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Variazioni della pressione intraoculare in pazienti sottoposti a DSAEK

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Academic year: 2021

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INDICE

Premessa……….………..1

Capitolo 1: La cornea Anatomia e fisiologia della cornea……….……….2

Capitolo 2: La Distrofia di Fuchs Generalità………5 Classificazione………6 Prevalenza………...…9 Condizioni Associate………10 Eziopatogenesi………..11 Istologia……….……14 Genetica………...16 Fisiopatologia ………...17 Sintomatologia……….….21 Diagnosi Differenziale……….………….22

Capitolo 3: Il Trattamento Chirurgico Storia………...24 Indicazioni……….31 Controindicazioni………..32 Considerazioni Speciali……….32 Procedura……….………..37 Outcome………42 Complicanze………..46

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Capitolo 4: Materiali e metodi

Selezione della popolazione……….51

Strumentazione……….…………52

Metodi statistici………62

Capitolo 5: Risultati Descrizione della popolazione………..………65

Tono e fattori………..……….……..68

Tono e controlli………...………..70

Pachimetria. ………...………73

Capitolo 6: Finalità, Discussione e Conclusioni Scopo dello studio……….………75

Discussione……….………..76

Conclusioni ……….………..81

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PREMESSA

Tradizionalmente le malattie corneali sono suddivise in degenerative e distrofiche. La malattia di Fuchs è una delle più gravi distrofie endoteliali. Nella sua progressione porta inevitabilmente ad una riduzione delle cellule endoteliali, alterando di fatto la capacità del tessuto corneale di mantenere la corretta idratazione ed il corretto trofismo degli strati, che lo compongono.

La distrofia di Fuchs ha una prevalenza stimata che si attesta attorno al 4% della popolazione ed è una delle principali indicazioni per il trapianto corneale.

La DSAEK è una tecnica di trapianto di recente concezione, figlia di una lunga evoluzione nelle tecniche lamellari, che consistono in una escissione selettiva dei tessuti affetti, mantenendo l’integrità strutturale degli altri strati che compongono la cornea.

In questo studio, operata una distinzione tra pazienti con pregressa diagnosi di glaucoma e pazienti non glaucomatosi, abbiamo analizzato le variazioni della pressione intraoculare nel postoperatorio, evidenziando eventuali correlazioni statisticamente significative.

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CAPITOLO 1

LA CORNEA

Anatomia e fisiologia della cornea

La cornea, primo elemento dell’apparato diottrico dell’occhio, costituisce il segmento anteriore della tonaca fibrosa. Posteriormente continua con la sclera, da cui è separata per mezzo del limbus sclerocorneale e dalla quale differisce per raggio di curvatura, struttura e funzioni. La faccia anteriore, a contatto con la congiuntiva palpebrale, è convessa, mentre la superficie posteriore, concava, delimita anteriormente la camera anteriore dell’occhio.

La cornea, come mostra la figura a lato, è costituita da cinque strati sovrapposti, rispettivamente dall’esterno all’interno:

1. epitelio corneale

2. lamina limitante anteriore (di Bowman)

3.stroma corneale o sostanza propria

4.lamina limitante posteriore (di Descemet) 5. endotelio.

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L’epitelio pavimentoso composto corneale è costituito da 6-8 strati di cellule dotate di grande plasticità ed elasticità, le quali sono in grado di trattenere il film lacrimale, che le idrata costantemente tramite le fini interdigitazioni della superficie. Perifericamente l’epitelio corneale prosegue nell’epitelio della congiuntiva bulbare.

L’epitelio corneale, pavimentoso pluristratificato poggia su una tipica membrana basale. Vi si distinguono:

• le cellule superficiali piatte, che al microscopio elettronico mostrano verso l’esterno la presenza di sottili digitazioni, la cui funzione primaria sembra quella di trattenere il velo lacrimale, che costantemente le bagna;

• le cellule intermedie, disposte in 3-5 strati, le più superficiali delle quali si presentano assai estese in superficie e prendono il nome di cellule alari, mentre le altre hanno forma clavata;

• le cellule basali alte, prismatiche, ricche in tonofibrille unite tra loro da desmosomi.

La lamina elastica anteriore, acellulata, è formata da fibrille collagene intrecciate per uno spessore di 12 µm.

Lo stroma è un connettivo denso con fibre collagene, separate da una matrice di mucopolisaccaridi ed organizzato in lamelle disposte in circa 50 piani paralleli. All’interno dello stroma, tra le lamelle, sono presenti i cheratociti. La matrice di polisaccaridi e le fibre collagene hanno lo stesso indice di rifrazione, pertanto essa omogeneizza il collagene rendendo le lamelle trasparenti. Lo stroma è lo strato più spesso dell’intera struttura corneale, contiene una grande quantità d’acqua e

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permette alle sostanze nutritive di raggiungere anche gli strati più superficiali (un’eccessiva o una deficitaria quota d’acqua determina un’opacizzazione della cornea).

La membrana di Descemet, spessa circa 10 µm, è una struttura elastica acellulare, costituita da fibre collagene disposte in maniera raggiata. Omogenea e trasparente, costituisce la membrana basale per l’endotelio. Ha uno spessore compreso tra gli 8 ed i 14 micron e perifericamente si unisce alle trabecole del limbus sclerocorneale.

L’endotelio, infine, situato nella porzione più interna della cornea, è costituito da un singolo strato di cellule poligonali ricche di mitocondri, che ne testimoniano l’intensa attività. Il tessuto, costituito dalle cellule endoteliali, si comporta come una barriera selettiva, che consente a nutrienti e soluti dell’umor acqueo di raggiungere tutto lo spessore della cornea. Si deve però a pompe Na-K, localizzate sul versante baso-laterale di queste cellule, la genesi del gradiente, che muove l’acqua contenuta nello spessore corneale in senso opposto. Questa duplice attività dell’endotelio ha lo scopo di mantenere il trofismo e la trasparenza dell’intero spessore corneale. Qualora, infatti, sia intaccata l’integrità funzionale di queste cellule, la cornea svilupperà edema, alterazioni del trofismo e perdita della trasparenza.

La cornea è priva di vasi sanguigni (il nutrimento arriva dai vasi del limbus, rami delle ciliari anteriori e dall’umore acqueo a contatto con la faccia concava) ma è riccamente innervata da rami dei nervi ciliari, che al livello del limbus formano il plesso anulare, dal quale si dipartono le fibre radiali, che decorrono all’interno dello stroma e sono responsabili della spiccata sensibilità di questa zona [Balboni 2000].

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CAPITOLO 2

LA DISTROFIA DI FUCHS

Generalità

L’oftalmologo austriaco Ernst Fuchs fu il primo a descrivere nel 1902 un difetto del funzionamento delle cellule endoteliali [Fuchs 1910].

Figura 1- Cornea fortemente edematosa ed opacizzata per scompenso endoteliale

La cornea dei pazienti (figura 1) esaminati appariva opacizzata, edematosa ed era spesso possibile evidenziare sulla sua superficie la presenza di molteplici bolle o guttae (dal latino gutta, goccia), cui erano associati dolore e riduzione dell’acuità visiva. Microscopicamente la cornea manifestava alterazioni morfologiche del mosaico di cellule poligonali che compongono l’endotelio, con aumento di deposizione di

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matrice a livello della membrana del Descemet e contemporanea diminuzione della densità cellulare.

Classificazione

La distrofia endoteliale di Fuchs (FECD) può avere un esordio precoce (early onset, EO) e rendersi evidente intorno alla terza decade, oppure manifestarsi nella sesta decade (late onset LO).

Alla microscopia corneale essa viene solitamente divisa in quattro stadi di progressione [Waring 1982, Adamis 1993]:

nel primo stadio, in sede centrale si rilevano guttae isolate, le quali possono esser descritte come collinette, che originano dalla membrana di Descemet. Le guttae inizialmente appaiono sull’immagine riflessa speculare come diffuse lesioni scure, isolate, distinte, di dimensioni minori rispetto alle cellule endoteliali. All’interno della zona centrale endoteliale è presente una fine spolveratura di pigmento. In questo stadio i pazienti sono asintomatici, l’acuità visiva è normale, mentre non sono coinvolti né lo stroma né l’epitelio corneale.

