• Non ci sono risultati.

Il "De bello Gothico" di Procopio di Cesarea Una nuova traduzione

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il "De bello Gothico" di Procopio di Cesarea Una nuova traduzione"

Copied!
451
0
0

Testo completo

(1)

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di laurea in Filologia Classica e Storia Antica

Il “De bello Gothico” di Procopio di Cesarea

Una nuova traduzione

Candidato Relatore

Tiziano Boggio Prof. Cesare Letta

Correlatore

Prof. Mauro Ronzani

(2)

“Procopius composed the history, the panegyric and

the satire of his own times”

Edward Gibbon

(3)

Indice

Premessa ………. 4

Introduzione ………11

Capitolo 1: Procopio e la composizione del De bellis ………14

Capitolo 2: Il metodo storiografico di Procopio ……….20

Capitolo 3: Il proemio del De bellis ……….. 27

Capitolo 4: Le origini storiche dell’Impero Bizantino ……….. 40

Capitolo 5: La sopravvivenza dell’Impero Romano d’Oriente ………..48

Capitolo 6: Il regno di Giustiniano ……….57

Capitolo 7: I Goti, nemici giurati dell’Impero ………62

Capitolo 8: La guerra gotica, una “crociata ante litteram” ……….67

Appendice: La tradizione manoscritta de “La guerra gotica” ………79

De bello Gothico

Libro primo ………82

Libro secondo ………...169

Libro terzo ………247

Libro quarto ………..349

Bibliografia ………...448

Ringraziamenti ………..452

(4)

Premessa

Come è ben noto dagli scritti di De Sanctis la letteratura è la “sintesi organica dell’anima e del

pensiero d’un popolo” e, in quanto tale, le sue tendenze sono determinate dalla trama e dall’ordito

delle strutture sociali ed economiche di un paese. Basti ricordare, a titolo d’esempio, l’influenza decisiva della Controriforma sullo sviluppo della poetica e delle arti figurative barocche, oppure, al contrario, la nascita dell’illuminismo in concomitanza con lo sviluppo, nella Francia di Luigi XIV, di una borghesia evoluta e cosciente di sé, naturalmente riluttante verso le restrizioni di azione e pensiero imposte dalla monarchia assoluta e autoritaria del re sole. Il ruolo del letterato, di

conseguenza, si va delineando di volta in volta, nel corso del tempo, a seconda di queste particolari condizioni, che vanno ad influire, in maniera più o meno profonda, sulle sue possibilità intellettuali ed artistiche. Nel corso dei miei studi ho avuto modo di affrontare più volte tali questioni e ho avuto, altresì, l’opportunità di comprendere e toccare con mano, come si suol dire, la verità sottesa alle mie precedenti asserzioni e questa mia presa di coscienza è potuta avvenire, soprattutto, grazie all’esperienza diretta dei capolavori e degli scritti cardine delle varie stagioni letterarie di ogni tempo. Se, da un lato, questo procedimento mi ha condotto al riconoscimento dell’inestimabile valore di una formazione classica e letteraria, esso ha nondimeno destato in me, con una violenza crudele ed inattesa, dubbi e cogitazioni dal sapore platonicamente aporetico. Per questo motivo, in maniera simile alla senecana pratica del quotidiano esame di coscienza, più volte mi sono

interrogato su quale sia, oggi, il ruolo del letterato e se la letteratura classica, nella società moderna, possa minimamente competere con le altre forme di sapere in circolazione.

Non è semplice assumere le vesti sgualcite del naturalista e compiere una disamina in senso lato della società odierna. Credo, però, che si possano individuare alcuni fenomeni, l’esposizione dei quali risulta in questa sede utile per esprimere in maniera incisiva ed efficace il mio punto di vista. La società di oggi è una società veloce. Se una volta il tempo apparteneva a Dio, si può dire che con l’avanzare delle epoche esso è stato talmente settorializzato da sfuggire totalmente al controllo umano. Il tempo appartiene a se stesso e la società moderna tenta invano di mettere il freno e le briglie ad un qualcosa che è del tutto fuori dal proprio potere. Ed in un’Italia in cui, secondo i dati forniti dal database dell’AlmaLaurea, l’età media di completamento di un corso di laurea 3+2 è 28 anni, se un individuo vuole sopravvivere e sperare di avere un futuro deve mettersi operosamente al

(5)

lavoro, e subito. Se anticamente l’otium letterario veniva considerato un tema cardine della produzione letteraria, si può dire che nell’ottica di un società frenetica come la nostra esso può essere benissimo considerato come un’incontrovertibile perdita di tempo. Un giovane che vuole dedicarsi alla letteratura e allo stesso tempo guadagnarsi da vivere sarà inevitabilmente destinato a rinunciare alla prima, data l’impossibilità materiale di portare avanti la propria esistenza senza mezzi di sostentamento, a meno che non abbia un supporto familiare consistente. L’intellettuale, dunque, privato dei presupposti per la vita, subisce la perdita del proprio senso d’essere.

Il mondo oggigiorno, immerso com’è nel delirio del progresso tecnologico, si dimostra talmente proiettato all’esterno di sé che non ha più tempo per guardare all’interno del suo animo. I buchi neri, il bosone di Higgs, i gravitoni, i cellulari, le nuove macchine…l’onnipotenza del nostro piccolo ego sembra aver dimenticato chi siamo, da dove proveniamo. Il progresso tecnico nella sua alienazione ci ha distaccato dai veri sentimenti, togliendo qualsiasi onore a ciò che non abbia a che fare con la produttività materiale. Le lettere, purtroppo, non rientrano nelle attività materialmente produttive, ragion per cui sono considerate da tutti alla stregua di un vano sollazzo per cialtroni perdigiorno. Il detto petroniano “assem habeas, assem valeas” ha purtroppo preso forma nella maniera più cruda e feroce possibile. Mi è capitato di conoscere una persona e di dirle, nel tentativo di risultare simpatico, che avrei avuto il piacere di fare assieme a lei un giro a Segesta Tigulliorum. Dopo avermi chiesto che razza di posto fosse, sono stato tacciato di petulanza, in quanto, a suo dire, nessuno va in giro con il vocabolario di Latino sotto mano per capire ciò che dico e che, in verità, sarebbe stata una prospettiva infinitamente fastidiosa. Essendo la sua professione quella

dell’estetista, ho risposto asserendo che c’è chi si dedica alle più alte manifestazioni della mente umana e chi passerà per sempre la sua vita a fare le unghie. Ma alla sua successiva replica non ho potuto che cedere all’evidenza più oscura. “Io a fare le unghie guadagno 2000 euro al mese. E tu, quanto guadagni?” Tanto icastico quanto veridico. Il valore coincide con il valore netto della propria produttività: noi siamo il denaro che possediamo. La perdita del mandato e del prestigio sociale del letterato, dunque, unito all’impossibilità della libertà della vita, è fonte di scissioni destinate a non trovare alcun riscontro, né rivalsa.

L’insegnamento delle lettere nella scuola italiana è un’istituzione svuotata ormai di qualsiasi significato. I licei classici, nel tentativo disperato di non perdere ulteriori iscritti (cosa che li declasserebbe e causerebbe la loro estinzione), hanno stipulato il tacito e scellerato accordo di abbassare notevolmente il livello di insegnamento delle materie umanistiche, in modo che nessun alunno rischi di essere bocciato o rimandato. Se un ragazzo, oggi, decidesse di frequentare il liceo classico con il manifesto intento di concludere il suo percorso quinquennale senza mai studiare una parola né di Greco, né di Latino, riuscirebbe nei suoi propositi senza particolari difficoltà. Le

(6)

adesioni a questa tipologia di scuola, inoltre, non sono mai spontanee, ma prendono le mosse dalle erronee convinzioni dei genitori che, memori dell’antica magnificenza di questa obsoleta paide…α, optano per una scelta che risulta rovinosa per la formazione e il futuro dei figli, forzati ad

apprendere controvoglia nozioni di utilità nulla. Una volta usciti dal liceo, questi poveri sventurati si rendono conto che l’università, lungi dall’insegnare la vera letteratura, non è altro che una

gigantesca e spietata macina in cui l’unica divinità, tremebonda e veneranda, a cui sacrificare la vita, è il CFU, il credito formativo. Ben venga non imparare nulla…purché frutti almeno un credito! Il numero di matricola, in un sistema di questo genere, è l’elemento più spersonalizzante e

limitante: l’esistenza reale è l’esistenza anagrafica e viceversa. Qualsiasi aspetto letterario implicato negli studi è solo un accessorio e un corollario, che, peraltro, non assicurerà alcun futuro.

