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Il sentimento del colore. Gesualdo Bufalino e le arti figurative

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Catania

Dottorato di Ricerca in Filologia Moderna

XXII Ciclo

Maria Giuseppina Catalano

Il sentimento del colore

Gesualdo Bufalino e le arti figurative

Tesi di Dottorato

Coordinatore:

Chiar.ma prof.ssa Margherita Spampinato

Tutor:

Chiar.ma prof. ssa Rosa Maria Monastra

————————

A.A. 2008 - 2009

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Indice

Elenco delle illustrazioni... p. 4 Introduzione...p. 6

Capitolo 1

Diceria dell’untore, un romanzo espressionista

1.1 Un romanzo in rosso e nero...p.10 1.2 Intorno ad una linea da Liberty funebre: la danza di Marta...p. 21 1.3 Il travestimento dei colori...p. 31 1.4 Lo strazio del disfacimento. Il Trionfo della Morte...p. 35 1.5 La pittura di David per Diceria: un’ipotesi...p. 46 1.6 Infanzia come un’isola. La pittura giapponese e altro...p. 50

Capitolo 2

Da Argo il cieco a Shah Mat: il colore come farmaco contro l’ossificazione del mondo

2.1 Impressioni di (per) un sogno: Argo il cieco...p. 57 2.2 I colori delle cose in Argo il cieco...p. 75 2.3 Per un libro d’ombra: Caravaggio e Piranesi nelle Menzogne della notte..p. 81 2.4 Il linguaggio dei colori in Calende greche...p. 86 2.4.1 Desiderata per Calende...p. 104 2.5 Nuovi artisti sulla scena di Qui pro quo...p. 111 2.6 Del perduto colore: Tommaso e il fotografo cieco...p. 122 2.7 Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca. Il silenzio del colore...p. 143

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Capitolo 3

Per disiecta membra. Bufalino ai confini dell’Arte

3.1 Bufalino-Romano: giochi di luce e ombra per un carteggio di gioventù

...p. 150 3.1 Estetica di un visionario: Bufalino e il mondo dell’incisione...p. 163 3.3 La visione oltre: Bufalino e Clerici...p. 174 3.4 Connubio nell’ombra. Bufalino, il blu e Guccione...p. 184

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Elenco delle illustrazioni

Fig. 1 C. Soutine, Gladioli, 1919, Louvres, Parigi.

Fig. 2 C. Soutine, Ritratto di Madeleine Castaing, 1929, New York, The Metropolitan Museum of Art

Fig. 3 E. Munch, La danza della vita (1899-1890), Oslo, Nasjonalgalleriet Fig. 4 Copertina per edizione Sellerio, “Il Castello”, 1990

Fig. 5 E. Schiele, La donna e la morte, 1915, Österreichische Galerie, Vienna Fig. 6 G. Klimt, Sangue di pesce, illustrazione per «Ver Sacrum», 1898 (particolare) Fig. 7 J. Ensor, Maschere, 1897, Anversa, Musée des Beaux Arts

Fig. 8 J. Ensor, L’intrigo, 1890, Anversa, Musée des Beaux Arts Fig. 9 J. Ensor, La morte che insegue un gregge umano, 1896

Fig. 10 Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte (prima del restauro) Palermo, Galleria Nazionale della Sicilia, 1444-1446

Fig. 11 Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte, particolare, Palermo, Galleria Nazionale della Sicilia, 1444-1446

Fig. 12 Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte, particolare, Palermo, Galleria Nazionale della Sicilia, 1444-1446

Fig. 13 Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte, particolare, Palermo, Galleria Nazionale della Sicilia, 1444-1446

Fig. 14 Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte (dopo il restauro), Palermo, Galleria Nazionale della Sicilia, 1444-1446

Fig. 15 J.L. David, Patroclo, 1780, Cherbourg, Musée Henry Fig. 16 J.L. David, San Rocco e gli appestati, 1780, Marsiglia

Fig. 17 J.L. David, La morte di Marat, (1793), Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts

Fig. 18 Katsushika Hokusai, Una veduta del monte Fuji (1830-1832 circa)

Fig. 19 J. McNeill Whistler, Notturno in nero e oro: il razzo cadente, (ca. 1874), Detroit, Institute of Art

Fig. 20 J. McNeill Whistler, Notturno in blu e oro: il vecchio ponte di Battersea (1865 c.), Londra, Tate Gallery

Fig.. 21 C. Monet, Papaveri ad Argenteuil, 1873, Parigi, Musée d’Orsay

Fig. 22 P. Guccione, Vita e morte dell’ibisco, dedicato al mio amico Gesualdo, alla sua

fiaba nera e alla sua poesia, 1984

Fig. 23 J. Callot, I balli di Sfessania, 1622 circa Fig. 24 J. Callot, I balli di Sfessania, 1622 circa

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Fig. 26 S. Fiume, Donna con rosa (particolare) 1980.

Fig. 27 P. Guccione, Interno con figure, 1965, collezione privata Fig. 28 Degrés des ages – Stampa d’Épinal – metà XX sec.

Fig. 29 Tiziano, Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza, 1565, Londra, National Gallery

Fig. 30 Disegno (“Autoritratto”) eseguito da Gesualdo Bufalino per Tullio Pericoli Fig. 31 J.P. Velly, Rȇve, 1977

Fig. 32 M. Utrillo, Impasse Cottin, (1910 ca), Parigi, Museo Nazionale d’Arte Moderna Fig. 33 M. Utrillo, Rue Norvins, (1912), Zurigo, Kunsthaus

Fig. 34 A. Watteau, Gilles, 1717- 19, Parigi, Musée du Louvre

Fig. 35 J. Mc Neill Whistler, Sinfonia in bianco I, 1862. Londra, Tate Gallery Fig. 36 J. Mc Neill Whistler, Sinfonia in bianco II, 1864. Londra, Tate Gallery Fig. 37 Jacopo della Quercia, Ilaria del Carretto, particolare, 1406 -1407, Lucca, Cattedrale di San Martino.

Fig. 38 Jacopo della Quercia, Ilaria del Carretto, particolare del volto, 1406 -1407, Lucca, Cattedrale di San Martino

Fig. 39 F. De Pisis, Natura morta marina, 1926, collezione privata

Fig. 40 E. Hopper, New York Movie (Cinema a New York), 1939, New York, The Museum of Modern Art

Fig. 41 E. Hopper, Nighthawks (Nottamboli), 1942, Chicago, The Art Institute Fig. 42 H. Daumier, L'amateur d'estampes, 1860 circa, Musée du Petit-Palais, Parigi Fig. 43 P. Guccione, Il nero e l’azzurro, 2007.

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Introduzione

Da una lettera di Gesualdo Bufalino a Giovanni Macchia (Comiso, 2 marzo 1994):

Illustre e caro Giovanni Macchia,

grazie per il suo Naufragio (come vede qui accanto, da un naufragio, la mano di un naufrago salva un libro, secondo un’idea che ho suggerito a un amico incisore). Nella sua pagina quanto da ammirare, quanto da imparare! Si vorrebbe non finissero mai. Eccitano sin dalla copertina. Mi ha fatto venire in mente L’Irrémédiable: Un navire pris dans le pôle/ comme en un piège de cristal (ma Baudelaire è improbabile conoscesse quel Friedrich, epperò la concordanza ne risulta più significativa…).

C. Friedrich, Il naufragio della «Speranza» (1821), Amburgo, Kunsthalle.

Le poche ma intense righe della lettera che Bufalino scrisse a Macchia (lettera inedita, più precisamente fotocopia di una lettera mandata allo studioso e conservata presso la Fondazione Bufalino), sono quasi la conferma di quanto si vuole dimostrare attraverso le pagine di questo lavoro, ovvero la costante aspirazione dello scrittore a trattare la materia da pittore, a fare della descrizione

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un frammento pittorico, quasi volesse rendere sensibile l’immagine, nell’imitazione più o meno consapevole del suo unico maestro, appunto il trop

peintre Baudelaire (da non trascurare l’influsso di un pittore vero e proprio come

Delacroix, il cui Journal, che Bufalino ben conosceva, motiva il titolo di questo lavoro).

Il rapporto tra scrittura letteraria e arti figurative, nello scrittore di Comiso, è un aspetto non solo poco esplorato dalla critica ma anche poco conosciuto. Fino ad oggi sono stati presi in analisi numerosi altri aspetti della sua opera, da quelli tematici - la memoria, il sentimento del tempo e della morte, o la vita vagheggiata, vissuta entro luoghi d’immunità – ad altri aspetti, come ad esempio la musicalità della parola o anche il suo rapporto con le traduzioni.

