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Dal cucchiaio alla città

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Academic year: 2021

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Jean-Jacques Terrin Jean-Jacques Terrin è architetto, dottore di ricerca e direttore di ricerca presso dell’École d’Architecture de Versailles. La sua carriera accademica nel campo della didattica e della ricerca ha visto una progressiva crescita: iniziatore e poi direttore del Dipartimento «Génie des systèmes urbains» presso l’Université de Technologie de Compiègne (1998 - 2003); professore dell’École Nationale Supériere d’Architecture de Versailles (2003 - 2012) e direttore del laboratorio di ricerca della stessa scuola (2009 - 2012); attualmente direttore di ricerca e professore emerito..

Dal cucchiaio alla città

La celebre espressione di Ernesto Nathan Rogers ben rappresenta l’approccio che, secondo l’autore, ogni architetto dovrebbe adottare. Diversamente dalla maggior parte degli architetti, i designer amano tessere rapporti di fiducia e creatività con i futuri utilizzatori dei loro prodotti e sono inclini al lavoro collaborativo, specialmente nell’ambito della produzione artigianale e industriale. L’architetto dovrebbe prendere ispirazione da questo modus operandi, mediante l’attivazione di processi collaborativi e transdisciplinari, l’elaborazione di nuovi approcci partecipativi e l’adozione di strumenti e metodi per una migliore gestione della complessità. Prestando maggiore considerazione ai fattori umani e antropologici e imparando ad ascoltare gli altri, si potrebbe giungere a un’evoluzione radicale delle pratiche architettoniche.

From the spoon to the town

The famous expression of Ernesto Nathan Rogers well represents an approach that, according to the author, every architect should adopt. Unlike the majority of architects, designers love to build relationships of trust and creativity with the future users of their products and are prone to collaborative work, especially in the field of manual craft and industrial production. Architects should take inspiration from said modus operandi, by adopting cooperative and trans-disciplinary processes, developing participatory approaches and embracing new methods to better manage complexity. By paying more attention to human and anthropological factors and by learning to listen to others, it may be possible to radically revolutionize architectural practices.

Intervista e traduzione dal francese a cura di Cecilia Mazzoli

Parole chiave: Collaborazione; Transdisciplinarietà;

Dimensione; Partecipazione; Metodologia.

Keywords: Collaboration; Cross-disciplinary

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Riferendosi alla vulgata albertiana che impone al progetto architettonico necessitas, commoditas e voluptas, desidero avanzare due considerazioni prima di rispondere alla domanda.. Da un lato, si può constatare che i tre precetti di Alberti rimangono più che mai attuali, portando perfino a riconoscere che non c’è effettivamente niente di nuovo sotto il sole. Dall’altro lato, invece, si può affermare che la produzione architettonica contemporanea risponde a tali dettami soltanto in proporzioni ridotte. Si potrebbe persino affermare che, contrariamente alla produzione relativamente omogenea dell’epoca barocca o di quella del XIX secolo, l’eterogeneità e la povertà della maggior

parte della produzione architettonica dell’inizio del XXI si colloca agli antipodi dell’ideale albertiano.

Per rispondere alla domanda di cui sopra, occorre aggiungere che le sfide attuali dello sviluppo sostenibile cambiano significativamente la situazione. Una tripla crisi economica, energetica ed ambientale scuote profondamente i fondamenti albertiani per la progettazione architettonica. La responsabilità che gli operatori del settore sono tenuti ad assumersi per affrontare queste problematiche impone alcuni cambiamenti radicali nei metodi di progettazione, di realizzazione e di manutenzione delle opere architettoniche,

Qual è la sfida fondamentale che il progetto d’architettura è chiamato a risolvere oggi? C’è qualcosa di nuovo sotto il sole?

delle infrastrutture o degli spazi pubblici. Le due domande che devono essere indirizzate a questi attori dimostrano l’entità di tali cambiamenti: 1) “In che modo ponete l’uso e gli utenti al centro del vostro progetto?” e 2) “Come concepite la capacità di adattamento della vostra realizzazione nel corso dei prossimi 30 anni?”. Per rispondere a tali questioni, occorre attivare approcci collaborativi e transdisciplinari, elaborare e promuovere nuovi processi partecipativi ed adottare strumenti e metodi che consentano una migliore gestione della complessità, conducendo ad un’evoluzione radicale di cui i professionisti pare non siano ancora coscienti.

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Questa domanda contiene una certa dose di ambiguità. Si riferisce al ruolo dell’architettura oppure a quello dell’architetto? È evidente che la controversia non sia innocente ed intenda rivolgersi alla posizione che l’architetto assume in relazione a ciò che considera come sua opera. L’architettura gioca un ruolo essenziale nella concezione della città contemporanea. Le forme urbane cui l’architettura dà origine rendono la città abitabile in tutte le accezioni del termine. Esse rappresentano una parte fondamentale del suo fascino, contribuiscono alla qualità urbana dei suoi spazi pubblici ed assicurano il comfort dei suoi abitanti, siano essi residenti, lavoratori, studenti, turisti, etc. Le

stesse forme urbane permettono di ridurre il consumo energetico, di combattere i cambiamenti climatici e le emissioni di gas ad effetto serra e di ridurre il fenomeno delle isole di calore urbano. Naturalmente si potrebbe invertire il senso di queste affermazioni, constatando che, lungi da contribuire a queste varie virtù, l’architettura può talvolta aggravare la situazione.