I modelli poetici sono andati perduti e la poesia è relegata all’oblio. L’inizio di questa curiosa tendenza è da ricercarsi nella poesia di Montale: i poeti a lui successivi, infischiandosene senza remore della sua profondissima weltanschaung, hanno realmente cominciato a scrivere

componimenti che sanno di fossi erbosi, di pozzanghere, di anguille. E nel tripudio di questi orrendi gusti, vediamo assisi sulla sedia curule versi prosastici, che gettano fango e sterco sulla metrica, sulla retorica, sugli immortali archetipi che hanno originato la cultura letteraria. I pochi valenti stanno ora nelle librerie a prendere polvere, perché rei di “inaccessibilità” a fronte di un pubblico incolto e assolutamente non avvezzo a trattare la letteratura. Questo spiega benissimo la recente assegnazione del Nobel a Bob Dylan, una scelta che farebbe sinceramente rabbrividire gli illustri suoi predecessori.

Le piattaforme sociali hanno radicalmente mutato i nostro rapporti interpersonali. Tutti sono alla portata, tutti possono dire la loro e, visto che chiunque può emettere la propria voce ed esporre il proprio parere, si è arrivati ad un chiuso personalismo di ristrette verità, in cui riecheggia il

paradosso sofistico secondo cui “tutto è vero”. Ma, se tutto è vero, allora, di conseguenza, tutto può essere anche falso. Non è possibile addurre alcuna argomentazione contro chi impugna l’inutilità dei classici: gli individui che lo affermano possiedono tutti una ragione inoppugnabile. In questa ottica, dunque, che cosa resta agli amanti del sapere? Non resta nulla, se non far sentire in un mondo che non ascolta la loro flebile voce. Tenendo conto di quanto ho detto e di tutte le difficoltà che ho incontrato, anche in ambito accademico, nel trovare qualcuno che credesse in me e nel mio lavoro, oso dire:

Solingo traduttore, traditor

dei traditori tutti, archeologo

d’obliti verbi, di perdute stanze

(7)

ignobile architetto, investighi,

tornisci, incolli, impasti, incurvi

flebili tasselli d’oscuri evi.

Riluce un fuocherel d’avido gelo,

ristoro vano alle sudate carte

e intanto si consuma e tempo e vita

incöerente impasto d’ambigua arte

nell’angusto scrittoio del tuo zelo.

Chinasti quante volte il capo adunco,

solingo traduttore, reclinasti,

prono turpe il gibbo, cinerei gli occhi

di senil foggia su gli amati segni

che l’odio ti donaron delle genti?

Recluso e spento fra quattro pareti,

coniglio esterrefatto e sbigottito

incarcerato fra quattro pareti

attonito nel vuoto volgi il guardo

tutto il tuo cosmo - quattro pareti.

Eppur pensi, solingo traduttore,

pur volge la mente al passato tempo

quando l’illusion celava nel mondo

l’inutile ingegno e lo spento ardore

e valente e alto ti credevi e forte,

ma ora…ma ora non sei che melma e fango

per sempre perito è l’estremo inganno.

E per stornare l’esiziale affanno

(risuona senza sosta l’ora mesta)

chiudi ora gli occhi: sol questo ti resta.

Sei autodidatta, dotto da tu solo,

dolce non sei figliuol di Mneme e Terpo

e niun dio seminò nell’intelletto

canti infiniti d’argenteo aspetto.

E nell’infanzia promettesti grandi

gesta e sempre e in eterno sarà infranta

la promessa e crescesti a luce spenta

per destarti un dì grande e l’ora presta

passò come confitto dardo in testa

è tardi è tardi è tardi non ti resta

è tardi è tardi è tardi…che ti resta?

Ma pure si schiudono le palpebre,

serrato è il ricordo, e atterrito miri

il presente storto e i vermigli chiodi

inchiodato cadavere d’un morto

nessun comprende il doloroso porto

(8)

(forse tu non respiri il fato d’esser

il cadavere inchiodato d’un morto).

E ti disperi e gridi e sei svuotato,

ramingo traduttore, e ti domandi

esule barbaro: ora, dove vado?

Ma lacrimoso t’attende il volume

e della morte ti consola un poco

l’alto pensare di quei grandi e il lume

di cui tanto il tuo cuore è lasso e fioco.

Sogna sottil, solingo traduttore

e chiudi gli occhi: sol questo ti resta…

…solo questo…

VOLA! Non sei più, no, non sei più vile,

rivesti or l’elmo e il cimiero virile,

impugni il brando contro il brando ostile

balzi giù armato dal saldo bastione,

geme il ferro al suono della tenzone.

Aguzzi il guardo e nera torma scorgi:

è il fiero Vitige e i malvagi Goti!

Alza l’umbone, serra l’asta, stringi

il petto a quello del commilitone,

avanza, ora il coraggio non ti manca,

coraggio! Anche l’infame Goto incalza!

Non hai paura, no, non hai paura

qui, valente prode, vibra la lancia

e resisti degli avversari all’urto.

Violenta mischia subito infuria

si fa incontro a te schiera brutta e dura

e grave sferza sfregia l’armatura

ma or non sei più vile: oggi non si muore.

Schivi il fendente e torci il corpo indietro

con ogni forza carichi il lacerto:

cala la lama sul sidereo petto,

colpisci, e il Goto mandi all’inferno!

E fra il crudo clangor di grida e spade

Belisario fa di nemici strame,

solo in cerchio li affronta e ognuno cade

e l’assalgon, ma niun gli arreca il male.

E infin si serra forte la falange

si intreccian gli scudi e le esiziali lance,

s’alza il vessillo al suon del comandante.

(9)

ma prodezza e valore e gloria grande

e tutto te stesso e il cuore pulsante

impegni nel vigor d’urto e di gambe

nulla al mondo, nient’altro ti rimane

immaginario milite irreale

combatti finte schiere ed insensate

combatti il controsenso della vita

combatti per riscattare il reale

giacché eroe non sei, ma vuoto animale.

S’appresta pur lo scontro decisivo

sul Monte del Latte ed ecco si desta

dalle gote schiere Teia alla testa:

sorge fiero l’usbergo, più imponente

del brutal Vesuvio e la fiamma ardente

superbisce il guizzante sguardo e vivo,

impugna l’armi e di fronte si pone.

Tutti sfida: vediam chi ora si oppone!

Dirimpetto, quieto al roman stendardo

Narsete tace il confidente guardo,

l’intrigante Narsete, eunuco il mondo

ti fece ed eccoti a guidare schiere

(forte domasti del mondo le fiere):

d’essere grande e vincitor ti preme.

E ti fingi, ramingo traditore,

d’avere parte in quella fama, sogni

aristie d’eccidi con la tua lama

brami (invano!) virtù e nobile altezza

di mondar la negletta tua bassezza.

E potresti esser tu quel valoroso

il sol che in mezzo a tanta morte e strage

allo sterno il duce colse col dardo

fatale, salda potrebbe la mano

aver posto fine al conflitto eterno

potresti essere tu…davvero…forse…

potresti esser davvero tu…se solo…

…solo…

...

Ma non lo sei, solingo traduttore.

Ti desta nudo il feroce universo,

ti riporta dove sei vacuo e perso,

(10)

nulla tieni, ma l’odiato te stesso:

nobile non nascesti di lignaggio

sei turpe d’aspetto e senza coraggio

indigente, spoglio e d’oscuro raggio

ad altri la natura fece omaggio

ma a te non diede, tragico pagliaccio.

Non hai nulla, ramingo traditore,

hai la bocca e la disabile voce,

le tue mani e le invalide parole

(a quale pro le mani e le parole?

Che cosa mai pensi di fare al mondo

con le mani e le invalide parole?),

un sentire alto e un miserabil cuore.

Ti desti, guati il sol dalla finestra:

vivono tutti, al contrario di te

quanta umanità ti disprezza e sdegna

e ride e si prende gioco di te.

Tutte le lacrime hai sacrificato

al Pianto e la cervice adesso cedi,

solingo traduttore…vieni, vieni,

la solitudine t’attende e fosca

gloria, fragile consumi la vita

in un’ambigua e tacita fatica.

Qui si perde di te la maggior parte

qui il luogo della tua vilipesa arte

qui tomba e sepolcro della tua morte

qui rintocca il tempo l’ora più nera

sentirai il silenzio e il nulla più cieco…

(11)

Introduzione

Questo lavoro nasce dalla volontà di riscoprire un autore ingiustamente incappato nell’oblio dell’età moderna e relegato spesso ad un destino di dimenticanza. Mi riferisco a Procopio di Cesarea, il più importante storico dell’età di Giustiniano e principale fonte per gli avvenimenti di quell’epoca. Questa irragionevole

indifferenza è dovuta al fatto che i Bizantini sono stati visti per molto tempo come una civiltà decadente, una sorta di pallidi e indegni eredi di quello che era stato il glorioso mondo greco – romano. Molto ha pesato in questo preconcetto, a mio avviso, l’opinione, ormai datata ma non per questo poco autorevole, di Edward Gibbon, il quale sostiene che “I sudditi dell’Impero Bizantino, che assumono e disonorano i nomi sia dei Greci che dei Romani, presentano una uniformità di vizi abietti, che non vengono nemmeno ammorbiditi dalla debolezza dell’umanità, o animati dal vigore di crimini memorabili1”.