La predilezione per le arti figurative ha una notevole ricaduta nella scrittura letteraria di Bufalino: larga parte dello stile e delle forme dell’immaginario dello scrittore sembrano essersi proprio modellate su questo ambito.

Rispettando un principio di progressione cronologica, ho avviato un’attività di ricognizione e schedatura dei luoghi di un vasto versante della produzione narrativa e saggistica dell’autore, per giungere a constatare che in Bufalino non c’è testo che non contenga almeno un riferimento a un pittore o a un’opera d’arte, dipinto, incisione o scultura che sia.

Fondamentali per la mia ricerca sono state la lettura di materiale epistolare inedito e la perlustrazione tra manoscritti e dattiloscritti presso la Fondazione Bufalino.

Non ho voluto solo evidenziare l’immediatezza visiva della pagina bufaliniana, ma anche la presenza di riferimenti ben più specifici. Ho cercato di ricostruire, per quanto possibile, le letture dello scrittore, non solo setacciandone le dichiarazioni rilasciate nel corso di qualche intervista o le numerose confessioni sparse nei testi, ma anche (e soprattutto) ripercorrendo i libri da lui posseduti e tutti consultabili.

Stimolante è stato ricostruire le modalità di lettura attraverso la ricerca, all’interno dei suoi testi, di segni che Bufalino andava disseminando ovunque: dalle pieghe alle sottolineature, da un segnalibro a un tratto di matita, niente si è

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rivelato casuale. Ad ogni traccia lasciata corrisponde infatti sulla pagina una suggestione visiva, si riscontra un riferimento alla pittura, o c’è un uso espressionistico e simbolico dei colori.

Partendo dal presupposto che Bufalino prediligeva, di un autore o artista, la lettura dei diari e dei carteggi e dalle loro parole mutuava espressioni, stilemi e immagini, riversandoli poi più o meno consciamente nella propria scrittura, ho ripercorso appunto tali testi per individuare le fonti cui lo scrittore attingeva. I testi in questione, fra gli altri, sono gli Scritti d’arte di Baudelaire, il Journal di Delacroix e di Monet, le lettere di Van Gogh; ma anche, insospettabilmente, le poesie del poeta del colore, Diego Valeri.

È possibile dedurre che nell’opera figurativa, Bufalino riconosca quasi un luogo privilegiato dello spirito; e vi ritrovi, inoltre, una ricchezza maggiore di quella trasmessa dalla sola parola.

Ho inoltre intrapreso un percorso critico attribuendo - sulla base di concreti stimoli forniti dai testi - un’attenzione particolare al valore del colore e alla sua interpretazione. Mi sono soffermata sulla dicotomia fondamentale che percorre la storia dei colori: da un lato infatti essi sono considerati come rivelazione dell’essenza delle cose, dall’altro la loro inafferrabile mutevolezza appare quasi come una falsificazione.

Testo per testo ho messo in evidenza come Bufalino usi il colore non solo per le sue complesse trame simboliche, ma per la sua plastica virtù di definire un personaggio, descrivere un ambiente, tracciare un’atmosfera o provare a spiegare un sentimento.

Utilizzando le classiche definizioni appartenenti alla storia dell’arte, ho caratterizzato opportunamente le principali opere narrative di Bufalino: il primo capitolo è dedicato all’ “espressionismo” di Diceria dell’untore (1981) per il nervosismo e le tinte livide che caratterizzano le sue pagine; Argo il cieco (1984) è un romanzo “impressionista” per le cromie squillanti e per il valore dato alla luce; le Menzogne della notte (1988) vengono poste in area caravaggesca per la continua ricerca di contrappunti luce/ombra. Proseguendo di opera in opera,

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sottolineo la progressiva spoliazione del colore e dell’immagine fino al nudo ed essenziale ultimo, incompleto romanzo.

La terza parte del presente lavoro è dedicata al rapporto di Bufalino col mondo dell’incisione e coi pittori che egli più amava, Fabrizio Clerici e Piero Guccione.

Con particolare dedizione mi sono dedicata alla cura dell’apparato iconografico: in special modo per quanto riguarda il I capitolo, ho tentato di ricostruire la memoria visiva dell’autore, sulla base di preziosi appunti autografi o di significative lettere inedite. Ho scelto pertanto di corredare i capitoli di immagini, nell’intenzione di far interagire il testo bufaliniano con la verosimile memoria artistica che la scrittura rivela.

Infine, un mondo parallelo si è dispiegato attraverso la ricerca di materiale scrupolosamente e gelosamente conservato dallo stesso Bufalino all’interno dei fascicoli della collana d’arte “I maestri del colore”, trasferita oggi presso la Fondazione. Bufalino infatti ritagliava riviste e articoli riguardanti aspetti inediti degli artisti in questione, creando una sua personale appendice al fascicolo.

Attraverso il mio studio, lo scrittore va configurandosi sempre più come un esempio novecentesco di scrittura intrisa di gusto e sapienza del figurativo, nata oltretutto a stretto contatto con esperienze pittoriche e grafiche o con esse in rapporto d’interscambiabilità. Bufalino non è un “dilettante” d’arte, come egli si definiva: nel campo delle arti figurative è spesso giunto a giudizi di una notevole valenza teorica, apprezzati dagli stessi artisti coi quali interagiva pienamente.

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Capitolo 1

Diceria dell’untore, un romanzo espressionista

1.1 Un romanzo in rosso e nero

Il 25 novembre 1981 Attilio Bertolucci così scriveva a Gesualdo Bufalino: «Caro Bufalino, […]. Sono stato, per mezzo di Siciliano, uno dei primi lettori della Diceria: con tutto il sangue che lo macchia, è un’opera che aumenta la nostra vitalità. L’effetto del sangue, meno innocente, del Macbeth di Verdi»1. Il grande poeta parmigiano indovinava sin da subito un aspetto centrale di Diceria

dell’untore, ossia l’innegabile violenza visiva. La funzione plastico-costruttiva del

colore, da intendere come elemento strutturale della visione, si dispiega pagina per pagina lungo tutta la Diceria e la bellezza quasi demoniaca del colore rosso si accompagna spesso a quella naturalmente inquietante del nero. Se Bufalino avesse avuto la libertà di scegliere le illustrazioni per la copertina, le avrebbe certamente individuate quasi tutte nella pittura espressionista. Questa non è tuttavia una suggestione visiva basata solo su un’impressione immediata: lo stesso Bufalino, in margine ad una lettera scrittagli da Elvira Sellerio il 30 gennaio 1990, appunterà con la biro una serie di nomi di artisti e di correnti pittoriche. Solo un nome resta purtroppo ad oggi indecifrabile (nonostante i reiterati sforzi di decifrazione, se ne comprende appena la lettera iniziale: “A […]”2). Queste le parole di Elvira

1

Presso la Fondazione Gesualdo Bufalino di Comiso sono conservate due lettere di Attilio Bertolucci. Nella lettera citata il poeta racconta della sua emozione nello scoprire che anche Bufalino, come lui, ha amato film come «[…] il bellissimo e ignoto ai più Amanti senza domani. Poi Toulet…», lasciando la frase in sospeso, come se da quei punti di sospensione si dischiudesse tutto un mondo di letture preziose e segrete che non necessitava più di alcuna spiegazione.

2 Una valida congettura mi è stata suggerita da Nunzio Zago, direttore scientifico della Fondazione

Bufalino: la parola potrebbe essere “Anagrama” e si potrebbe collegare al nome della casa editrice spagnola (Anagrama, appunto) che pubblicando Diceria (Perorata del apestado, 1983) ha utilizzato come immagine da copertina un’inquietante opera di Carlos Mensa dal titolo La visita. Il soggetto dovette piacere a Bufalino, se egli stesso la ripropose fra le illustrazioni che corredano il testo di Qui pro quo.