Successivamente, al secondo stadio le guttae aumentano di numero, nonché di dimensioni e si uniscono fra loro dal centro verso la periferia della cornea. In questa fase si assiste ad un ispessimento dello strato endoteliale, con cellule che cambiano forma e diminuiscono progressivamente di numero (il numero delle guttae è infatti inversamente proporzionale alla densità endoteliale). Ciò produce una superficie ruvida, la cui immagine riflessa ricorda il ferro battuto. In

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questa fase i pazienti iniziano a manifestare una diminuzione dell’acuità visiva, dovuta all’aumento del contenuto idrico dello stroma, riferiscono visione offuscata, abbagliamento, visione di aloni colorati intorno alle fonti luminose (figura 2). Il difetto visivo è maggiore al mattino, a causa della ridotta osmolarità delle lacrime, secondaria alla riduzione dell’evaporazione delle lacrime durante il sonno e migliora gradualmente durante il giorno. Inizialmente l’edema si trova davanti alla membrana di Descemet e dietro la Bowman, poi l’interstroma si gonfia, assumendo un aspetto a vetro smerigliato, con aumento dello spessore corneale e formazione di pieghe a carico dello stroma profondo e della Descemet.

Nel terzo stadio si ha un vero e proprio edema, il quale, attraverso lo spessore della cornea raggiunge l’epitelio, con conseguente formazione delle bolle [Adamis 1993], la cui rottura provoca dolore intenso [Bourne 1995] ( così come descritto dai pazienti di Fuchs), nonchè rischio di infezioni.

Infine, nel quarto stadio, la cornea diventa francamente opaca. L’esposizione cronica all’edema ed il processo infiammatorio causano, unitamente ad una consistente angiogenesi [Adamis 1993, Bourne 1995], la deposizione di materiale fibroso. In questa fase la vista cala ulteriormente, aumenta l’opacizzazione, mentre il dolore generalmente è assente.

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Figura 2 - Le alterazioni del mosaico endoteliale e la formazione di edema alla base della patogenesi della “blurred vision”.

Sono state descritte anche forme interessanti in assenza di guttae [Lloyd 1944, Abbot 1981, Wilson 1988], forme secondarie a traumi [Waring 1982], a tossine [Kuwabara 1968] e ad infezioni [Renard 1981, Kanai 1982].

Esiste una nuova classificazione, (ICD3) che divide la patologia in quattro gruppi, ognuno dei quali rispecchia le diverse caratteristiche genetiche e patologiche [Weiss 2008].

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Nel primo gruppo rientrano le forme di distrofia corneale, nelle quali sia il gene responsabile, sia la specifica mutazione sono stati identificati. A questo gruppo appartiene la Early Onset (EO) FECD, che coinvolge il gene COL8A2. La EO FECD si sviluppa a partire dalla prima decade di vita e si rende manifesta intorno alla seconda, terza decade.

Il secondo gruppo comprende quelle forme di FECD, delle quali sono stati mappati uno o più loci cromosomici, pur restando non identificato il gene responsabile. Alcuni studi hanno individuato, per alcune di queste forme di FECD, un meccanismo di trasmissione autosomico dominante. [Magovern 1979, Rosenblum 1980]

Nel terzo gruppo rientrano quelle forme di FECD, delle quali non sia stato identificato il locus responsabile. Gran parte delle FECD familiari rientrano in questa categoria.

Il quarto gruppo racchiude patologie che non rientrano a pieno nella definizione di FECD.

Prevalenza

Mentre la EO FECD non mostra differenze sostanziali nel manifestarsi nel sesso femminile e nel sesso maschile, la LO FECD è invece più frequente nelle femmine, con un rapporto pari di 2.5-3:1 [Wilson 1988, Rosenblum 1980, Magovern 1979, Krachmer 1978]. La prevalenza esatta non è nota, ma è stata descritta una variabilità geografica considerevole. La prevalenza della patologia negli USA è approssimativamente stimata intorno al 4% sopra i 40 anni di età

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[Krachmer 1978], mentre risulta significativamente più bassa in Arabia Saudita, Cina [Vithana 2008] e soprattutto in Giappone [Santo 1995]. A causa dell'insorgenza tardiva della FECD e del suo decorso tipicamente indolente i dati sulla prevalenza sono poco affidabili, ai fini di una precisa caratterizzazione.

Condizioni Associate

La distrofia endoteliale di Fuchs è stata associata ad una maggiore incidenza di patologie oculari, quali la cataratta [Terry 2009A], il cheratocono [Orlin 1990, Jurkunas 2006] e la degenerazione maculare [Rao 1998]. Più interessante, tuttavia, risulta l'associazione con l'aumento della pressione intraoculare e con il glaucoma ad angolo aperto, attribuiti, secondo lo studio di Buxton et al.[1967], ad una riduzione del drenaggio di umor acqueo e secondo altri, all'aumento dello spessore della cornea [Del Buey 2009] in seguito al trapianto.

Altre interessanti associazioni si hanno con le patologie cardiovascolari: Olsen ha riferito in uno studio su 54 pazienti (27 con FECD e 27 controlli) un incremento di patologie cardiovascolari del 44% rispetto all' 11% dei controlli, ipotizzando che il fenomeno potesse essere associato ad una anomalia di un fattore epiteliale, unita ad una complessa e difficilmente identificabile interazione ambientale multifattoriale [Olsen 1984].

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Eziopatogenesi

Secondo Burns [1981], il primum movens della patologia sarebbe da imputare ad un aumento della permeabilità dell’endotelio, mentre secondo altri sarebbe legato alla riduzione della funzione di pompa delle cellule endoteliali [Wilson 1988]. In realtà sembra che entrambi i meccanismi siano implicati nel processo degenerativo, ma in fasi diverse della malattia.

Studi di proteomica, effettuati in pazienti affetti da cheratopatia bollosa pseudofachica (che si manifesta in seguito a danno iatrogeno provocato dal facoemulsificatore, durante l’intervento di estrazione di cataratta), hanno avvalorato l’ipotesi del deficit di pompa come causa scatenante la distrofia, dimostrando una netta riduzione della densità delle Na-K sul versante baso-laterale delle cellule endoteliali [Jakus 1956].

La riduzione del numero di cellule endoteliali, che normalmente avviene con l’età, è un processo non reversibile. Queste cellule infatti, si trovano in fase post mitotica e mostrano quindi una scarsa attività replicativa. In genere, però, le cellule superstiti riescono a compensare le alterazioni dovute ad un accumulo di liquido nella cornea, aumentando l’attività delle loro pompe Na-K.

Nella distrofia di Fuchs la perdita di cellule endoteliali si verifica più rapidamente di quanto avvenga nei soggetti sani, fino a raggiungere un numero criticamente basso. Allo stesso tempo le pompe localizzate sulle cellule superstiti non sembrano essere in grado di aumentare la loro attività per sostenere il deficit. Ciò si traduce nell’inabilità della cornea a

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mantenere l’equilibrio idrico, con conseguente aumento di liquido nello spessore stromale e secondaria opacizzazione corneale.

Normalmente una cornea sana conta una media di 3.500 cell/mm2 ed uno spessore di 550 µm [Nishida 2005]. Nella FECD, oltre ad una riduzione delle cellule ad un valore di 515 cell/mm2, si assiste ad un aumento dello

Figura 3 - Microscopia elettronica della superficie posteriore della cornea. Le evidenti protuberanze sono le guttae che caratterizzano la distrofia endoteliale di

Fuchs.

spessore medio fino ai 650 µm [Mian 2005, Weisenthal 2005] dovuto alla produzione, da parte dell’endotelio, di un’eccessiva quantità di collagene alterato, che viene depositato nello spessore membrana di Descemet (figura 3). È proprio la deposizione di questo collagene, che

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porterà alla formazione di quelle protrusioni in camera anteriore note come guttae.

Insieme alla riduzione del numero delle cellule ed al deposito di matrice stromale, si verificano anche importanti cambiamenti nel mosaico endoteliale, visibili alla microscopia speculare: si parla di polimegatismo, quando le cellule presentano alterazioni delle dimensioni e di pleomorfismo quando presentano variazioni di forma (figura 4).

Figura 4- Microscopia speculare di un paziente affetto da FECD. Le frecce mostrano la variabilità osservata di dimensioni e forma tra le cellule endoteliali

(polimegatismo e pleomorfismo). Gli asterischi mostrano le guttae.

