in volta il dono produce. Il debito introduce così una circolarità aperta, che consiste nel fatto che il dono ricambiato non è mai uguale a quello ricevuto e perciò richiede un'integrazione successiva. Il legame sociale così stimolato stabilisce una forma di connessione di tipo reticolare, in cui le unità sociali valgono come nodi direttamente o indirettamente collegati.
Il metodo utilizzato da Mauss è quello comparativo: più che su un accumulo di grandi quantità di dati somiglianti, esso si basa sull'accostamento di casi particolari ciascuno dei quali contribuisce a creare un modello ideale di dono che forse non esiste in realtà. Pur avendo ridotto il kula al potlach, bisogna comunque notare che nel primo manca lo spreco tipico del secondo, così come è assente la componente spirituale dei taonga maori. Nel
potlach non vi è reciprocità, così come nello scambio dei taonga non vi è agonismo. Le
prestazioni totali di cui parla Mauss risultano dall'accostamento di queste caratteristiche particolari che, però, non sembrano essere riunite in un solo caso etnografico. In questo senso si può dire che Mauss inventa il suo oggetto: prendendo casi diversi tra loro, non solo il kula, il potlach e lo hau, ma anche i sistemi giuridici delle antichità classiche, li assimila in un nucleo comune che va a formare la nuova categoria di dono.
A questa critica di ordine epistemologico si affianca un acceso dibattito riguardo alla teoria indigena dello hau. Malinowski, Lévi-Strauss e Sahlins sono solo alcuni di quegli antropologi che hanno sottolineato gli errori, le ingenuità e i limiti dell'interpretazione di Mauss ed hanno sostituito al concetto di dono quello di reciprocità. A partire dagli anni Ottanta, invece, si è assistito alla riscoperta e alla rivalorizzazione delle idee maussiane, non solo grazie alle riflessione di Weiner e Godelier, ma anche grazie al MAUSS, il Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali, nato nel 1981, con cui il dibattito sul dono esce dal campo strettamente antropologico per entrare nelle riflessioni etico-politiche sui limiti dell'economia di mercato.
Dal dono alla reciprocità
Negli anni Trenta del Novecento gli studi antropologici pongono una particolare attenzione agli aspetti economici delle società primitive. Malinowski ritiene che il classico modello
dell'homo oeconomicus non basti a comprendere pratiche come il kula. In Argonauti del
Pacifico Occidentale (1922) Malinowski espone i suoi studi sulle Trobiand, cercando di
mostrare la razionalità del sistema economico locale e la complessità delle forme di scambio. Tuttavia a Malinowski, così come all'allievo Firth e ad altri commentatori, sembra strano che Mauss sia ricorso ad una credenza religiosa locale per spiegare un fenomeno generale quale l'obbligo di contraccambiare.
Nell'atmosfera funzionalista degli anni Trenta e Quaranta il concetto di dono viene sostituito con quello di reciprocità, per cui lo scambio di doni non sarebbe retto dalla superstizione dello hau, ma dalla logica della reciprocità, che regola l'intero corpo sociale, la quale, in
Diritto e costume nella società primitiva (1926), viene definita da Malinowski come un
principio di «intrinseca simmetria di tutte le transazioni sociali»15. In particolar modo è Firth che, in Primitive economics of the New Zeland maori (1929), elabora un'esposizione sistematica del principio di reciprocità muovendo alcune critiche alla nozione maori di hau. Firth non nega il contenuto religioso dello hau, ciò che contesta è l'ipotesi maussiana che sia quest'ultimo a spingere la cosa donata a ritornare verso il suo luogo di origine o a produrre una transizione equivalente: in caso di mancato contraccambio la riparazione è la stregoneria. Per spiegare l'obbligo di contraccambiare non occorre tirare in causa la forza dello hau della cosa, piuttosto bisogna considerare le sanzioni sociali, il desiderio di conservare prestigio e potere e di perpetuare utili rapporti economici. Invece che parlare di
hau, secondo Firth bisogna far riferimento alla nozione indigena di utu, sinonimo di
reciprocità, che rappresenterebbe una delle più importanti regole alla base degli scambi maori. La reciprocità viene quindi pensata come la logica che regola l'organizzazione degli scambi e che tiene in equilibrio l'intero sistema economico delle società primitive in assenza di istituzioni governative centralizzate. Per evitare conflitti sociali occorre, quindi, che gli interessi individuali vengano bilanciati da norme che rendano il dare e il ricevere simmetrici. La nozione funzionalistica di reciprocità sembra quindi presupporre dei soggetti umani guidati da una razionalità utilitaria, volta alla massimizzazione dei propri profitti.
Quest'interpretazione si allontana molto dall'obiettivo di Mauss che era quello di proporre una visione antiutilitaristica dell'uomo, basata sull'intreccio della sfera economica con quella morale, in cui la reciprocità viene considerata come uno scambio in cui la costruzione di legami sociali è più importante dei beni specifici che circolano. Simile è la posizione di Polanyi che, in La grande trasformazione (1944), considera la reciprocità come una delle tre forme principali di integrazione dell'economico nel sociale, insieme alla redistribuzione e al
mercato. Sostenendo la cosiddetta tesi sostantivista, che si contrappone alla tesi formalista dell'economia classica, che applica i modelli economici a qualsiasi contesto in maniera universale, Polanyi vede la dimensione economica strettamente intrecciata alle forme di relazione sociali: non è l'economico a fondare la socialità, piuttosto è vero l'inverso, per cui gli obiettivi del comportamento economico e la natura dei soggetti non sono delle costanti preculturali, ma dipendono dalla cultura, dalla società e dai loro mutamenti storici.
La nozione di reciprocità viene elevata dall'ambito economico a principio strutturale generativo di ogni campo della cultura da Lévi-Strauss negli anni Quaranta. Nel libro Le
strutture elementari di parentela (1947), Lévi-Strauss, ispirandosi alla nozione maussiana di
dono come fatto sociale totale, pone la nozione di reciprocità al centro della teoria delle strutture elementari di parentela.