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Sellerio: «Caro professore, le mando le bozze di Diceria: sono molto contenta di rifare i suoi due romanzi nella collana “Il Castello” della quale sono molto orgogliosa. Aspetto le sue correzioni e spero intanto di mandarle al più presto il volume di Argo. […]». 3

Molto probabilmente i nomi appuntati in margine alla lettera, scritti quasi come fossero un elenco, erano idee di Bufalino da suggerire per una copertina: «Abatellis, Ensor, David, Espress., A.[…], Soutine, Schiele»4. Se, come scrive Zago, all’interno del romanzo

vi è una simbologia degli spazi (una claustrofobia che è però, pure, claustrofilia)” e anche una simbologia dei tempi, per l’analogia che può stabilirsi, da una parte, fra quella «tracotante» estate siciliana, dal gusto, vagamente lampedusiano, di biblica maledizione, e lo stato di quei malati, «così teatrale, in biblico fra vanagloria e spavento», e dall’altra la salute del protagonista, inaspettatamente riconquistata, e il contesto autunnale in cui si colloca [...] 5

così è da aggiungere anche una simbologia del colore. Di più: come scrive Fried, Diceria, «in qualità di romanzo postmoderno ristruttura anche simboli, metafore, archetipi: come la presenza dei colori, dei quattro elementi primordiali, della nave (o tartana, o arca, ecc) della Rocca [...]» 6.

Diceria dell’untore si potrebbe definire un romanzo in rosso e nero: due tinte

che dovevano colpire parecchio Bufalino se sono non a caso i colori che egli attribuisce al suo amatissimo Paul-Jean Toulet, delle cui Contrerimes lo scrittore

3

Le lettere di Elvira Sellerio scritte a Bufalino e conservate presso la Fondazione di Comiso sono 27.

4 La Casa Editrice Sellerio pubblicherà il volume Diceria dell’untore per la collana “Il Castello”,

1990 riportando in copertina un particolare della Danza della vita di Edward Munch, opera del 1916. Nella scelta di questa immagine torna in forma moderna la metafora medievale della vita come danza, tema sotterraneamente presente in Diceria e che verrà analizzato in seguito.

5 N. Zago, Per rileggere «Diceria dell’untore», in Diceria dell’untore, adattamento teatrale di V.

Pirrotta, inaugurazione stagione teatrale 2009/2010, Catania, Teatro Stabile, p. 8.

6

I. Fried, Gesualdo Bufalino, «Diceria dell’untore», un barocco novecentesco, in Pirandello e la

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di Comiso è stato finissimo traduttore. Nel saggio introduttivo alle Controrime 7, Bufalino scriverà parole che sembrano ben adattarsi alla storia dei due protagonisti di Diceria, a quella che lui stesso definisce, in una lettera del 1976 all’amico Romanò, una «vicenda, addirittura d’amore, in cui dominano vanità, tremore e teatro»8. Di Toulet e della sua poesia egli sottolinea infatti

[…] il ritorno implacabile di due tinte, nero e rosso, nella cui guerra o forse viziosa alleanza, abbiamo già visto adombrarsi dolorose metafore di eros e morte…per cui avviene che ora fiotti alle sponde del quadro un mare di tenebra, con al centro una porpora che langue; ora trionfi lo squillo del rosso, insidiato però da una macchia, nero pistillo, oscuro giacinto di piacere e pena. Non c’è controrima, si può dire (ed è strano che non sia stato notato), in cui i due colori non appaiono, aggiungendo di volta in volta un tratto più risentito al tragico pudore di un’anima e alla serietà della sua sofferenza: il rosso che è rubino, sangue vampa, desiderio; il nero che è notte, sesso, paura, peccato…9.

Osservazioni significative rilevate per meglio definire la poesia di Toulet ma che paiono ben adattarsi anche alle atmosfere cromatiche di Diceria e che Bufalino pare abbia quasi pensato per se stesso: la scrittura di Diceria d’altronde ha una gestazione più che decennale e Toulet è un poeta scoperto e definitivamente amato - assieme naturalmente a Baudelaire - appunto negli anni in cui probabilmente germinava il romanzo che avrebbe elettrizzato Bertolucci: «Con tutti i libri deprimenti e anemizzanti che ci sono in giro, mi sentivo elettrizzato», scriverà infatti nella lettera sopracitata il poeta di Parma. Può forse sembrare semplicistico parlare di rosso e nero quando una consolidata tradizione di eros e morte ha già percorso secoli di letteratura, dopo che Stendhal aveva già

7 P. - J. Toulet, Le Controrime, con saggio introduttivo di G. Bufalino, Toulet, sortilegio lontano,

Palermo, Sellerio, 1981, pp. XXI - XXII.

8 A. Romanò - G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950) a c. di N. Zago, Valverde (CT), Il

Girasole, 1994, p. 205.

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elevato questi due colori a gloria letteraria (attribuendogli certamente ben altri significati); sono tinte che riconducono immediatamente all’Espressionismo, corrente artistica appuntata («Espress.») da Bufalino in margine alla lettera sopracitata. Uno dei maggiori e più inquietanti rappresentanti del tormentato movimento tedesco è Oskar Kokoschka, ossessionato dal colore rosso: colore «tragico e perturbante» scriverà Eva Di Stefano,

che suona sin dagli esordi [della pittura di Kokoschka] come una dichiarazione di poetica. Dispiegando una gamma dall’avvinato al lillaceo, è tinta dominante che arroventa la pittura, screzia i fondali, o stinge le figure. Lo si avvertirà sotto la pelle di ogni quadro del lungo percorso dell’artista, come se pulsasse sotterraneamente anche laddove dominano cromie di grigi altrettanto spietati o verdazzurri nottivaghi, fino a riemergere in superficie, irriducibile come uno sbocco di sangue. Il rosso, dichiarerà l’artista maturo, è il colore più amato perché contiene la passione della vita 10.

Come nella pittura di Kokoschka, così avviene nelle pagine di Diceria; andando all’incipit infatti il lettore si ritrova in un’atmosfera nebulosa da sogno per poi precipitare in un’indefinita oscurità: «O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba nel vuoto»11. C’è lo spazio per il grigio, colore privo di risonanza, inconsolabile, oppresso, che è «colore silenzioso e immobile», come scrive Kandinsky, e «più diventa scuro, più si accentua il senso di solitudine e di abbandono e cresce il suo senso di soffocamento» 12.

10

Ivi, p. 4.

11 G. Bufalino, Diceria dell’untore [1981], Bompiani, Milano, 1992, p. 7 (nuova edizione

accresciuta da pagine inedite e degli archivi dell’opera oltre che dalle Istruzioni per l’uso, prefaz. di F. Caputo e un’intervista di L. Sciascia).

12 W. Kandinsky, Il linguaggio delle forme e dei colori, in Id., Lo spirituale nell’arte [Über das Geistige in der Kunst, Insbesondere in der Malerei, 1910] a c. di E. Pontiggia, Milano, SE, 1989,

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Nell’incipit del romanzo sembra quasi visualizzarsi una pittura di Chaime Soutine, altro nome che si riscontra negli appunti autografi di Bufalino in margine alla lettera della Sellerio: nella sua drammatica pittura, come scrive Varisco in un articolo che Bufalino conservò fra le sue carte, «le prospettive subiscono una forzatura visionaria con quei piani precipiti, quelle voragini diagonali, su cui gli oggetti non slittano ma restano in equilibrio per quegli attriti angosciosi che si verificano nei sogni» 13. La tonalità del grigio non tarda infine a scurirsi passando all’inesorabile nero. Come dichiara lo stesso Bufalino, il romanzo ha una struttura circolare che utilizza il nero in apertura e in chiusura. Rientrando pienamente in quello che Zago definisce «gusto analogico o anche […] dello sconfinamento»14, Bufalino, nelle sue puntualizzazioni, adopera spesse volte termini appartenenti al linguaggio dell’arte: si avvale delle teorie di Le Corbusier per spiegare ad esempio la struttura circolare di Diceria, per rispettare

un’esigenza di costruzione e d’ordine. Sicchè un progetto unitario si evincesse dalle singole unità e cellule abitative, alla Le Corbusier. E ne risultasse un edificio dispar et unum. Esempio, uno solo: l’incipit e il desinit di Diceria; coi due motivi del pedaggio e della notte, comuni, come a chiudere il cerchio: “O quando tutte le notti […] l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi…; e alla fine “portarmi la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva […] sulle soglie della notte.”15

13 All’interno del fascicolo dedicato a Soutine e facente parte della collana “I Maestri del colore”

appartenuta a Bufalino, oggi conservata presso la Fondazione, si trova un articolo sulla pittura di Soutine dal titolo Il pittore dell’angoscia, con la firma di Marco Varisco. Non si riscontra né il nome della rivista alla quale l’articolo apparteneva né la data di pubblicazione: resta il solo fatto che fosse stato conservato da Bufalino, dato che testimonia l’importanza attribuitagli dallo scrittore.