In realtà, nonostante le valutazioni che marchiano negativamente l’era bizantina, Procopio di Cesarea ha sempre goduto di una certa rinomanza. Poco dopo la pubblicazione della sua opera, difatti, è stato subito riconosciuto come uno storico di primo livello, grazie alle sue doti di accuratezza, oggettività e chiarezza stilistica. Giusto per citare alcuni pareri illustri, personalità del calibro di Evagrio2, Agazia3 e Fozio4 hanno

speso parole di elogio nei suoi confronti, inserendolo a buon diritto fra gli autori imprescindibili per un’adeguata formazione in campo storico. Dopo un periodo di oscurità durato un paio di secoli, Procopio viene riscoperto nel VII e nell’VIII secolo, diventando la principale fonte per la Cronaca di Teofane. E’ stato poi rispolverato nel XV secolo, per divenire la base della moderna visione positiva del regno di Giustiniano e del suo operato giuridico. Il passo successivo è stato la scoperta della Storia Segreta nella Biblioteca

Vaticana nel 1623 ha portato ad una conoscenza completa delle opere di Procopio e ha dato adito a nuovi orizzonti interpretativi. Non si può inoltre dimenticare che lo storico di Cesarea costituisce la nostra fonte più importante, spesso anche l’unica, per il regno di Giustiniano e per le guerre da lui sostenute: senza una lettura attenta di Procopio, infatti, ritengo non sia possibile avere una visione d’insieme esaustiva del

governo e della politica giustinianea, né comprendere le dinamiche interne alla corte bizantina e la statura dei numerosi funzionari, condottieri e soldati che la popolavano. E’ stato messo in luce5 come alcuni studiosi del

calibro di Bury, Stein e Gibbon non abbiano potuto prescindere da una profonda analisi dell’opera di Procopio per riuscire ad avere una quadro nitido e completo della società giustinianea, in modo da essere in grado di fornirne una trattazione idonea nelle loro opere.

1 E. Gibbon, Declino e caduta dell’impero romano, cap. 48

2 Evagrio, Historia Ecclesiastica, IV, 12:“Il retore Procopio con grandissima accuratezza narra le vicende dei Romani e dei

Persiani in guerra fra di loro, quando Belisario era comandante supremo degli eserciti orientali”

3 Agazia, Historiae, I, 15:”Poiché quasi tutti gli eventi accaduti all’epoca di Giustiniano sono stati narrati con chiarezza da

Procopio, retore di Cesarea, li dovrò omettere.”

4 Fozio, Biblioteca, cod. 60:”Al tempo di Giustiniano Procopio di Cesarea scrisse un’opera storica splendida ed estremamente

utile, con la quale acquistò una fama eterna presso gli eruditi.”

(12)

Ecco perché, mosso da una grande curiosità e da un vivace entusiasmo per la comprensione di una figura tanto imponente, mi sono imbarcato nella fatica della traduzione del “De bello Gothico”. Questa decisione è stata da me presa essenzialmente per due motivi. Per prima cosa, ho potuto constatare l’inadeguatezza delle precedenti traduzioni italiane e la loro facies linguistica oramai vetusta e obsoleta agli occhi del lettore moderno. Una prima traduzione è stata compiuta da Benedetto Egio da Spoleto nel 1544, presso l’editore veneziano Tramezzino. Questa edizione mostra di essere più uno scritto a carattere divulgativo da annoverare nella letteratura di consumo del tempo piuttosto che una vera e propria traduzione, come testimoniano l’assenza di un apparato, la dedica ad alcuni potenti aristocratici veneziani e l’eccessiva dipendenza dalla versione latina di Procopio di Cristoforo Persona, pubblicata nel 1506 presso lo stampatore romano Giacomo Mazochio6. Abbiamo poi la traduzione di Giuseppe Rossi del 1828, che dimostra di essere condotta sulla

traduzione latina del Maltreto che sul testo greco. Allo stesso modo dimostra di agire Domenico Comparetti, nella sua edizione del 1895. Si dovrebbe poi citare la bella edizione del Pontani datata 1977, che rappresenta forse il miglior lavoro di traduzione operato su Procopio. Ciononostante, per qualche oscura ragione, questo scritto è stato letteralmente dimenticato e risulta pressoché introvabile, mentre continua ad essere stampata l’edizione del Comparetti, viziata da evidenti difetti metodologici, nonché da un’impaginazione molto discutibile a cura della casa editrice Garzanti, con capitoli più di una volta sfalsati e note poco agevoli da consultare. Ho ritenuto perciò utile e doveroso, e per gli amanti di questo periodo storico, e per gli studenti che intendano confrontarsi con l’autore in questione, cercare di fornire una traduzione italiana nuova, più moderna e agile, che superassi i problemi di tutte le versioni precedenti. Il mio modus operandi, dunque, è stato quello di fare epochè, svincolandomi da tutte le edizioni precedenti e tentando di ripartire dal testo greco in sé e per sé, usando come testo quello dell’edizione di Dindorf e Maltret del 1838.

La seconda motivazione che giustifica i miei intenti è da ritrovarsi, invece, nel grandissimo impatto che la Guerra Gotica e la dominazione bizantina hanno avuto sul nostro paese. La guerra contro gli Ostrogoti è un conflitto particolarmente accanito, caratterizzato da una furia cieca e pressoché incontenibile da parte dei due contenenti. Questo atteggiamento sfocia in una serie di profonde e brucianti ferite che sfigurano orribilmente l’Italia dal punto di vista territoriale, artistico e talvolta anche urbanistico. Un recente lavoro di Ravegnani7

ha mostrato in modo esauriente come Goti e Bizantini abbiano lasciato un’ereditò indelebile, i cui segni si possono chiaramente riscontare anche nella modernità. Basti questo dato a rendere conto delle modificazioni e conseguenze che questo conflitto ha prodotto: durante il primo assedio gotico di Roma (537 – 538 d. C.) gli Ostrogoti attaccarono il mausoleo di Adriano (oggi Castel Sant’Angelo), che allora si presentava come un’opera architettonica di splendida fattura, come strutture e statue di uomini e cavalli in marmo pario, che vengono descritte come capolavori da Procopio. Nella foga della battaglia, però, questi simulacri vennero distrutti dagli imperiali, che le fecero a pezzi, per tirarle sulla testa dei nemici da cui erano assaliti, riuscendo peraltro nel loro tentativo di respingerli8.

6 P. Paschini, Un ellenista romano del Quattrocento e la sua famiglia, in Atti dell’Accademia degli Arcadi, XIX-XX

(1939-1940), pp. 45-56

7 G. Ravegnani, Andare per l’Italia bizantina, , Bologna, 2016 8 Procopio di Cesarea, La Guerra Gotica, I, 21

(13)

Questi motivi, dunque, uniti al rarissimo valore della testimonianza autoptica di un autore che ha personalmente preso parte alla guerra in qualità di segretario del generalissimo Belisario e ha avuto esperienza diretta dei principali eventi bellici, non potevano non indurmi a dedicarmi con passione e certosina forza di volontà a far rivivere (o almeno a tentare l’impresa) un’opera purtroppo sottovalutata, ma inestimabile per l’ampiezza di informazioni che fornisce e per la nostra coscienza storica.

(14)

Capitolo 1: Procopio e la composizione del

De Bellis

Come abbiamo precedentemente messo in luce, Procopio rappresenta la fonte principale per il regno di Giustiniano e tramite il suo filtro siamo costretti a considerarlo e valutarlo. Proprio per questa sua predominanza nel panorama storiografico del suo tempo, lo storico di Cesarea è stato spesso accostato a Tucidide ed Erodoto9, che si dimostrano autori preponderanti per quanto riguarda la narrazione delle vicende

del loro tempo. Ma prima di passare alla questione della composizione della sua opera storica, è necessario fare un piccolo preambolo e spendere qualche parola sulla vita del nostro autore.