Nell'Introduzione all'opera di Marcel Mauss (1950), Lévi-Strauss afferma che il merito di Mauss è quello di aver intuito in modo brillante il principio strutturale della reciprocità, che però non ha potuto sviluppare a pieno perché si è lasciato sviare dalla nozione di hau. Mauss cade in errore sia perché utilizza una credenza religiosa locale per spiegare un fenomeno di portata generale, sia perché ha preso la nozione di hau alla lettera non ricercando la realtà soggiacente ad essa. La struttura dello scambio e della reciprocità preesiste agli atti di donare-ricevere-contraccambiare e l'antropologo deve cogliere la struttura profonda e generatrice di tutte le possibili manifestazione dello scambio. Secondo Lévi- Strauss, la nozione di hau è più vicina a quella di mana, inteso come “significante fluttuante”, vuoto di senso, simbolo puro che può caricarsi di qualsiasi significato simbolico. Il problema di una simile critica è che gli aspetti etici dello scambio passano in secondo piano. Bisogna ricordare che quando Mauss introduce la nozione di hau il suo obiettivo è quello di mettere in luce la partecipazione fra le persone e le cose e la condivisione di un principio spirituale che lo scambio produce. Nella reciprocità di Lévi-Strauss la dimensione etica viene meno, ogni transazione non è frutto di una scelta morale, ma sembra essere imposta da una forza soggiacente.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta, nonostante l'interpretazione di Lévi-Strauss sia quella dominante, emergono anche altre posizioni più favorevoli allo hau. Una di queste è quella di Sahlins che, in Filosofia politica del “Saggio sul dono” (1968) confronta le interpretazioni di Mauss con la filosofia politica di Hobbes: il dono nel mondo arcaico svolge la funzione di assicurare la pace, funzione che nella società civile è affidata allo Stato. A differenza del contratto sociale, il dono, come suo analogo primitivo, non fa scomparire i contraenti, né toglie loro il diritto di usare la forza, ma permette la costruzione di un'alleanza tra gruppi che
altrimenti sarebbero in conflitto. A differenza di quanto sostenuto da Lévi-Strauss, secondo Sahlins il merito di Mauss non consiste nell'aver individuato il principio di reciprocità, piuttosto nell'aver attribuito al dono il ruolo di contratto politico in grado di contrastare i conflitti sociali. Se i popoli sono riusciti a contrapporsi senza massacrarsi, ciò è dovuto al trasferimento di cose che in certa misura sono persone e di persone considerate in certa misura come cose.
Nonostante Sahlins riconosca i meriti di Mauss, crede che egli abbia frainteso ciò che l'informatore maori ha affermato riguado all'hau: Mauss ha pensato che volesse spiegare gli scambi economici attraverso lo hau, per Sahlins il testo mostrerebbero il contrario, cioè che voleva spiegare una nozione religiosa attraverso l'esempio delle transazioni economiche. Nonostante questo fraintendimento, secondo Sahlins Mauss ha colto un aspetto essenziale dello hau: esso permette di vedere lo scambio come un dono di se stessi, in cui ognuno diventa spiritualmente parte di chiunque altro, grazie al passaggio di oggetti che sono legati ai loro donatori. La relazione tra persone e cose ha, secondo Sahlins, dei tratti comuni all'alienazione: la nozione di hau presenta della affinità non più con Hobbes, ma con il feticismo delle merci teorizzato da Marx. L'indissolubilità tra persone ed oggetti materiali, su cui si sono soffermati sia Marx che Mauss, sono tipiche di un mondo in cui la sfera sociale non è mai completamente separabile da quella economica. Già con Sahlins e definitivamente con il MAUSS, vediamo come il tema del dono esce dall'ambito specificamente antropologico per entrare nelle riflessioni etico-politiche sui limiti del consumismo e del modello economico liberista.
Il movimento antiutilitarista
Object 1Il Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali (MAUSS) nasce in Francia nel 1980
insieme all’omonima rivista. Questo movimento si propone di riattualizzare il modello maussiano del triplice obbligo nella prospettiva di un nuovo orientamento sociale, politico ed economico. Per farlo deve scontrarsi non solo con la logica utilitaristica e l'assiomatica dell'interesse, ma anche con una concezione filosofica che rende il dono una realtà forse troppo disincarnata e spiritualizzata.
Per quanto riguarda il confronto col paradigma utilitarista, Caillé, Latouche, Godbout, Berthoud e Salsano, solo alcuni dei numerosi esponenti del movimento, individuano nel “paradigma del dono”, come suona il titolo del libro di Alain Caillé, un'alternativa sia al paradigma utilitarista, sia a quello olistico. Alla base del primo paradigma, comunemente chiamato “individualismo metodologico”, vi è la concezione dell’homo oeconomicus, che
considera gli uomini come individui isolati le cui azioni hanno come obiettivo la massimizzazione dei propri profitti. In questo senso l’insieme dei fenomeni sociali è da riportare all’agire dei singoli individui e all’intreccio dei loro interessi materiali. In quest'ottica viene letto anche il dono: dietro ad esso si celerebbe sempre un calcolo egoistico e ciò che spingerebbe gli individui a donare sarebbe una ragione interessata.
Se il primo paradigma vede il primato logico delle parti (gli individui) sul tutto (la società), nel “secondo paradigma” o “paradigma olistico”, è il tutto a precedere le parti e, quindi, a dar senso e significato agli individui che lo compongono. In questo senso l'azione individuale è determinata dalla totalità stessa, e quindi si limiterebbe a riprodurre modelli e schemi preesistenti alla volontà dei singoli. Se il primo paradigma svalorizza il tutto, essendo questo solo la somma degli interessi individuali, il secondo finisce per svalorizzare gli individui stessi, la cui volontà rimarrebbe schiacciata dal tutto che li sovrasta. Anche in base a quest'ultimo paradigma la peculiarità del dono finisce per svanire: esso perde i caratteri di libertà e spontaneità che lo connotano, finendo per essere ricompreso nell’ambito degli atti rituali e consuetudinari a cui tutte le azioni individuali sono ridotte. Secondo questa prospettiva il dono non sarebbe quindi in grado di instaurare alcuna nuova relazione all’interno della società, ma si limiterebbe a confermare le dinamiche già esistenti.
Il paradigma del dono rappresenta una terza via alternativa alle prime due: il legame sociale non viene pensato né a partire da individui isolati gli uni dagli altri, né a partire da una totalità preesistente, ma «a partire dall'insieme delle interrelazioni che legano gli individui e li trasformano in attori propriamente sociali»16. La scommessa è quindi «che il dono costituisca il perfomatore per eccellenza delle alleanze. Ciò che le suggella, le simboleggia, le garantisce e le rende vive»17.