A livello di quasi tutte le popolazioni cellulari che compongono la cornea (compresi i cheratinociti stromali) si rendono, infine, evidenti anomalie degenerative a carico dei mitocondri e del reticolo endoplasmatico ed un aumento sia del numero dei lisosomi, sia delle vescicole intracitoplasmatiche [Levy 1995].

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Istologia

Durante lo sviluppo embrionale, a partire dal quarto mese, si ha la deposizione di filamenti sottili e corti, che costituiscono la struttura lamellare della membrana di Descemet, la quale, quando evidenziabile (a partire dall’ottavo mese), assume le caratteristiche di uno strato costituito da una serie di bande parallele [Wulle 1972, Murphy 1984] e prende il nome di anterior banded layer (ABL). Alla nascita, questo processo di deposizione perde la sua organizzazione in bande, ma la deposizione di fibre comunque prosegue per tutta la vita, aumentando gradualmente lo spessore complessivo della cornea e andando a costituire lo strato definito posterior non-banded layer (PNBL) [Johnson 1982, Waring 1982], che si stratifica a ridosso e posteriormente alla deposizione di collagene, avvenuta durante il periodo fetale. Il PNBL durante la vita del soggetto gradualmente aumenta di spessore, raggiungendo approssimativamente i 10 µm ad 80 anni [Gottsch 2005].

Il pattern istologico, riscontrato nelle diverse forme di FECD, differisce dalla cornea normale per l’interposizione di strati caratteristici sia nella forma precoce (EO), sia nella forma tardiva (LO) [Gottsch 2005, Zhang 2006].

Nella early onset, la ABL risulta molto più consistente (10 µm contro i 3.1 µm) [Johnson 1982, Murphy 1984] e, considerato che questo strato si sviluppa durante il periodo fetale, è logico pensare che il processo degenerativo inizi proprio in questa fase [Iwamoto 1971,Gottsch 2005]. Un’altra caratteristica istologica della EO FECD è la presenza di uno strato situato posteriormente al PNBL definito ICL (Internal Collagenous

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Layer), che contiene una componente fibrosa densa, costituita da collagene depositato in maniera disorganizzata e di un’ulteriore banda, composta da collagene IV, fibronectina e laminina in percentuali simili alle membrane basali di altri tessuti, che prende il nome di PSL (Posterior Striated Layer) [Gottsch 2005].

Figura 5- Confronto tra gli spessori di (A) una cornea sana, (B) una cornea affetta da late onset FECD e (C) una corne affetta da early onset FECD. La piccola barra

in basso a destra in A,B e C rappresenta la misura di 2 micron.

Nella LO l’ispessimento della membrana di Descemet è dovuto principalmente ad uno strato di collagene disposto in bande posteriormente alla PNBL, definito PBL o PBCL (Posterior Banded Collagenous Layer). Tipicamente il PBL, che ha uno spessore compreso tra i 10 e i 20 µm, contiene le guttae [Iwamoto 1971].

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Nel suo complesso la membrana di Descemet risulta essere più spessa nelle forme early onset rispetto alla late onset ed ancora di più rispetto alle membrane dei soggetti sani (figura 5).

Genetica

La ABL è formata in gran parte dalle catene polipeptidiche α1 e α2, che costituiscono il collagene di tipo 8. Quest’ultimo viene normalmente prodotto da cheratinociti, mastociti, endotelio capillare e da cellule endoteliali, comprese quelle corneali [Jakus 1956, Levy 1995]. A livello della ABL si dispone in una struttura reticolare a maglie esagonali, finemente organizzata [Sawada 1990].

Il gene COL8A2 (sul cromosoma 1) correlato con la forma di FECD EO, regola la produzione della catena α2. Mutazioni missense a carico di questo gene portano alla produzione di un collagene, alterato probabilmente per un erroneo inserimento nella catena polipeptidica in allungamento di una lisina al posto di una glutammina. La mutazione si trasmette in maniera autosomica dominante [Biswas 2001].

La mutazione eterozigote del gene SLC4A11, invece, sembra essere responsabile della distrofia endoteliale di Fuchs ad esordio tardivo [Vithana 2008]. Il gene, localizzato sul cromosoma 20, codifica per la NaBC1, una proteina facente parte della famiglia dei carrier solubili per il bicarbonato [Parker 2001, Park 2004].

Anche in questo caso è la presenza di mutazioni missense a determinare l’alterazione. Fenotipicamente si assiste ad una glicosilazione aberrante e

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ad una diminuzione della concentrazione della proteina sulla membrana delle cellule endoteliali [Vithana 2008]. Ciò si traduce in un aumento di altezza delle cellule dell’epitelio basale ed in un complessivo aumento di spessore di tutta la cornea.

Fisiopatologia

Apoptosi

Il processo di morte cellulare programmata è sicuramente implicato nella FECD. Alcuni studi [Waring 1998, Borderie 2000] nel corso degli anni, hanno fornito, infatti,le prove di un coinvolgimento centrale di questo fenomeno nella distrofia endoteliale

La dimostrazione dell’esistenza di un aumento della concentrazione proteina BAX (pro-apoptotica) a livello dello stroma, unitamente ad una concomitante riduzione dei livelli di BCL2 (proteina con azione antiapoptotica) a livello dei cheratinociti, ottenuta dagli studi di Li et al. [2001] effettuati con tecnica TUNEL (Tdt-dUTP terminal Nick-End Labeling) ha permesso di avvalorare questa tesi.

Non è chiaro però se l’apoptosi rappresenti il meccanismo patogenetico, oppure se essa sia secondaria alla degenerazione endoteliale.

Ulteriori evidenze dell’importanza del processo di apoptosi sono state ottenute sia per mezzo della microscopia elettronica, che ha evidenziato un allargamento del reticolo endoplasmatico rugoso, sia mediante l’identificazione di un aumento di marker apoptotici, come le caspasi 3 e 9 [Engler 2010].

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Espressione Genica e analisi proteomica

Il confronto con metodo SAGE (Serial Analisys of Gene Expression) dell’espressione genica in soggetti affetti da FECD ed in pazienti sani ha messo in luce il possibile coinvolgimento di un’alterata espressione di geni, implicati nella regolazione del metabolismo energetico cellulare, delle funzioni di pompa, dei meccanismi di apoptosi e delle difese contro le specie reattive dell’ossigeno [Gottsch 2003].

La patologia potrebbe essere, quindi, imputabile ad una riduzione del trasporto di energia (probabilmente legato ad un danno da ROS) e ad una concomitante riduzione dell’espressione di proteine di trasporto del bicarbonato (correlata con la mutazione del gene SLC4A11) associate entrambe ad un aumento dell’espressione di fattori pro apoptotici.

Al fine di identificare differenze nella produzione di proteine nella distrofia di Fuchs rispetto ad endoteli di soggetti sani, è stata effettuata un’analisi proteomica [Jurkunas 2008a, Jurkunas 2009] Le proteine estratte dai soggetti affetti da FECD sono state confrontate con quelle estratte da cornee normali (age-matched) mediante elettroforesi ed in particolare:

Clusterina e TGFβIp (Transforming Growth Factor β Induced Protein)

L’over-espressione di clusterina (CLU) è frequente in cellule sottoposte a stress, come avviene nel cancro, in disordini neurodegenerativi ed in condizioni di citotossicità [Pucci 2004, Criswell 2005]. Esistono due forme di clusterina: la forma secretiva clusterina-s ha un ruolo protettivo, antiapoptotico ed agisce come fattore di sopravvivenza cellulare [Viard 1999, Trougakoss 2004], l'altra, la clusterina-n (nucleare), ha invece un ruolo pro-apoptotico

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[Yang 2000, Reddy 1996, Caccamo 2003]. Nella FECD, con l’immunoistochimica, è stata evidenziata l’aumentata espressione di pre-clusterina-s e di clusterina nucleare, mentre in altre patologie a carattere edematoso l’espressione di CLU-mRNA è risultata inferiore, anche rispetto a soggetti sani. Questa netta divergenza riscontrata sottolinea il ruolo centrale delle clusterine nella FECD.

Ulteriori studi di immunoistochimica hanno rivelato che nelle cellule endoteliali disposte perifericamente, raggruppate attorno alle guttae, così come nel centro delle guttae stesse, si manifesta un incremento intracellulare di clusterina, espressa probabilmente in risposta ad una condizione di stress cellulare. L’aumentata espressione in sede centrale è però più verosimilmente correlata alla presenza di detriti di cellule morte [Jurkunas 2008].