Le informazioni biografiche su Procopio sono scarse e si ricavano per lo più dalle sue opere. Egli stesso ci informa di essere nativo di Cesarea, in Palestina10. La sua data di nascita è discussa. Kaldellis – Dewing11

ipotizzano che sia nato attorno al 500 d. C12, desumendo arbitrariamente la data dal fatto che Procopio appare

per la prima volta come consigliere / segretario di Belisario nel 527. Comunque stiano le cose, la città di Cesarea era diventata un fervido centro culturale da quando Origene, esiliato nel 232 da Alessandria, fondò assieme al suo amico Teocisto una nuova scuola teologica, che venne dotata di una delle più ricche

biblioteche dell’antichità classica. Basti pensare che nell’orbita di questa libreria ha lavorato Panfilo di Cesarea, amico e maestro di Eusebio, vescovo di Cesarea sotto Costantino13. Il periodo di massimo prestigio

di questo centro può essere collocato attorno al IV secolo, quando la scuola attirò studiosi di rilievo, come ad esempio Gregorio Nazianzeno. Un notizia di Libanio14 ci informa anche dei salari molto elevati che gli

insegnanti ricevevano in virtù della loro attività didattica. Tutto ciò ci permette di asserire che Cesarea, con la sua grandissima disponibilità di testi eruditi e di primo piano, rappresentò, ben oltre il IV secolo, una delle più importanti città per la diffusione e lo studio del sapere. Certamente Procopio, essendo nativo di tale area, negli anni della sua formazione poté avere accesso ad una ricca e florida tradizione intellettuale. Cesarea, inoltre, era una città cosmopolita, con una grande presenza di cristiani ed ebrei a stretto contatto gli uni con gli altri. Una qualche consistenza doveva avere anche la comunità samaritana, sulla quale Procopio ebbe modo di scrivere15 narrando la rivolta nel 529, repressa nel sangue da Giustiniano. Il fatto che Procopio, di

fede cristiana, scriva in merito a questioni religiose in qualità di nativo originario della città ci può fornire alcuni dati riguardo alla sua provenienza. Nella sua opera, spesso l’autore condanna le restrittive politiche di Giustiniano nei confronti delle minoranze, ponendosi così in una posizione di esplicita condanna delle

9 A. Kaldellis, The Classicism f Prokopios, in M. Meier, The brill companion to Procopius. 10 Procopio di Cesarea, La Guerra Persiana, I, 1

11 A. Kaldellis, H. B. Dewing, The wars of Justinian, The composition of Prokopios’ works. 12 Le date, salvo altra indicazione, vengono fornite tutte con la dicitura dopo Cristo

13 Levine, 1975; Downey 1975; Ringel 1975. 14 Libanio, Orazioni, 31, 92

(15)

persecuzioni religiose (posizione, peraltro, condivisa anche da Agazia, continuatore delle Guerre16). Questa sua visione ci suggerisce che, probabilmente, Procopio doveva provenire da una famiglia cristiana. Purtroppo nulla si sa in merito alla loro condizione economica e al nome dei genitori. Haury17 congettura che Procopio

fosse nativo di Gaza e non di Cesarea e che suo padre fosse Stefano, proconsole di Palestina nel 536. Bury18

ha confutato questa congettura mostrando come Haury confonda il nostro Procopio con un omonimo suo contemporaneo, ovvero Procopio di gaza, effettivamente amico di Stefano proconsole di Palestina. Lo studioso fa inoltre notare come, se Procopio fosse stato figlio di una personalità tanto in vista, molto probabilmente la sua origine familiare sarebbe stata registrata o comunque citata dalle altre fonti che ci parlano di lui. Inoltre, non esistono prove che ci forniscano un qualsiasi tipo di connessione fra Procopio e la città di Gaza. Più probabile e convincente mi sembra la tesi di Cameron19, il quale, sulla base delle

affermazioni politiche contenute nella Storia Segreta, dove l’autore denuncia la scomparsa della piccola e media proprietà a causa dell’oppressiva politica fiscale di Giustiniano e della pesante tassazione cui i

cittadini erano sottoposti, ipotizza che Procopio provenga da un’agiata famiglia di proprietari terrieri. Se così stanno le cose, l’educazione dello storico di Cesarea non dovette essere diversa dal tipo di istruzione

“standard” che ricevevano gli studenti del tempo, basta sull’imitazione degli autori classici e sullo studio della retorica. Poco si può dire, invece, su una sua eventuale formazione filosofica.

Se quanto detto a proposito delle sue origini familiari è corretto, possiamo altresì affermare che, con ogni probabilità, Procopio condivideva i pregiudizi più comuni della sua classe sociale. Con questo, intendo dire che doveva essere contrario alle eccessive manifestazioni di ingerenza di cui il potere monarchico di

Giustiniano si rendeva a volte responsabile. Ciononostante, è impossibile non riconoscere che, nonostante le critiche all’imperatore disseminate qua e là nel corso della sua opera, le sue idee fossero assolutamente conformiste nei confronti dell’imperialismo bizantino. Quando Procopio critica un qualche personaggio della corte di Bisanzio, non lo fa mai sul piano di principi generali e filosofici, ma i suoi obiettivi polemici sono sempre la personalità dei funzionari e le loro riforme o deliberazioni politiche. In questo modo è possibile comprendere appieno il significato della sua opera storica: essa, incentrata sugli avvenimenti politici e militari del suo tempo osservati attraverso il filtro dell’esperienza personale dell’autore, è il diretto prodotto di una mentalità che condivideva i valori delle classi più alte. Questo è cruciale soprattutto in un’epoca in cui il forte accentramento dei poteri nella figura dell’imperatore poneva quel ceto sotto una costante pressione. Dal 527 troviamo Procopio a fianco di Belisario, ancora un semplice ufficiale, in qualità di sÚmbouloj20,

ovvero consigliere legale o segretario. La Suda21ci informa inoltre del fatto che lo storico, più avanti nella sua carriera, fu insignito della qualifica di IlloÚstrioj, il più alto titolo senatoriale nell’epoca del Tardo Impero. Per un determinato lasso di tempo la vita di Procopio è strettamente legata a quella di Belisario: in veste di consigliere, egli lo accompagnerà nel 527 in Mesopotamia, nel 533 durante la campagna contro i

16 Agazia, Storie, I, 7

17 J. Haury Zur Beurteilung des Geschichtschreibers Procopius von Cäsarea, (1896), p 20 18 J. B. Bury History of the Later Roman Empire, Vol. II, Cap. XXIV

19 A. Cameron, Op. cit.

20 Procopio, La Guerra Persiana, I, 1 21 Suda, s.v. ProkÒpioj

(16)

Vandali e nel 536 in occasione della spedizione in Italia contro i Goti. Forse servì sotto un altro generale, Salomone, nel 534 – 53622. Dopo la conquista dell’Italia da parte di Belisario (540), Procopio tornò a

Costantinopoli, dove fu testimone della peste che flagellò la capitale nel 542. Sembra improbabile un suo ritorno in Italia durante la seconda spedizione di Belisario (544)23. Della vita di Procopio, in seguito a questa

data, non si sa praticamente nulla. Sembra inattendibile la notizia secondo cui fu prefetto di Costantinopoli nel 56224. La data di morte, comunque, sarebbe da collocarsi attorno al 565, anno della scomparsa di

Giustiniano, o poco più tardi.

In quest’ottica, ci sembra giusta l’asserzione che l’autore stesso compie nel proemio, affermando che non esiste nessuno più adatto di lui per raccontare la storia del suo periodo. Oltre alla sua familiarità con Belisario, è necessario aggiungere che la posizione privilegiata di cui godeva alla corte di Bisanzio gli ha permesso di acquisire un gran numero di informazioni, tramite la possibilità di accedere a documenti di stato e di parlare con i generali e i funzionari più in vista del suo tempo. La sua testimonianza è perciò vicinissima agli ambienti dell’amministrazione imperiale e si associa in una lega ben consolidata con la sua esperienza diretta degli eventi.

Proprio in questo va ritrovata la ragione portante per cui Procopio si è fatto carico di un’opera così onerosa. Bisogna dire che il De bello Gothico rappresenta gli ultimi 4 libri di un progetto ben più ampio, che

comprende 8 libri ed è chiamato convenzionalmente De bellis25. Questa considerazione apre il problema

della composizione del lavoro, che non può essere trattato prescindendo dagli altri suoi scritti che, nel complesso, dimostrano una certa coerenza interna.

E’ ormai un dato comunemente accettato che Procopio completò i primi 7 libri del De bellis e la Storia

Segreta nel 550 - 55126, presumibilmente a Costantinopoli (nonostante non ci sia alcuna evidenza certa). Ma

l’inizio della composizione dell’opera storiografica risalirebbe, probabilmente, ai primi anni del ’30. In alcuni punti è possibile rilevare anche fasi intermedie di composizione dell’opera. Ad esempio, in La guerra

persiana, XXV, lo storico parla del complotto ordito da Teodora ai danni di un funzionario a lei inviso,

Giovanni di Cappadocia, prefetto del pretorio nel 53127 e influente uomo politico alla corte di Giustiniano.

Alludendo alla sua punizione e incarceramento avvenuto ad Antinoopoli, in Egitto, Procopio dice:”[…] Adesso è il terzo anno che viene tenuto incarcerato e sotto custodia.” Ora, sappiamo che l’azione di Teodora contro Giovanni di Cappadocia è da collocarsi nel 541: è inevitabile dunque concludere che questo passaggio rappresenta una fase intermedia della composizione del De bellis riconducibile alla prima metà degli anni ’40. Da questo dato si può congetturare che ci sia stata una prima versione (mai rilasciare) che si concludeva con gli eventi del 545 – 546. La decisione di non pubblicare questa prima sezione dell’opera è forse dovuto

22 J. Haury, Procopii Caesariensis opera omnia, Introduction. 23 J. Haury, Op. cit.

24 Sembra che ad esercitare la carica fu un Procopio omonimo al nostro autore, come si può vedere in Prosopography of Late

Roman Empire, III s.v.