Gli antiutilitaristi si muovono alla ricerca di forme di ibridazione fra le tre modalità di scambio (dono, mercato e Stato). Il legame sociale si costruisce nell'interazione dinamica fra queste sfere, fatto salvo che la reciprocità del dono è pensata come originaria, perché, senza di essa, ogni ipotesi di mercato o di istituzione pubblica sarebbe esclusa. La logica del dono sarebbe quindi sia il fondamento che la manifestazione della relazionalità umana.
Il problema del ragionamento antiutilitarista e, per certi versi anche di quello maussiano, è di aver fatto riferimento ad una filosofia della storia che vede nello Stato-mercato una minaccia che distruggerebbe i legami sociali, e nel dono la promessa di una redenzione da essi. In Mauss il dono, prevalente nelle società arcaiche, sarebbe stato soffocato con lo sviluppo del
16 Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 12. 17 Ibidem.
mercato nella società moderna: nel mercato le cose incorporano non una parte dell'anima del donatore, ma un valore di scambio astratto e calcolabile. In questo tipo di scambio non c'è bisogno di nessun tipo di rapporto tra le due parti: la morale si separa completamente dall'economia. Mauss però ritiene che le forme di assistenza statale e gli istituti previdenziali allora nascenti rappresentino una rinascita moderna del dono. Dello stesso opinione è l'economista Titmuss, autore di The Gift relationship (1970), mentre di parere opposto è Godbout, che ha dedicato molte opere alla nozione di dono, tra cui il libro Lo spirito del
dono (1922): se per Mauss l'intervento statale riporta nell'economia l'elemento morale che
era stato cancellato dal mercato, secondo Godbout lo Stato, così come il mercato, rappresenta un meccanismo “antidono”. Se è vero che entrambi i meccanismi escludono le due principali caratteristiche del dono, ossia la dialettica obbligo-libertà e il legame sociale, non è molto chiaro perché la razionalizzazione da loro operata dovrebbe distruggere i legami sociali. Come sostiene Dei nell'Introduzione a Culture del dono (2008), proprio l'insistenza degli antiutilitaristi sul fatto che “il dono è ovunque” dimostra che la distruzione non si è affatto compiuta. Nello Stato e nel mercato i beni circolano tra soggettività astratte le cui relazioni sono formali e disciplinate secondo un modello normativo razionale, ma questi meccanismi non riescono ad esaurire i rapporti personali che continuano a scorrere in maniera sotterranea, secondo una logica diversa da quella economica e statale, che Godbout identifica con “spirito del dono”, e che va a occupare gli interstizi del modello formale. Per certi versi le posizioni antiutilitaristiche sono ad oggi superate, nel saggio Dono e merce: riflessione su
due categorie sovradeterminate, contenuto in Culture del dono, Pavanello afferma che negli
argomenti antiutilitaristi non c'è niente di interessante che non fosse già contenuto nell'antropologia economica sostantivista: quest'ultima nega, così come Godbout e Caillè, che il modello formale del mercato sia sufficiente a descrivere le forme concrete di scambio di beni e servizi. In altre parole non è un modello economico formalizzato a fondare la socialità, ma è vero piuttosto l'opposto. A questo principio gli antiutilitaristi non farebbero altro che aggiungere l'istanza metafisica di un principio di altruismo o del “dare” incondizionato e una modellizzazione troppo rigida che contribuisce a rafforzare la dicotomia dono-merce.
Si tratta allora di ripensare il rapporto tra Stato-mercato e dono sotto una prospettiva diversa da questa che vede il rapporto dono-mercato sotto l'ottica della contrapposizione: i più recenti studi etnografici pensano il dono non come netta alternativa al mercato-Stato, così come vorrebbe il MAUSS, ma come due meccanismi che vivono in simbiosi, per cui l'uno ha bisogno dell'altro per vivere.
Dicotomia dono-merce.
Nella riscoperta di Mauss degli anni Ottanta, alcuni autori non hanno seguito fino in fondo l'interpretazione maussiana dello hau, preferendo ricorrere alla nozione di inalienabilità, altrettanto centrale nel Saggio sul dono. Mauss sostiene che i kwakiutl, così come i trobiandesi, distinguono i beni di consumo che circolano ordinariamente, e gli oggetti preziosi che si muovono in occasione di cerimonie solenni. Quest'ultimi sono beni che non vengono mai venduti, ma che possono essere solo dati in prestito perché non possono mai essere dissociati dal proprio proprietario. Questa distinzione è stata rielaborata in termini di oggetti alienabili e inalienabili, sopratutto da Gregory che, in Gift and Commodities (1982), ha visto nella nozione di possesso inalienabile la chiave che permette di distinguere lo scambio di doni da quello mercantile. Quest'ultimo riguarda la circolazione di beni alienabili che instaura relazioni quantitative tra i soggetti coinvolti. Lo scambio di doni riguarda invece il passaggio di beni inalienabili tra soggetti che instaurano relazioni qualitative. Pavanello, nel già citato saggio Dono e merce: riflessione su due categorie sovradeterminate, afferma che le tesi di Gregory sono fondate su alcune assunzioni alquanto discutibili: innanzitutto che tutti i beni non soggetti a compravendita monetaria siano automaticamente classificabili come non-merci, e in secondo luogo che il termine dono possa denominare qualsiasi oggetto che rientra nella classe delle non-merci. L'approccio di Gregory, così come quello degli antiutilitaristi e, per certi versi, anche di Mauss, si inserisce all'interno di un processo di sovradeterminazione che ha conferito ai concetti di dono e merce la natura di categorie o di universali. Tale processo, che secondo Pavanello è il frutto postmarxista di una tradizione intellettuale che affonda le sue origini in Aristotele e nella filosofia scolastica medievale, porta all'opposizione dono-merce a causa dell'uso combinato che fa delle due categorie: il dono e la merce vengono definiti l'uno in contrapposizione dell'altro, per cui il dono finisce per essere definito come non-merce e viceversa.
Mauss, definendo “dono” le prestazioni sociali totali, le equipara a ciò che noi oggi intendiamo con questo termine, vale a dire regalo cerimoniale o scambio gratuito, fuori dal mercato. Mentre pretende di scoprire induttivamente la categoria di dono, di fatto Mauss la costruisce deduttivamente, accostando casi diversi di scambio accomunati dal non rientrare nella logica di mercato. In altre parole l'agenda di comparazione maussiana è quella del mercato, così come quella degli antiutilitaristi che, contrapponendo lo Stato e il mercato al dono, contribuiscono ad irrigidire la dicotomia che emerge chiaramente in Gregory.
approccio “continuista” volto alla critica della dicotomia dono-merce e, dall'altro, per lo studio etnografico dei molteplici intrecci fra dono-mercato.