14 N. Zago, Bufalino e le arti figurative in I segni incrociati. Letteratura italiana del ‘900 e Arte Figurativa II, a c. di M. Ciccuto, Lucca, Baroni Editore, 1998, p. 367. Nunzio Zago è stato il

primo studioso che si sia occupato, fra le altre cose, del rapporto dello scrittore di Comiso con le arti figurative.

15

G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e

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Al centro del nero trionfa il rosso: è il sangue di Marta che morirà per emottisi; nel nome “Garance” (il vero nome di Marta?) sembra d’altronde essersi iscritto un destino. Una critica ben consolidata insiste sulla ludica scrittura di Bufalino, che lavora coi suoi inchiostri per sotterfugi, trastullandosi con le parole, senza darsi mai alla facile interpretazione, prediligendo volta per volta la fatica e il divertimento del gioco a nascondere: in Diceria, scrive Papa, «la scrittura procede secondo il noto procedimento barocco di dare sostanza carnale ai ghiribizzi della fantasia […]; del barocco, ma più ancora del rococò, qui non manca nessuna trappola»16. Ciò può essere ben detto in special modo per i nomi. Se, come scrive Traina, «questo gioco di Bufalino con i nomi, e con reticenze su di essi, ricorda subito l’analogo gioco a nascondere operato da Montale verso donne, amate, conosciute, sposate o solo immaginate a partire da una fotografia»17, è proprio da un nome scritto sul retro di una fotografia, se fittizio o reale non sarà mai dato sapere al lettore, che è segnato il destino di Marta. Non solo dunque all’interno del romanzo si ha il più scoperto scambio vocalico “Marta-Morta”, ricordato dalla stessa protagonista18, ma compare il nome “Garance” con il quale, pare, la ballerina veniva chiamata dall’amante di una volta19. Se Garance è certamente, come ci ricorda Bufalino nelle sue Istruzioni per l’uso, il nome di Arletty nel film di Carnè Les enfants du paradis (1945)20, la sua traduzione dal francese è

16

E. Papa, Lo splendore barocco in «Nuove Effemeridi», Palermo, V, 1991, n. 18, p. 70.

17 G.Traina, Presenze linguistiche e tematiche della poesia montaliana in Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, in «Siculorum Gymnasium», N.S.a. XLIII n.1-2, Gennaio-Dicembre 1990,

p.264.

18 Queste le parole di Marta: .«Non lei [la Morte], è Marta ch’è morta. Marta-morta, elementare

scambio di vocale, da Angolino della Sfinge, nella pagina dei giochi. Sono morta, un pezzetto per volta», G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 87.

19 Così infatti racconta Marta: «Ricordo il suo braccio bruno, un’estate come questa, in una barca.

[…]. Io sono bella, snella, pulita; […]. Il mio costume è nero, con un’àncora di filo d’oro nel petto. E lui mi chiama Garance…», cfr. G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 63; dopo i funerali della donna, il protagonista assisterà, insieme al Gran Magro, al rogo di tutti gli oggetti che le sono appartenuti: «Anche un mazzetto di foto, che avrei preteso di risparmiare, seguì la medesima sorte, e fra le molte una – dove lei era sulle ginocchia di un oberleutnant in uniforme – con una dedica dietro “A Garance”», G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 124.

20 Les enfants du paradis, comparso in Italia con il titolo Amanti perduti, è il capolavoro di Marcel

Carné, girato in Francia (fra Parigi e Nizza) tra 1943 e 1945, su sceneggiatura e dialoghi di Jacques Prévert ed interpretato da Arletty (Garance), Jean-Louis Barrault, Pierre Brasseur. Nelle scene iniziali del film, la bella Garance risponderà a Federico, colpito da un autentico colpo di fulmine nel vederla passeggiare fra la folla: «Mi chiamo Garance. È il nome di un fiore». Lui le

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“garanza”, ossia “robbia” e quindi, per esteso, “rosso sangue” 21. Così l’io narrante racconta la morte della donna: «[…] mentre lei si sentiva salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo»22 . Con queste parole Marta racconterà le successive crisi che preannunciano il suo destino: «[…] infine sputai sangue: e l’epilogo si scrisse da sé» 23 .

La pittura di Soutine, artista affascinato «dal gusto sensuoso della materia, dalla fisica e densa sontuosità del colore» 24, contribuisce ancora una volta a creare un adattamento figurativo di alcune scene di Diceria e a lasciare supporre le immagini che Bufalino avrebbe forse scelto per il suo romanzo: basti pensare, come scrive ancora Negri, «alla fiammata ardente dei Gladioli del 1919, una tela dove tutti gli elementi – il fondo bruno, la fragile brocca, gli steli appena abbozzati – sono subordinati al voluto trionfo del rosso pieno, denso e carnoso, quasi gocciante sangue, dei grandi fiori»25. O forse è un altro dipinto? All’interno di Diceria, l’io narrante utilizza un ricordo cinematografico per descrivere il suo incontro d’amore e morte:

Ripensai ad un film di tanti anni prima, al sorridevole piagnisteo del suo titolo:

Amanti senza domani. Rividi i due su un ponte di transatlantico. William Powell,

lui, un losco galante che la sedia elettrica attende alla fine della traversata e a cui gli sbirri consentono benevolmente di passeggiare senza manette; Kai Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, per scordarsene, indossa una pelliccia più

risponderà prontamente: «Rosso come un incendio!». All’osservazione dell’uomo sulla sua bellezza, Garance sorridendogli ribatterà: «Sono bella perché sono viva».

21

Cfr. C. Ghiotti, Novissimo Ghiotti - Vocabolario italiano-francese e francese-italiano, ed. curata da G. Cumino, Torino, G. B. Petrini, 1964, p. 503.

22 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 120. 23

Ivi, p. 91. Nella presenza del sangue, Fried individua una componente barocca: «Il sangue fa parte della malattia: della tubercolosi mortale e simboleggia anche la sofferenza per gli altri, per la purificazione del mondo. Il sangue dei martiri cristiani, la rappresentazione della loro sofferenza fa parte anche dell’immaginario barocco», in I. Fried, Gesualdo Bufalino, «Diceria dell’untore», un

barocco novecentesco, cit., p. 202. 24

Soutine, testo a c. di R. Negri, Milano, Fabbri, collana “I maestri del colore”, 1966, [p. 3].

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bella. S’incontrano, e ognuno sa della condanna dell’altro, ma finge di non saperlo. E ballano insieme, in un grande salone deserto, e si dicono parole sotto la luna…26.

C’è un quadro di Soutine che rappresenta una donna vestita di rosso con

addosso una pelliccia nera e che potrebbe ricordare la donna che ogni sera, beffando la morte, «indossa una pelliccia sempre più bella». Le parole dette sotto la luna ricordano inoltre anche (e soprattutto) la Danza della vita di Munch, la cui pittura si caratterizza non solo per gli angosciosi soggetti ma anche per la violenta cromia, riflesso di una tormentata genialità. Secondo Argan, il colore della pittura di Munch deve bruciarsi «nella sua stessa violenza: non deve significare ma esprimere»27. Nella Danza della vita il rosso fiammeggiante della veste della donna avviluppa l’uomo, vestito di nero: la linea di contorno serra ogni forma e la isola da quelle circostanti. D’altronde, l’aggressività dell’immagine dell’Espressionismo nasce proprio dal realismo simbolico di Munch e il simbolo per Munch, come scrive ancora Argan, «non è qualcosa che va oltre la realtà ma piuttosto qualcosa di morto che si mescola alla vita» 28: esattamente ciò avviene pagina per pagina, nelle storie di vita e morte raccontate in Diceria. Le sue immagini sono spesso prive di simboli inespressi e quindi sono ancor più inquietanti, aggressive e pericolose. Come sottolinea ancora Argan, l’immagine per Munch non deve provocare un’impressione nell’occhio ma deve piuttosto penetrare e infine colpire nel profondo. Per la collana “Il Castello”, Sellerio sceglierà un’altra versione della Danza della vita, non meno angosciosa e drammatica che probabilmente non dovette dispiacere a Bufalino.

26 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 52.

27 G. C. Argan, L’arte Moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, Firenze, Sansoni,

1998, p. 202.

28

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(19)

Fig. 2 - C. Soutine, Ritratto di Madeleine Castaing, 1929, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Fig. 3 - E. Munch, La danza della vita (1899-1890), Oslo, Nasjonalgalleriet.