Ulteriori analisi della composizione proteomica delle guttae hanno mostrato che il TGFβIp, proteina che interagisce con collagene, fibronectina e integrine [Kim 2000, Billings 2002, Runager 2008] aumenta normalmente con l’età, con un parallelo graduale aumento dello spessore della membrana di Descemet. Nei soggetti affetti da FECD l’accumulo di TGFβIp avviene precocemente, come avvalorato dallo studio PCR del mRNA del TGFβIp, che ha mostrato (figura 6) una propria up-regulation [Jurkunas 2009].

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Figura 6 - (A) la clusterina (in rosso) e il TGFβIp (in verde) in un endotelio affetto da FECD. I nuclei cellulari (in blu) sono aggregati in pseudo rosette attorno alla

gutta. (B) Rappresentazione schematica della formazione delle guttae con il graduale accumulo di clusterina (CLU) e TGFβIp (KE) nella Descemet.

Con l’immunofluorescenza è stata indagata, inoltre, la collocazione di CLU e TGFβIp. Il risultato è stato che, mentre il TGFβIp è maggiormente espresso nella membrana di Descemet, la clusterina si trova al di sotto della stessa (figura 6 A), nella parte più giovane della gutta.

Perossiredoxine e Antiossidanti

La classe di antiossidanti delle perossiredoxine (PDRXS), che agisce rimuovendo perossido di idrogeno dalle cellule, con il risultato di inibire l’induzione del processo di apoptosi in risposta ai radicali liberi dell’ossigeno, è significativamente diminuita nelle cellule endoteliali di pazienti affetti da FECD. Le PDRXS esistono in diverse isoforme, tra le quali riveste particolare importanza nella difesa dall’apoptosi l’isoforma-2. Quest’ultima, infatti,

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inibisce il rilascio di citocromo-c dai mitocondri e regola la trascrizione dei geni, causata da un aumento di H2O2 [Watabe

1997, Zhang 1997, Kang 1998].

Altro elemento sono gli AGES ed i loro recettori, espressi nella membrana di Descemet e nell’endotelio della cornea distrofica. Il deposito di AGES si trova soprattutto nel segmento anteriore della membrana di Descemet, vale a dire il più vecchio. Questo processo può avvenire normalmente con il trascorrere degli anni, ma nei pazienti con FECD l’accumulo avviene precocemente, dura per tutta la vita e sembra essere correlato alla riduzione delle difese da sostanze ossidanti [Wang 2007].

Il danno ossidativo spesso colpisce primariamente gli acidi nucleici. In particolare, quando ciò si verifica a carico del DNA mitocondriale, la catena respiratoria risulta alterata, con un aumento della produzione e dell’accumulo di ROS. A ciò conseguono una disfunzione del mitocondrio stesso, per perdita di integrità delle membrane ed una potenziale induzione dell’apoptosi [ Wang 2007, Bitar 2009].

Sintomatologia

Nelle fasi iniziali della malattia, i pazienti lamentano al mattino visione sfuocata e aloni, che tendono a migliorare durante l’arco della giornata. Durante la notte infatti, le palpebre chiuse diminuiscono l’evaporazione del film lacrimale e ciò comporta un ridotto drenaggio dei liquidi oculari, che aumentano favorendo l’edema. A questo punto, in condizioni

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normali, entrano in gioco le cellule endoteliali, che rimuovono l’accumulo di liquido e rendono trasparente la cornea. Nella FECD, invece, la riduzione del numero di cellule endoteliali e dell’attività delle loro pompe comporta una minore efficacia nel “ripulire” la cornea, che col progredire della malattia risulterà sempre più opacizzata.

La rottura delle bolle può provocare dolore o la sensazione di corpo estraneo ed inoltre rende la cornea più suscettibile ad infezione, possibili cicatrici e ricorrenti erosioni.

Nella cheratopatia bollosa pseudofachica (PKB) l’edema corneale è il risultato dell’insufficienza dell’endotelio, causato da un trauma indotto dall’intervento di cataratta. Il trauma si verifica nella maggior parte dei casi per l’impiego del facoemulsificatore, la cui azione porta ad un aumento acuto della pressione nella camera anteriore dell’occhio.

La PBK comunque è più frequentemente associata con una FECD subclinica, che si manifesta dopo il trauma chirurgico.

Diagnosi differenziale

La Distrofia endoteliale di Fuchs entra in diagnosi differenziale con:

• distrofia ereditaria congenita;

• distrofia ereditaria congenita;

• distrofia polimorfa posteriore;

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• corpi di Hassal-Henle vale a dire guttae periferiche di normale riscontro nella popolazione anziana, le quali non comportano edema corneale [Adamis 1993].

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CAPITOLO 3

IL TRATTAMENTO CHIRURGICO

La terapia medica, solitamente di supporto in attesa dell’intervento di cheratoplastica, consiste nell’utilizzo di sostanze ipertoniche, associata ad essiccatori per ridurre l’umidità dell’ambiente e favorire l’evaporazione delle lacrime. Nei casi in cui la IOP sia maggiore di 20 mmHg, i tentativi di abbassarla con tp topica possono ridurre la forza che guida il fluido nello stroma. Le erosioni ricorrenti possono essere trattate con ipertonici topici, bendaggio con lenti a contatto terapeutiche, punture stromali anteriori, innesti di lembi congiuntivali ed impianto di membrana amniotica.

Storia

Per lungo tempo la cheratoplastica perforante (PK) ha rappresentato l’unica possibilità di cura per i pazienti affetti da patologie degli strati più profondi della cornea.

La cheratoplastica perforante, conosciuta e utilizzata per oltre cento anni, consiste nella perforazione della cornea a tutto spessore e nella sostituzione del tessuto rimosso con un lembo, ottenuto mediante dissezione da donatore. I primi interventi di PK utilizzavano una tecnica piuttosto grossolana e nella manipolazione chirurgica l’endotelio poteva venire danneggiato irreparabilmente, in un’alta percentuale di casi.

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Molto spesso il risultato post-operatorio consisteva in una cornea opaca, con scarsi miglioramenti dell’acuità visiva ed un aumento importante dell’astigmatismo.

Col tempo la tecnica di cheratoplastica perforante ha subito notevoli miglioramenti ed ancora oggi trova impiego in numerose condizioni patologiche, ma rispetto alle procedure lamellari essa presenta ancora notevoli svantaggi (tabella 1).

Innanzitutto l’intervento può durare dai 30 ai 90 minuti e ciò significa che il contenuto intraoculare rimane esposto agli agenti esterni, fintanto che non avviene il posizionamento del lembo. Inoltre l’errore rifrattivo è imprevedibile ed è elevata l’insorgenza di vizi di rifrazione. Il periodo di recupero dall’ intervento è, tra l’altro, generalmente superiore ad un anno ed il rischio di rigetto è presente per tutta la vita del paziente. Sono anche necessarie suture e spesso la sensibilità viene alterata per recisioni di terminazioni nervose.

La tecnica, inoltre, è gravata anche da complicanze severe, come, ad esempio, l’ipotonia che consegue all’intervento, la quale può causare un sanguinamento massivo dalla coroide, situazione quest’ultima che può, in casi eccezionali, portare perfino alla perdita dell’occhio.

Tabella 1 – Complicanze della cheratoplastica perforante

Intraoperatorie

Danno ai tessuti da strumenti chirurgici Perforazione irregolare

Mancato centramento del trapianto Sanguinamento

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Un’alternativa alla PK è la cheratoplastica lamellare (LK), che selettivamente permette il trapianto di alcuni strati della cornea. L’obiettivo che essa si pone consiste nel lasciare intatta la maggior parte degli strati, preservando l’integrità delle strutture sane. Infatti, nonostante la tecnica lamellare sia più complessa tecnicamente, essa comporta risultati migliori sia dal punto di vista tettonico, sia dal punto di vista rifrattivo ed attualmente gode di largo consenso, per i significativi vantaggi che essa offre, proprio in confronto con la PK. Lungo, tuttavia, è stato il periodo di affinamento, che ha preceduto la sua affermazione.

