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COMMENTO A ps.Asc in Verr Stangl 226,

(§ 7) Religiones vero caerimoniae <que>. 'De signis'. De furtis tacet modo, quasi

<minus> idoneis ad furorem avaritiae89.

(§ 7) La santità e la solennità. Su questo argomento confrontare il De signis. Per il momento tace i fatti relativi ai furti di opere d’arte di carattere profano, come se fossero <meno> confacenti alla sua folle bramosia.

Il passo Verr. II, 1, 7, che la glossa pseudo-asconiana commenta, si situa nell’introduzione dell’actio secunda, in cui l’oratore rievoca i magheggi e i crimini perpetrati da Verre: Agunt eum praecipitem poenae civium Romanorum, quos partim securi percussit, partim in vinculis necavit, partim implorantis iura libertatis et civitatis in crucem sustulit. Rapiunt eum ad supplicium di patrii, quod iste inventus est qui e complexu parentum abreptos filios ad necem duceret, et parentis pretium pro sepultura liberum posceret. Religiones vero caerimoniaeque omnium sacrorum fanorumque violatae, simulacraque deorum, quae non modo ex suis templis ablata sunt sed etiam iacent in tenebris ab isto retrusa atque abdita, consistere eius animum sine furore atque amentia non sinunt90.

89 Ps.Asc. in Verr. Stangl 226, 14.

90 “Lo incalzano verso la rovina le Furie vendicatrici dei cittadini romani, di quelli che ha fatto decapitare, di quelli che ha fatto uccidere in carcere, di quelli che ha messo in croce mentre piangendo si appellavano ai diritti di libertà e di cittadinanza. Lo trascinano verso la sua punizione gli dèi patrii, giacché costui si è rivelato capace di strappare i figli dalle braccia dei genitori per mandarli a morte, e di pretendere dai genitori del denaro per la sepoltura dei figli. La violazione della santità e della solennità di tutti i riti e di tutti i luoghi sacri, e l’offesa arrecata alle immagini degli dèi, che non solo sono state portate via dai loro templi, ma ora giacciono nelle tenebre dove costui le ha cacciate per nasconderle, senza senza tregua tormentano la sua mente con accessi di pazzia furiosa e con follia”.

Ps. Asconio offre l’esegesi di religiones vero caerimoniae<que>, interpretandolo correttamente come un riferimento al De signis, ovvero ai furti di ogetti d’arte, che sono l’argomento a cui è dedicato il libro 4 dell’actio secunda. Tutto ciò che segue nella glossa risulta invece problematico da un punto di vista testuale e interpretativo.

Per prima cosa, appare di difficile interpretazione l’annotazione De furtis

tacet modo e in particolare valore semantico da dare in questo contesto al

sostantivo furtum. Qualora, infatti, lo si intenda come “furto”, nella sua accezione più generale, appare evidente come la glossa manchi di senso. Se lo ps. Asconio sta commentando un passo di Cicerone che si riferisce proprio ai furti di immagini sacre perpetrati dall’ex governatore, risulterebbe paradossale, per non dire assurda, una sua nota relativa al mancato accenno da parte dell’oratore in Verr. II, 1, 7 alle rapine di Verre, entro le quali certo rientrano – e forse si situano anche al primo posto – le spoliazioni di oggetti di carattere sacro dai templi, a cui Cicerone si riferisce. Tra l’altro, non si capirebbe per quale motivo lo scoliasta avrebbe esordito con un rimando al libro 4 (De signis), con il quale mostra chiaramente di aver compreso quale sia l’argomento a cui l’Arpinate accenna in poche righe, per poi aggiungere e concludere che in questo stesso passo Cicerone tacerebbe circa i furti di oggetti d’arte, quasi a smentire quanto commentato implicitamente con la sola parola De signis. Ne consegue dunque che ps. Asconio, pur avendo utilizzato il sostantivo

furtum nella sua forma semplice senza corredarlo di un ulteriore lemma

che potesse definirlo in maniera più chiara, abbia voluto in questo contesto attribuire al termine un significato ben specifico, ovvero quello di “furti di opere d’arte di carattere profano”. Infatti, se si considera che il commentatore era certamente consapevole del contenuto del libro 4, rivolto alla narrazione degli episodi di rapina di oggetti d’arte tanto sacri quanto profani, e che aveva notato in Verr. II, 1, 7 un accenno di Cicerone

soltanto ai “furti sacri”, ben si comprende come la glossa fosse destinata a spiegare per quale motivo l’oratore avesse omesso un accenno anche ai “furti profani”. In base a queste considerazioni, si può ipotizzare che De

furtis tacet modo possa essere inteso come “per il momento tace i fatti

relativi agli altri furti di opere d’arte, ovvero quelli di carattere profano”. Questa resa si concilia del resto assai bene con il rimando al De signis, con cui lo ps.Asconio esordisce, ed è ulteriormente supportata da due elementi.

Il primo di questi è rappresentato dal valore che sembra assumere in questa frase l’avverbio modo, ovvero “per ora”, “per il momento”. Questa sfumatura semantica temporale della particella, che l’avvicinerebbe a quella greca a)/rti e che trova dei precedenti nella lingua latina letteraria e in quella usata dai grammatici tardo-antichi91, incoraggia un’interpretazione della glossa che vede lo ps. Asconio affermare che per il momento, ovvero in Verr. II, 1 , 7, Cicerone tace gli altri furti di natura non sacra perpetrati da Verre, per poi tornarvi nel libro 4, dedicato interamente a questa tipologia di misfatti.

Questo impiego di modo, per altro, è piuttosto frequente in età tardo- antica e ricorda l’uso specifico che ne fa Servio, il quale spesso lo utilizza con lo stesso significato dell’avverbio hic, “in questo momento”, “in questo caso”92.