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1.2 Intorno ad una linea da Liberty funebre: la danza di Marta

La Rocca è un luogo che sembra a tratti imbrattarsi di fuliggini mitteleuropee; lì dentro ci si consola come si può, come riescono malamente a fare i carrozzoni colorati pieni di sfavillanti giocolerie; intanto, l’aria malata di una Sicilia barocca e ferale alimenta sempre più la malattia, piuttosto che alleviarla, perché come scriveva Siciliano, «l’umido del vento mediterraneo sembra che custodisca con perfidia la virulenza dei bacilli invece che fiaccarla»29.

Da uno di questi carrozzoni variopinti e tristi sembra essere saltato giù il Gran Magro di Diceria il quale, come racconta l’io narrante, non è solo «[…] il molto potente pontefice dal cui labbro di lepre, dal cui pugno scettrato di stetoscopio, ci toccava aspettare ogni mattina la cresima o il viatico: bensì, nelle ricorrenze dell’anno, il procuratore di collettive letizie: luminarie, quadri animati, presepi, opere buffe» 30. Così, grazie agli spettacoli che questo circense personaggio organizza per gli ammalati della Rocca, il protagonista di Diceria conosce la ballerina Marta. Se è vero che l’illuminazione fa parte della messa in scena di un quadro – come nota Raimondi - sono presenti tutti gli elementi necessari all’allestimento dello scenario di una danza della morte: «[…] Lo spettacolo era già cominciato, quando entrai finalmente, dopo avere brancicato alla cieca, in cerca della cesura, fra le tende cremisi che pendevano dalla sopraporta come i paramenti di un catafalco» 31. Attraverso un’accorta ricerca cromatica, Bufalino costruisce le quinte di un teatro livido e tumefatto, mentre i volti del pubblico che assiste allo spettacolo sono «inceronati di rosa agli zigomi» 32. Interessante a tal proposito l’idea di Raimondi che associa la danza ad un quadro:

un balletto è un quadro, o piuttosto un seguito di quadri legati fra di loro dall’azione che ne costituisce il soggetto; la scena, per così dire, è la tela cui il compositore rende le proprie idee; la scelta

29 E. Siciliano, Sulle soglie della notte, «Corriere della sera», 19 marzo 1981, articolo in seguito

confluito nel numero monografico «Nuove Effemeridi» dedicato a Bufalino, cit., p. 59.

30 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 35. 31

Ivi, pp. 36-37.

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della musica, la decorazione, il costume fungono da colorito, e il compositore diviene il pittore delle passioni che la parola non riesce ad esprimere e che s’incarnano invece in un passo, un gesto, un movimento.33

Nella sezione “I personaggi” inserita all’interno delle Istruzioni per l’uso, lo stesso Bufalino suggerisce il profilo figurativo di Marta: «Marta: klimtiana se dovessi visualizzarla. Forse a me premeva installare al centro di un’estate di zolfi mediterranei una diversa mitologia, longobarda o mitteleuropea, e stare a vedere cosa succedeva» 34. Sensualità, inconscio, sogno costituiscono gli aspetti preponderanti dell’arte klimtiana, non meno presenti all’interno della Diceria, dove frequentemente ci si imbatte in tipiche atmosfere oniriche.

In un romanzo che lo stesso Bufalino definiva «turgido e mortuario», con una scrittura da «liberty funebre» 35, l’ingresso di Marta nella scena si inscrive in una sinuosa cornice da Art Nouveau. Marta infatti fa il suo ingresso nella vita del protagonista avvolta nella linea di una danza. La linea è d’altronde uno degli elementi fondamentali del Liberty e la danza, da concepire come proiezione nel tempo - in senso musicale-ritmico del movimento -, è una delle espressioni più ricorrenti nell’iconografia dello Art Nouveau. A tal proposito così puntualizza Vinca Masini:

[Nello Art Nouveau] Anche la figura umana è assunta in senso simbolico come espressione del dinamismo essenziale nel quale si concretizza la vita. L’immagine femminile è ridotta a sottile simbolo scorporato, di cui rimane sotterraneo e segreto, un sensualismo sofisticato e sfuggente, leggermente equivoco; e l’immagine della danzatrice è tipica del tempo. Il gesto rituale della

33 E. Raimondi, I segni senza voce in Id., Il volto delle parole, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 17. 34

G. Bufalino, I personaggi in Istruzioni per l’uso (di Diceria), cit., p. 181.

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danza è uno dei mezzi di esorcizzazione del sesso (come asserisce Barthes), perché allontana il corpo nel favoloso 36.

Ecco come danza Marta: il suo movimento segna la linea entro la quale essa avvolge i suoi passi: «[…] la ballerina si sgrovigliava e guizzava nel cielo […] e la coalizione di ellissi e vortici attraverso cui le membra commentavano il dirotto discorso della musica»; e ancora: «[…] recuperava ad una ad una le linee di forza del suo essere per ricomporle di nuovo in una intenzione di volo» 37.

Nel descrivere la danza di Marta non è improbabile che Bufalino avesse presente anche il componimento di Baudelaire dal titolo, appunto, Danse

macabre:

Si vide mai al ballo vita più smilza? Effuso In ampi e ricchi giri, con nobile turgore, l’abito le trabocca sul piede scarno, chiuso

da uno scarpino a fiocchi, vezzoso come un fiore 38

D’altronde, come viene dichiarato nelle illuminanti Istruzioni per l’uso, un altro titolo del libro sarebbe potuto essere, fra gli altri, Totentanz 39, ossia “Danza

della morte”. A tal proposito così scrive Maria Corti: «In questo simulacro del vivere Bufalino fa confluire giochi esistenziali, sesso, contagio, morte, memoria tragica, disperazione e pietà attorno a impressionanti episodi e personaggi: ecco la ballerina febbricitante, destinata alla morte, che ammalia il protagonista danzando,

36

L. Vinca Masini, La linea e l’ornamento, in Art Nouveau, «Art e Dossier», Milano, Giunti, 1989, p. 15.

37 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 39.

38 «[…] Vit-on jamais au bal une taille plus mince?/ Sa robe exagéréé, en sa royale ampleur,/

S’écroule abondamment sur un pied sec que pince/ un soulier pomponné, joli comme une fleur […]», Ch. Baudelaire, Danse macabre in I fiori del male, traduzione, introduzione e note di G. Bufalino, Milano, Mondadori, 1983, p. 180.

39 Così precisa lo scrittore: «Titoli alternativi furono volta a volta: Annale del malanno; Elegos in baroco; Il labbro gonfio; Le vanitose agonie; Aegri ephemeris; Totentanz…» in G. Bufalino, Guida-Indice dei temi in Istruzioni per l’uso (di Diceria dell’untore) in Id., Diceria dell’untore

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esile libellula, sul palcoscenico di fronte a un pubblico di malati, relitti bellici già preda di incombente morte: una scena da medievale danza macabra» 40.

La descrizione del pubblico della Rocca avrà una lontana eco nel saggio di Bufalino La ragnatela incantata, proprio per l’evocazione di un’atmosfera ossuta e malata, macabra e insieme carnevalesca: «[…] come in un totentanz medievale tornano tutti a sfilarci davanti, corrosi, flosci, sfiancati, ora ridotti ad un pugno di ossa dipinte, ora espansi in dirotte pinguedini, caricature e sgorbi sacrileghi della propria gioventù» 41. Anche qui, però, torna l’ombra lunga di Baudelaire: «O mostri che rimpiangono d’essere senza velo! O ridicoli tronchi, torsi di mascherati, miseri corpi obesi, magri, sfiancati […]» 42. Queste immagini rievocano anche la pittura di James Ensor, nome anch’esso che figura fra quelli appuntati da Bufalino nella lettera alla Sellerio. Come scrive Argan, la pittura di Ensor racconta di :«[…] larve orrende invece di belle fanciulle, scheletri invece di nudità rosa, vecchi stracci invece di fiori; e se per Renoir gli accordi per dissonanze erano un’estensione dell’armonia cromatica, per Ensor rimangono, debbono rimanere dissonanze stridenti così come il segno deve liberarsi del colore, assumere una propria, forsennata, aggressiva vitalità» 43 .

Marta, mentre danza, viene inoltre paragonata ad un angelo: «Oh certo, un serafino era, dalla vita sottile e dalle ali roventi, con occhi come ciottoli d’ebano nel fiero ovale ammansito da una corta chioma di luce»44: la drammaticità crescente del suo gesto, la tensione e il ritmo della sintassi figurativa affidata al corpo racchiudono una sofferenza squisitamente espressionista. Ancora una volta dunque riappare lo spettro dell’espressionismo, questa volta persino nella rievocazione di un angelo: la poetica espressionistica, puntualizza Argan, «che rimane pur sempre fondamentalmente idealistica, è la prima poetica del brutto: ma

40 M. Corti, Introduzione a G. Bufalino, Opere.1981-1988, a c. di M. Corti e F. Caputo, Milano,

Bompiani, 1992, p. XV.

