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Gli "scholia pseudoasconiana" a Cicerone "Verr." II, 1: traduzione e commento

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Academic year: 2021

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA CLASSICA E STORIA

DELL’ANTICHITA’

TESI DI LAUREA

Gli scholia pseudoasconiana a Cicerone Verr. II, 1: traduzione e

commento

CANDIDATO RELATORE

Valentina Preterossi

Prof. Rolando Ferri CONTRORELATORE Prof.ssa Anna Zago

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

La scoperta del testo, la tradizione manoscritta e la storia degli studi ... 3

Lo ps.Asconio, le sue fonti e il debito nei confronti di Asconio ... 14

TESTO LATINO ps.Asc. in Verr. II, 1 ... 29

ARGUMENTUM ACCUSATIONIS ... 29 <ENARRATIO> ... 31 TRADUZIONE………...69 CAPO D’IMPUTAZIONE……….69 <COMMENTO>………...72 PREFAZIONE AL COMMENTO………120 COMMENTO………121

Il carattere fittizio dell’actio secunda...………..121

 Una citazione virgiliana………..130

Commento a ps.Asc. in Verr. Stangl 226, 14..………..137

 Travisamenti del testo ciceroniano...………..145

Una glossa linguistica: ps.Asc. in Verr. Stangl 229, 24………..156

Evoluzione della quaestio perpetua de repetundis………….………...…………..161

 Glosse di carattere etimologico………..174

 Glosse di carattere “filologico”.………..180

 Il lessico retorico greco dello ps.Asconio…………...………..199

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INTRODUZIONE

1) La scoperta del testo, la tradizione manoscritta e la storia degli studi

La venuta alla luce del Commento alle Verrinae si pone nell’era della grande scoperta dei testi classici. L’opportunità migliore per un balzo in avanti in questo senso si presentò quando fu convocato il Concilio di Costanza tra il 1414 e il 1417: l’intera corte papale si trasferì a Costanza, attirando a sé una nutrita schiera di umanisti, che dedicarono il tempo libero a loro disposizione alla ricerca di testi classici nelle polverose biblioteche dei monasteri tedeschi e svizzeri. Si pone in questo contesto l’incursione di Poggio Bracciolini, allora segretario apostolico, nell’estate del 1416 a San Gallo in compagnia di tre amici umanisti, Bartolomeo da Montepulciano, Cencio Rustici e Sozomeno da Pistoia, visita a cui dobbiamo la scoperta di un Quintiliano completo ( mentre prima si aveva a che fare con esemplari mutili) e di un codice in pessimo stato di conservazione1, contenente quattro libri delle Argonautiche di Valerio Flacco seguito da una lunga serie di annotazioni alle orazioni ciceroniane in Pisone, pro

Scauro, pro Milone, pro Cornelio, in toga candida, divinatio in Quintum Caecilium,

1

In una lettera che lo stesso Poggio inviò a Guarino Veronese, edita in Epistolari a cura di H. Harth, Olschki, Firenze 1984-87, si trova scritto: Erant enim non in bibliotheca libri illi, ut

eorum dignitas postulabat, sed in teterrimo quodam et obscuro carcere, fundo scilicet unius turris, quo ne capitalis quidem rei damnati retruderentur.[…] Reperimus praeterea libros tres primos et dimidiam quarti C. Valerii Flacci Argonauticon, et expositiones tamquam thema quoddam super octo Ciceronis orationibus Q. Asconii Pediani, eloquentissimi viri, de quibus ipse meminit Quintilianus.

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actio prima in Gaium Verrem, actio secunda in Gaium Verrem liber primus, actio secunda in Gaium Verrem liber secundus (quest’ultima solo fino al paragrafo 35).

Queste note di commento sono state attribuite ad Asconio Pediano, illustre figura di studioso del secolo I d.C. 2, il cui nome Poggio aveva letto all’inizio e alla fine del commento all’orazione in Pisonem e all’inizio di quello alla pro Cornelio, cosa che portò l’umanista a ricondurre proprio ad Asconio l’intera silloge.

Questo codice Sangallensis, a quanto pare del secolo IX, andò presto perduto e la tradizione del testo, giunta a noi in circa 30 esemplari del secolo XV, si basa sulle tre copie che Poggio e Bartolomeo prima e frettolosamente3, e un anno dopo Sozomeno più accuratamente approntarono. L’unico esemplare dei tre che sopravvive ancora oggi è proprio quello del Canonico di Pistoia, il Forteguerriano A. 37 (S), conservato nella Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, al

2 La datazione relativa a questa figura di studioso si basa sull’interpretazione di un passo di Girolamo, scritto sul De viris illustribus di Svetonio, in cui per l’anno di Abramo 2092 (76 d. C.) si parla di uno scriptor historicus: Q. Asconius Pedianus scriptor historicus clarus habetur. Qui

LXXIII aetatis suae anno captus luminibus duodecim postea annis in summo omnium honore consenescit. Tralasciando in questa sede le argomentazioni che hanno portato a preferire i 73

anni d’età, citati nel passo, come data d’inizio della sua cecità e non della sua morte (Benario 1973), oggi, seguendo il Madvig (1828), si propende per una cronologia che pone il 3 d.C. come data di nascita di Asconio e l’88 d.C. come anno della sua morte. Molte le opere che sappiamo con certezza appartenere all’erudito, molto probabilmente di origine padovana, come testimonierebbe l’aggettivo noster riferito a Livio (Clark 1907). Le sue enarrationes in

Ciceronis orationes, di taglio per lo più storico-antiquario, erano destinate all’erudizione dei

figli con lo scopo primario di chiarire i dettagli - relativi a fatti, persone e luoghi - citati dall’Arpinate e non riconoscibili con immediatezza a un secolo di distanza, ma soprattutto preparare questi giovani, che stavano per affacciarsi alla vita politica, spiegando loro le varie istituzioni giuridiche e procedure processuali. Altresì attribuibile con certezza ad Asconio un trattato contra obtrectatores Vergilii, menzionato da Donato nella sua Vita del poeta (Suet. Rel. 66, 2 Reiff: Asconius Pedianus libros, quem contra obtrectatores Vergiliis scripsit [...]); in maniera meno certa ma comunque annoverata tra le sue opere una Vita Sallustii, citata dallo peudo-Acrone ad Hor. sat. 1, 2, 41, e, forse, un Simposio sulla falsariga di quello platonico, ricordato dal lessico Suda.

3Nella medesima lettera mandata da Poggio a Guarino si trova scritto: Haec mea manu

transcripsi, et quidem velociter, ut ea mitterem ad Leonardum Aretinum et Nicolaum Florentinum.

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quale, come sostennero inizialmente il Kiessling e lo Shöll e poi altri studiosi, fra gli apografi del Sangallensis spetta il primo posto.

Il Sozomeno era forse un paleografo meglio dotato di Poggio e di Bartolomeo, ma la sua copia è da preferirsi specialmente perché egli si accontentò di trascrivere con estrema diligenza il manoscritto di San Gallo, non arrischiò congetture o emendamenti e neppure volle correggere gli errori più evidenti. La sua cautela giunse fino a saltare le parole di lettura incerta o difficile, lasciando una lacuna di lunghezza corrispondente, cosa che accadeva non di rado per il pessimo stato di conservazione del Sangallensis. Il Forteguerriano fu studiato e trascritto per la prima volta dallo Shöll nell’autunno del 1872; il lavoro che ne derivò fu un’edizione critica curata insieme al Kiessling (Berlino, 1875), non priva di molti errori di trascrizione4.

Per quanto riguarda l’apografo di Bartolomeo da Montepulciano, malgrado questo sia andato perduto, è tutt’ora esistente una sua copia diretta, conservata a Firenze, il Laurenziano 54. 5 (M)5, il cui scriba è definito indoctus dalla maggior parte degli studiosi. Lo stesso Stangl, sulla cui edizione del 1912 si basa questo lavoro di traduzione e commento al testo degli Pseudoasconiana, tende a soffermarsi su quegli errori da poco e per lo più meccanici peculiari del codice M, che lo studioso ritiene essere opera di un copista alquanto inesperto, il quale avrebbe trascritto il testo da quell’esemplare che Bartolomeo da Montepulciano aveva creato sulla base dell’archetipo di San Gallo, ma lo ha spesso corredato delle correzioni presenti nell’apografo dello stesso Poggio6. Queste caratteristiche contribuirono nella storia degli studi al testo a designare M come il testimone meno affidabile della tradizione e a far sì che non fosse considerato

4 Giarratano ne stila un elenco e procede alla loro correzione in Giarratano 1906.

5 Nell’explicit del codice si trova scritto: Finis argumentorum quorundam Orationum Ciceronis,

eorum, quae invenimus in Monasterio Sancti Galli, quae licet imperfecta et in compluribus lociis corrupta esse videantur, non mediocrem tamen bene studentibus poterunt utilitatem afferre. Die XXV. Julii MCCCCXVI. B. de Montipoliciano.