25 In alternativa, il titolo greco è polšmwn

26 Vedi A. Cameron, Op. cit., J. Haury, Op. cit e A. Kaldellis, H.B. Dewing, The Wars of Justinian (introduction, The

composition of Prokopios’s work)

(17)

al fatto che in quel momento la guerra contro i Goti era ancora in corso, ragion per cui Procopio deliberò di procrastinare l’uscita dei primi 7 libri, avvenuta appunto nel 550 – 551.

Questo ritardo di pubblicazione ha ovviamente comportato degli aggiustamenti all’interno dell’opera. Kaldellis – Dewing28 affermano che se Procopio avesse concluso la composizione del De bellis nel 540,

avrebbe potuto narrare in sequenza tutte le tre guerre, in quanto la Pace Eterna venne firmata nel 532, l’Africa capitolò nel 533 – 534 e la guerra gotica, iniziata nel 535, ebbe un’apparente fase conclusiva nel 540. Ma siccome ciò non avvenne, dal momento che la guerra scoppiò nuovamente in tutti e tre gli scenari bellici e i Balcani vennero flagellati da massicce invasioni di Unni, Slavi e altre popolazioni, Procopio fu evidentemente costretto a rimaneggiare la sua opera e, soprattutto, a lavorare su tutte e tre le sezioni contemporaneamente. Per questo, invece di procedere anno per anno come aveva fatto Tucidide, divise la narrazione in tre parti, ciascuna corrispondente ad un diverso teatro di guerra, secondo questo schema:

Libri I – II: Guerra Persiana Libri III – IV: Guerra Vandalica Libri V – VIII: Guerra Gotica

Nonostante, come fa notare Haury29, Procopio si premuri sempre di fornire indicazioni cronologiche per non

lasciare il lettore disorientato e confuso, una tale distribuzione della materia implica necessariamente alcuni problemi di coerenza interna. Basti pensare, a titolo di esempio, che l’ottavo libro dell’opera (ovverosia il IV de La guerra gotica) rappresenta una sorta di “aggiunta” pubblicata singolarmente dopo l’uscita dei primi 7 libri che, pur facendo parte della sezione della guerra contro gli Ostrogoti, copre in realtà gli avvenimenti che si svolgono in maniera sincronica in tutti e tre gli scenari bellici dopo il 549, riallacciandosi al nuovo

deflagrare del conflitto contro i Persiani. Non solo: alcuni eventi di enorme rilevanza, come la rivolta di Nika30 e la peste31, vengono piazzati nei primi due libri dedicati alla guerra persiana, mentre altri, come un

presunta rivolta contro l’imperatore Giustiniano32, nella sezione della guerra gotica.

Infine, è impossibile non citare a questo proposito anche il singolare caso della Storia segreta,

un’”appendice” (necessaria per la comprensione del De bellis) inizialmente tenuta nascosta. Nella prefazione dell’opera Procopio ci informa di aver inserito all’interno della narrazione tutti gli eventi che, per paura del regime giustinianeo e della sua rete di spie, non ha potuto raccontare nel De bellis. Molto si è parlato delle relazioni fra il De bellis e la Storia segreta, ma ciò non verrà preso in esame nella mia trattazione. Per quanto riguarda la natura dello scritto in questione, a mio avviso la miglior definizione è stata fornita da Haury 33, il

28 A. Kaldellis, H.B. Dewing, Op. cit. 29 J. Haury, Op. cit.

30 Procopio, La guerra Persiana, I, 24 31 Procopio, La guerra Persiana, II, 22 - 23 32 Procopio, La guerra gotica, III, 31 33 J. Haury, Op. cit. (Introduction, pag. xxvii)

(18)

quale denota le carte segrete come “an abusive political pamphlet […], complmentary to the Wars, acting as a commentary on the published work as well as fulfilling its own independent purpose”. Quest’opera, in cui Giustiniano viene dipinto come un tiranno sanguinario dalle fattezze di demone e Teodora come una prostituta, ha suscitato perplessità fin dalla sua scoperta, avvenuta nel 1623 ad opera del librario della Biblioteca Vaticana Alemanni, il quale pensò che Procopio non fosse l’autore di quel libello. Oggi, ogni parere propende per la genuinità dello scritto: è vero che non esiste nessuna prova certa sulla questione, ma lo stile e il linguaggio della Storia Segreta34 hanno dimostrato la sua enorme vicinanza con il De bellis, eliminando di fatto ogni ragionevole dubbio sulla paternità dello scritto. Anche sul piano contenutistico, molti fatti e svariate critiche a Giustiniano narrati nel De bellis vengono ritrovati in maniera molto meno “politically correct” all’interno della Storia Segreta, rivelando precisi rimandi e strette connessioni che sono sintomo di una coerenza intertestuale per la quale difficilmente si potrebbe dubitare della presenza della mano di Procopio. Per quanto riguarda la datazione, come detto in precedenza, si tende a ritenere questo lavoro concluso nel 55035. Procopio dice di scrivere nel trentaduesimo anno del regno di Giustiniano36, il che

porterebbe a concludere che l’anno in cui lo scritto viene terminato sia il 559 – 560. Tuttavia, bisogna considerare, come ricorda Cameron37, che quando Procopio parla della cronologia del dominio di

Giustiniano non si riferisce mai all’anno dalla sua salita al potere (ovvero il 527) come data di partenza, ma dall’inizio dell’impero dello zio Giustino I (perciò dal 518)38. Questo pone fuori discussione ogni altro

ragionevole dubbio.

Sul perché Procopio abbia scritto un tale pamphlet, non esiste una risposta univoca e non è mia intenzione discutere la questione in questa sede. E’ utile però dire che Gibbon ha definito l’opera una “satira”, mentre la

Suda39 definisce l’opera una κωμῳδία, ovvero una “derisione”. Il disordine della narrazione e la

ripetitività dello stile sembrano indicare che l’opera venne scritta di getto o, piuttosto, che non andò incontro ad una revisione finale. Questo ci conferma il fatto che molto probabilmente lo scritto non era destinato ad un’immediata pubblicazione e non siamo neppure certi che gli autori successivi conoscessero questo lavoro di Procopio. Haury40 ipotizza a questo proposito che l’autore avesse inteso la Storia Segreta come un’opera di circolazione ristretta o comunque privata e non giudico l’idea inverosimile. Del resto, sempre nella prefazione, Procopio asserisce che le sue carte segrete rappresentano la conclusione dell’intera opera del De bellis, nonché un suo supplemento. Ciò ci porta a congetturare che la Storia Segreta sia stata concepita assieme al De bellis, ma che non sia stata cominciata prima del 548, l’anno della morte dell’imperatrice Teodora. Quanto detto finora è stato indicativo per un ben preciso atteggiamento al quale, nel considerare l’opera di Procopio nel

34 Vedi H.B. Dewing, Procopius: The Anecdota of Secret History, Cambridge Harvard University Press, 1935

35 Haury, 1891; Bury, 1923; Stein, 1949; Veh, 1950; Rubin, 1954. Una voce che propende per il 559/60 è Evans, 1972. 36 Procopio, Storia Segreta, XVIII, 33

37 A. Cameron, Op. cit.

38 Alcuni esempi in Guerra Vandalica I, 9 e De aedificiis I, 3. 39 Suda, s.v. ProkÒpioj

(19)

suo complesso, è necessario attenersi: il considerare, ovvero, la Storia segreta come un’opera imprescindibile per la comprensione del De bellis. Come avrò modo di mostrare, questo risulta utile anche a fini traduttivi. Talvolta in Procopio il solito evento viene presentato in veste “ufficiale” nel

De bellis, ma per comprenderne chiaramente le dinamiche è d’obbligo esaminare la diversa luce,

priva di limitazioni e all’insegna della parresia, sotto la quale viene posto nella Storia segreta, che in più di un’occasione si profila quindi come un imprescindibile strumento per l’interpretazione critica dei fatti.

(20)

Capitolo 2: Il metodo storiografico di Procopio

Osservando da vicino il De bellis, è possibile riassumere alcune tendenze fondamentali che caratterizzano il metodo storiografico dello storico di Cesarea.

Innanzitutto, semplicemente gettando una fugace e rapida occhiata all’imponente mole dell’opera di Procopio, ci si rende conto che l’autore dovette manipolare e organizzare una quantità enorme di materiale e informazioni storiche. Di fronte a questa evidenza, risulta perciò impossibile compiere una trattazione unitaria del De bellis. Per risolvere l’aporia, bisogna superare l’idea dell’opera procopiana come un blocco monolitico e cercare di considerare solo le linee generali che si possono individuare nel corso della narrazione, estremamente varia e molteplice.