41 G. Bufalino, Cere perse [1985], in Id. Opere.1981-1988, cit., p. 1012.

42 «[…] O monstruosités pleurant leur vêtement!/ O ridicules troncs! torses dignes des masques!/

O pauvres corps tordus, maigres, ventrus ou flasques […]», Ch. Baudelaire, I fiori del male, cit., p. 20.

43

C. G. Argan, L’arte Moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, cit., p. 200.

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il brutto non è altro che un bello caduto e degradato»45. Tale poetica, specifica ancora lo studioso, «conserva il suo carattere ideale come gli angeli ribelli conservano, ma col segno negativo del demoniaco, il loro carattere soprannaturale. E la condizione umana, per gli espressionisti tedeschi, è appunto quella dell’angelo caduto» 46: cosa è Marta, se non un angelo caduto? Così infine racconta l’io narrante, quando il balletto di Marta volge alla fine:

Chiusi gli occhi quando, dopo un tentativo che fallì ancora, precipitò e fu come se si fosse buttata dalla finestra. Era chiaro a tutti che uno spacco era intervenuto, o il divieto di una legge, al limitare di un regno che lei solo scorgeva. Annaspando riprovò, ma senza fiducia, i preliminari dell’assunzione, […]. Non la vedemmo che in un lampo, mentre balzava in su […]: un angelo nunciante che se ne va 47.

L’autore stesso, come è stato detto sopra, definisce Marta “Klimtiana”, indirizzando dunque il lettore ad una precisa e circoscritta visualizzazione del personaggio femminile. In un’immediata imagerie, la pittura di Gustav Klimt riconduce a tenui e morbide atmosfere iridate, a languide cromie, a soffuse delicatezze; le donne da lui raffigurate hanno bei volti rosei, capelli lunghi e dorati, guance dall’incarnato acceso e occhi azzurri; le loro figure si stagliano sullo sfondo caratterizzato il più delle volte da un’accentuata esuberanza decorativa. Seppure non manchino all’interno di Diceria atmosfere tipicamente klimtiane (si rileggano ad esempio questi passaggi: «[…] benché la luna gli si sciolga intorno ad una cipria di luce» 48, oppure «[…] E le continentali malizie, i nonnulla del gesto che impreziosiva, come in uno spolvero d’oro, il ricordo muschiato delle antiche serate di gala, dei damaschi, dei ventagli […]»49), tuttavia il Klimt evocato da Bufalino è piuttosto il Klimt più “freudiano”, il pittore delle

45

C. G. Argan, L’arte Moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, cit., p. 225.

46 Ibid.

47 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 39. 48

Ivi, p. 55.

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donne fluttuanti in un’onirica leggerezza incorporea; o delle donne annegate, i cui corpi ancora una volta seguono la linea sinuosa di un movimento, seppure stavolta non sia quella di una musica o di una danza, ma quella del corso di un’acqua mortifera. Lo stile di Bufalino è accostabile a quello di Klimt: artista, quest’ultimo, come scrive Argan

estremamente colto e sensibile, raffinato sino alla morbosità, ma anch’esso legato ad una sua formula decorativa, piena d’implicazioni simbolistiche. […] In una profusione di ornati simbolici, ma del cui significato s’è perduta anche la memoria, sviluppa i ritmi melodici di un linearismo che finisce sempre per ritornare al punto di partenza e chiudersi su se stesso: e li accompagna con le delicate, malinconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei, con morenti bagliori d’oro, d’argento, di smalto 50 .

L’esangue Marta richiama alla memoria anche le donne dei preraffaelliti, «con questo rosa ai pomelli, così vero che sembra finto»51. L’artificiosità dell’incarnato, l’assenza di naturalezza e freschezza nella bellezza di Marta prefigurano indubbiamente un mondo di morte: nel nome Garance, è stato detto, sembra essersi inscritto un presagio di sangue; nella sinuosa danza pare quasi prefigurarsi l’acqua di una Marta annegata che tormenta il sonno dell’io narrante:

Allora una bagnante entrava nel mio sognare, con un costume tutto nero e una gocciola di mare sporca di sabbia, e oscillava su e giù nell’aria, come da un’amaca di nebbia che dondolasse sul mio capo adagio, su e giù per sempre, per l’eternità. Il ventilatore parlava da un angolo della stanza, e le scompigliava i capelli. Ed erano i capelli di Marta, i capelli di un’annegata52.

50C. G. Argan, L’arte Moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, cit., pp. 199-200. 51

G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 60.

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Ma non solo: Di Stefano ricorda che «[…] le capigliature ondulate e lunghe contengono presagio di morte» 53. Marta, prima di morire, aveva immaginato così la sua morte: «[…] un signore che non conosco ancora mi prenderà fra le braccia, una sera…parole che non vogliono dire più nulla, oppure significano un signore vestito di nero» 54. C’è una pittura di Egon Schiele, pittore molto amato da Bufalino (appartenente alla lista di nomi scritti in margine alla lettera della Sellerio); è un dipinto drammatico e spaventoso, esemplare sul tema di Eros e Thanatos, caro alla sensibilità e alla cultura figurativa tedesca. Di Stefano descrive così il dipinto: «Un lenzuolo spiegazzato su un deserto di pietre incornicia l’abbraccio e il morso vampiresco del monaco-spettro che stringe a sé la fanciulla, la quale a sua volta si allaccia a lui come se in quell’amplesso di sasso avesse riconosciuto la spina del proprio desiderio, non un cattivo sogno, ma una disperazione antica».55 Oltretutto, Schiele ben si adatta come paradigma figurativo di Diceria, poiché, come sottolinea Citati, in questo libro «il desiderio sensuale è nervoso, languido, febbricitante: la sensualità ama la sofferenza, provoca e cerca la sofferenza, pur di vibrare; e recita, per rendere più doloroso lo strazio delle cose» 56: tutti elementi riscontrabili tanto nelle nervose pagine di Diceria, quanto nella macerata e sofferta pittura dell’artista austriaco.

Negli anni in cui in Bufalino fermentava l’idea di Diceria, come testimonia il carteggio con l’amico Romanò, l’autore era fortemente attratto dalle lusinghe di un’atmosfera postsimbolistica e neodecadente, aspetto più volte sottolineato da Zago nei suoi molteplici interventi. Soprattutto nella descrizione della morte della donna tornano a ridisegnarsi numerosi luoghi simbolici della cultura fin-de-siècle:

mentre l’altra [Marta] - e quanto sangue capiva in un corpo così pallido – opponeva a quella nenia, di rimando, non so che parvolo invariabile broncio e

53

E. Di Stefano, Il complesso di Salomè. La donna, l’amore e la morte nella pittura di Klimt, Palermo, Sellerio, 1985, p. 90.

54 Marta si riferisce ad una canzone francese ascoltata alla radio: «Un monsieur que je ne connais

pas/ me prendra un soir dans ses bras…», cfr. G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 84.

55 Schiele, testo a cura di E. Di Stefano, «Art e Dossier», Milano, Giunti, 1992, p. 45. 56

P. Citati, Ritratto di Gesualdo Bufalino, in Id., La malattia dell’infinito. La letteratura nel

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nient’altro più che il vermiglio del suo vomito supremo. Spensi la luce per cancellarlo, e nella stanza, al chiarore della luna, tornai a cercarla con gli occhi: sembrava dormire, come nella cuna d’una illesa natività; e sul cuscino, attorno al viso che vi posava senza imprimervi segno, tanto era leggero, l’incurvatura a elmetto dei mozzi capelli componeva ancora un’aureolaquasi di serpi pacificate.57

Aumentano sempre più le immagini che contribuiscono a creare una vera e propria equazione simbolica tra capigliatura, acqua, amore (seduzione) e morte. I capelli di Marta-morta sono ormai «serpi pacificate», quindi tradiscono l’essenza - ormai svanita - della donna-gorgone dalla fatale capigliatura58, che ritroviamo Attraverso la puntuale analisi di Di Stefano, «si capisce come questo della capigliatura resti per tutto il periodo [dello Jugendstijl] un motivo dominante ed ossessivo: per la sua stessa natura permette quegli acrobatici giochi di linee sinusoidali che si sdoppiano, si moltiplicano, creano un intero sistema avvolgente, e che sono il dato caratterizzante dello stile Art Nouveau» 59. Nei componimenti di Baudelaire – basti pensare alla Chevalure – o in quelli di Mallarmé, le «infinite pieghe dei capelli femminili descrivono un’intera geografia del desiderio» 60 ma possono anche rappresentare, come in Maeterlinck, le insidie di un laccio mortale.