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almeno fino al 1875, quando fu utilizzato per la prima volta insieme al codice S nell’edizione critica di Kiessling e di Schöll (Berlino, 1875).

Rimane da menzionare una delle questioni più spinose relative alla storia della tradizione manoscritta del nostro testo, ovvero la sorte dell’apografo di Poggio Bracciolini. Della sua copia, che sappiamo essere giunta nelle mani del Niccoli, si persero presto le tracce e spesso i dotti hanno creduto di riconoscerla ora in un codice, ora in un altro: esiste in compenso una serie numerosa di manoscritti, di vario valore dal punto di vista testuale e tutti trascritti nel secolo XV, che, sulla base di subscriptiones o di lezioni condivise, sembrano derivare in maniera piuttosto certa dall’apografo Poggiano, e grazie ai quali è possibile determinare le lezioni e l’importanza del loro archetipo.

Nella biblioteca nazionale di Madrid, con la segnatura X 81, si conserva un manoscritto di Asconio Pediano (P). Questo codice del secolo XV contiene il

Chronicon del monaco Sigisberto di Gembloux7 (fol. 1-17), seguono 9 fogli in bianco che precedono i commentari di Asconio in 17 fogli, i commentari dello ps.Asconio in fogli 21 (fol. 27-64) e le Argonautiche di Valerio Flacco fino al libro IV 317 (fol. 65-94). E’ evidente che le tre opere non fossero dall’inizio riunite in un unico volume: mentre i libri di Asconio e di Valerio Flacco, entrambi vergati da una stessa mano, si mostrano connessi da sempre tra loro, il Chronicon di Sigisberto è stato sicuramente aggiunto successivamente. Infatti, mentre tutti i 26 fogli che contengono l’opera del gemblacense formano un unico fascicolo, a partire da Asconio le pagine sono unite 32 alla volta a formare 8 quaternioni. Inoltre, i fogli della cronaca presentano un simbolo diverso rispetto a quello ricorrente nelle pagine di Asconio e Valerio Flacco, caratterizzato da un serpente attorcigliato su di un arco.

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Lo Schmiedeberg sostiene che l’autore del codice abbia trascritto velocemente Asconio e Valerio Flacco; tale constatazione deriva dal fatto le singole pagine non mostrano di seguire uno stesso numero di righe: la prima pagina contenente Asconio, ad esempio, presenta 38 righe, poco dopo se ne contano 39 e molte altre pagine ne hanno 40. Lo stesso sembra accadere con i versi delle

Argonautiche: il foglio 66 verso include 43 versi, mentre il recto del foglio

successivo 408. Tuttavia, si deve considerare anche che una differenza di una o due righe nella mise en page del testo non è una prova efficace di trascuratezza nella trascrizione.

Il codice è corredato da correzioni e note marginali, e mentre quest’ultime non sembrano portare ad alcuno sviluppo, in quanto aggiunte in epoca più tarda e contenenti soltanto il sunto di alcuni passi dei commentari di Asconio e dei versi di Valerio Flacco, le correzioni, invece, visibili all’interno del testo o a margine, contribuiscono a stabilire il rapporto di parentela del Madrileno con i restanti esemplari della tradizione. Differiscono tra loro per il ductus e per colore d’inchiostro, cosa che fa presupporre che siano state vergate da tre mani diverse9. Si riscontra, poi, la presenza di un altro correttore che ha aggiunto qua e là nel margine delle congetture, con le quali spesso vengono sanate lezioni erronee del testo, e che, a volte, sono accompagnate da segni quali c o dalla parola credo. E’ sulla base di questi elementi che Clark, avendo comparato con questo il codice Laurenziano contenente le epistole ciceroniane ad Attico, nel quale si riscontrano gli stessi segni, sostiene che tali congetture siano opera dello stesso Niccolò Niccoli10. Infine, moltissime correzioni sono state vergate da una mano con un ductus molto simile a quella che ha vergato il testo, tanto da poter supporre che si tratti della medesima.

8 Schmiedeberg 1905.

9 Lo Shmiedeberg, sulla base della tinta fortemente nera che caratterizza una di esse, crede che questa sia più recente delle altre due.

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Ciò che, tuttavia, rende tanto degno di nota questo esemplare è la presenza di una subscriptio che riporta la firma di Poggio Bracciolini11, fatto che ha spinto gli studiosi a dividersi tra quelli che, confidando nella subscriptio, riconoscono nel Madrileno la copia autentica dell’umanista, e coloro che, invece, credono che questo codice P sia stato trascritto dalla copia di Poggio andata perduta.

Del resto, risulta evidente da qui che, per sanare la disputa e risolvere la questione, si debba prima accertare la discendenza dal Madrileno di tutti gli esemplari di stampo Poggiano, quali: 1) l’editio princeps a stampa, edita a Venezia nel 1477 (Pw), che può essere utilizzata per recensire il testo di Asconio al posto del codice; 2) il Neapolitanus V B 20 (Pn), scoperto a Napoli da Thomas Stangl nel 1884 e da lui inizialmente considerato un quarto apografo del

Sangallensis, indipendente sia rispetto ai codici Poggiani sia a quelli di Sozomeno

e Bartolomeo12, ma poi ricondotto anch’esso nel novero della tradizione Poggiana; 3) il Gothanus II n 118 (Pc); 4) l’Ambrosianus H 100 (Pd); 5) il

Laurentianus pl. 50. 4 (Pb); 6) il Lugdunensis Batav. 222 (Pl); 7) il codice della soc. Colomb. Fiorent. B 7 (Pa); 8) il Ricciardianus (Pr); 9) il codice Guelferbytanus n° 88 Gudianus (Pg).

L’unico argomento che si potrebbe addurre contro la discendenza di tutti costoro dal Matritensis è il fatto che soltanto quest’ultimo all’interno della tradizione Poggiana include Valerio Flacco insieme ad Asconio. Tale argomentazione, tuttavia, non sembra implicare nient’altro se non che il codice P sia connesso in maniera molto più stretta degli altri all’apografo di Poggio. Infatti, quando l’umanista nella sua lettera a Guarino Veronese afferma di aver

11 “C. valeri flacci argonauticon. Hoc fragmentū repertū est in monasterio sancti galli prope

costantiā XX milibus passum una cū parte Q. asconii pediani. Deus concedat alteri , ut utrumque opus reperiat perfectum. Nos quod potuimus egimus. Poggius florentinus.”

12 Schmiedeberg 1905, dopo un’attenta collazione dei codici, dimostra come tale conclusione sia assolutamente errata.

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trascritto di suo pugno entrambi gli autori antichi per inviarli a Leonardo Bruni in Italia, nessuno dubita che lo abbia fatto unendoli in un unico volume.

Ciò che ne consegue è evidente: o tutte le copie Poggiane sono di discendenza madrilena o questo e quelle traggono la loro origine da uno stesso esemplare ora perduto. Tutti gli studiosi ormai propendono per la prima delle due ipotesi.

Una volta chiarito, quindi, che tutta la tradizione Poggiana in mano nostra scaturisce da un unico codice, il Madrileno X 81, si può affrontare la questione molto più problematica se si è in presenza dell’apografo dell’umanista fiorentino o se si tratta di un manoscritto trascritto da quello.

Già il Knust13 aveva creduto di riconoscere in questa copia l’apografo di Poggio, ma fu avversato poco tempo dopo dal Kiessling e dallo Shöll, che, tuttavia, nella loro edizione del 1875 non si curarono neppure di esaminare il cod. Madrileno e diedero maggior risalto ad S e M. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento Clark, dal confronto di alcune lezioni, cercò di dimostrare che i codici migliori della famiglia Poggiana come Pb (il Laurenziano 50, 4), Pa (soc. Colomb. Fiorent. B 7), Pl (Leidense n. 222) derivano dal Madrileno e concluse che questo codice, se anche non è propriamente l’apografo del Poggio, è almeno il rappresentante più antico della famiglia Poggiana e può, quindi, dispensare i futuri editori di Asconio dal tener conto di altri codici della stessa famiglia14. Infine il Krohn, confrontando il Madrileno con altri esemplari che risultavano trascritti in maniera evidente da Poggio (in particolare il Berolinensis

Hamiltonensis 166) e riconoscendone la calligrafia, affermò che si avesse tra le

mani l’apografo del noto umanista15. Né, di fatto, secondo lo studioso, può andar

13 Knust 1843. Il volume VIII della raccolta dedica le prime 150 pagine a ricostruire attraverso le lettere dello studioso i suoi viaggi compiuti tra il 1839 e il 1841 dalla Francia alla Spagna, e una cinquantina di pagine sono volte a fornire un inventario dei manoscritti antichi presenti nella biblioteca regia di Madrid.