Per quanto riguarda il primo punto, qui si può inserire la “prospettiva culturale” di Appadurai e di Kopytoff che, in The social life of things: commodities in cultural perspective (1986), criticano la rigida distinzione dono-merce, frutto di un processo storico segnato dall'ascesa della borghesia e del capitalismo. L'intento dei due autori è, da un lato, quello di riflettere sulla costruzione dei significati culturali delle cose attraverso lo scambio, dall'altro, analizzare il modo in cui le persone si definiscono in relazione agli oggetti. Per la maggior parte degli oggetti lo statuto di merce non è permanente, ma indica solo una fase nella vita delle cose. La merce non appare più come un semplice prodotto materiale, ma rappresenta un processo culturale e cognitivo: le merci possono diventare inalienabili attraverso quello che Kopytoff chiama processo di singolarizzazione, viceversa un possesso inalienabile può diventare di nuovo alienabile grazie al processo di mercificazione. Da questi studi emerge che la mercificazione e la cultura non sono inconciliabili, così come Stato-mercato e dono non sono due polarità opposte che si respingono, ma sistemi che si compenetrano costantemente nella vita sociale.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, alcuni recenti studi etnografici documentano e analizzano le forme del dono che pervadono le società dominate dal mercato, così come studiano i modi con cui il mercato globale penetra nelle tradizionali economie del dono, integrandosi con esse, più che cancellandole. Un campo particolarmente interessante è quello della donazione del sangue, che come vedremo, ha aperto un acceso dibattito che ha come protagonisti l'economista inglese Titmuss e Godbout.
La riflessione filosofica sul dono.
Il MAUSS, dopo aver passato i primi dieci anni della sua esistenza a criticare l'utilitarismo, si trova anche a dover lottare contro una concezione troppo disincarnata del dono: filosofi come Derrida e Marion procedono verso una sorta di spiritualizzazione del dono, proclamandolo come ineffabile o trascendente e, quindi, privo di rapporto con la realtà storico-antropologica di cui si occupa il movimento antiutilitarista, che si troverà a dover dimostrare come il dono sia in realtà carico di interessi reali.
Nella tradizione filosofica il saggio di Mauss sul dono è stato fatto oggetto, da un lato, del procedere fenomenologico di Jacques Derrida e di Jean-Luc Marion, dall'altro lato è all'origine di alcune teorie di riconoscimento, come quella di Paul Ricoeur, Marcel Hénaff e per certi versi di Emmanuel Lévinas: se i primi si interrogano sulle dinamiche essenziali
della relazione di dono, portando l'attenzione sull'essere della relazione donante, i secondi si soffermano sulla struttura etica del dono che renderebbe possibile un'apertura all'alterità. In Donare il tempo (1991) Derrida rovescia l'una dopo l'altra le tesi di Mauss che, facendo del dono qualcosa di assimilabile ad uno scambio, ne banalizzerebbe la componente puramente disinteressata e gratuita. Ciò non dipenderebbe solo da un’eccessiva economicizzazione del concetto di dono, ma sarebbe anche il risultato di ogni parlare sul dono che, rendendolo manifesto, lo negherebbe. Rendere un dono manifesto significa, per Derrida, suggerire già l’opportunità di una certa reciprocità, la quale, però, ridurrebbe il dono a un semplice scambio. La reciprocità resta la dimensione in cui ordinariamente pensiamo il dono e anche Derrida ammette che non si può prescindere da essa per dare principio alla comprensione di tale fenomeno. In tal senso la reciprocità è da un lato la condizione di possibilità e, nel contempo, d’impossibilità del dono. Allontanando il dono dallo scambio e mostrando il paradosso per cui il dono, se ce n' è, è invisibile, incondizionato, inconsapevole e non ricambiabile, Derrida mostra l'irrealizzabilità del dono nell'ordine della realtà fenomenica, ma al contempo ne salvaguarda la pensabilità noumenica.
Jean-Luc Marion in Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione (1997) individua un nesso tra essere e donazione stabilendo un'equivalenza tra dono e fenomeno: in questo senso egli riduce il dono gratuito e incondizionato alla pura forma della donazione e contemporaneamente eleva la donazione a principio ultimo e originario di ogni apparire. Il dono viene quindi letto come donazione, cioè come criterio interno ad ogni apparire, per cui l’originario darsi dei fenomeni è di fatto interpretabile come un donarsi delle cose alla nostra intenzionalità. Prima di ogni concreta pratica sociale del dono, la donazione è il concetto fondamentale della fenomenologia, il concetto che «le apre tutto il campo della fenomenalità», dal momento che «niente appare se non donandosi ad uno sguardo puro, e dunque il concetto di fenomeno equivale esattamente a quello di una donazione di sé in carne e ossa; la messa in scena del fenomeno si gioca come la rimessa di un dono»18.
Con Derrida e Marion l'attenzione passa alla gratuità del dono, con cui però si rischia di imbattersi in delle aporie: o il dono si offre come atto gratuito, ma diventa allora impossibile (Deridda) o purificato e coincidente con il modello della donazione (Marion); oppure decade in una forma di agire strumentale e interessato. In entrambi i casi abbiamo il medesimo esito: l'eliminazione del dono. Zanardo afferma che
18 Jean-Luc Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Società Editrice Internazionale, Torino, 2001, p. 30.
se il limite delle ricerche antropologiche sta nel fatto che esse restano nell'ambito delle determinazioni storico-geografiche senza un'indagine analitica sulle condizioni formali di queste istituzioni (ci forniscono però un materiale ricchissimo), il difetto delle indagini speculative dell'ontologia del dono (e della decostruzione) è l'irrigidimento del dono in una figura pura o ideale, formale o impossibile all'esperienza, che spesso ha poco a che vedere col dono così come lo sperimentiamo nella vita comune19.
La domanda allora diventa: come pensare la «tensione permanente fra generosità e interesse, dono e scambio»20? Come tenere insieme l'indagine speculativa con l'esperienza pratica del
dono?