57

G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 122.

58 Marta non porta lunghi capelli, ma un caschetto: probabilmente un omaggio, da parte di

Bufalino, alla moda degli anni ‘20 e ‘30. Spesso, per descrivere le donne, egli attingeva al fascinoso repertorio di dive del cinema.

59 E. Di Stefano, Il complesso di Salomè, cit., p. 91. 60

Vedi la voce Capelli di A. Violi, in Dizionario dei temi letterari, I vol., a c. di R. Ceserani, M. Domenichelli e G. Fasano, Torino, UTET, 2007, p. 365.

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Fig. 6 - G. Klimt, Sangue di pesce, illustrazione per «Ver Sacrum», 1898 (particolare).

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1.3 Il travestimento dei colori

Durante la scena della danza, le membra minute di Marta sono «vestite di molti colori e distese a terra come in una vignetta di libro: un’Arlecchina, magari, fintamorta nella sua abbagliante casacca»61 . Il colore delle pezze da cui la donna è ricoperta cela le vere sembianze: infatti nella sua origine etimologica la parola “colore” deriva da “celare” 62. Nel caso di Marta ciò che viene nascosto è un misero gruzzolo di ossa.

I colori hanno dunque una funzione di travestimento e il costume funge da colorito, come è stato detto sopra: lo stesso Bufalino ha più volte dichiarato che la sua ambizione «non è quella di cercare il cuore delle cose» - nella sua scrittura infatti non sembra esserci accanimento conoscitivo - «quanto piuttosto il loro travestimento, il loro abito d’arlecchino»63, e lo stesso io narrante di Diceria ricorda al lettore di avere imbellettato un po’ i suoi ricordi: «E posso aver aggiunto un trucco di crome»64. Fra carnevalesco e arlecchinesco, il vestito di scena di Marta-Arlecchina rimanda alle macabre atmosfere di Ensor, alle maschere variopinte che tuttavia, a fissarle, non rasserenano né tantomeno rallegrano l’occhio: piuttosto lasciano in chi guarda l’insidia del vuoto65.

Se il tema della vanitas diventa nella pittura di Kokoschka, barocca decostruzione dell’immagine, se Soutine smonta i piani restituendo la vertigine e la confusione dei sogni; se in Schiele c’è una nevrastenia simile al tratto stilistico che caratterizza il romanzo, e la cui pittura dolente e macerata ben si adatta a

61 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 38. 62

«L’origine etimologica del termine it. colore (analoga al fr. couleur, allo sp. color e all’inglese

colour, mentre il ted. Farben ha altra provenienza) pone di per sé una questione interpretativa

importante: infatti, la parola lat. Color discende dalla radice KEL (presente anche nelle aree celtica e germanica), che significa «nascondere» (da cui «celare» e «occultare»), ed è legata all’antivo verbo lat. colere («far nascondere», causativo di celere), da non confondere col più noto colere («coltivare», dalla radice kwEL). Dunque il colore sarebbe ciò che ha il potere di nascondere l’essenza di una cosa, ricoprendola»: queste preziose e necessarie informazioni sono riscontrabili alla voce Colori in Dizionario dei temi letterari, cit., vol. I, p. 161.

63Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio, intervista di M. Onofri, in «Nuove

Effemeridi», cit., p. 25.

64 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 92.

65 Mondrian, come ricorda Argan, definirà l’arte di James Ensor «“Barocco moderno”: l’altra

faccia, scura e accigliata, della pittura fiduciosa e inneggiante del Modernismo», cfr. C. G. Argan,

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certe atmosfere, in Ensor le maschere colorate hanno cucita addosso una tensione espressiva insostenibile, nonostante la loro apparente inespressività: ricordano i volti del popolo della Rocca; quando Marta ha già finito di danzare, l’io narrante la seguirà con lo sguardo ma gli occhi di lei lo schiveranno, chiudendosi «infine nell’attimo in cui uno scoppio di tosse, secco come uno sparo, la piegò in due, la sconvolse, inchiodandole sulla faccia una maschera sdrucita di vecchia»66. Sembra a questo punto che si materializzi la pittura di Ensor: Bufalino doveva esserne particolarmente attratto e forse immaginava uno dei due disegni da mettere in copertina, se ha conservato alcuni ritagli della pittura di Ensor,

Maschere e La morte che insegue il gregge degli umani 67. Nella pittura di Ensor,

maschere e scheletri animati sono i personaggi privilegiati di una personalissima

comédie humaine grottesca, i cui colori e la cui aggressività hanno spesso

un’evidenza marcatamente espressionistica.

66

G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 40.

67 Come per l’articolo dedicato a Soutine e ritagliato da Bufalino, anche questi ritagli di immagini

a colori (senza testo) si trovano all’interno del grande fascicolo dedicato a James Ensor e facente parte della collana “I maestri del colore” appartenuta a Bufalino e conservata presso la Fondazione.

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Fig. 7 - J. Ensor, Maschere , 1897, Anversa, Musée des Beaux Arts

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1.4 Lo strazio del disfacimento. Il Trionfo della Morte

«Nell’immaginario collettivo ci sono opere che – in virtù del tema trattato, del contesto in cui nascono o sono inserite, del messaggio o delle sensazioni che in ciascuno riescono a dare – assumono toni e carattere d’emblema, di simbolo. Il

Trionfo della morte, già in palazzo Sclafani, è una di esse» 68 : così Vincenzo Abbate nell’introduzione ad un articolo sullo spaventoso e magnifico capolavoro palermitano 69. Certamente l’affresco di ignoto raffigurante il Trionfo della morte è un emblema di Diceria: «Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri»70. Con queste parole viene descritta la morte su un cavallo scheletrito dal protagonista di Diceria. La pittura, che non risparmia connotazioni di realismo esasperato e che, come sottolinea Paolini, nei risultati è più espressionistico che oggettivo - basti osservare con attenzione le guance scavate e la tensione delle fasce muscolari di alcuni personaggi, i tendini o le pieghe del collo - rende magistralmente lo spavento, l’orrore, l’anelito alla fuga ma anche il senso dell’ultima attesa dei protagonisti dell’affresco, narrando figurativamente lo sgomento dei due personaggi di Diceria. Bufalino molto

68

V. Abbate, Intorno al Trionfo della morte, in «Kalós - Arte in Sicilia», Anno 19, n. 3 - Luglio-Settembre 2007, Palermo, Gruppo editoriale Kalós, p. 30.

69 Il grande affresco, dipinto presumibilmente fra 1444 e 1446 si trovava originariamente sul muro

meridionale del cortile interno di palazzo Sclafani in Palermo (edificio trecentesco trasformato in seguito, dopo il trasferimento dell’omonima famiglia in Spagna, in sede dell’Ospedale Grande e Nuovo della città di Palermo). Salvatosi persino dai bombardamenti del II conflitto mondiale, l’affresco fu strappato nel 1944 e poi esposto nella sala delle Lapidi del palazzo comunale, infine sistemato in palazzo Abatellis, dove venne restaurato. Cfr. F. Bologna, Il «Trionfo della Morte» di

Palermo e la prevalenza catalano-borgognona, con una postilla sul soggiorno napoletano del Pisanello e delle sue opere tarde in Id., Napoli e le rotte mediterranee della pittura. Da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1977.