14 Clark 1896. 15 Krohn 1899.

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contro a tale ipotesi l’osservazione per cui il ductus di alcune lettere presenti in P differisce da quello delle medesime presenti nel testo di Berlino. Sappiamo, infatti, che Poggio copiò l’esemplare di Madrid velociter16, mentre nel trascrivere il codice contenente le epistole di Cicerone si adoperò manu bellissima. Questa argomentazione non persuase del tutto il Clark, il quale, considerando che gli esemplari sicuramente Poggiani (Laurenziano pl. 48, 22; 50, 31; 67, 15 e il Berlinese Hamilton 166) siano stati trascritti in un momento diverso rispetto a quello in cui fu copiato il Madrileno, sostenne che la questione non potesse essere sciolta fin quando non venisse alla luce un manoscritto autentico di Poggio, copiato anch’esso rapidamente. Lo Schmiedeberg, invece, propende per concordare con il Krohn17.

Quello che è certo è che il manoscritto di Madrid è un codice di grande importanza e che l’ipotesi di Clark sembra avere vari argomenti a suo favore, tra i quali il più notevole appare il seguente, benché lo stesso Clark sembri avergli dato poco peso. In molti passi si manifesta un fenomeno alquanto curioso: la prima mano del Madrileno riproduce la lezione del Forteguerriano, poi la stessa o una seconda mano corregge la lezione del Madrileno e tutti gli altri codici della famiglia Poggiana riproducono solo la lezione corretta. Da ciò nascono spontaneamente due ipotesi: o il Madrileno deriva dal Forteguerriano, cosa alquanto improbabile per tutta una serie di motivi e specialmente perché nel Forteguerriano ci sono lacune di parole e di intere linee, che si leggono invece nel Madrileno, o entrambi derivano direttamente dallo stesso codice, che non potrebbe che essere il Sangallese. Mentre Sozomeno non volle tentare la correzione degli errori dell’archetipo, il dotto a cui si deve il Madrileno, che a

16 Nota 3, pag. 2. 17 Schmiedeberg 1905.

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questo punto non potrebbe essere che Poggio, aggiunse qua e là emendazioni proprie18.

Ammesso, dunque, che il Matritensis X 81 sia la copia autentica dell’umanista fiorentino, bisogna comunque domandarsi quanta autorevolezza abbia come testimonianza dell’antigrafo per noi perduto. L’edizione berlinese di Keissling-Shöll metteva in primo piano il Forteguerriano, considerando la copia di Sozomeno un’ottima immagine del Sangallese. Non fu dello stesso avviso Stangl, il quale sosteneva che l’esemplare di Poggio conservasse invariato il testo dell’antigrafo, e pensava che lo facesse a tal punto che lo stesso canonico di Pistoia molto spesso avesse corretto la propria copia sulla base di quella dell’amico. Seguendo lo Schmiedeberg sembra che entrambe le affermazioni vadano mitigate, in quanto non si potrà pensare né che Sozomeno abbia sempre conservato il testo tramandato dal Sangallese19, né, d’altro canto, si potrà concordare con lo Stangl che Poggio non l’abbia mutato affatto, poiché sappiamo con certezza che in almeno tre passi ha corretto quanto trovò scritto nell’antigrafo20. Le conclusioni dello Schmiedeberg sono state successivamente accettate dallo stesso Stangl, che vede tuttavia in P non tanto la copia trascritta da Poggio a San Gallo, quanto, in accordo con Clark21, una prima “edizione” delle note ad opera dell’umanista22.

Si è così portata a termine in questa sede la rapida rassegna di quella triade di manoscritti, P, M e S, considerata tuttavia canonica soltanto a partire dagli studi

18 Giarratano 1906.

19 Stangl (1884) ha dimostrato come in trenta passi Sozomeno non ha tanto trascritto, quanto semmai emendato il testo tradito, soprattutto per quanto riguarda gli scholia alle Verrinae. Si tratta di interventi di omissione (145, 5); trasposizione (158, 24; 180, 6; 187, 20; 200, 2; 200, 14; 209, 8); congettura (99, 16; 107, 7; 107, 18; 131, 14; 139, 4; 141, 21; 154, 13; 159, 16; 161, 15; 201, 21); interpolazione (120, 14; 128, 2; 130, 18; 132, 16; 139, 20; 148, 17; 171, 9; 171, 10; 177, 24; 181, 9; 203, 4; 203, 12). 20 Schmiedeberg 1905. 21 Clark 1896. 22 Stangl 1906; 1913.

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del diciannovesimo e ventesimo secolo, quando, in tempi recenti, gli editori riconobbero il valore di questi tre esemplari23. Oggi, addirittura, un recente orientamento della critica è giunto a sostenere la necessità di una revisione dello

stemma codicum, dal momento che alcuni dei codici, classificati come copie della

triade, potrebbero essere discendenti diretti del Sangallensis. E’ il caso, ad esempio, del codice Parigino latino 7833, classificato da Clark24 come copia di S, ma che non condivide alcuni errori con quest’ultimo, mentre presenta una

subscriptio molto simile a quella di M. Lo stesso si può dire circa il Vaticano

Ottoboniano latino 1322, un esemplare di XV sec. di origine italiana venuto alla luce recentemente, il quale presenta dai folia 1-40 le cinque orazioni ciceroniane commentate da Asconio con il titolo «Q. Ascondii [sic] Pediani in orationibus M.

Tulli Ciceronis comentaria [sic] in senatu contra L. Pisonem», mentre dai folia

40-78 il nostro ps.Asconio sotto il titolo «contra C. Antonium et L. Catilinam incipit

de pretura contra C. Verrem liber primus argumentum divinationis». Anch’esso

alla fine, f. 77 verso, riporta la subscriptio di Bartolomeo datata al 1415, copiata da M: «finis argomentorum quorundam Orationis [sic] Ciceronis Eorumque

Inuente in Monasterio (Sancti Galli) licet Imperfecta in pluribus// f. 78// locis corrupta esse videantur. Non Mediocre tamen bene studentibus poterunt utilitatem afferre»25. E’ evidente, quindi, che i rapporti tra i vari esemplari della tradizione risultino ancora da chiarire.

Inizialmente le prime edizioni critiche del testo si basarono su una copia di P, redatta dal veneziano Andrea Giuliano. Questo codice, o una sua copia, sta all’origine dell’editio princeps del 1477, stampata a Venezia da Squarzafico, il cui testo fu ripreso da tutti i lavori che si succedettero tra il secolo XV e XVI26.

23 La prima rivalutazione di P, M e S si trova in Madvig 1828. 24 Clark 1896.

25 Pellegrin 1975.

26 Le prime correzioni al testo si devono all’umanista francese Nicolas Berauld, la cui opera vede la luce a Parigi nel 1520, nonché all’Aldina del 1522, peraltro non priva di sviste. Il

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La vera critica testuale, tuttavia, fu applicata al testo solo a partire dalla triplice edizione di Paolo Manuzio (Venezia 1547; 1553; 1563), che corredò il testo di molte congetture, in parte derivanti da Pierre Danes27. Sempre del sedicesimo secolo è il lavoro di F. Hotoman, la cui edizione (Lione 1551) rimase a lungo la base per la pubblicazione delle note a Cicerone, malgrado sia controverso il suo giudizio di merito28. Una ripresa di quello di Hotoman è il testo pubblicato da F. Hack (Leida 1644; 1675), che merita di essere citato per le correzioni di Johann Gronov presenti al suo interno. Il secolo XVIII non apporta nulla di nuovo; per lo più il testo delle note, non pubblicato più a parte, viene annesso ai numerosi Ciceroni, totali o parziali, dati alle stampe in questo periodo.

Un radicale mutamento si ha nel secolo successivo, quando gli studiosi si volgono ad una nuova disamina dei codici, il cui risultato sono le edizioni moderne delle note. Da ricordare in particolare l’opera di Georg Baiter (1833), contenuta nei monumentali opera omnia dell’Arpinate, pubblicati in collaborazione con Giovanni Orelli29. Ancora oggi di riferimento è, infine, l’editio di Thomas Stangl del 1912, contenente il testo critico degli scholia30.

confronto di diversi manoscritti, probabilmente tutti appartenuti alla famiglia Poggiana, è operato per la prima volta da Jacques Loys (Parigi 1536).