Come è stato ben messo in luce da Cameron41, il De bellis si inserisce in quel secolare filone della storiografia classica che tratta degli eventi militari contemporanei a chi li scrive. Nel proemio42,

Procopio per definire la sua opera usa, alla maniera di Tucidide, il verbo

suggrafe‹n

, ovvero il suo intento è quello di fornire una descrizione delle guerre e organizza il suo materiale per inverni e primavere, usando formule ricorrenti che si ripetono alla fine di ogni anno di guerra. I manoscritti e Fozio43 chiamano l’opera di Procopio una

ƒstor…a

, ma la designazione sembra inadeguata, in quanto l’autore stesso ci dice con precisione che il fulcro del suo interesse non sarà una storia della sua epoca, ma saranno le guerre condotte da Giustiniano. La sua concezione di storia è

profondamente inserita nel solco della storiografia classica, con un peculiare interesse per i fatti politici e bellici, trattati all’interno di una tradizionale cornice in cui sono presenti sezioni di analisi storica, discorsi, descrizioni di battaglie e digressioni di vario tipo. Procopio, di conseguenza, è certamente il maggior esponente fra gli storiografi della tarda antichità che attingono direttamente alla grande storiografica classica greca. Come sempre Cameron ha evidenziato, tendenze di questo tipo non sono inusuali nella produzione storica del VI secolo44, ma ciò non toglie che l’autore di

Cesarea rappresenti sicuramente il più alto interprete di questo atteggiamento classicheggiante. Il problema dei modelli di Procopio è ovviamente troppo ampio e spinoso per essere trattato qui. Fornirò, tuttavia, alcuni cenni della questione nel capitolo seguente.

41 A. Cameron, Procopius and the Sixth century, (Cap. 8, The historian of the wars) 42 Procopio, La guerra persiana, I, 1

43 Fozio, Biblioteca, cod. 63. Curioso il fatto che Evagrio in Historia Ecclesiastica, IV, 12 designi l’opera con

l’espressione “uno scritto su Belisario”.

(21)

Non c’è dubbio che Procopio, come afferma lui stesso nel proemio dell’opera, fosse il più qualificato a descrivere le guerre sostenute da Giustiniano, in quanto testimone autoptico della maggior parte degli eventi narrati. Occasionalmente, lo storico di Cesarea non manca di inserire se stesso all’interno del tessuto narrativo45 come personaggio attivo all’interno dell’azione storica e il

punto culminante della sua partecipazione fu sicuramente la campagna contro i Vandali, dove fu presente in tutte le fasi salienti, come l’ingresso all’interno del palazzo reale vandalo. Quando Belisario, in seguito alla vittoria (534) si recò in Sicilia, Procopio rimase in Africa col generale Salomone. Più tardi lo troviamo assieme a Belisario a Roma, per essere poi inviato a Napoli con Antonina, moglie di Belisario, per curare la gestione dell’approvvigionamento delle truppe. Va da sé che Procopio doveva avere una discreta conoscenza di Roma, dello stato in cui versava e delle condizioni di chi vi viveva. Procopio era ancora al fianco di Belisario a Osimo46, per poi tornare e (forse) rimanere stabilmente a Costantinopoli dopo il 540, anno della sconfitta di Vitige, re dei Goti e della conquista dell’Italia. Non sappiamo se Procopio si sia mai allontanato da Costantinopoli dopo questa data, ma il fatto che dopo la narrazione della prima campagna italica di Belisario le sue testimonianze oculari si interrompono ci fornisce un buon grado di certezza per dire che Procopio, da quel momento in poi, restò nella capitale per il resto della sua vita. La sua funzione nel corso delle iniziative belliche (principalmente consigliere di Belisario e responsabile

dell’approvvigionamento), seppur di tipo non prettamente militare, lo poneva però nella posizione ottimale per parlare con i soggetti più disparati e raccogliere innumerevoli informazioni su ogni aspetto delle operazioni di guerra. Giusto a titolo d’esempio, all’inizio della spedizione contro gli Ostrogoti, Procopio mostra di conoscere perfettamente il numero, la disposizione e la provenienza di tutte le unità messe in campo dall’esercito bizantino47, cosa che non sarebbe stata possibile senza un’adeguata ricerca di informazioni presso i soldati e le gerarchie dell’esercito.

Da queste evidenze possiamo chiaramente desumere che la maggior parte delle informazioni trattate dallo storico di Cesarea doveva provenire da fonti orali, se non dalle sue dirette osservazioni

riportate poi per iscritto. La difficoltà di riconoscere queste fonti, per noi, è costituita dal fatto che Procopio non nomina mai il personaggio per bocca del quale ha ottenuto certi dati, ad eccezione di quando menziona dettagli e storie di secondaria importanza. Per quanto riguarda le fonti scritte, esse entrano in gioco per lo più nelle sezioni dedicate alla digressioni, soprattutto quelle etnografiche. Si nota chiaramente, da questo punto di vista, la grande differenza che sussiste fra i passi in cui è presente l’evidenza autoptica di Procopio dai passi in cui lo storico descrive avvenimenti che può

45 Alcuni esempi: Procopio, La guerra persiana, I, 12; I, 17; La guerra vandalica, I, 12; I 14; II, 14, II, 41; La guerra

gotica, II, 4; II, 17; IV, 22.

46 Procopio, La guerra gotica, II, 23 47 Procopio, La guerra gotica, I, 5

(22)

conoscere solo per testimonianza indiretta. Nel primo caso, l’autore ci fornisce spesso dettagli precisissimi, descritti con grande dovizia di particolari. Durante il primo assedio di Roma da parte dei Goti, ad esempio, Procopio ci fornisce il sorprendente dettaglio di un Goto che, presso la porta Salaria, viene colpito per caso dal proiettile di una ballista posta su una torre, finendo per rimanere impalato sul tronco di un albero con il corpo sospeso da terra. E’ chiarissimo che un dettaglio di tale crudo realismo del genere, di per sé irrilevante, ma efficacissimo per descrivere la ferocia degli scontri fra Romani e Goti, non sarebbe potuto essere fornito se non da un testimone oculare. Diversamente accade nelle sezioni in cui Procopio non è più presente all’azione. L’assedio di Petra condotto da Bessa48 presenta un tono meno coinvolto e più impersonale: la narrazione si snoda con lentezza e precisione, ma il testo scorre in maniera più essenziale e razionale, senza innecessarie distrazioni, e l’impressione è proprio quella dell’accurata trascrizione di un fatto che è stato appreso per testimonianza indiretta. Ciononostante, non sarebbe giusto tacciare Procopio di disparità

nell’uso delle fonti. Tucidide, del resto compie la solita operazione e ben poco ci è dato conoscere di quanto profondamente la sua indagine incida sull’uso delle testimonianze raccolte, fatto che rende quindi impossibile qualsiasi generalizzazione. Un’ulteriore difficoltà, inoltre, è dato dal fatto che Procopio costituisce, per la maggior parte del periodo che narra, la nostra unica fonte, ragione per la quale risulta un’operazione oltremodo ardua dissertare sulle notizie che lo storico mette a nostra disposizione, non essendo possibile confrontarle con altre voci.

Talvolta un punto di vista duplice sul medesimo evento ci viene offerto dal confronto con la Storia

segreta e ci dà la possibilità di osservare come Procopio tratti i dati storici. Prendiamo in esame, ad

esempio, due personaggi fondamentali dell’opera procopiana. Figure come Giustiniano e Belisario, la cui valutazione di Procopio è essenzialmente positiva nel De bellis (nel caso di Belisario

addirittura di manifesta ammirazione), subiscono nella Storia segreta un drastico ridimensionamento sul piano umano e valoriale e vengono dipinti come personaggi

irrevocabilmente esecrabili. Questo repentino mutamento di tendenza è stato spiegato tramite la considerazione dello statuto di Procopio come storico “non di professione”49. La sua ispirazione,

infatti, non proviene da un amore puro e genuino per la storia, ma viene direttamente dal suo

entusiasmo originato dal contatto con le sfere alte del potere e finisce per cadere gradualmente nella disillusione fino a culminare nel 550, anno non solo di pubblicazione del De bellis, ma anche della composizione della Storia segreta. In gran parte, l’atteggiamento di Procopio nei confronti di Giustiniano e il suo regime viene filtrata attraverso il rapporto con Belisario. Quando questo si deteriora, è inevitabile che cresca anche la sa insofferenza nei confronti del dominio giustinianeo. L’entusiasmo della narrazione procopiana va decisamente scemando e l’ardore narrativo che

48 Procopio, La guerra gotica, IV, 11

(23)

caratterizza, ad esempio, la prosa dei primi libri, si attenua fortemente negli ultimi. Questa ambivalenza si ritrova anche nell’ultimo libro de La guerra gotica: la prosa di Procopio sembra a questo punto più blanda e si trascina stancamente verso il racconto di eventi su cui lo storico pone meno enfasi, come la conquista definitiva dell’Italia da parte di Narsete, liquidata in poco più di metà libro.