Danno al tessuto durante la manipolazione

Post-operatorie precoci

Deiscenza delle suture

Incarceramento dell’iride nella ferita Fallimento primitivo

Endoftalmiti

Post-operatorie tardive

Glaucoma

Cheratiti batteriche/virali Deiscenza delle suture Rigetto

Errori di rifrazione Fallimento del trapianto

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Il concetto di sostituzione selettiva, infatti, non è recente. Fu Tillet che nel 1956 descrisse la prima PLK (cheratoplastica lamellare posteriore). Egli eseguì un trapianto, che consisteva nella dissezione lamellare della cornea del ricevente, con rimozione della porzione centrale e posizionamento del tessuto da donatore nella camera anteriore. Dopo la sutura del tessuto trapiantato, procedette all’inserimento di aria in cavità anteriore. L’occhio così trattato però, sviluppò un glaucoma ad angolo chiuso, a causa probabilmente della formazione di aderenze secondarie al processo infiammatorio post chirurgico. Il trapianto fallì e per un po’ non si parlò più di LK.

Negli anni 80 fu proposta una variazione della tecnica e la PLK si avvalse di un’apertura a sportello della cornea, simile al flap corneale degli interventi per chirurgia rifrattiva (lasik o cheratomileusi). In questo modo la perforazione avveniva soltanto negli strati posteriori della cornea, risparmiando tutto il tessuto degli strati anteriori, eccezion fatta per piccole incisioni periferiche.

I risultati anche in questo caso non furono soddisfacenti: la tecnica diminuiva notevolmente il rischio di rigetto, ma persistevano i problemi legati ai vizi di rifrazione [Terry 2005].

I risultati conseguiti con la PK, in termini di acuità visiva, erano ancora migliori di quelli ottenuti con l’intervento lamellare. Le limitazioni maggiori erano attribuibili soprattutto alla scarsa qualità ottica dell’interfaccia, ottenuta con dissezione manuale.

Barraquer allora modificò questa tecnica, l’introducendo il microcheratomo, sia per la creazione del flap, sia per l’ottenimento del tessuto da trapiantare. Creato il flap, si esponevano gli strati posteriori

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della cornea, si procedeva alla loro perforazione, si posizionava il tessuto del donatore e si suturava il tutto. Anche in questo caso i risultati non furono soddisfacenti, né in termini di recupero dell’acuita visiva, né riguardo alla riduzione di vizi refrattivi [Barraquer 1984].

Il passo successivo per l’affermazione della tecnica lamellare avvenne grazie a Melles, che nel 1998 introdusse il concetto di PLK attraverso apertura posteriore. Egli stesso realizzò una tecnica, che prevedeva una dissezione dell’angolo corneosclerale, seguita dall’escissione di un disco di tessuto di 8-9 mm dallo stroma posteriore e dal successivo inserimento e posizionamento attraverso l’incisione corneosclerale di un lenticolo analogo (composto da stroma posteriore, membrana di Descemet ed endotelio per uno spessore di circa 1,5 mm) ottenuto da donatore [Terry 2005]. L’apposizione del lenticolo non ha bisogno di suture, perché avviene naturalmente per attrazione idrofilica tra i due strati. L’unico ausilio è fornito dall’inserimento di una bolla d’aria in camera anteriore, per mantenere il trapianto in posizione (come già intuito da Tillet nel 1956).

Terry negli Stati Uniti, definì questa tecnica DLEK (deep lamellar endothelial keratoplasty). Ma anche la DLEK non diventò popolare, sia perché di difficile esecuzione, sia perché non era in grado di evitare la comparsa dell’astigmatismo.

Ancora Melles nel 2003 semplificò la tecnica migliorandola: eliminò la dissezione lamellare dello stroma dell’occhio ricevente e posizionò membrana di Descemet ed endotelio a diretto contatto con lo stroma [Terry 2006B]. Price [2005] definì questa pratica descemetoressi (o stripping) e chiamò complessivamente la tecnica DSEK (figura 8).

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Figura 7 - (A) le suture posizionate a seguito di un intervento di cheratoplastica perforante e (B) la corrispondente imagine tomografica. (C) la camera anteriore di

un paziente trattato con DSEK e ( D) la relativa immagine tomografica.

Nelle PLK/DLEK, il tessuto veniva dissezionato manualmente, impacchettato con tecnica 60/40 overfold ed inserito mediante pinze, attraverso un’incisione corneo sclerale di soli 3-5 mm precedentemente praticata. Il lembo trapiantato veniva poi disteso con iniezione di aria sterile e giustapposto allo stroma. La dissezione manuale è per sua natura una procedura imprecisa ed i risultati, per tale motivo, non furono completamente soddisfacenti.

Alla tecnica venne allora affiancato il microcheratomo (figura 8), sia per la dissezione del tessuto donatore, sia nella preparazione della cornea del ricevente, come descritto da Gorovoy [2006]. Nacque la Descemet’s stripping automated endothelial keratoplasty (DSAEK). Grazie al

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microcheratomo, che consente di ottenere tessuti standardizzati ed alle banche delle cornee è possibile ottenere tessuti preconfezionati, eliminando la necessità di una procedura in due tempi [Price 2008].

Figura 8 - Microcheratomo

Le statistiche della EBAA mostrano, infatti, il grande consenso che la DSAEK ha ottenuto negli ultimi anni: nel 2005 la tecnica era utilizzata da non più del 4-5% dei chirurghi , contro il 40% nel 2009-10.

Una tecnica ancora più recente è la Descemet’s membrane endothelial keratoplasty (DMEK), ideata anch’essa da Melles [2002].

Nella DMEK la porzione stromale del donatore è eliminata completamente ed il tessuto di trapianto consiste unicamente in endotelio e membrana di Descemet. La tecnica, quindi, rimpiazza la stessa porzione, che viene asportata e riproduce quindi perfettamente l’anatomia della cornea.

La DMEK è una tecnica complicata. Il maneggiamento dell’endotelio e della membrana di Descemet può facilmente portare al fallimento del lembo, che risulta anche più difficoltoso da posizionare. Le tecniche si

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stanno comunque affinando e presto la DMEK potrebbe rappresentare il gold standard nel trattamento delle patologie della cornea profonda.

Indicazioni

Attualmente la cheratoplastica endoteliale può essere eseguita per qualsiasi disfunzione endoteliale, vale a dire la distrofia endoteliale di Fuchs, la distrofia polimorfa posteriore, la cheratopatia bollosa nello pseudofachico o afachico, il fallimento endoteliale da traumi, la sindrome iridocorneale endoteliale ed il fallimento di PK. La DSEK può essere effettuata anche in presenza di impianti per glaucoma, sinechie anteriori, anormalità dell’iride (aniridia) o del cristallino (afachia) e lenti intraoculari (in presenza di un adeguato spazio in camera anteriore), mentre la DMEK non è indicata in occhi afachici o aniridici, per la facilità con cui il trapianto può migrare in camera posteriore. Gli occhi che presentano shunt per il trattamento glaucoma, sono esclusi dal trattamento per l’elevato rischio che il tessuto trapiantato venga danneggiato o che, nell’ipotesi peggiore, ostruisca il lume del tubo di shunt durante lo spacchettamento.

La DSAEK può essere inclusa nella “triplice procedura” che comprende anche la rimozione di cataratta e l’impianto di lenti intraoculari.

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Controindicazioni

Le controindicazioni sono rappresentate da lesioni, opacità, distrofie corneali anteriori (si ricorre alla KP), ambliopia, glaucomain assenza di buon controllo terapeutico e malattie retiniche o del nervo ottico .

In tali casi è possibile soltanto alleviare il dolore, provocato dalla rottura delle bolle, con trattamenti palliativi (lac terapeutiche, membrana amniotica).

Considerazioni speciali

Cataratta

Non esiste un approccio chirurgico univoco per i pazienti, che presentano importanti opacità del cristallino. L’estrazione della cataratta può essere effettuata precedentemente all’intervento di EK, contemporaneamente ad esso (in una procedura combinata) oppure successivamente. Ognuno di questi approcci ha la sua motivazione: ad esempio nel caso in cui la EK venga effettuata in tempi successivi all’estrazione di cataratta, la stabilità data dalla capsula posteriore e l’ampliamento della camera anteriore, che ne consegue, permettono un inserimento più agevole del trapianto, con un minor rischio di danneggiamento dei tessuti, rispetto a ciò che avviene in un occhio fachico. Non bisogna, infatti, sottovalutare che una chirurgia combinata è conveniente per il paziente, che dovrà affrontare un unico intervento.