27 Madvig (1828) avanza forti critiche sul valore delle emendazioni manuziane; rimprovera soprattutto all’editore di aver ecceduto nell’uniformare alcuni lemmi al testo tradito dai manoscritti ciceroniani.

28 Madvig (1828) si pone in maniera molto critica nei confronti dell’opera dello Hotoman, che non avrebbe, a suo dire, confrontato i codici con i suggerimenti dei filologi, limitandosi a riprendere l’opera del Manuzio, e che avrebbe emendato il testo in maniera poco pregevole. 29 Speciale pregio dell’edizione di Baiter è il riesame approfondito delle opere degli editori di XV-XVIII secolo, le cui proposte sono segnalate con sistematicità nell’apparato critico.

30 Il lavoro critico dello Stangl è limitato al secondo dei tre volumi previsti; mai date alle stampe le osservazioni introduttive del primo e il Commento alle glosse che doveva caratterizzare il terzo. Tale mancanza è solo in parte supplita da diversi articoli dello stesso e dallo studio preparatorio del 1909, limitato ai soli scoli alle Verrinae.

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2) Lo ps.Asconio, le sue fonti e il debito nei confronti di Asconio

In tutti i manoscritti superstiti e in tutte le edizioni critiche a partire dalla prima, edita a Venezia nel 1477 ad opera dello Squarzafico, fino a quelle del secolo XIX al commento di Asconio Pediano alle cinque orazioni ciceroniane è allegata l’edizione di un ulteriore commento di stampo per lo più grammaticale e non storico-prosopografico di parte delle Verrinae, opera costituita da 7 orazioni, composte per il processo giudiziario incentrato sulle malversazioni del governatore della Sicilia, Gaio Licinio Verre, compiute tra il 73 ed il 71 a.C. e nell’ambito delle quali Cicerone riveste il ruolo di accusatore. Questa sezione fu da sempre attribuita allo stesso Asconio Pediano, fino a che Madvig (Copenhagen 1828) nella sua edizione del 1828 - “De Q. Asconii Pediani et

aliorum veterum interpretum in Ciceronis orationes commentariis disputatio critica” - riuscì a dimostrare con convincenti argomentazioni che, in realtà, era

opera di un autore anonimo molto più tardo, che egli situò all’incirca nel secolo V, sulla cui personalità non sappiamo nulla, se non quel poco che si riesce ad evincere dalle sue stesse parole.

In precedenza alcuni studiosi, confrontando il commento alle Verrinae con le altre cinque orazioni ciceroniane commentate da Asconio Pediano, non si resero conto che molte frasi, l’utilizzo di alcune parole o la narrazione dei fatti non potessero essere proprie del secolo I d.C., età dell’Asconio autentico31; altri talvolta rimanevano addirittura stupefatti nell’incappare in espressioni che sembravano essere molto distanti dall’età giulio-claudia propria del vero Asconio. Soltanto pochi andarono più a fondo e riconobbero in molti vocaboli le

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tracce di un’epoca più tarda: essi però giungevano alla conclusione che si fosse davanti a interpolazioni, non certo che, in realtà, si trattasse di un altro autore. Madvig, d’altro canto, riprendendo un pensiero che era stato già del Niebuhr32, capì fin da subito che queste note di commento, che egli chiama nugae, “inezie”, si allontanavano molto da quello che era il lavoro di Asconio e che per nessun’altra ragione si era creduto fino ad allora che fossero opera di questo autore, se non per il fatto che la trasmissione dei due testi risultava legata dal tempo della loro scoperta da parte del Bracciolini, ammettendo che costui li avesse già trovati uniti in un unico codice.

Cominciando dall’aspetto esteriore di questo commento, balza subito all’occhio come molte note siano caratterizzate da due o tre parole, a volte addirittura da una soltanto, e che nessuna frase del testo di Cicerone viene ripresa in maniera integrale nella sua completezza. Risulta evidente che la forma rispecchia quella di solito presente negli scoli di età tardo-antica. Madvig giunge ad ipotizzare che inizialmente si trattasse di note scritte ai margini delle stesse orazioni ciceroniane e solo successivamente trascritte a parte: prova di ciò, a suo dire, sarebbe lo sconvolgimento del loro ordine nel manoscritto di Poggio, avvenuto quando tali noticine, aggiunte qua e là a margine, furono trasferite in un altro codice, sconvolgimento che, invece, non è presente nel testo dei Commentari di Asconio, che evidentemente fin dalla loro origine ebbero la forma di un commento continuo. Molte note marginali ad opere di Cicerone sono testimonianza di quanto nei codici sia possibile scovare non solo glosse e spiegazioni di lemmi, bensì anche tracce di annotazioni in qualche modo di stampo retorico, che non sarebbero mai sopravvissute, se non si fossero legate ad un commento esteso e continuo. Questo commentario alle Verrinae non è,

32 Cfr. Niebhur 1827, 492 n. 1016: nel citare una glossa ad div. Caec. 3, lo storico definisce lo scoliasta «der fälschlich Asconius genannte Commentator der Verrinen». Madvig si dissocia, tuttavia, dal Niebuhr per quanto riguarda l’opinione sull’età e sull’autorevolezza di questo autore anonimo.

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infatti, di carattere storico, quanto retorico e grammaticale, volto alla spiegazione di lemmi e sentenze molto semplici o di fatti molto noti, spesso banale, pieno di errori e di inezie33.

Dall’argumentum della Div. in Quintum Caecilium sembra emergere la figura di un maestro di scuola: vi si trova per prima cosa una descrizione dei personaggi e dei fatti ad essi connessi, poi, dopo la rievocazione di pochi avvenimenti storici, un’esposizione di argomenti contrari ad entrambe le parti in causa; né differiscono molto da questo gli argumenta delle altre orazioni. Nei commenti che seguono il testo delle orazioni si incontrano spesso consigli di carattere retorico e morale e in molti casi con affermazioni alquanto futili34.

La maggior parte degli scoli, comunque, è di carattere grammaticale, ma la loro povertà di contenuto, la banalità, nonché la poca sicurezza con cui vengono riportate alcune notizie fanno pensare che siano di gran lunga da posporre da un punto di vista cronologico rispetto ai commenti di Donato a Terenzio e di Servio a Virgilio. Stranamente il nostro anonimo autore talvolta tralascia le osservazioni dei grammatici a lui precedenti riguardo il singolare uso di alcuni vocaboli, mentre riporta delle citazioni con le quali questi contrastano ampiamente35. Quanto sia inferiore ai suoi predecessori è evidente dall’utilizzo che fa delle fonti antiche; nell’esplicazione di fatti storico-istituzionali non cita mai gli autori, mentre nelle questioni grammaticali sfrutta soprattutto

33 Madvig 1828.

34 Possono essere citati a riguardo i passi Stangl p. 187, ad Div. 3: Sese iam ne deos quidem in

suis. Mire imitatus est verba Siculorum dolore oxymora et inania, quasi deos non habeant qui simulacra perdiderunt; Stangl p. 188, ad Div. 3: Quos me incolumi nemini supplices esse oportet. Superbissimum videretur, si addidisset alteri, ut esset nemini alteri. Iam hoc non addidit, quasi nec ipsi Tullio supplicare debeant; at intelligitur: quamquam, cum anaphora sit ad personam Siculorum, non videtur invidiose orator dicere quae Siculos dixisse commemorat; Stangl 192, ad Div. 21: Si tacet, satis dicunt. Tale illud est: Cum tacent, clamant et: Victoriam ipsam vicisse videaris et: Philosophandum est, etiam si non est philosophandum. Etc.

35 E’ il caso, ad esempio, di II, 1, 15 dove dubita se con ostilità iustae si intenda magnae, cosa che grammatici quali Servio e Donato rilevano in un passo virgiliano (Georg. III, 347).

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l’autorevolezza di due scrittori, quali Virgilio e Terenzio, tra i pochi rimasti in auge insieme a Cicerone e Orazio durante il periodo tardo-antico e alto-medievale. In aggiunta a questi due riscontriamo due menzioni di Sallustio, tre di Plauto, due di Lucilio, una di Nevio, che molto difficilmente può essere considerata una citazione diretta, quanto piuttosto presa dai commentarii a lui precedenti; talvolta si incontrano passi dello stesso Cicerone. Queste sono le esigue tracce della letteratura classica di cui il nostro anonimo fa mostra; niente sembra essere osservato in maniera scrupolosa, niente con una qualche erudizione, nessun confronto tra le parole di Cicerone e quelle di altri oratori della latinità. In merito a questioni un po’ più complicate confessa di aver trascritto nel suo commento quanto egli riscontra nelle opere grammaticali dei suoi predecessori, al cui uso fa spesso riferimento36.