Lo sforzo di tenere insieme teoria e prassi lo ritroviamo nelle teorie del riconoscimento elaborate, per esempio, da Hénaff e Ricoeur che tengono ben fermo il significato antropologico del dono senza per questo rinunciare a trarne delle importanti implicazioni filosofiche. Questi autori tentano di ripensare la relazione donante, attestata per via empirica dalle scienze umane, come il più potente modello esplicativo e normativo della dimensione etica e della realtà sociale. L'originario bisogno di riconoscimento, che è costitutivo dell'umano, è alla radice della formazione dell'identità, perché rafforza il senso dell'io e lo innesta in una circolarità intersoggettiva. In questo senso l'esperienza del dono è pensabile come la libera offerta di riconoscimento. Ne Il prezzo della verità. Il dono il denaro, la
filosofia, ampiamente citato da Ricoeur in Percorsi del riconoscimento, Hénaff afferma che il
dono nasce come modo di rischiare se stessi in direzione dell'altro allo scopo di legarsi con lui. Invece di partire dallo scambio di beni e dire che il dono appartiene al genere dello scambio, di cui rappresenta una variante, Hénaff, così come Ricoeur, propongono di partire dal bisogno di riconoscimento personale e sociale di ogni essere umano, che trova il suo luogo originario in quell'esperienza del volto altrui nel corso della quale, secondo Lévinas, si rende evidente l'irriducibilità dell'altro. Nel momento in cui siamo in grado di percepire l'irriducibile alterità del volto altrui, lo sottraiamo alla dimensione dell'utile e dell'economico, entrando in una sorta di intimità con lui e sacrificando qualcosa di noi stessi e della nostra libertà di soggetti autonomi, dal momento che diventiamo ostaggi del senso di responsabilità che l'altro suscita in noi.
In Ricoeur, ma anche in Axel Honneth, autore di Lotta per il riconoscimento, troviamo anche una seconda preoccupazione: come fare del mutuo riconoscimento l'opzione etica fondamentale? Come tenere insieme il per-sé e il per-altri, ossia come saldare le due richieste
19 Susy Zanardo, Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano, 2007, p. 25. 20 Alain Caillé, Op.cit., p. 94.
di riconoscimento, la mia e quella altrui? Lo scambio di doni e, quindi, di riconoscimento per un verso raffigura l'unica forma di transizione che può onorare convenientemente un'alterità che è fine in sé, ma per altro verso la gratuità incrocia l'esigenza orizzontale della reciprocità, ovvero necessita di una risposta. Si tratta allora di tracciare un continuum ai cui estremi troviamo i contrari dello scambio di equivalenti e del dono puro. Questa doppia natura del dono emerge anche dalle analisi linguistiche di Benveniste.
Ambiguità del dono
L'indeterminatezza del dono ha la sua origine nella storia dei linguaggi europei. Il campo semantico del dono si articola in una straordinaria varietà di significati espressi attraverso significanti anche molto diversi: dono, donazione, dote, regalo, presente, regalia, elemosina, offerta e così via, sono termini che si sovrappongono pur non essendo pienamente dei sinonimi. Mauss, nella conclusione del Saggio sul dono, afferma che i termini “presente”, “regalo”, “dono”, non sono del tutto esatti, ma semplicemente non ne troviamo altri.
L'indeterminazione di questo campo semantico emerge chiaramente nello studio comparativo delle lingue europee di Benveniste, il quale, in Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee (1969), ci ricorda che il vocabolario greco prevede «cinque termini distinti che
si traducono uniformemente con dono»21. Si tratta di dōs, dōron, dōreá, dósis e dōtinē. Dōs fissa l'idea del dare nella sua forma più astratta e generale, dōron sta per il dono oggetto,
dōreá designa «il fatto di portare, di destinare in dono» con valore verbale. Le cose si
complicano con il termine dósis, che è «una trasposizione nominale di una forma verbale al presente o […] al futuro»22. Rappresenta l'atto di offrire, ma designa anche un atto giuridico: «in diritto attico è l'attribuzione di un'eredità per volontà espressa al di fuori delle regole di trasmissione normale»23. Dósis prevede anche un uso medico, il fatto di offrire un medicamento, «da cui la quantità data di un rimedio, “la dose”, senza che intervenga nessuna idea di regalo o di offerta»24. Come già sottolineato da Mauss, il termine è poi passato nel termine germanico gift che indica tanto il dono, quanto il veleno mortale per l'organismo.
Dōtinē infine è il «termine più particolarizzato» indicante «un dono in quanto prestazione
contrattuale, imposta dagli obblighi di un patto, di un'alleanza, di un'amicizia, di un'ospitalità»25.
21 Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni europee, vol I: Economia, parentela, società, Einaudi, Torino, 2001, p. 48.
22 Ivi, p. 49. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem.
Se escludiamo dōs e dōreá, che rappresentano la forma verbale e l'accezione generale del dare, notiamo come il dono venga concepito in tre modi distinti: oggetto concreto, dono gratuito e prestazione contrattuale. Se già questo basta a mostrare la costante tensione del dono tra gratuità e reciprocità, notiamo anche che il concetto di dono è già compromesso al suo interno da una duplicità che lo sdoppia in strumento offensivo e in offerta di alleanza: il dono è, come il pharmakon, medicina e veleno al tempo stesso, a seconda dell'intenzione con cui viene offerto.
La stessa ambivalenza semantica si trova non solo nel latino hostis, che designa tanto l'ospite gradito quanto il nemico ostile, ma anche nel termine munus che, come spiega Esposito in
Communitas, indica «l'obbligo che si è contratto nei confronti dell'altro e che sollecita una
adeguata disobbligazione. La gratitudine che esige nuova donazione. […] Ciò che prevale nel munus è, insomma, la reciprocità, o “mutualità” del dare che consegna l'uno all'altro in un impegno, e diciamo pure in un giuramento comune»26. Se munus è un dono che obbliga allo scambio, immunis è colui che non tiene fede a quest'obbligo di restituire. Da qui ne deriva un'idea della comunità per cui communis, spiega Beneveniste, è chi ha in comune dei
munia, ovvero dei doveri o dei debiti, dei pegni o delle prestazioni da dare. Comunità è
quindi l'insieme di uomini coinvolti nel meccanismo delle compensazioni per cui un dono è impensabile in assenza di controdono.
Questa ambivalenza semantica richiama al paradosso a cui accennavo nella Presentazione: l'essenza del dono consiste nella gratuità quindi se c'è vincolo e condizionalità non si può parlare di vero dono, ma di fatto non esiste dono che non generi un'obbligazione e allora bisogna scegliere tra un dono puro e impossibile o un dono impuro e quindi non più tale. Cosa accade se ci situiamo ai due poli opposti di questa ambivalenza? Quali sono le estreme conseguenze di una concezione completamente pura e disinteressata del dono? Se si nega la gratuità umana ha ancora senso parlare di dono? Nel capitolo seguente, Bourdieu, Derrida e Marion ci aiutano ad approfondire la questione e a capire se considerare la gratuità e la reciprocità come nozioni contraddittorie non ci porti a delle aporie e ad una inevitabile eliminazione del dono.