La distorsione e il trattamento a volte tendenzioso delle informazioni è, in effetti, una delle tecniche più usate da Procopio. Consideriamo, ad esempio, la narrazione del trionfo sui Vandali celebrato nel 53450. Nonostante lo storico dovesse focalizzare tutta la sua attenzione su Giustiniano, in realtà finisce per puntare tutta la luce su Belisario e aumenta l’effetto della straordinarietà del suo trionfo menzionando il fatto che nessuno ne aveva più celebrato uno dai tempi di imperatori come Tito o Traiano. L’autore rende poi l’effetto ancora più splendido citando il successivo consolato di Belisario e chiamandolo, allo stesso modo, trionfo. E’ stata rilevata da Cameron51 una grande

differenza fra questa sezione del De bellis e la descrizione di Procopio del mosaico della Chalke52, che raffigurava Belisario e il suo trionfo sui Vandali. Secondo le sue parole, il centro dell’attenzione non sarebbe qui Belisario, ma le figure di Giustiniano e Teodora. Pur simili sul piano dello stile, il

De bellis e il De aedificiis mostrano però un leggero slittamento della prospettiva politica.

Procopio, tuttavia, non usa questi procedimenti di distorsione per criticare il sistema imperiale e la politica giustinianea di riconquista, ma il suo obiettivo polemico sono più che altro i singoli personaggi e i loro comportamenti. Come Agazia, egli critica le singole azioni politiche di Giustiniano, senza però mettere assolutamente in discussione l’impero e le sue idee. Per quanto riguarda le critiche nei confronti di Giustiniano, esse sono per la maggior parte indirette. All’inizio dell’opera non viene lasciato molto spazio agli eventi di Bisanzio, in quanto tutto l’impianto narrativo è occupato dall’andamento delle operazioni belliche. Nelle ultime parti, al contrario, lo scrittore si dimostra più aspro nei confronti di Giustiniano, soprattutto dopo il secondo rientro di Belisario a Bisanzio. Certo, Procopio doveva porre una speciale attenzione alle sue parole, in particolare in un’epoca in cui per i pagani e gli intellettuali dissidenti erano previste severe punizioni53. Questo, però, non impedisce allo storico di esporre il suo punto di vista. Procopio, in quanto erede della tradizione storiografica classica, vede la storia come storia delle grandi

personalità. Come Tucidide e molti altri storici prima di lui, egli spesso mette i suoi giudizi nella bocca di altri personaggi. Ad esempio, gli ambasciatori di Vitige presso Chosroe asseriscono che “Giustiniano è un agitatore, che desidera cose che non gli appartengono e non è capace di essere

50 Procopio, La guerra vandalica, II, 9 51 A. Cameron, Op. cit.

52 Procopio, De aedificiis, I, 10 53 Vedi Lemerle, 1971.

(24)

soddisfatto dallo stato attuale delle cose54”. Questo parere appare anche altre volte55 e, secondo

Cameron, rappresenta il preciso stato d’animo di Procopio nei confronti dell’imperatore. Lo studioso arriva addirittura a definire la statura delle critiche dello storico di Cesarea come banale e ripetitiva. Il suo criticismo pare possa essere riconducibile a una serie di formule precise, come il tradimento, l’agitazione sociale, l’avarizia, l’inganno e la malvagità. Una profonda analisi dei meccanismi di potere o una discussione sul reale operato di Giustiniano e dei funzionari di corte sembra infatti non esistere. La motivazione delle deplorevoli azioni di Giovanni di Cappadocia, ad esempio, per Procopio sono semplicemente la sua malvagità, mancanza di rispetto verso Dio e avarizia56. Le medesime formule vengono usate più volte in altre sedi per personaggi diversi. Questo ci fa capire che il criticismo di Procopio non sfocia in un qualcosa di organico, ma si limita a rimanere su un livello superficiale. Egli scrive semplicemente come un portavoce della sua classe sociale, ma l’esposizione dei loro punti di vista rimane ad uno stadio di pregiudizio, senza

sviluppare una vera e propria critica storica.

In effetti nel De bellis non si nota alcuno sforzo di formulare una vera e propria teoria storica delle cause o degli eventi specifici. Molto spesso, anche quando sarebbe necessario (come ad esempio in occasione della peste che si abbatté su Bisanzio), Procopio preferisce rifugiarsi in osservazioni generali sulle miserie umane e su quanto sia insondabile il giudizio di Dio57. Spesso, nel corso dell’opera, utilizza anche frasi fataliste riprese direttamente da Erodoto oppure chiama in causa l’intervento della TÚch, che ha quasi più il sapore di una decorazione testuale che una vera e propria convinzione. Un meccanismo simile si può ritrovare nell’episodio del sacco di Antiochia: la colpa umana viene ridotta al minimo, mentre viene addotto come giustificazione l’intervento di Dio, il cui operato, però, Procopio non è in grado di spiegare. Le conseguenze economiche che avrebbero colpito l’impero e la deportazione di un quantità innumerevole di individui non vengono neppure prese in considerazione e nel De aedificiis si guarda bene dal dire che la città, dopo la ricostruzione, era stata ridotta di dimensioni per mancanza di fondi58.

Possiamo in aggiunta affermare che, se in alcuni passi lo scrittore di Cesarea si dimostra critico nei confronti di Giustiniano, ci sono per contro altri brani che sono attentamente modulati per ragioni di partigianeria. Come caso esemplare possiamo prendere in esame la battaglia di Dara (530), il primo grande scontro che Procopio segue da vicino accanto a Belisario59. Per una volta, possiamo avere

54 Procopio, La guerra persiana, II, 2

55 Procopio, Storia segreta, VI, 21; VIII, 26; XVIII, 12 56 Procopio, La guerra persiana, I, 24

57 Come ad esempio in Procopio, La guerra persiana, II, 10

58 Procopio, De aedificiis, II, 10. Per la questione vedi Downey, 1961. 59 Procopio, La guerra persiana, I, 14

(25)

una pietra di confronto in Giovanni Malala, il quale narra l’andamento e l’esito della battaglia60. In

Procopio dello scontro viene fornita una descrizione lunga, dettagliata, con scambi di battute fra Belisario e il comandante persiano caratterizzati dall’uso di moltissimi artifici retorici, mentre Malala è piuttosto sintetico, con la conseguenza che la sua prosa assume caratteristiche più “da storiografo”. Malala, in questo frangente, mostra di essere meno letterario; lo storico di Cesarea, al contrario, struttura l’intero episodio più sulla propria esperienza personale e l’ammirazione verso Belisario che sulla verità storica. Un caso simile è quello della battaglia di Callinicum61, di cui abbiamo un altro resoconto, ancora una volta, in Malala62. La battaglia si risolse in una manifesta vittoria persiana, tanto che Belisario dovette ritirarsi in una fase ancora intermedia della battaglia. In Malala la responsabilità della sconfitta viene attribuita ad errori di manovra dei generali bizantini (Belisario compreso) e solo uno di loro viene encomiato per la sua strenua resistenza di fronte al nemico, ovvero Areta. Procopio, all’esatto contrario di Malala, getta tutta la colpa proprio sullo stesso Areta, reo secondo lui di aver rifiutato il combattimento di fronte al nemico e di aver suonato la ritirata per le sue truppe. Belisario viene invece totalmente assolto, senza alcun menzione della sua prematura fuga. Lo storico di Cesarea è infatti molto abile ad omettere il dettaglio, fornendo la sola notazione del trasferimento di Belisario in Africa per la spedizione contro i Vandali63. Curioso che Malala menzioni la sostituzione di Belisario con Mondo, dato accuratamente evitato da

Procopio, tanto da essere definito da Cameron “infinitely more subtle, varied and artful64.”

Questa tendenza all’uso tendenzioso delle informazioni è, tuttavia, presente in modo imponente nel corso del De bellis e rappresenta un atteggiamento costante da parte dell’autore. Questo,

ovviamente, anche in relazione anche allo statuto stesso dell’opera: è naturale che la testimonianza oculare e il coinvolgimento in prima persona dello storico all’interno delle vicende condizionino poi anche il modo in cui gli avvenimenti vengono riportati per iscritto tramite una coloritura personale. Le parti dove la tendenza alla distorsione soggettiva dei fatti rende la narrazione poco vicina all’oggettività storiografia hanno un contraltare in quelle sezioni in cui vengono inserite

informazioni che non competono propriamente all’esperienza diretta di Procopio, ma rappresentano dati di seconda mano. In queste si rileva appunto una minore parzialità, dovuta naturalmente

all’assenza di un coinvolgimento dell’autore in prima persona.