Che non padroneggi in modo disinvolto la lingua latina appare evidente anche dal fatto che spesso non comprende la sintassi delle frasi37 o erra nell’interpretare il valore semantico delle parole, aggiungendo a quella di Cicerone un’altra sentenza che testimonia la mancata comprensione del passo dell’Arpinate38 che egli si proponeva di commentare.

In genere, due sono gli ambiti in cui si esaurisce l’operato dei grammatici tardo-antichi e da cui emerge la loro dottrina o la loro ignoranza: la costruzione di etimologie e la differenziazione delle parole in base al loro significato; difatti, questi scoli sono provvisti di esempi di entrambi i generi. La gran parte delle etimologie fornite dallo ps.Asconio sono comuni anche ad altri, mentre tre sono prive di riscontri e, a detta del Madvig, piuttosto divertenti: lo ps. Asconio spiega

astutum con a)po\ tou= a)/steoj, come se fosse urbanum (I, 1, 11); alacrem da non

36 II, 1, 9.

37 Exempli gratia: II, 1, 114 “Hoc populus Romanus non manu vindicasset”. Confusa locutio:

abundare enim videtur “non”.

38 II, 1, 11: “Ad aliud iudicium”. Populi scilicet et equitum R. Lo ps. Asconio non si accorge che Cicerone dice questo non in merito alla scoperta di un nuova tipologia di tribunale, ma in riferimento ad un’altra inchiesta, quella cioè per l’accusa di peculato.

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lacerum (I, 1, 6); compilare da pilos pervellere (II, 1, 35). Circa, poi, le molte

differenze semantiche tra le parole, egli si sofferma soltanto su quel valore con cui tendono a presentarsi più spesso e in alcuni casi si mostra ampiamente incerto e non in grado di capire in che modo cogliere la questione39.

Non va certo dimenticato, a difesa del nostro anonimo autore, che egli ebbe chiaramente a disposizione una copia di Cicerone corrotta e interpolata, come dimostra in molti casi la difficoltà nel districarsi tra diverse interpretazioni possibili. Molte delle lezioni, che l’autore deve aver letto nel codice in suo possesso, risultano apertamente erronee e questo si evidenzia dal fatto che la lettura da lui fornita di alcuni passi appare basata su un’interpolazione. Un caso manifesto è in II, 1, 6040, dove egli menziona una variante al testo nata dalla trasformazione del participio accepti con il perfetto accepi e da qui, ovviamente, il verbo reggente habeo con il complemento ab eo. Nello stesso passo ve n’è una ancora più manifesta, che, infatti, viene espunta da Stangl nella sua edizione critica: Cum imperio ac securibus. Bene quia licet negotiari equitibus et privatis. Sembra sufficientemente chiaro che se Cicerone avesse messo a testo queste due parole, certo non avrebbe aggiunto nella stessa frase sumpto publico et legationis

nomine, come invece ha fatto, caratterizzate dallo stesso significato, ma con

molta meno forza espressiva delle prime due. Qualcuno deve aver annotato accanto a questa espressione ciceroniana l’altra, cum imperio ac securibus, formula che ricorre in II, 4, 8, al fine di paragonare i due passi in maniera, tra l’altro, errata, in quanto in II, 1, 60 le parole sono rivolte ad un legato, mentre in II, 4, 8 ad un pretore; questa formula è poi finita con l’essere introdotta nel testo. Sospetto di interpolazione è anche il passo II, 1, 142 in bonis praedibus

praedisque vendendis. Già nel secolo XVIII Ernesti (Lipsia, 1739) propendeva per

l’espunzione di bonis, in quanto estraneo alla formula ricorrente per indicare le

39 E’ il caso , ad esempio, della differenza tra suscipio e recipio in Div. 8 e in II, 2, 1.

40 “Habeo <et> ipsius et patris eius accepti tabulas”. Id est acceptarum pecuniarum. Legitur at

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garanzie date allo stato. Di diverso avviso è, invece, il Madvig41, il quale propone l’espunzione proprio della formula tecnica praedibus praedisque, ritenendo che Cicerone abbia voluto utilizzare in questo caso un linguaggio semplice e comune,

in bonis vendendis, e che un qualche grammatico abbia annotato accanto la

corrispondente definizione esatta, poi entrata nel testo.

Mettendo, ora, da parte la questione riguardante le competenze grammaticali dello ps.Asconio e volgendo l’attenzione al modo in cui egli tenta l’esplicazione di fatti storici e di consuetudini antiche, innanzitutto si deve notare che, pur non essendo un historicus, i riferimenti alla storia non sono del tutto assenti in questo commento, argomento prediletto, del resto, dal vero Asconio. Alcune notizie non sembrano proprie soltanto del nostro commentatore, ma neppure di comune sapere, come, ad esempio, il riferimento alla diceria propagatasi al tempo del processo contro Verre che Cicerone fosse colluso con la parte avversa42; questa notizia non è presente negli scoliasti, ma è confermata, tuttavia, da Plutarco43. Devono essere prese per buone le nozioni su alcuni personaggi come Albinovano in I, 1, 36, Lucio Magio e Lucio Fannio in II, 1, 87, M. Terenzio Varrone Lucullo come successore di Curione in Macedonia, II, 2, 9, nonché la notizia circa l’arco Fabiano ad I, 1, 7. D’altro canto, lo ps. Asconio è impreciso su molti altri punti, spesso riguardo a fatti e uomini molto noti, tanto che gli studiosi sono giunti alla conclusione che egli possieda in materia storica una conoscenza fatta di esili nozioni, spesso confuse o apprese già in maniera confusa. Esempio per eccellenza è in II, 1, 14, dove, una volta raccolta qualche informazione circa i due Dolabella, li ha confusi tra loro, ignorando del tutto quanto scritto in II, 1, 9744, in modo tale che nel suo commento vediamo Scauro

41 Madvig 1828.

42 Div. In Q. Caec. 5; I, 1, 18. 43 Plut. Cic. 8.

44 Itaque Marcus Scaurus, qui Cn. Dolabellam accusavit, istum in sua potestate ac dicione tenuit.

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citare in giudizio il Dolabella proconsole in Macedonia dall’80 al 79 a.C., a cui fu concesso il trionfo nel 78 a.C. e che fu in realtà accusato di concussione dal giovane Gaio Giulio Cesare, mentre il Dolabella governatore della Cilicia, sotto la cui giurisdizione si trovava Verre e che fu accusato da Scauro e poi condannato per aver mal amministrato la giustizia, diventa nello ps.Asconio il bersaglio di Cesare.

Ancora oggi si tende a condividere l’opinione del Madvig, secondo il quale lo stato di questo componimento è tale che per quanto riguarda i fatti storici esso contiene qualcosa di buono derivato da fonti antiche, ma la maggior parte delle informazioni risultano errate o, comunque, corrotte a tal punto che mostrano un’esigua conoscenza nei confronti di quanto viene scritto, che, del resto, rispecchia una notevole distanza cronologica rispetto alla materia trattata.

Di certo la lingua rappresenta l'elemento principale per collocare lo ps. Asconio in epoca tardo-antica, anche se l’esiguità del materiale in nostro possesso – si tratta infatti soltanto di brevi scoli – ostacola delle approfondite ricerche a riguardo. Ciò che balza subito all’occhio sono le tracce di una certa ruvidezza linguistica incombente; vi si trovano parole come animositas, annonae in forma plurale45, appellativus, argumentalis, auctionari per emere, celebrare per habere,

fideiussor, incubare per iniuste possidere e come queste molte altre parole singole

o espressioni che saranno trattate nel seguente commento al testo. Da notare il frequente uso del pronome iste al posto di hic e il quod usato con valore dichiarativo, tratti comuni a tutti gli scrittori della tarda-antichità.

In quale momento di quest’epoca storica debba essere situato il nostro anonimo autore rimane ancora da chiarire. Madvig sostiene che possa essere nato poco tempo dopo personaggi quali Servio e Donato, dal momento che mentre in

callide; volumen eius rerum gestarum maximum isti ostendit; ab homine quae voluit in Dolabellam abstulit; istum testem produxit; dixit iste quae velle accusatorem putavit.

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costoro emerge una consapevolezza adeguata delle antiche strutture e istituzioni statali romane, costui ne mostra una assai debole, tanto da far dedurre che in quel piccolo lasso di tempo, che separa i due grammatici dallo ps.Asconio, grandi furono i cambiamenti nel campo delle lettere e degli studi. Del resto, non sembra eguagliare in nessun modo neppure la cultura di grammatici come Diomede e Carisio, situabili nella metà del secolo IV, motivo per cui Madvig ritiene che questo commento sia stato scritto non molto tempo prima della caduta dell’Impero romano d’Occidente, quando l’immagine dell’antico impero era ormai solo un vago ricordo, la lingua si era irrimediabilmente corrotta e la conoscenza diretta delle opere degli antichi scrittori era quasi del tutto scomparsa dal bagaglio culturale degli uomini dell’epoca.