Capitolo I
L'ambivalenza del dono: tra purezza e strumento di dominio
Le indagini del dono di Bourdieu, Derrida e Marion, seppur molto diverse tra di loro, ci consentono di mostrare le estreme conseguenze se situiamo il dono sul versante della reciprocità (Bourdieu) o sul versante della pura gratuità (Derrida e Marion). In entrambi i casi sembra che il dono perda qualcosa di essenziale: se, con Derrida e Marion, si innalza il valore della verticale e si assottiglia la dimensione dello scambio si lascia aperta la questione se l'annullamento della reciprocità sia compatibile e a quali condizioni con la “fatticità” dell'umano. Se, con Bourdieu, si nega la gratuità umana, sottolineando il versante interessato di ogni dono, esso si trasforma in strumento di sfida e di dominio tale da escludere ogni effettiva apertura all'altro. Ci si trova qui in una posizione opposta e complementare rispetto alla precedente: ci si muove sul piano orizzontale senza tener conto della verticale.
Il dono come illusione: P. Bourdieu
Sociologo con una formazione intellettuale ampia e complessa, Pierre Bourdieu ha tentato di coniugare la ricerca empirica con analisi teoriche su una grande quantità di fenomeni sociali, spaziando dagli studi etnografici in Algeria alla fotografia, dalle analisi dei sistemi scolastici alla critica del gusto. Ciò che unifica il variegato scenario delle sue indagini è l’intento di elaborare una scienza della pratica umana attraverso la quale condurre una rigorosa analisi critica del dominio. Attraverso la costruzione di un’economia generale delle pratiche, Bourdieu mette a punto una sorta di genealogia del dominio: attraverso l'analisi dei modi in cui il potere si instaura nelle strutture mentali dei soggetti, Bourdieu svela i dispositivi che si attivano nella relazione tra strutture oggettive e costruzioni soggettive, mostrando come le relazioni di dominio si incorporino negli attori sociali attraverso meccanismi strutturanti, prodotti dall’interiorizzazione delle strutture sociali oggettive.
In Ragioni pratiche e in Per una teoria della pratica Bourdieu affronta, più o meno direttamente, la questione del dono. Bourdieu è ben consapevole dell'ambiguità del dono, della sua “doppia verità”: da un lato l'esperienza del dono sembra rifiutare la logica dello scambio, richiamando la dimensione della gratuità e della generosità, ma dall'altro lato il dono non sembra escludere completamente la reciprocità e il calcolo. Provando a dare una soluzione a questa questione, Bourdieu inserisce il dono all'interno delle analisi delle forme simboliche e dei processi di riproduzione simbolica della società.
Gli spazi sociali dello scambio di doni, così come quello della produzione artistica, della famiglia e delle comunità ecclesiali, sono ambiti in cui lo scambio di beni è possibile in virtù di una rimozione collettiva dell’interesse economico, che produce una menzogna a se stessi collettivamente sostenuta. Nel capitolo È possibile un atto disinteressato?, contenuto in
Ragioni pratiche, Bourdieu afferma che tutte le azioni sono interessate, poiché indirizzate
verso un determinato profitto. Il disinteresse è, però, sociologicamente possibile in quegli spazi sociali in cui viene ricompensato, per cui si ha interesse (poiché se ne ricava un profitto, anche solo a livello di reputazione, onore e stima) a compiere atti disinteressati. Lo scambio di doni è proprio uno di quegli spazi sociali in cui si produce un interesse al disinteresse: più un dono è gratuito e disinteressato più la reputazione del donatore ne trarrà profitto.
Ma allora, se ogni dono è interessato (seppur al disinteresse), come si può spiegare il fatto che molte persone vivono il loro atto di donare come gratuito, generoso e non destinato ad essere ricambiato? Proprio qui Bourdieu mette in evidenza un aspetto fondamentale del dono, che verrà ripreso anche da Derrida, seppur sotto una luce diversa: l'intervallo di tempo che divide il dono dal controdono, ossia il fatto che, come è tacitamente ammesso in quasi tutte le società, restituire subito un dono sarebbe l'equivalente di un rifiuto. L'intervallo di tempo permette a due atti perfettamente simmetrici di sembrare unici e senza rapporto tra di loro: chi dà può vivere il suo dono come unilaterale e chi ricambia può vivere il controdono come gratuito, non motivato dal dono iniziale o, per dirla con Ricoeur, come un “secondo primo inizio”.
L'esistenza dell'intervallo temporale, continua Bourdieu, è comprensibile solo se si ipotizza che chi dà e chi riceve concorrono, senza esserne consapevoli, ad un'opera di dissimulazione che nega la verità dello scambio. Quest'opera di disconoscimento collettivo dell'ambito strettamente economico spiega anche il tabù dell'esplicitazione: dire come stanno le cose, dire la “verità del prezzo” di un dono, equivale ad annullare lo scambio. Il silenzio sulla verità dello scambio è condiviso: so bene che il dono comporta attesa e ritorno, ma non lo esplicito. Questa menzogna collettiva è possibile solo perché la rimozione è inscritta, a titolo di illusione, alla base dell'economia dei beni simbolici che sospende la logica economica dell’interesse al guadagno ed entra in un ordine logico in cui l’interazione produce fiducia, fiducia nel fatto che la propria generosità verrà ricompensata. Secondo Bourdieu nessuno ignora la logica dello scambio, così come non vi è nessuno che non accetti di piegarsi alla regola del gioco, che consiste nel fare come se si ignorasse la regola. In virtù del tabù dell'esplicitazione, gli agenti sociali sono sia ingannati che ingannatori, ma ciò è possibile
solo perché sono sempre stati immersi in un universo sociale in cui lo scambio di doni è socialmente istituito in delle disposizioni e in delle credenze che ci impongono di donare senza intenzione o calcolo di profitto.