L’opera di Procopio, nondimeno, presenta tutti i difetti già presenti nella storiografia antica. Un vizio ricorrente è presente, ad esempio, nelle digressioni di carattere etnografico, in cui lo scrittore di Cesarea utilizza fonti troppo disparate e ineguale per poter mettere insieme una narrazione

60 Malala, Cronografia, I, 18

61 Procopio, La guerra persiana, I, 18 62 Malala, Cronografia, I, 20

63 Procopio, La guerra persiana, I, 19 64 A. Cameron, Op. cit.

(26)

organica. Un’accusa simile viene rivolta a Procopio da Rubin65, il quale asserisce che

l’organizzazione interna dell’opera progettata non secondo criteri di cronologia, ma sulla base dei teatri della guerra, conferisca al De bellis un senso di perdita dei nessi causa – effetto

(inevitabilmente alcuni eventi vengono registrati più di una volta) e un sapore di perdita delle connessioni fra gli eventi. Un altro difetto che è stato messo in luce66 è l’ambigua vaghezza dello storico nei confronti delle sconfitte bizantine. I numeri forniti sono spesso ingannevoli e si leggono cifre come i 150000 uomini di Vitige durante l’assedio di Roma e i Bizantini sono in costante inferiorità numerica contro i nemici. Basti pensare che, stando ai calcoli di Procopio, l’armata di invasione d’Italia era composta da non più di 5000 unità, il che pare francamente assurdo. Un'altra caratteristica che è stata giudicata negativa è la presenza di discorsi dal sapore fortemente retorico e fittizio. Di questo argomento, però, tratteremo in seguito.

Gli elementi messi in luce finora sono fortemente indicativi del metodo di lavoro di Procopio. Possiamo affermare che, nonostante le numerose falle da cui l’opera è viziata, nessuno prima di lui aveva mai tentato la composizione di un lavoro di simili proporzioni, né gli storici a lui posteriori proveranno a farlo. Mi sembra che sia perfettamente calzante, per concludere, il parere di

Cameron67, il quale definisce Procopio un eccellente “reporter” più che uno storico. Il suo De bellis mostra inizialmente un acceso patriottismo ed entusiasmo, ma tali caratteristiche non sono degne, a suo parere, della tradizionale figura dello storico- studioso. Ed ecco perché lo slancio iniziale va gradualmente ad esaurirsi man mano che l’opera procede, risolvendosi in un’opera piena di disappunto, dal cui negativo sdoppiamento deriva, appunto, la Storia segreta. La difficoltà

nell’approcciare Procopio risiede proprio nell’oscillante ambivalenza dei suoi atteggiamenti e nella sostanziale mancanza di un criterio oggettivo per decifrare l’uso del suo metodo storiografico. Ecco perché l’unica soluzione possibile sembra l’analisi individuale delle singole parti.

Resterebbe da trattare, in appendice, la questione dell’utilizzo delle fonti. Essendo questa troppo vasta per permettere una disamina completa, ho deciso di dedicare il capitolo successivo all’esame di una sezione del De bellis che la critica, a mio avviso, ha irragionevolmente trascurato e che più di ogni altra riesce ad individuare le fonti e le tendenze storiografiche predilette da Procopio.

65 Rubin, 1954

66 Vedi S. Hannestad, Some Observations on Procopius' Use of Numbers in Descriptions of Combat in Wars Books 1–7,

Phoenix, 69, pp. 394 - 411

(27)

Capitolo 3: Il Proemio del De bellis

L’adeguata trattazione di una qualsiasi opera storica non può prescindere dalla preliminare

considerazione della sezione che rappresenta la naturale sede delle premesse e delle dichiarazioni di carattere programmatico e metodologico. Sto parlando, ovviamente, del Proemio, che in Procopio costituisce il primo libro della narrazione del conflitto persiano. Prima di osservare gli elementi rilevanti, consideriamo il testo e la sua traduzione.

Procopio di Cesarea, La guerra persiana, I, 1:

“Προκόπιος Καισαρεὺς τοὺς πολέμους ξυνέγραψεν οὓς Ἰουστινιανὸς ὁ Ῥωμαίων βασιλεὺς πρὸς βαρβάρους διήνεγκε τούς τε ἑῴους καὶ ἑσπερίους, ὥς πη αὐτῶν ἑκάστῳ ξυνηνέχθη γενέσθαι, ὡς μὴ ἔργα ὑπερμεγέθη ὁ μέγας αἰὼν λόγου ἔρημα χειρωσάμενος τῇ τε λήθῃ αὐτὰ καταπρόηται καὶ παντάπασιν ἐξίτηλα θῆται, ὧνπερ τὴν μνήμην αὐτὸς ᾤετο μέγα τι ἔσεσθαι καὶ ξυνοῖσον ἐς τὰ μάλιστα τοῖς τε νῦν οὖσι καὶ τοῖς ἐς τὸ ἔπειτα γενησομένοις, εἴ ποτε καὶ αὖθις ὁ χρόνος ἐς ὁμοίαν τινὰ τοὺς ἀνθρώπους ἀνάγκην διάθοιτο. [2] τοῖς τε γὰρ πολεμησείουσι καὶ ἄλλως ἀγωνιουμένοις ὄνησίν τινα ἐκπορίζεσθαι οἵα τέ ἐστιν ἡ τῆς ἐμφεροῦς ἱστορίας ἐπίδειξις, ἀποκαλύπτουσα μὲν ὅποι ποτὲ τοῖς προγεγενημένοις τὰ τῆς ὁμοίας ἀγωνίας ἐχώρησεν, αἰνισσομένη δὲ ὁποίαν τινὰ τελευτὴν τοῖς γε ὡς ἄριστα βουλευομένοις τὰ παρόντα, ὡς τὸ εἰκός, ἕξει. [3] καί οἱ αὐτῷ ξυνηπίστατο πάντων μάλιστα δυνατὸς ὢν τάδε ξυγγράψαι κατ̓ ἄλλο μὲν οὐδέν, ὅτι δὲ αὐτῷ ξυμβούλῳ ᾑρημένῳ Βελισαρίῳ τῷ στρατηγῷ σχεδόν τι ἅπασι παραγενέσθαι τοῖς πεπραγμένοις ξυνέπεσε. [4] πρέπειν τε ἡγεῖτο ῥητορικῇ μὲν δεινότητα, ποιητικῇ δὲ μυθοποιΐαν, [5] ξυγγραφῇ δὲ ἀλήθειαν. ταῦτά τοι οὐδέ του τῶν οἱ ἐς ἄγαν ἐπιτηδείων τὰ μοχθηρὰ ἀπεκρύψατο, ἀλλὰ τὰ πᾶσι ξυνενεχθέντα ἕκαστα ἀκριβολογούμενος ξυνεγράψατο, εἴτε εὖ εἴτε πη ἄλλῃ αὐτοῖς εἰργάσθαι ξυνέβη. [6] Κρεῖσσον δὲ οὐδὲν ἢ ἰσχυρότερον τῶν ἐν τοῖσδε τοῖς πολέμοις τετυχηκότων τῷ γε ὡς ἀληθῶς τεκμηριοῦσθαι βουλομένῳ φανήσεται. [7] πέπρακται γὰρ ἐν τούτοις μάλιστα πάντων ὧν ἀκοῇ ἴσμεν: θαυμαστὰ οἷα, ἢν μή τις τῶν τάδε ἀναλεγομένων τῷ παλαιῷ χρόνῳ τὰ πρεσβεῖα διδοίη καὶ τὰ καθ̓ αὑτὸν οὐκ ἀξιοίη θαυμαστὰ οἴεσθαι. [8] ὥσπερ οὖν ἀμέλει τοὺς μὲν νῦν στρατευομένους ἔνιοι καλοῦσι τοξότας, ἀγχεμάχους δὲ καὶ ἀσπιδιώτας καὶ τοιαῦτα ἄττα ὀνόματα τοῖς παλαιοτάτοις ἐθέλουσι

Riferimenti

Documenti correlati

dei fascicoli iniziali di mm. 235 x 170, con il testo di un’unica mano, in testuale, a piena pagina, in inchiostro nero; nel copialettere e nei fascicoli finali si succedono varie

Leveraging on these insights, we propose a novel stopping condition for backward and forward greedy methods which ensures that the ideal prediction error using the selected

Use of all other works requires consent of the right holder (author or publisher) if not exempted from copyright protection by the applicable

92 del 2012, possono essere proposte nel giudizio di impugnazione del licenziamento sono quelle che annoverano tra i loro fatti costitutivi sia la pregressa esistenza di un rapporto

La Festival Card dà diritto all’accesso a tutti gli spettacoli dell’Auditorium Fausto Melotti, del Teatro Sociale, del Teatro alla Cartiera e della Valle di Sella a 10

Leggiamo in esordio al proemio degli Anekdota I 1-2: Ὅσα μὲν οὖν Ῥωμαίων τῷ γένει ἐν τοῖς πολέμοις ἄχρι δεῦρο ξυνηνέχθη γενέσθαι, τῇδέ μοι δεδιήγηται, ᾗπερ

della G6PD nelle cellule di controllo e nelle cellule silenziate, come. ulteriore riprova