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L’esecuzione della EK prima dell’estrazione della cataratta, dal canto suo, permetterà una più accurata valutazione del potere della IOL da impiantare ed un miglior controllo dell’eventuale astigmatismo.

Nelle lievi opacità corneali, l’approccio chirurgico più comunemente condiviso è l’intervento combinato.

La cataratta può anche manifestarsi a seguito della cheratoplastica endoteliale. Alcuni studi effettuati sulle prime tecniche di EK mostravano, infatti, a due anni dall’intervento un tasso di formazione di cataratta compreso addirittura tra il 60-100% [Price 2004, Terry 2007]. Studi sulle tecniche più evolute, come la nostra DSEK, hanno osservato un aumento dell’incidenza di cataratta non dissimile a quello che si osserva durante il normale invecchiamento [Price 2010]. Dunque il fattore di rischio più importante nello sviluppo di cataratta a seguito di EK (così come avviene per PK) risulta essere l’età del paziente [Martin 1994, McCauley 2011]. In particolare, solo il 7% dei pazienti con età inferiore ai 50 anni al momento dell’intervento necessita di un’estrazione di cataratta entro i tre anni successivi, contro il 55% dei pazienti con età superiore ai 50 anni [Price 2010].

Secondo questi dati, si potrebbe affermare che risulterebbe preferibile effettuare l’intervento di DSEK come unica procedura, nei pazienti con età inferiore ai 50 anni, a meno della sussistenza di condizioni, che possano successivamente rendere l’estrazione della cataratta più complicata da eseguire.

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Fallimento di trapianto eseguito con PK

Nel caso di fallimento di trapianto con tecnica perforante, visti gli scarsi risultati dei re-impianti a tutto spessore, nonchè i vantaggi, che invece la EK comporta in termini di integrità tettonica e recupero della vista, la tecnica più comunemente utilizzata per il reimpianto a seguito di PK fallite è attualmente la EK [Price 2006B].

Le strategie adottate per il reimpianto sono talvolta in contraddizione tra loro. Alcuni autori [Price 2006B, Covert 2007A, Anshu 2011] osservano che un “oversizing” del trapianto favorirebbe un miglior risultato, poiché permette una maggior riserva di cellule endoteliali, mentre lo studio di Straiko et al. [2011] suggerisce che risulterebbe vantaggioso un “downsizing” del trapianto, rispetto a quello effettuato con PK, al fine di evitare la comparsa di una superficie irregolare, in corrispondenza del margine del lenticolo.

Inoltre lo stesso studio di Straiko et al. indica che la descemetoressi faciliterebbe il risultato dell’adesione del trapianto, mentre altri [Price 2006A, Anshu 2011, Nottage 2012] confutano questa tesi, evidenziando risultati opposti. È tuttavia necessario sottolineare che in occasione dello stripping della membrana di Descemet, si può verificare la deiscenza delle suture della PK fallita, con l’importante conseguenza della compromissione della possibilità di effettuare il nuovo trapianto. Questa pratica dovrebbe essere, quindi, riservata solo alla rimozione delle guttae o di altre anormalità, le quali potrebbero pregiudicare il reimpianto.

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Occhi Afachici/Aniridici

La DSEK, che deve essere eseguita in concomitanza con ricostruzioni iridee o pupilloplastiche in occhi afachici o aniridici, rappresenta una sfida per il chirurgo: in un occhio afachico con pupille ampie, la dislocazione del trapianto è così frequente da imporre l’adozione di alcune tecniche specifiche, vale a dire:

• lasciare la membrana di Descemet intatta, laddove sia possibile, per evitare che questa migri posteriormente;

• applicare il Trypan Blue sulla superficie esterna del trapianto, al fine di visualizzarlo più facilmente attraverso la cornea opacizzata;

• lasciare una bolla d’aria, che riempia totalmente la camera anteriore, la quale garantisce una miglior adesione del lembo, mentre il blocco pupillare non rappresenta un problema in questi casi [Price 2007];

• applicare una sutura temporanea tra il trapianto e la cornea durante la EK, oppure utilizzare uno Sheet glide (che si comporta come una barriera tra camera anteriore e posteriore) per evitare che il lembo possa scivolare posteriormente [Metha 2007].

Camere anteriori basse

In camere anteriori basse, alle quali spesso si associa un aumento della pressione vitreale, è necessario applicare modifiche della tecnica di EK, quali il posizionamento di un anterior chamber manteiner e l’utilizzo degli Sheets glide [Metha 2007].

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Lenti intraoculari in camera anteriore (ACIOL)

La presenza di lenti intraoculari in camere anteriori di occhi di pazienti affetti da scompenso endoteliale rende il trattamento controverso: alcuni chirurghi sostengono sia necessario approcciare il paziente con una tecnica a 2 stadi, il primo dei quali prevede una vitrectomia della pars plana ed il secondo una sostituzione della IOL, con il posizionamento di lenti suturate alla sclera o all’iride e l’esecuzione della EK, a distanza di un mese. Altri studi evidenziano che le procedure eseguite in un unico intervento non comporterebbero un aumento delle complicanze. Una terza teoria sostiene, infine, che si può piuttosto lasciare in sede la ACIOL, fintanto sia sufficiente lo spazio per l’intervento [Shah 2010, Esquenazi 2011, Gupta 2011]. In tali casi però, qualora il trapianto non aderisca perfettamente, sussiste un alto rischio di fallimento.

Glaucoma

La DSEK, eseguita in pazienti con glaucoma, che già abbiano o meno ricevuto interventi chirurgici per il trattamento della patologia, ha risultati di gran lunga superiori a quelli ottenuti con la cheratoplastica perforante [Riaz 2009, Vajarant 2009, Phillips 2010]. Il problema maggiore che si manifesta per questi pazienti è l’inserimento della bolla d’aria durante l’intervento, poiché questa tende ad introdursi nello spazio sottocongiuntivale e ciò può condurre più facilmente alla dislocazione del trapianto, specialmente in occhi con basse pressioni intraoculari. Esistono, tuttavia, accorgimenti, che possono ovviare a tale evenienza ed in particolare:

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• posizionare un’ampia bolla d’aria, che riempia quasi totalmente la camera anteriore, in modo tale che non ci siano scambi aria-fluido al termine dell’intervento;

• riposizionare o tagliare il drenaggio del glaucoma prima del posizionamento del trapianto, in modo tale da prevenire il danno al trapianto stesso;

• chiudere i drenaggi con il visco-elastico (una soluzione sterile a base di acido ialuronico), al fine di mantenere la bolla d’aria più a lungo in camera anteriore [Riaz 2009] Solitamente il visco-elastico, quando impiegato, tende ad essere eliminato dall’organismo, al termine dell’intervento.

Effettuato l’intervento, è necessario monitorare attentamente la pressione intraoculare per le prime due ore.

Procedura

La tecnica chirurgica consiste nella creazione di un'incisione di 3-5 mm a livello del limbus sclero-corneale. L'endotelio affetto e la membrana di Descemet vengono rimossi, secondo la tecnica descemetoressi, descritta precedentemente. Nei casi in cui non presenti le guttae o non venga danneggiata durante l'intervento, la membrana di Descemet può essere anche lasciata in sede, mentre nel caso della cheratopatia bollosa risultando la stessa costitutivamente poco aderente, viene rimossa con estrema facilità.

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Nel corso degli anni si è invece assistito ad una costante evoluzione della tecnica di preparazione del tessuto del donatore. Inizialmente la dissezione lamellare veniva operata manualmente (allora si parlava di DSEK), ma successivamente, con l'introduzione del microcheratomo, in grado di ridurre il rischio di perforazione e di migliorare la levigatezza del trapianto, molti chirurghi hanno preferito adottare la tecnica DSAEK, ovvero la Descemet Stripping Automated Endothelial Keratoplasty. In questo caso la preparazione del tessuto avviene prima dell'intervento, ad opera dello stesso chirurgo, che lo impianterà, oppure di un tecnico specializzato della banca degli occhi (in questo caso si parla di tessuto preconfezionato). Non esistono importanti differenze di “outcome” tra la preparazione del tessuto da parte del chirurgo o da parte del tecnico [Price 2008], ma con l'impiego del lembo preconfezionato risulteranno limitati sia i costi, sia la durata dell’intervento.

Figura 9 - Funzionamento schematico del microcheratomo nella creazione di un flap.