La questione cronologica è stata recentemente ripresa da Benario, il quale si persuade di poter giungere ad una datazione più precisa attraverso l’esame di alcuni punti specifici del testo46. Commentando il passo Div. in Q. Caec. 66, il nostro autore fa riferimento a Sergio Galba, uno dei personaggi più famosi in negativo della storia romana, la cui carriera e i cui misfatti sono ricordati da numerosi autori antichi. Riguardo costui ormai c’è quasi completa unanimità sul fatto che il suo prenome sia Servio, con due sole eccezioni: lo ps.Asconio e Orosio, che lo cita due volte47, in cui si trova il praenomen Sergius.

Su Lucullo in II, 2, 24 ps.Asconio scrive così: Qui tunc in Macedonia fuit. Consul

scilicet: nam, ut opinor, Curioni successerat (261 St.). Sono due le fonti da cui egli

potrebbe aver derivato questa informazione; la prima è Livio in due periochae separate (95 e 97), dove si fa menzione della campagna di Curione e Lucullo in

46 Benario 1973, pp. 64-71.

47 Orosio, Hist. adv. Paganos IV, 21, 3: Sergius autem Galba praetor a Lusitanis magno proelio

victus est universoque exercitu amisso ipse cum paucis vix elapsus evasit; IV, 21, 10: Igitur in Hispania Sergius Galba praetor Lusitanos citra Tagum fiumen habitantes cum voluntarios in deditionem recepisset, per scelus interfecit; simulans enim de commodis eorum se acturum fore, circumpositis militibus cunctos inermes incautosque prostravit. quae respostea universae His- paniae propter Romanorum perfidiam causa maximi tumultus fuit.

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Tracia, senza, tuttavia, sottolineare né che l’uno successe all’altro, né che fosse la Macedonia la provincia presa in considerazione. Nelle Historiae adversus

paganos IV, 3, 4 Orosio, tuttavia, scrive: at vero M. Lucullus, qui Curioni in Macedonia successerat, totam Bessorum gentem bello adpetitam in deditionem recepit, e sembra in questo caso differire dal rappresentante della tradizione

liviana, malgrado, di fatto, le periochae non consentano alcuna sicura conclusione su ciò che effettivamente Livio scrisse. La frase riscontrata nello ps.Asconio sembra proprio la medesima di Orosio e una relazione tra i due scrittori non è improbabile. Se ammettessimo, dunque, che Orosio sia servito da fonte per il nostro anonimo autore, la pubblicazione dell’opera Historiae

adversos paganos nel 417 fungerebbe da terminus post quem per la datazione del

commento alle Verrinae e la congettura del Madvig48, secondo cui questo autore sarebbe da assegnare al secolo V, parrebbe confermata.

L’autore offre spesso notizie di carattere topografico: malgrado sia difficile da ottenere una conoscenza approfondita della topografia soltanto attraverso fonti secondarie, vanno citati due passi non ancora apprezzati in maniera adeguata. In I, 19 lo ps. Asconio fa menzione di un arco costruito in onore di Quinto Fabio Massimo e della sua collocazione originaria49, sebbene non ci siano altre fonti letterarie esistenti che combinino informazioni riguardo Fabio Massimo, il suo arco e la sua posizione. In II, 1, 154 designa il vicus tuscus come vicus turarius50, accostamento che ritroviamo in soli due altri autori, Porfirione e lo pseudo-Acrone. Quest’ultimo, autore di un commento ad Orazio databile intorno al sec. V, in cui confluisce materiale da Porfirione e da Acrone, rivela che l’originario

48 Madvig 1828.

49 I, 19: Ad ipsum fornicem Fabianum. Fornix Fabianus arcis est iuxta Regiam in Sacra via Fabio

censore construc-tus, qui de victis Allobrogibus <Allobrogicus> nominatus est, ibique statua eiusposita propter est (211 St.).

50 II, 1, 154: Signum Vortumni in ultimo Vico turario est sub basilicae angulo flectentibus se ad

Rostra versus dextram partem. Vortumnus autem deus invertendarum rerum est, id est mercaturae. Circus autem maximus est idem in quo nunc Circenses spectantur (255 St.).

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nome del vicus turarius era vicus tuscus: Tusci aliquando pulsi contulerunt se

Romam et vicum, qui modo Turarius dicitur, habitaverunt et ei nomen suum dederunt51. Ed è proprio Porfirione, autore di III secolo d.C., che sembra essere

una delle fonti dello ps.Asconio, dal momento che in un suo commento ad Orazio, epist. I, 20, 1 si legge: Vortumnus autem deus est praeses vertendarum

rerum hoc est emendarum ac vendendarum, qui in vico Turario sacellum habuit.

Se si confronta il deus vertendarum rerum di Porfirione con il deus

invertendarum rerum del nostro autore, nonché l’espressione hoc est dell’uno

con id est dell’altro, risulta evidente come la somiglianza della lingua dei due sia troppo stringente per essere soltanto un fatto accidentale. A differenza di Porfirione, inoltre, il falso Asconio offre maggiori informazioni topografiche, che si esplicano nella conoscenza dettagliata della collocazione della statua del dio, tanto da far pensare che egli fosse vissuto a Roma e fosse un buon conoscitore della sua città. A testimonianza di ciò, nello stesso passo appena menzionato, abbiamo quanto da lui espresso nei riguardi del Circo Massimo: Circus autem

maximus est idem in quo nunc Circenses spectantur (255 St.). Ora, si sa che i ludi circenses presero posto nel Circo fino al 550 d.C. e questo può, dunque, essere

preso come terminus ante quem per la datazione del nostro autore.

Poche, in generale, sono state le opposizioni all’opinione per cui il materiale offerto dallo ps.Asconio sia irrilevante e puerile e, d’altro canto, è chiaro che in un’opera di questo tipo, che si configura come compilatoria, il valore delle fonti utilizzate determini, in un certo senso, il valore da assegnare all’intera compilazione. Malgrado la gran parte del materiale storico qui incluso derivi dalle stesse orazioni ciceroniane o da qualche altra opera dell’Arpinate, sono presenti alcune note di commento che sembrerebbero proprio provenire dal commentario perduto dell’autentico Asconio.

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In Div. in Q. Caec. 24 (193 St.), il nostro commentatore rivela che M. Terenzio Varrone fu perseguito da Appio Claudio con l’accusa di estorsione in Asia; soltanto qui emerge l’identità del persecutore di Varrone. Se si considera che, nella parte restante di questa nota, le persecuzioni dei due Dolabella da parte di Cesare e Scauro trovano sicuramente la loro fonte nel testo esistente di Asconio (26,13 Clark), malgrado lo ps.Asconio ribalti i risultati dei processi per un errato collegamento tra accusatori e accusati, sembra evidente che l’identificazione di Appio Claudio come persecutore di Varrone possa essere stata presa da Asconio52.

In Div. in Q. Caec. 63 (203 St.) il nostro autore si riferisce a Pompeo Strabone come padre di Gneo Pompeo Magno e scrive: Propiora exempla et magis similia

posteriora ponenda sunt. Strabonem autem dicit Pompeium, Cn. Pompeii patrem e

in almeno due passi (3, 7; 14, 11 Clark) Asconio riporta distintamente che Strabone fu il padre di Pompeo. Non si ha nessun’altra testimonianza che lo Gneo Pompeo Strabone che contese contro Gaio Giulio Cesare per il privilegio di perseguire Albucio con l’accusa di concussione fosse il padre di Pompeo Magno, anche se ciò appare confermato dalla cronologia, in quanto Gaio Giulio Cesare, anch’esso soprannominato Strabone, fu edile curule nel 90 a.C. e Gneo Pompeo Strabone console nell’89 a.C.

La nota di commento dello ps.Asconio a I, 30 circa le leges Cassiae: L. Cassius cum

ad c. r. Inde sunt leges Cassiae tabellariae de suffragiis libere ferendis non voce, sed tabella. Alter Cassius, qui <in> cognoscendis criminalibus causis inprimis quaerendum esse dicebat "cui bono?" (216 St.), sembra derivare da Asconio, il

quale presenta il materiale diviso in due note separate: Quae sit illa lex Cassia

qua suffragiorum potestas valuit manifestum est: nam ipse quoque paulo ante dixit legem Cassium tulisse ut populus per tabellam suffragium ferret (78.5 Clark) e L. Cassius fuit, sicut iam saepe diximus, summae vir severitatis. Is quotiens quaesitor

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iudicii alicuius esset in quo quaerebatur de homine occiso suadebat atque etiam praeibat iudicibus hos quod Cicero nunc admonet, ut quaereretur cui bono fuisset perire eum de cuius morte quaeritur (45.22 Clark).