L'economia dei beni simbolici poggia su determinate disposizioni che costituiscono l’habitus sociale. Esso consiste in una serie di competenze, capacità e atteggiamenti che il soggetto incorpora dall'ambiente sociale in cui è nato e cresciuto. La maggior parte delle azioni umane han come principio delle disposizioni acquisite, in virtù delle quali l'azione viene interpretata come orientata verso un determinato fine, senza che per questo si possa dire che ha avuto come principio il perseguimento consapevole di quel fine:
Il miglior esempio di disposizione è senza dubbio il senso del gioco: il giocatore che ha profondamente interiorizzato le regolarità del gioco fa quello che va fatto nel momento in cui va fatto e non ha bisogno di porsi esplicitamente come fine quello che c’è da fare. Non gli occorre sapere consapevolmente quello che fa per farlo, e tanto meno porsi esplicitamente il problema di sapere esplicitamente che cosa gli altri possono fare in risposta27.
Abbiamo visto come la struttura temporale del dono autorizza la menzogna a se stessi, collettivamente sostenuta e approvata, la quale costituisce la condizione per il funzionamento dello scambio simbolico. L'inganno deliberato e l'occultamento dell'intenzione di donare sono la testimonianza di un atteggiamento strategico del dono come forma di capitalizzazione più raffinata attraverso il tempo. Chi risponde alle attese collettive, chi, senza nemmeno dover calcolare, è in linea con le esigenze richieste da una situazione, gode di tutti i profitti del mercato dei beni simbolici: il profitto della virtù, ma anche quello della spontaneità e dell'eleganza.
Alla radice del dono generoso si ha una disposizione che tende, senza alcuna intenzione esplicita o espressa, alla conservazione o all'aumento del capitale simbolico. Esso dà origine alle forme di classificazione abituali della vita sociale, rendendo possibile la produzione di un mondo comune dotato di senso, ma sopratutto legittima i rapporti di potere. Non a caso Bourdieu mette l'accento sull'obbligo di contraccambiare in cui il dono mostra il suo carattere “pericoloso”, il suo essere «una iattura, perché bisogna restituirlo»28. I doni sono “messi sulle
spalle” di chi li riceve, che potrà liberarsi del peso solo dimostrando nei fatti di poter donare a sua volta più di ciò che ha ricevuto. Il dono è gravido di minaccia: costringe a restituire e a restituire di più; inoltre crea obblighi, è un modo di legare gli altri rendendoli debitori.
27 Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 163. 28 Ivi, p. 159.
Sottolineando la dimensione agonistica del dono, Bourdieu si rifà soprattutto al dono arcaico, il quale non è mai in funzione della gratuità né pretende di essere disinteressato: semmai è espressione della grandezza del donatore che viene spinta fino alla magnificenza, la quale inscrive il dono nella dimensione agonistica del potlach. Il dono diventa un gesto ostentatorio in vista della massima visibilità sociale possibile, al punto che esso viene a rappresentare anche un modo non cruento per gestire la rivalità violenta tra gruppi sociali. L'immaginario del potlach è permeato da metafore di violenza e di sopraffazione: si organizza un potlach per “schiacciare”, “appiattire” un rivale, per “metterlo all'ombra del proprio nome”.
Ma ci si può legittimamente domandare se, per quanto legata a quella particolare istituzione, questa interpretazione non sveli qualcosa di più generale riguardo a ciò che avviene quando si dona. La violenza e l'aggressività pubblicamente esibite dal potlach vengono considerate da Bourdieu come violenza simbolica, concetto che indica la collaborazione attiva dei dominati nei meccanismi della dominazione. Essa si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante poiché, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto degli strumenti di conoscenza che ha in comune con lui, i quali, essendo semplicemente forme incorporate dei rapporti di potere esistenti, fanno apparire questo rapporto come naturale.
Questo processo porta alla trasformazione delle relazioni di dominio e di sottomissione in relazioni affettive per cui il riconoscimento del debito si trasforma in riconoscenza. La libertà del soggetto sembra esistere solo a condizione che l'altro ne sia privato, ed è proprio sull'altro che viene caricato il peso del debito, secondo le due modalità appena descritte: da un lato si vincola all'obbligo del controdono, dall'altro lato esiste il vincolo, per certi versi ancor più insopportabile, della gratitudine.
Se le analisi di Bourdieu hanno il merito di mettere in evidenza due aspetti fondamentali del dono, l'intervallo di tempo e il tabù dell'esplicitazione, dall'altro lato la riduzione del dono a strumento di potere rischia di distruggere la disposizione alla relazionalità: la relazione di dono diviene una relazione con sé che usa come medio non solo l'oggetto, ma anche l'altro soggetto, che quindi cessa di essere considerato un fine in sé.
Se con Bourdieu abbiamo visto cosa succede se eliminiamo l'elemento di gratuità del dono, occorre vedere con Derrida e Marion cosa succede se consideriamo il dono come assoluta gratuità, eliminando ogni sospetto di strategicità. Questo perché l'esperienza del dono sembra richiamare la nozione di gratuità in quanto «esiste al di là del compito di dover produrre o riprodurre dei rapporti sociali fondamentali, comune a tutti i membri della società»29. Le 29 Susy Zanardo, Op. cit., p. 18.
posizioni di Bourdieu e Derrida, per quanto le loro analisi procedano su percorsi opposti, in realtà arrivano ad un medesimo esito: l'eliminazione del dono. Ridotto a illusione in Bourdieu e confinato all'impossibilità da Derrida, sarà Marion, su suolo fenomenologico, ha reagire contro tale annullamento del dono, mostrando che di dono ce n'è.
Con Derrida e Marion il tema del dono entra in ambito filosofico, in cui si sposta l'attenzione dalla struttura sociale del dono al modo d'essere della donazione, mettendo a fuoco la categoria della gratuità che esprimerebbe la qualità umana della relazione. In Il legame del
dono Susy Zanardo precisa che la tematica del dono entra in filosofia attraverso il concetto
husserliano di Gegebenheit. Questa intuizione originaria dei fenomeni nella loro presenza immediata viene assunta a “principio dei principi” della fenomenologia. Seguendo Marion, si può affermare che
la fenomenologia comincia nel 1900-1901 perché, per la prima volta, il pensiero vede […] l'apparire non più come un “dato di coscienza”, ma piuttosto come la donazione alla coscienza […] della cosa stessa, data nel modo dell'apparire e in tutte le dimensioni di quest'ultimo (intuizione, intenzione e loro variazioni)30.
La nozione di dono si confronta quindi con il problema dell'essere dei fenomeni:
la cosa è già ben presente nella fenomenologia di Husserl, ove l'essere che si manifesta, il “fenomeno”, sta tutto nella sua Gegebenheit, nel fatto che si dà, nella sua donation, come Marion ha voluto tradurre in francese il termine tedesco husserliano, facendo così risuonare, in modo avvincente, quel tanto di “dono” (Gabe) che nel geben (dare/donare) della Gegebenheit è indubbiamente nascosto31.