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Il tessuto verrà rimosso dal donatore con l’impiego del microcheratomo, che sostanzialmente è un trapano a taglio orizzontale, fino ad ottenere il diametro desiderato (in genere 8-9mm) e successivamente inserito in camera anteriore, tramite l'incisione sclero-corneale. Pur esistendo diverse tecniche, la metodica più largamente utilizzata include:

Pinze: taco con impacchettamento 60/40, trifold, 40/60;

Glide: Busin, sheets, tan EndoGlide;

Inseritori meccanici pulling injector system [Macaluso 2008], cartridge injector [Wendel 2011];

Nella tecnica a lembo piegato, il lembo viene impacchettato in una configurazione a “taco” ed inserito mediante specifiche pinze. I risultati di questa tecnica hanno mostrato, a distanza di sei mesi dall’intervento, una perdita di cellule endoteliali compresa tra il 31% e il 54% [Lee 2009].

Con la tecnica trifold la perdita di cellule endoteliali si assesta intorno al 44%, mentre il fallimento primitivo del lembo al 4.8% a 9 mesi dall'intervento [Foster 2011].

Per la tecnica di lembo piegato è necessario inserire aria all'interno dell'occhio, al fine di consentire la distensione del lembo e ciò, specialmente nelle fasi iniziali di sperimentazione della tecnica, ha comportato un elevato numero di complicazioni post operatorie. Inoltre, durante l'inserimento del trapianto, la camera anteriore tende a collassare e ad accorciarsi, creando problemi durante l'inserimento del lembo , mediante le pinze.

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Al fine di ovviare a tutti questi inconvenienti, sono stati studiati ed elaborati nuovi strumenti per assistere il chirurgo, come le tecniche di inserimento per scivolamento (glide techniques), oppure la Busin glide e la sheets glide. La prima consente di inserire il tessuto con la parte stromale rivolta verso l'alto e di mantenere, inoltre, la camera anteriore al suo fisiologico volume o per mezzo della iniezione controllata di fluido o mediante Anterior chamber manteiners. La Busin Glide ha consentito una diminuzione notevole della perdita endoteliale ed una semplificazione della tecnica [Bahar 2009]. Tuttavia, il punto debole della tecnica sta nel fatto che non si tratta di un sistema chiuso e che quindi la pressione della camera anteriore può dislocare il tessuto.

La sheets glide è prevalentemente impiegata in occhi con camera anteriore ridotta [Metha 2007]. La tecnica utilizza una lente intraoculare sheets glide. Il trapianto è posizionato con l'endotelio rivolto verso il basso e protetto dalla superficie plastica del glide da un abbondante strato di viscoelastico. Successivamente il glide viene inserito attraverso un'incisione sclerale di circa 5mm ed il trapianto, con l’impiego di pinze tan viene spinto in camera anteriore. Il vantaggio di questa tecnica consiste nella possibilità di mantenere l'iride in posizione posteriore, prevenendone il prolasso durante l'inserimento del tessuto.

Si stima che con questa tecnica la perdita di cellule endoteliali si attesti intorno al 25%, mentre si riduce il fallimento del lembo, rispetto alla tecnica a lembo piegato [Metha 2008].

Infine, con l’obiettivo di una riduzione ulteriore della perdita di cellule endoteliale, è stata ideata la tan Endoglide, la quale, partendo dalla glide technique con un sistema closed chamber, assicura un miglior controllo del trapianto, così come un miglior mantenimento della camera anteriore [Khor 2011]. Utilizzando questo strumento, la perdita si assesta tra il

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13% a 6 mesi e il 15% ad un anno dall’intervento, mentre non si manifesta il fallimento primitivo del lembo.

Spacchettato il tessuto, il lenticolo posteriore è mantenuto a ridosso dello stroma, per mezzo di una bolla d'aria. In associazione, può essere prevista un'iridotomia periferica, prima dell'inserimento del tessuto del donatore, al fine di evitare che l'aria possa causare un blocco pupillare.

Al termine dell’intervento, il paziente dovrà rimanere in posizione supina per circa un’ora. Successivamente sarà sottoposto al controllo post-operatorio e quindi dimesso, con l’obbligo di mantenere la posizione supina per 24-48 ore, durante le quali gli sarà consentito tuttavia alzarsi, seppure per brevi periodi.

Postoperatorio

Il giorno successivo, il paziente viene sottoposto a visita di controllo. Il medico procederà a misurare la pressione intraoculare, controllerà la sutura, verificherà che il lenticolo sia in sede e che l’aria immessa in cavità anteriore, al fine di facilitare l’attecchimento del trapianto, non abbia guadagnato la camera posteriore, evenienza quest’ultima, che potrebbe causare un blocco pupillare ed una successiva chiusura dell’angolo sclerale, con l’insorgenza di un glaucoma acuto.

La terapia domiciliare in genere consta di antibiotici e prednisolone acetato.

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Considerazioni

Le tecniche di cheratoplastica endoteliale sono in continua evoluzione. Le più recenti ed in particolare la tecnica DSAEK, grazie al recupero più rapido della vista ed al minor numero di complicazioni che esse comportano, ad oggi hanno quasi completamente soppiantato le tecniche perforanti nel trattamento delle affezioni della cornea profonda.

Si tratta di una chirurgia senza suture, che prevede un’incisione piccola, non solo con un minor rischio di emorragie e di infezioni, ma anche garantendo una migliore integrità strutturale complessiva ed un recupero più rapido.

Outcome

Recupero dell’acuità visiva

La DSAEK permette il recupero dell’acuità visiva rapido e prevedibile. È in sostanza un trapianto neutro, che consente un recupero visivo più rapido rispetto alla PK, con una miglior acuità visiva senza correzioni e una massima acuità visiva con correzioni BVCA.

Valori di BCVA pari a 20/40 sono ottenuti mediamente in 3-6 mesi dall’intervento, mentre secondo alcuni studi, la media di BCVA ottenuta con Ottotipo di Snellen (figura 10) è compresa tra i 20/33 e i 20/66 per follow up eseguiti tra i 3 e i 30 mesi [Gorovoy 2006, Covert 2007B, Bahar 2009]. La percentuale dei pazienti, che sperimenta un BCVA pari o superiore ai 20/40 è compresa tra il 38 e il 100% [Mearza 2007, Kobayashi 2008, Khor 2011].

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Figura10 - Ottotipo di Snellen

Per quel che riguarda studi sui pazienti sottoposti a PK, in follow up di 2-8 anni e quindi ben più ampi di quelli effettuati per la DSAEK precedentemente rammentati, è stato riportato come il 47-65% di questi ottenga un’acuità visiva pari o superiore ai 20/40 [Pineros 1996, Claesson 2002].

Anche se un recupero pari a 20/20 con correzione è più frequentemente osservato in pazienti sottoposti a PK, si deve sottolineare che questi occhi necessiteranno quotidianamente di lenti a contatto rigide per sperimentare il risultato e che l’astigmatismo, frequente conseguenza della tecnica perforante, può limitare la capacità del paziente, ad esempio a contare le dita ad un metro di distanza [Price 2005].

I risultati in genere sono migliori nei soggetti giovani o comunque riguardano occhi, che non sono stati sottoposti a edema ed a sofferenza tissutale per lungo tempo.

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Risultati refrattivi

Uno dei vantaggi maggiori della DSAEK consiste nel fatto che, non alterando la topografia corneale, essa può essere responsabile solo di minime variazioni in equivalente sferico o cilindrico.

I valori riportati di ipermetropia a seguito del trapianto sono inclusi tra 0.7 e 1.5D con una mediana pari a 1.2D [Covert 2007B, Koenig 2007A, Price 2008]. L’astigmatismo (complicanza temibile e frequente nella PK) nella DSAEK oscilla da -0.4 a +0.6 D, con una mediana di +0.1D [Price 2005, Price 2008, Kobayashi 2008].

A volte i microcheratomi possono produrre incisioni imprecise, che generano superfici irregolari e tessuti con raggi non perfettamente corrispondenti. Può anche verificarsi che l’interfaccia tra il tessuto trapiantato ed il tessuto del ricevente venga “sporcata” da frammenti, derivanti dalla Descemet a causa delle guttae. Pur se generalmente innocui, tali frammenti possono talvolta distorcere la visione.

Densità cellulare

A 6 mesi da un intervento di cheratoplastica perforante, sono riportati valori medi di perdita di densità cellulare compresi tra l’11 e il 29%, tra il 16-45% ad un anno e fino al 70% in 5 anni [Culbertson 1982, Bertelmann 2006, Lass 2008].