Poco dopo (217 St.) lo ps. Asconio scrive una nota riguardante i ludi plebei, cioè i ludi che furono creati dopo la cacciata dei re per celebrare la liberazione del popolo, ma poi si interroga se, in realtà, essi non fossero stati creati per la riconciliazione della plebe dopo la successione sull’Aventino: Plebei ludi, quos

exactis regibus pro libertate plebis fecerunt. An pro reconciliatione plebis post secessionem in Aventinum? Purtroppo non si possiede nessun’altra fonte ancora

esistente che dia testimonianza di questa notizia. L’espulsione dei re si situa nel 509 a.C. e le varie secessioni della plebe sull’Aventino ebbero luogo tra il 494 e il 287 a.C., mentre la prima attestazione che noi abbiamo dei ludi plebei si trova in Livio per l’anno 216 a.C.53. Alcuni ipotizzano che questi avrebbero fatto seguito ai ludi Romani e che sarebbero stati celebrati nel Circo Flaminio e considerati coevi alla sua costruzione nel 220 a.C., ma non c’è nessuna prova certa a questo proposito e le tradizioni, diverse nei dettagli, concordano nel situare questi giochi più indietro nel tempo. E’ difficilmente plausibile che nient’altro se non l’antica tradizione si sia propagata attraverso molti secoli fino ad essere registrata dallo ps.Asconio nel secolo V; il fatto, poi, che egli offra addirittura due occasioni alternative per l’istituzione dei ludi plebei rende questo ancora meno plausibile. Di certo, questa supposizione non sembra essere più realistica di quella secondo cui Asconio abbia consultato gli acta senatus e vi abbia trovato qualche informazione sull’origine dei giochi54, informazione poi ripresa dal nostro anonimo commentatore.

Alcuni commenti a passi della actio I e del libro I della actio II mostrano considerevoli conoscenze legali. Si tratta di due commenti in particolare ai passi

53 Liv. 23, 30, 17. 54 Benario 1973, p. 69.

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I, 3855 e II, 1, 6156, dove discute delle procedure giuridiche per i casi di estorsione e risulta evidente come la fonte comune ad entrambi debba essere il testo della lex Acilia, che nella sezione pertinente recita così: 'De leitibus

aestumandeis.' [Quei ex] hace lege condemnatus erit, ab eo quod quisque petet, quoius ex hace lege peti[tio erit, id praetor, quei eam rem quaesierit, eos iudices, quei eam rem iudicaverint, aestumare iubeto . . . quod ante h. l. rogatam consilio probabitur captum coactum ab]latum avorsum conciliatumve esse, ea<s>res omnis simpli, ceteras res omnis, quod post hance legem rogatam co[nsilio probabit]ur captum coactum ablatum avorsum conciliatumve esse, dupli; idque ad qua[estorem, quantum siet quoiusque nomine ea lis aestumata siet, facito deferatur. Lo ps.Asconio attesta la possibilità di una pena monetaria pari al

quadruplo, cosa che non è testimoniata nel testo della legge e sembra proprio il tipo di informazioni che può derivare dall'Asconio "originale"57. Difficilmente, del resto, il nostro tardo commentatore avrebbe potuto consultare il testo di una legge antica di quasi cinque secoli, mentre Asconio potrebbe indubbiamente averlo fatto, aggiungendovi il proprio commento ora perduto, ma disponibile per i commentatori di epoca più tarda58.

In II, 1, 155 lo ps. Asconio riporta che Lucio Opimio votò per l’abrogazione della legge Cornelia, la quale privava i tribuni della plebe dell’accesso alle altre

55 Lis aestimata sit. Hoc est pecunia, de qua lis fuit et propter quam condemnatus est, in

summam redacta, quae de eius rebuts exigeretur. Duae poenae enim consequebantur damnationem: pecuniaria, in qua vel simpli vel dupli vel quadrupli ratio ducebatur; altera exilii

(219 St.).

56 Repetundarum causa ita se habet, ut, si convictus reus sit atque damnatus, pecuniam reddat

aestimata lite, hoc est in pretium redactis omnibus furtis: quam summam pecuniae proscriptis eius bonis sectores curabant. Sectores autem dicti sunt qui, spem lucri sui secuti, bona condemnatorum semel auctionabantur proque his pecunias <populo> pensitabant, singulis auctione postera pro compendio suo singula quaeque [pecunias populo] vendituri. Sola ergo haec duo signa dicit apud Verrem relicta, asportatis ad amicos ceteris signis (239 St.).

57 Che Asconio abbia familiarità con gli acta senatus e con le leges è abbastanza visibile da numerosi passi del suo commento: e. g. 19.4, 44.9, 67.5, 78.5, 78.29 (Clark).

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magistrature59. La radicale diminuzione del potere dei tribuni della plebe, operata da Silla, è un luogo comune della letteratura latina, ma soltanto Asconio tramanda che questi furono privati dell’accesso ad altri offici e lo fa in riferimento a Gaio Cotta, sotto i cui auspici fu accolta la legge che rimosse tale ostacolo60. Dal momento che Opimio venne processato per il suo veto alla lex

Cornelia, sembra più plausibile che, come sostiene lo ps.Asconio, egli avesse

supportato la legge proposta da Cotta. Del resto, la cronologia di questi eventi avvalora tale conclusione, dal momento che Gaio Cotta propose la sua legge nel 75 a.C. e Lucio Opimio fu processato un anno dopo, nel 74 a.C. Ancora una volta siamo in presenza di informazioni di probabile ascendenza asconiana.

In conclusione, sembra che il commento alle Verrinae, oggi designato come lo scritto di un anonimo ps.Asconio, sia l’opera di un grammaticus di V secolo, che si accingeva a preparare un lavoro più elementare di quello dettagliato di Asconio, estraendo da quest’ultimo ciò che riteneva idoneo ai suoi propositi, ovvero un’esegesi della lingua e del background storico. Ebbe a disposizione alcune opere ciceroniane, i testi storici di tradizione liviana e probabilmente il commento di Asconio oggi per noi perduto.

Si può in conclusione ipotizzare che, quando il mondo occidentale di V secolo si aprì al Medioevo, il dotto commento di Asconio, troppo dettagliato per i suoi tardi lettori, fosse in un certo senso soppiantato da questa opera inferiore per forma e contenuto, che dal vero Asconio traeva informazioni e note storiche. Poi, parecchi secoli più tardi, quest'opera "ridotta" fu inscindibilmente legata, senza

59 II, 1, 155: Ut tribuni pl. Aliorum quoque magistratum capessendorum potestatem haberent.

Persuasisse hanc legem dicitur Opimius. (255 St.).

60 Nam neque apud Sallustium neque apud Livium neque apud Fenestellam ullius alterius latae

ab eo legis est mentio praeter eam quam in consulatu tulit invita nobilitate magno populi studio, ut eis qui tr. pl. fuissent alios quoque magistratus capere liceret; quod lex a dictatore L. Sulla paucis ante annis lata prohibebat: neque eam Cottae legem abrogatam esse significat (66.23

Clark); e anche Hic Cotta, ut puto vos reminisci, legem tulit ut tribunis plebis liceret postea alios

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distinzione di paternità, a quei manoscritti che contenevano il genuino lavoro di Asconio, che a quel tempo era ormai rimasto alquanto esiguo, essendo in gran parte andato perduto.

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ARGUMENTUM ACCUSATIONIS

Deinceps haec omnia non dicta, sed scripta sunt contra reum, quod <ita> factum est: Fingit Cicero adesse in iudicio Verrem comperendinatum, respondere citatum et defendi.

In ceteris enim orationibus defensor futurus, accusationis officium his libris qui Verrinarum nomine nuncupantur compensare decrevit, et quoniam accusare multos indecorum Tullio videbatur, in una causa vim huius artis et eloquentiae demonstrare.

Nam et bene intelligentes omnem virtutem oratoriam quaecunque in criminationibus constituta est hic expressam vident, et contra ex hoc defensionum vim in ceteris orationibus et nervos eius ex hac virtute cognoscunt quae in opprimendo expromitur reo.

Igitur rerum scaena sic ficta est, ut dicit Tullius, non ut acta res est. "Adest" inquit "Verres, respondet, defenditur".

Ergo cum prima Actione accusatus sit ac defensus Verres, nunc velut defensus iterum (sic enim mos erat) in altera Actione accusatur ad ultimum rursus oratione perpetua.