70 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 63. In alcune pagine del Fiele ibleo Bufalino parla del Trionfo della morte di Palermo: «Non si finirebbe d’indicare mete significative: lo Steri, già sede

del Santo Uffizio; la Cripta dei Cappuccini, col suo museo di scheletri e teschi; l’oratorio di Santa Zita, con le fantasmagoriche plastiche del Serpotta. E ancora, nei musei, le collezioni d’arte, le sculture, le pitture (fra tutte quel Trionfo della morte d’ignoto, dove una morte cavallerizza punta le sue frecce fatali su un’umanità condannata, senza distinzione di rango e di età, pietrificando le vittime in una smorfia di supremo stupore», in G. Bufalino, L’altra Palermo, Id., Opere/2

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probabilmente ha visto l’affresco non ancora restaurato, per cui le tinte e l’atmosfera dell’opera dovevano essere ancora parecchio scurite e quindi, ancora più paurose, tanto da conferire all’affresco – come puntualizza Paolini - «una parvenza notturna»71. Infatti il recupero dell’opera - effettuato negli anni Ottanta - restituirà a “cette admirable peinture” 72– che Sciascia ebbe giustamente a definire «opera di alta poesia»73 - gli originari colori accesi e squillanti, facendoli riemergere dalle polveri del bombardamento. Abbate ricorda che il Trionfo non è legato solo all’iconografia macabra tardomedievale (e pertanto, come sottolinea Tenenti, a grandi cicli dipinti del centro nord 74) ma soprattutto a particolari contesti socio-religiosi (congreghe, ospedali ed altri luoghi simili) – che sono i luoghi della sofferenza e della morte: la Rocca, come luogo d’esilio di gente appestata e segnata dal contagio, è uno di questi. L’io narrante di Diceria così descrive ancora una volta questa visione: «La morte, volli scherzare, non è un signore, ma una dama senza naso, ed è morta, le bombe dei bombardieri inglesi l’hanno sotterrata nel cortile del vecchio palazzo, di fronte a villa Bonanno, dove su un muro una mano d’ignoto la dipinse cinque secoli fa»75. L’inserimento di questo importante riferimento figurativo è centrale nella storia narrata, come centrale è la posizione del cavallo della morte all’interno del grandioso schema compositivo. La grazia e la leziosità di un precedente riferimento ad un dipinto di Watteau, L’imbarco per Citera 76 - altro emblematico riferimento figurativo

71 M. G. Paolini, Il «Trionfo» oggi in Il Trionfo della Morte di Palermo: l’opera, le vicende, conservative, il restauro, Palermo, Sellerio, 1989, p.19.

72 «Nell’ambito delle “correspondances particulières” promosse dalla “Gazette des Beaux Arts”, il

5 febbraio 1861, Paolo Emiliani Giudici scrivendo da Firenze al redattore della nota rivista francese per tracciare un breve profilo De l’Art en Sicile si soffermava diffusamente su quella “peinture grandiose”[…]» riferendosi appunto all’affresco di Palazzo Sclafani temendo che «presto “elle sera perdu”». Cfr. Introduzione di V. Abbate a Il Trionfo della Morte di Palermo:

l’opera, le vicende, conservative, il restauro, cit., p. 13.

73 L. Sciascia, Il Trionfo della morte, «Illustrazione italiana», n.1, 1974.

74 Cfr. A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino, Einaudi

1957.

75 G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 87.

76 Ad incipit del IV capitolo di Diceria, l’io narrante racconta il desiderio di andare in mezzo alla

gente, di vivere come se si fosse sani: «Fra la rocca e la città c’erano solo pochi chilometri, quanti non so, non era facile contarli, mentre si scendeva in tram per l’inflessibile Via Calatafimi, così in fretta, quasi ad ogni isolato, si seguivano le fermate. La più comoda era qualche metro più giù dall’ingresso più grande, sotto una tettoia di eternit che ci ospitava in attesa, imbottiti di maglie o

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utilizzato per indicare la fuga dalla Rocca e l’avventura dei malati nel rientrare, seppur per poco, nel gioco della vita - andrà rapidamente consumandosi per lasciare «turgido e soave lezzo di morte» proprio nella drammaticità assoluta del

Trionfo della morte e nel suo strazio da disfacimento.

Nasceva probabilmente nell’agosto 1946 l’idea del romanzo, quando Bufalino, in una lettera all’amico Romanò, descrivendogli «le sue giornate infelici, e del loro torvo colore, e della morte umile che le conclude»77, confessa di non riuscire «a sfuggire al contagio di furore e pietà» che i malati del sanatorio gli comunicavano con il solo sguardo. Infine Bufalino accennerà ancora una volta all’amico l’idea di Diceria, rivelandogli la presenza, nei suoi cassetti, «di qualche scartafaccio, lasciato morire per paura, per superbia, perché ogni volta tornava a ripugnarmene il turgido e soave lezzo di morte»78.

L’idea di Diceria è ben spiegata dall’autore nella sezione “Guida-indice dei temi” all’interno delle Istruzioni per l’uso. Queste le parole di Bufalino:

Idea del libro: “L’ardore della tua collera tempesti i loro eserciti, e i loro eroi diventino letame negli orti della Conca d’oro” così il poeta arabo Ibn Zafar, in una canzone di guerra. Ebbene, forse il libro è nato dal ricordo di questi versi, in cui si mescolava un’immagine di sfacelo a un’immagine di fulgore; forse dal ricordo del

Trionfo della morte, ora a Palazzo Abatellis, a Palermo, rimasto salvo

miracolosamente sotto le bombe del ’4479.

Nell’introduzione ad un libro interamente dedicato alla sensibilità del macabro in Italia, ai vari Trionfi della morte e alla cultura entro cui essi nascevano e si diffondevano insieme alle danze macabre, in una scrittura fortemente

scamiciati, col mutare delle stagioni, ma impazienti sempre di imbarcarci per la nostra saltuaria Citera», cfr. G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 23.

77 A. Romanò - G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950), cit., lettera del 18 agosto 1946, p.

135.

78 Lettera del 10 febbraio 1976, ivi, p. 202. 79

G. Bufalino, Idea del libro in “Guida-indice dei temi” in Istruzioni per l’uso (di Diceria) cit., p. 177.

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immaginifica, il poeta e critico d’arte Libero de Libero utilizza i medesimi versi del poeta arabo citato da Bufalino e li pone ad incipit del paragrafo dedicato alla disamina sul Trionfo della morte di Palermo 80. Fino a che punto questa è una coincidenza? O Bufalino aveva avuto forse modo di leggere questa introduzione ed impossessarsi dei versi del poeta arabo tramite De Libero? Dal carteggio con l’amico Romanò si evince che già nel ’46 lo scrittore conosce l’opera di De Libero: Bufalino comunica all’amico d’avere acquistato a Palermo alcuni dei suoi libri.81 Come già accennato, De Libero scrive con una prosa densa, carica di poesia e di suggestive metafore; lo stesso Sciascia, in un articolo non più ripubblicato, recensisce questo libro definendo l’introduzione di De Libero «la più adatta ad aprire la significazione e il valore di questo capolavoro della pittura»82. La prosa utilizzata da De Libero ha una forza tale da definire perfettamente la drammaticità del soggetto di cui si parla: «[…] a forza di trionfare, la Morte s’era ridotta pure lei scalcagnata e risecchita, poteva dar la stura a fiumi di lacrime e di lagne […]»83; oppure, ancora più intensamente, De Libero scrive:

[…] la visione esplode dallo scatto di quella velocissima cavalcata, roteando dalla supplica dei mendicanti fino all’estremo concento della fontana, con una modulazione concentrica che sembra ricondurre subito ogni gruppo a quel perno, or ora scatenato dall’ira voluttuosa della protagonista e del nitrito fulminante del suo spettrale corsiero […] Sta in groppa al “cavallo pallido”, che, pur col torace ridotto a graticcio, vanta l’energica prestanza per quel nitrito che gli tende estremamente le

80 «L’ardor dell’ira tua tempesti i loro eserciti e siano letame gli eroi loro negli orti della Conca

d’Oro…»: questi i versi riportati da De Libero nell’introduzione dedicata al Trionfo della morte di Palermo.

81 Così Bufalino scrive infatti in una lettera del 18 agosto 1946: «[…] Di libri e d’altro per ora non

so aver voglia. L’altro ieri, però, a Palermo ho comprato Saba e De Libero, e un libretto di Bo su Mallarmé», cfr. A. Romanò - G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950), cit., p.136; presso la Fondazione sono presenti tre libri di raccolte di poesie di Libero De Libero: Malumore, Edizioni del Secolo 1945; Il libro del forestiero, Mondadori 1946 e Scempio e lusinga 1930-1956, Mondadori 1972; non figura il testo edito dalla casa editrice Flaccovio nel 1958. Il testo però si trova presso la Biblioteca comunale di Comiso, luogo frequentatissimo da Bufalino.

82

L. Sciascia, Il Trionfo della morte in «Prospettive Meridionali», p. 51.

Figura

Fig.  2  -  C.  Soutine,  Ritratto  di  Madeleine  Castaing,  1929,  New  York,  The  Metropolitan Museum of Art
Fig. 5 - E. Schiele, La donna e la morte, 1915, Österreichische Galerie, Vienna.
Fig. 6 - G. Klimt, Sangue di pesce, illustrazione per «Ver Sacrum», 1898  (particolare)
Fig. 8 - J. Ensor, L’intrigo, 1890, Anversa,  Musée des Beaux Arts
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