Quanto all’architetto, il suo ruolo non corrisponde più a quello per cui si è formato nelle nostre scuole, ossia quello di un eroe carismatico affiancato ad un artista. Dedalo è morto, almeno il Dedalo demiurgo e illusionista. Rimane il Dedalo inventore della tecnologia, mediatore tra la natura e l’uomo,

In relazione al disegno per la città contemporanea: quale ruolo per l’architettura nella gestione dei fenomeni urbani?

tra i numeri e la materia, tra i prodotti ed il processo. In linea con quest’ultimo modello, l’architetto contemporaneo potrebbe svolgere un ruolo che lui solo sarebbe in grado di assumere, per via della sua formazione e della sua presumibile cultura: non quello del direttore d’orchestra d’altri tempi che lo rivendica ancora senza averne i mezzi, ma quello del visionario capace di proiettarsi in un mondo che risponderà di volta in volta alle esigenze dei suoi abitanti e alle prestazioni necessarie per lottare contro il degrado di un territorio moribondo, come viene descritto da Alberto Magnaghi, con l’insistenza che gli è nota.

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Questa domanda si riferisce ad una delle mistificazioni ereditate dalle utopie del XX secolo, che potrebbe essere formulata nella forma seguente: « La progettazione architettonica permette di affrontare tutto, dalla città al cucchiaino ». Per quanto riguarda la città e la totalità degli aspetti urbani coinvolti nell’ambito della presente domanda, un repertorio contemporaneo significativo può dimostrare che spesso l’architetto si rivela un pessimo urbanista. Ma concentriamoci sul cucchiaino. Certamente, numerosi oggetti industriali di qualità sono stati concepiti da architetti, fra cui, per restare in Italia, occorre citare Carlo Scarpa e Giò Ponti. Tuttavia, pensare

che il mondo del design prenda in prestito gli stessi metodi di progettazione impiegati in architettura significa fraintenderlo. In primo luogo, contrariamente alla maggior parte degli architetti che tende a reinventare il mondo ad ogni progetto, il designer fonda generalmente il suo approccio progettuale su una valorizzazione del proprio patrimonio, coltivando una “camera delle meraviglie” che arricchisce sia i suoi progetti precedenti, sia le sue esperienze multisensoriali e le sue collaborazioni industriali. In secondo luogo, contrariamente all’architetto, che spesso si dimostra diffidente, il designer ama tessere rapporti di fiducia e di creatività con i futuri utilizzatori dei suoi prodotti. Il designer

scambio sia operativo che percettivo: edifici vengono concepiti come oggetti, e oggetti vengono concepiti da chi progetta edifici. Tra architettura e design si possono precisare confini? E quali intersezioni?

è anche avvezzo al lavoro collaborativo, specialmente nell’ambito della produzione artigianale e industriale, mentre l’architetto talvolta dà l’impressione di gioire soltanto nella sua torre d’avorio. Infine, il designer si affianca molto spesso ad un artigiano per giungere al prototipo, cosa che accade difficilmente all’architetto. Queste differenze dimostrano come la pratica dei designers si discosti da quella della maggior parte degli architetti, i quali potrebbero indubbiamente trarne ispirazione apprendendone qualche insegnamento.

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Infine un consiglio agli studenti: qual è oggi il principale strumento che il progettista deve acquisire negli anni della sua formazione?

Innanzitutto rivolgiamo l’elogio alle formazioni in architettura che permettono agli studenti ad acquisire una competenza unica, in mancanza di uno strumento metodologico efficace: essi imparano, infatti, a lavorare per progetti, ossia ad arrestare l’enorme complessità di un qualunque programma, a rappresentarlo in uno spazio virtuale, ed in seguito a materializzarlo nello spazio reale. Nessun’altra formazione è attualmente in grado di garantire questo apprendimento, e la maggior parte delle discipline tecniche invidia questo aspetto agli architetti.

Purtroppo l’elogio si arresta qui, poiché tale apprendimento si scontra con una

grande ignoranza nel campo degli strumenti concettuali che sembrano necessari per la gestione di questa complessità. Per Edgar Morin «la complessità appartiene al contempo al tessuto comune e all’incertezza». Ai nostri studenti non insegniamo abbastanza a cogliere questo « tessuto comune », che richiederebbe una maggiore considerazione del fattore umano, che passerebbe per una buona conoscenza degli aspetti antropologici e che educherebbe meglio all’ascolto degli altri e alla mediazione. D’altro canto, non trasmettiamo agli studenti i sufficienti strumenti numerici per affrontare la gestione del rischio e dell’incertezza che ne deriva. La

strumentazione digitale dell’architetto non può limitarsi ad un semplice ruolo di tavola da disegno digitale, come spesso accade. Una nuova generazione di tecnologie maggiormente sofisticate potrebbe offrire ai progettisti una vasta gamma di strumenti per comunicare, simulare, rappresentare, utilizzare oggetti e dati connessi tra loro, che potrebbero sconvolgere in breve tempo le pratiche dell’architettura. È indispensabile che i giovani architetti familiarizzino con questi due paradigmi, radicati uno nell’etnometodologia e l’altro nella tecnologia digitale, e che imparino a fonderli in una metodologia da loro ideata.

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