Crimina repetundarum et alia pleraque anteacta vita saepe firmantur. Sumitur hinc etiam saepe defensio. Omnis enim [et] confirmatio ab attributis <personae et ab attributis> negotio sumi solet. Ergo attributa personae [et] maxime in anteacta vita quaeri solent, negotii in ipso crimine. Libros igitur pro qualitate criminum Tullius dividens anteactis unum dedit, hunc scilicet solum, crimini ipsi

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repetundarum IIII: unum de iure dicendo, alterum de <re> frumentaria, tertium de signis, quartum de suppliciis.

Ad hanc enim similitudinem poeta Virgilius "Minoem," iudicem apud inferos, tamquam si praetor sit rerum capitalium, "quaesitorem" appellat. Dat illi sortitionem, ubi "urnam" nominat; dat electionem iudicum, cum dicit "consilium vocat;" dat cognitionem facinorum, cum dicit "vitasque et crimina discit".

Ergo hic liber qui de anteacta vita est statum necesse est coniecturalem habeat. Capita autem quattuor ipse Tullius fecit dividendo totam hanc accusationem in <ea quae admiserat Verres in quaestura, in> legatione vicem <que> quaesturae, tertio in praetura urbana, <postremo in praetura Siciliensi>.

Nam cum omnes eius actus quaesturae nomine, legationis, praeturae urbanae, praeturae Siciliensis <deni>que quadripartita librorum divisione cognoscantur, anteacta <ad> unum omnia hoc libro comprehensa sunt ad eorum fidem quae post dicuntur.

Prohemia sane huius libri in simulatione constituta sunt quasi verae accusationis in Verrem audentem adesse atque defensum, <in> exhortatione iudicum ad recte iudicandum, tum in minis contra adversarios et in exhibenda ratione officii sui cur ita maluerit accusare, ut prima Actione tantum testibus uteretur: quae omnia eiusmodi sunt, ut non tam nova dicere quam dicta libri superioris instaurare videatur.

Post haec omnia ipsius Ciceronis per honores Verris cum criminibus iunctos divisio per ordinem temporum currit.

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<ENARRATIO>

(§1.) Neminem vestrum ignorare arbitror, iud(ices). Hoc totum figmentum est Ciceronis, ut sequentium librorum vera actio videatur: nam Verres iam sua sponte elegit exilium.

(§2.) Respondet. Recte dictum est "respondet:" nam apud veteres et iudices et rei et accusatores et defensores citabantur a praecone praetorio.

Patior, iud(ices). Cum dolere debuerit resisti sibi, "pati" se et aequo animo ferre dicit, ut pugnam victoria consequatur.

(§4.) Neque enim salus ulla rei publicae maior [est]. Eadem repetit quae in prima Actione dicta sunt: e re publica esse damnari Verrem.

Diligenter reiectis. "Reiectos" iudices pro "electis" intelligi convenit. Ibi enim reiectio iudicum ubi et retentio continetur. In reiectione autem accusatoris vel fides accusationis vel praevaricatio, ut supra dixit, apparet.

(§5.) Ac prope depositam. Desperatae salutis. Sic et Virgilius: "Ille ut depositi proferret fata parentis".

Postremo ut esset hoc iudicatum. Subauditur "accessi" ἀπὸ κοινοῦ ad omnia quibus hoc verbum in hac sententia convenit.

(§6.) Homo est nocentissimus. Terentius:

"Et habet quod det, et dat nemo largius"

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"Fatuus, insulsus, tardus, stertit”.

Impie nefarie que commisit. "Nefandum" est "non fandum”, “nefarium" quod sacra polluit farre pio solita celebrari. Ergo “’nefarii' sacrilegi".

(§7.) Agunt eum praecipitem. Proprium Ciceronis et in orationibus et in dialogis et in epistolis eandem saepe sententiam dicere et uti eloquentiae diversis modis, iisdem sententiis tamen ab aliqua occasione repetitis. Nam et hic repetitio furoris, in qua videtur insaniae Verris causa velle monstrari. Est enim hic locus de suppliciis irrogatis, ubi ostendit cives R. Verrem <pro> praedonibus occidisse.

Religiones vero caerimoniae <que>. 'De signis'. De furtis tacet modo, quasi <minus> idoneis ad furorem avaritiae.

(§8.) Supplicio communi. Aestimatione litis, exilio.

(§9.) Cui damnari expediret. Quia minor in damnatione poena quam in contione populi R. et in deorum animadversione.

Non istum. <Non> modo Verri, set subtiliter etiam iudicibus comminatur. (§10.) Non is reus. Qui est nocentissimus.

Non id tempus. Quod invidiosum senatui est.

Non id consilium. Quod ex optimis viris lectum tale est, ut, si quid in ipso culpae fuerit, sperari melius ex senatu minime possit.

Ne actor quidem. Tullius scilicet, in quo omnia ad vincendum parata. (§11.) Ad aliud iudicium. Populi scilicet et equitum R.

Alieno nomine. Quaestores urbani aerarium curabant eius que pecunias expensas et acceptas in tabulas publicas referre consueverant. "Alieno" autem "nomine" dicit Carbonis nomine vel exercitus eius. Nam consulis <vel> militum

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eius nomine pecunias ex aerario sumptas avertit conversus ad Syllam bellis civilibus.

Aliquot nominib. Ad frumenti emptionem quod Siculis non persolvit. De capite. Hoc in Sicilia fecit gratiosius in decumanos, ut frumentum, in auctione promissum ab decumanis usibus populi R., cum illi refragarentur placito, de summa detraxerit minus que eos inferre passus sit annonae populo R.: quod illicitum probatur multis documentis.

M. Marcelli et P. Africani monumenta. Signa concessa et reportata Siculis a M. Marcello et Scipione Africano. Nam Marcellus donavit quae victis Syracusis asportare belli iure potuerat; Africanus victa Carthagine reportavit quae victis Siculis ademerant Poeni.

(§12.) Meditetur de ducibus hostium. Hic crimen 'de suppliciis' esse cognoscitur: in hoc enim libro haec latius explicantur.

Quos in eorum locum subditos. Captis praedonum ducibus Verres illos quidem remisit accepto praemio; pro ipsis autem mercatores innocentissimos partim trucidavit partim domi suae privatim reservavit, quod diceret timuisse se sibi ne criminaretur, eos inde a se pecunia liberatos esse.

Usque dum per me licuerit. 'Quantum in ipso fuerit, adhoc domi suae privatus, quod est maiestatis crimen, hostes publicos habere poterat; sed finem fecit huius audaciae me cogente, qui institi ut de eius domo in publicam custodiam ducerentur'.

Quo me iam pridem vocat p(opulus) R(omanus). Se dicit, quia aedilis est factus, ut defendat libertatem populi R.

(§13.) Qui cognitores homines ho(nestos). Genus defensionis in iure: "cognitor" dicitur maxime cum de alicuius statu agitur. Ipse alibi: "Me cognitorem iuris sui".

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(§14.) Quinque et XXX tribus. Ac per hoc totus populus R. Principio tres fuerunt: Titienses una, a Tatio rege; Ramnes altera, a Romulo; Luceres altera, a Lucomone sive Lucero sive a luco, quem lucum Asylum vocaverat Romulus: post de nominibus Sabinarum plures dictae, quibus precatricibus parentum bellum maritorum que finitum est: ad postremum XXX et V factae. Obtinuerunt autem nomen aut a tributo dando aut quia primo tres fuerunt, unde etiam 'tribuni' dicti.

Religionem. Quia iurati testes dicebant.

<Lautumiis>. "Lautumiae" carcer Syracusis; lingua Siculorum autem Lautumiae lapidicinae dicuntur, loca caesis lapidibus exsecta.

De loco superiore. De Rostris, quippe qui aedilis sum factus.

(§15.) Quo in numero e vobis complures fuerunt. Alia enim sortitione nunc sedent, alia <in> divinatione constituendi accusatoris [alia] fuit.

Inimicitias iustas. Ad aliud argumentum victoriam suam interpretatus simpliciter fatetur quod in Divinatione expugnaverat: non idoneam fuisse causam accusandi Verris Caecilio commenticiam simultatem. An "iustas" inimicitias "magnas" dicit? ut e contrario Virgilius:

"Iniusto sub fasce viam dum carpit".

Cum id postularet. Bene addidit, quia in Divinatione huiusce rei mentio facta non erat.

(§16.) Vim <in> inquirendo tantam habui. Dicit plura crimina inveniri potuisse quam inventa sunt, si vellet Tullius non ad legem repetundarum inquisitionem facere, sed ad universa quae commiserat Verres. Nam certe quantum abstulerit ex Sicilia Verres, non quantum flagitii commiserit, dicere accusatorem causa compellit.

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