Tuttavia è soprattutto con Heidegger che la manifestazione dell'essere si mostra «nella sua verità e nel suo senso ultimo come una vera e propria donazione»32. Già in Essere e tempo,
ma in modo ancora più significativo nella seconda fase dei suoi studi, egli si propone di connettere il tema della donazione, dell'es gibt, alla questione dell'essere. Con i Contributi
alla filosofia del 1936-38, usciti postumi nel 1989, e con la conferenza Tempo ed essere del
1962, Heidegger riconduce l'Ereignis all'ordine del donare e del dono. La differenza tra l'ente, ossia la cosa data, e l'essere, inteso come il movimento di donazione originaria, è ciò
30 Ivi, p. 16. 31 Ibidem. 32 Ivi, p. 17.
che «fa percepire nel dato una profondità ontologica»33. Questa profondità è quella della
donazione che porta innanzi l'ente mentre si ritira dal contenuto della manifestazione stessa. L'essere viene dunque associato a ciò che originariamente si dona: l'es gibt. Per accedere all'essere bisogna seguirne la ritrazione, ovvero il suo darsi, che rende l'ente rilasciato un “donato”. Il darsi dell'essere è l'Ereignis che, portando l'essere all'aperto, lascia essere l'ente e, al tempo stesso, si ritira da ogni presenza e dalla relazione con ciò che è lasciato essere. Le tradizioni husserliana e heideggeriana che, seppur in maniera diversa, istituiscono un nesso tra essere e donazione, vengono riprese da Derrida e Marion. Entrambi sottolineano la dimensione della gratuità del dono, respingendo ogni lettura economica del dono. Così facendo però tendono ad irrigidire il dono in una figura pura e impossibile nell'esperienza, allontanandolo dal modo con cui noi lo sperimentiamo nella vita quotidiana.
Il dono impossibile: J. Derrida
L'opera in cui Derrida si sofferma maggiormente sulla figura del dono, nonostante tracce di questo tema si ritrovino anche in altre opere, come Donare la morte e Sull'ospitalità, è
Donare il tempo. Quest'opera si snoda in quattro capitoli, i quali ripercorrono il ciclo di
conferenze tenute all'università di Chicago nel 1991. In questo testo Derrida, pensando il dono come assoluta gratuità, non può non scontrarsi con i paradossi che nascono quando si parla della gratuità del dono e del rapporto che esso intrattiene con la sfera economica e temporale. Il paradosso del dono consiste nel fatto che, se il dono resta nello scambio, esso sparisce come dono, ma il dono non può che apparire in un contesto di scambi. Afferma Zanardo in Il legame del dono:
Così posto il problema, il dono cade in un'aporia: o è negato fenomenologicamente (perché assorbito nell'esperienza dello scambio) o è negato analiticamente (il dono si definisce per il toglimento della logica economica, ma il toglimento della stessa decreta la sparizione del dono, se è vero che fenomenologicamente appare solo nelle transazioni)34.
Non entrando nel dettaglio della complessità del pensiero di Derrida e dei suoi rapporti con la fenomenologia, mi soffermerò su quelli che ritengo essere i tre punti fondamentali per comprendere il paradosso del dono prima accennato: il rapporto dono-economia, il rapporto dono-tempo e infine il rapporto dono-pensiero.
La prima tesi sostenuta da Derrida è che il dono, per essere tale, deve rompere con
33 Ibidem. 34 Ivi, p. 212.
l'economia e con la reciprocità del dare-avere: il dono in quanto dono non è mai uno scambio. Sostenendo questa tesi, Derrida non può fare a meno di confrontarsi con il pensiero economico del dono a partire dal Saggio sul dono di Mauss. Pur distaccandosi in maniera netta dalla tradizione antropologica, ciò che Derrida apprezza del pensiero di Mauss è il fatto che, oltre che ad aver riabilitato le pratiche del dono in opposizione alla fredda razionalità economica del capitalismo, egli sarebbe anche riuscito a valorizzare il dono in chiave etico-politica: non solo il dono viene considerato come un valore in se stesso, ma anche come produttore di valori. Positivo è, secondo Derrida, il fatto che Mauss abbia considerato il dono come una struttura universale attraverso cui si stringono alleanze al fine di consolidare il legame sociale. Infine Derrida apprezza l'intuizione di Mauss riguardo all'ambiguità del dono, che viene pensato tra economia e follia, cioè tra il luogo dello scambio e il luogo di tutto ciò che sfida la logica della reciprocità e della simmetria. Nel pensiero maussiano il dono è inserito in un singolare double bind, in un legame senza legame:
da una parte - ci ricorda Mauss - non c'è dono senza legame, senza bind, senza bond, senza obbligazione o legatura; ma d'altra parte non c'è dono che non debba slegarsi dall'obbligazione, dal debito dal contratto, dallo scambio, dunque dal bind35.
Nonostante Mauss teorizzi il dono come doppio legame tra obbligo e libertà, intenzione e gratuità, di fatto, secondo Derrida, egli riduce la pratica del dono alla logica dell'equivalenza e del calcolo: il dono è in funzione del pubblico riconoscimento e della posizione nella gerarchia. In questo senso Derrida afferma che il Saggio sul dono, pur spacciandosi per un saggio che ha come oggetto il dono, in realtà si rivela un saggio sul prendere: «non si sa se bisogna prenderlo per […] come si dà, o per ciò per cui esso si spaccia, dal momento che ciò che fa pensare o leggere è che donare deve essere equivalente a prendere»36.
Derrida si separa in modo brusco e preciso dalle posizioni delle «antropologie e metafisiche del dono» che hanno «trattato insieme, come un sistema, il dono e il debito, il dono e il ciclo della restituzione, il dono e il prestito, il dono e il credito, il dono e il controdono»37. Al contrario, per Derrida il dono deve rompere con la circolarità dell'economico: il dono non deve ritornare al donatore, non deve circolare, non deve esaurirsi nel processo dello scambio. Se il circolo è la figura essenziale dell'economico, in quanto il punto di arrivo coincide con il punto di partenza, il dono deve rompere tale circolarità per rimanere “aneconomico”. Subito
35 Jacques Derrida, Donare il tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 29. 36 Ivi, p. 83.