La DSAEK invece si attesta tra il 13-54% a 6 mesi e il 15-61% [Khor 2011, Terry 2008, Terry 2009B, Price 2010] in un anno.

Questo svantaggio registrato nelle fasi iniziali della DSAEK rispetto alla PK, è imputabile all’affinamento della tecnica di dissezione, durante l’ apprendimento da parte dei chirurghi. Infatti, mentre la perdita di cellule endoteliali risulta essere significativamente maggiore nei primi interventi

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eseguiti con la tecnica DSAEK, indagini più recenti ne hanno evidenziato una notevole riduzione. In particolare Price et al. [2011] hanno riferito di una perdita di cellule attorno al 53%, a distanza di 5 anni dall’intervento.

Non si deve, comunque, dimenticare che la DSAEK è una tecnica relativamente nuova e che quindi non esistono dati significativamente numerosi, ottenuti da studi a lungo termine.

Sopravvivenza del trapianto

Nei pazienti con Distrofia di Fuchs la sopravvivenza del trapianto a seguito di DSAEK risulta sovrapponibile a quella documentata per la PK.

I primi studi, effettuati ad un anno dall’intervento di DSAEK, indicarono un tasso di sopravvivenza del trapianto, compreso tra il 55 e il 100% dei casi [Bahar 2008, Price 2008, Terry 2008]. L’ampio range ottenuto può, anche in questo caso, essere imputato ai problemi legati all’apprendimento della tecnica da parte dei chirurghi nei primi anni della sua diffusione.

Di fatto, per quel che concerne la sopravvivenza del tessuto, il già riportato studio di Price et al. del 2011, ha mostrato valori molto confortanti, prossimi al 93% a 5 anni [Price 2011].

Per la PK i valori di GRAFT SURVIVAL si attestano intorno al 95% a 5 anni [Price 2010].

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Complicanze

Dislocazione (Figura 11)

La più frequente complicanza riportata nelle tecniche di cheratoplastica endoteliale è la dislocazione del trapianto, a seguito di una carente adesione del lembo alla cornea. I trapianti dislocati hanno una maggiore possibilità di venire danneggiati e di andare incontro al fallimento.

Specifici studi sulla tecnica [Gorovoy 2006, Covert 2007B, Kobayashi 2008, Bahar 2009] DSAEK hanno riportato tassi estremamente variabili di incidenza della complicanza. Attualmente si considera comunemente un tasso di incidenza pari al 4-10%.

Figura 11 - (A) la dislocazione di un lenticolo visualizzato con la lampada a fessura a seguito di DSAEK. (B) Un’immagine dello stesso paziente evidenzia l’edema che

spesso accompagna la dislocazione.(C) Altra immagine del lenticolo dislocato ottenuta mediante OCT.

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La dislocazione del lembo può avvenire per:

• Danno iatrogeno

o eccessiva manipolazione del lembo

o danno endoteliale

o assenza di corrispondenza geometrica tra donatore e ricevente

o mancato o insufficiente tamponamento con aria

• Danno indotto dal paziente

o Sfregamento del bulbo oculare

o Mancato mantenimento della posizione supina.

Per ottenere risultati più soddisfacenti è necessario intervenire sulla tecnica, con cui viene effettuata la ferita, rimuovere completamente i fluidi dall’interfaccia tra i tessuti e valutare il posizionamento della bolla d’aria.

Le incisioni devono essere effettuate con la massima precisione, in modo che sia possibile sigillarle correttamente. Una corretta chiusura delle ferite consente all’aria di soggiornare in cavità anteriore per il tempo necessario a favorire le aderenze e mantenere il lembo in sede. Terry [2006A] ha evidenziato che il raschiamento selettivo del letto stromale periferico del ricevente promuove anch’esso l’aderenza e minimizza la dislocazione. È necessario, inoltre, fornire percorsi di uscita ai fluidi intraoculari in eccesso, mediante incisioni effettuate prima o dopo l’inserimento del lembo. Massaggiare la superficie della cornea del donatore con un roller lasik o riempire la cavità anteriore quasi completamente con aria possono rappresentare metodi alternativi per il drenaggio dei fluidi [Price 2006A].

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Se la dislocazione è completa, è necessario provvedere ad un re intervento o mediante il reinserimento di una bolla d’aria oppure tramite un nuovo approccio con tecnica DSAEK [Dapena 2010]. In caso di distacco parziale, si può rivalutare il paziente a distanza di qualche giorno; in alcuni casi [Hayes 2010] infatti, la dislocazione può risolversi spontaneamente.

Rigetto

Nel follow-up da 3 mesi a 2 anni sono stati riportati valori di rigetto compresi tra lo 0% e il 45.5% [Covert 2007B, Koenig 2007B, Price 2008]. Anche se i dati epidemiologici, relativamente recenti, sono ancora in corso di elaborazione, i casi di rigetto a seguito di DSAEK rimangono comunque significativamente inferiori, rispetto ai dati riportati per la cheratoplastica perforante. Secondo il lavoro di Allan et al. [2007] il fattore che spiega questo vantaggio può essere l’uso intensivo di corticosteroidi topici, che di solito segue gli interventi di EK [Allan 2007]. In genere, invece, nella PK i cortisonici vengono ridotti durante il primo anno di terapia, per consentire un’adeguata guarigione della ferita prima della rimozione delle suture, ma tale aspetto ovviamente non interessa i pazienti sottoposti a DSEK (che non prevede la sutura dei tessuti). Come riferito da Price 2009], Kaplan-Meier in uno studio su un campione di 598 pazienti (il più ampio svolto finora) ha riportato i valori di rigetto pari al 7.6 % per il primo anno dal trapianto ed al 12% in per il secondo.

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Fallimento primitivo del lembo

Il fallimento primitivo del lembo è dovuto ad una riduzione della funzione endoteliale. Quando l’endotelio trapiantato non è in grado di ridurre l’edema e rendere la cornea meno opaca, la causa può essere imputata ad una manipolazione erronea o eccessiva dei tessuti. Essa, infatti, avviene più facilmente nelle procedure di impianto ed espianto, secondo la metodica DSAEK, rispetto a quanto non avvenga con le tecniche perforanti. Infatti nella PK il fallimento primitivo del lembo è ormai molto raro (dall’1 al 3%), mentre nella DSAEK varia da 0 al 29% [Anshu 2011, Bahar 2008 Terry 2008]. Considerando che la qualità dei trapianti per la DSAEK e per la PK sia sovrapponibile, le differenze riscontrate in termini di fallimento del lembo sono imputabili alla diversa manipolazione dei tessuti nell’una e nell’altra metodica.

Aumenti della pressione intraoculare IOP

L’incidenza di glaucoma dopo la PK varia dal 9 al 31% nel post operatorio precoce e dal 18 al 35% nel tardivo [Greenlee 2008, Mannis 2006]. Nella DSAEK questi valori oscillano dallo 0 al 54% [Covert 2007B, Bahar 2008, Anshu 2011].

Dato che la DSAEK non rimpiazza né distorce la superficie anteriore della cornea, risulta più facile eseguire le misure dei valori di IOP, rispetto a quelli ottenuti negli occhi trattati con PK. Ciò garantisce un controllo pressorio più preciso e suggerisce che i dati relativi alla DSAEK siano più affidabili [Vajaranant 2008].

Per ciò che concerne la patogenesi del glaucoma a seguito di intervento di cheratoplastica, gli elementi che ne causano l’insorgenza sono

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principalmente: la chiusura dell’angolo sclerale a causa dello spostamento dell’aria immessa in cavità anteriore, il processo infiammatorio che consegue all’intervento, la presenza di un blocco pupillare e soprattutto (specialmente nel post operatorio tardivo) la risposta alla somministrazione prolungata di corticosteroidi.

Nel follow up di un anno l’aumento della pressione intraoculare si manifesta in circa il 35% dei casi negli occhi di soggetti sani, e nel 43-45% dei soggetti affetti da glaucoma [Vajaranant 2009].

Complicanze rare

Altre complicanze possono essere le endoftalmiti [Chang 2010] o cheratiti microbiche [Koenig 2009], mentre le emorragie sopracoroidee (relativamente frequenti nella PK) sono molto più rare [Edmonds 1972].

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