91 Nel trattato dell’umanista Orazio Torselli, dedicato alle particelle latine ed edito da F. G. Hand, comunemente noto come Tursellinus 1829-1845, alla voce modo il Torselli ammette questo valore temporale dell’avverbio e a sostegno di ciò cita Donato ad Terent. Ad. 3, 1, 2

evidenter hic “modo” temporis praesentis adverbium est e Prisc. III 283, 168 Hertz Romani quoque adverbium “modo” in eadem utriusque significatione ponunt. Terentius in Phormione: “modo apud portum meumne?”. “Modo” dixit pro nuper. Idem in Eunucho: “modo ait, modo negat” pro nunc ait nunc negat. Donatus in secunda arte de nomine: sed modo generaliter dicimus, pro “nunc” dixit “modo”. Non solo trova dei precedenti letterari di questa accezione di modo, accezione che sembra aver destato l’interesse di grammatici quali Donato e Priscano,

ma cita ad ulteriore conferma proprio la nostra glossa pseudo-asconiana. 92 Thomas 1879, p. 212.

Il secondo elemento che potrebbe supportare l’interpretazione di De furtis inteso come furti di tutte le altre opere d’arte rimaste escluse dall’accenno ciceroniano in Verr. II, 1, 7, ovvero quelle profane, si basa sulla presenza nelle Verrinae di due occorrenze del termine furtum, il quale viene usato da Cicerone senza ulteriore specificazione per indicare opere d’arte di carattere tanto sacro quanto profano che furono oggetto dei furti dell’ex governatore.

La prima occorrenza si situa in Verr. II, 1, 58-59, passo in cui l’oratore accusa Verre di aver derubato le città alleate di opere d’arte che sarebbero poi andate ad ornare la sua casa, con la sola eccezione del caso in cui, in occasione della celebrazione della carica di edile ottenuta da Ortensio nel 75 a. C., andarono ad abbellire il foro romano: Dices tua quoque signa et

tabulas pictas ornamento urbi foroque populi Romani fuisse. Memini; vidi simul cum populo Romano forum comitiumque adornatum ad speciem magnifico ornatu, ad sensum cogitationemque acerbo et lugubri; vidi conlucere omnia furtis tuis, praeda provinciarum, spoliis sociorum atque amicorum. Quo quidem tempore, iudices, iste spem maximam reliquorum quoque peccatorum nactus est; vidit enim eos qui iudiciorum se dominos dici volebant harum cupiditatum esse servos. Socii vero nationesque exterae spem omnem tum primum abiecerunt rerum ac fortunarum suarum, propterea quod casu legati ex Asia atque Achaia plurimi Romae tunc fuerunt, qui deorum simulacra ex suis fanis sublata in foro venerabantur, itemque cetera signa et ornamenta cum cognoscerent, alia alio in loco lacrimantes intuebantur. Cicerone afferma di aver visto brillare il foro dei

furti di quello, della preda tolta alle province, delle spoglie di alleati e amici (vidi conlucere omnia furtis tuis, praeda provinciarum, spoliis

sociorum atque amicorum) e poco oltre, narrando lo stupore degli alleati

inviati a Roma nel vedere le opere d’arte che gli erano state sottratte, specifica di quali furti si trattava: deorum simulacra ex suis fanis sublata,

ma anche cetera signa et ornamenta. Quindi, gli alleati vedevano nel foro tanto le immagini degli dèi portate via dai loro templi, quanto le altre statue e gli altri ornamenti, che non dovevano necessariamente essere di carattere sacro, dal momento che Cicerone li ha distinti dai primi. Appare evidente come in questo contesto furtis tuis comprenda in sè entrambe le tipologie di furti d’opere d’arte, quelle sacre e quelle profane.

La seconda occorrenza si trova in Verr. II, 4, 6: Immo vero modo ac plane

paulo ante vidimus, qui forum et basilicas non spoliis provinciarum sed ornamentis amicorum, commodis hospitum non furtis nocentium ornarent; qui tamen signa atque ornamenta sua cuique reddebant, non ablata ex urbibus sociorum atque amicorum quadridui causa, per simulationem aedilitatis, domum deinde atque ad suas villas auferebant. Nuovamente un

rimando all’ornamento del foro e delle basiliche da parte degli uomini romani appartenenti alla nobiltà, ornamento che in passato avveniva attraverso le opere d’arte degli amici e con gli oggetti avuti in prestito dagli ospiti, non certo con quelli rubati dai governatori rapaci. Dunque in passato i signa atque ornamenta non erano oggetto di furtum, come ai tempi di Verre, ma venivano resi alle città amiche e alleate dalle quali erano stati prestati.

Si può notare che anche in questo passo ciceroniano il sostantivo furtum, inteso in senso metonimico ad indicare non tanto l’azione del furto quanto l’oggetto rubato, racchiude in sé signa atque ornamenta, statue ed opere d’arte, usate per adornare il foro, che evidentemente potevano avere carattere sia sacro che profano.

Passando poi alla parte restante della glossa pseudo-asconiana quasi

idoneis ad furorem avaritiae, emerge chiaramente come il testo così com’è

risulti privo di senso. Infatti, per quale motivo Cicerone avrebbe dovuto tacere per il momento gli altri furti di opere d’arte, se questi in realtà erano idonei a mostrare la folle bramosia del reo per tutto ciò che

concerneva l’arte? È plausibile interpretare la parte finale dell’annotazione come la spiegazione offerta dal nostro ps. Asconio del motivo per cui Cicerone abbia fatto accenno in Verr. II, 1, 7 soltanto ai furti di opere sacre e abbia omesso tutti gli altri, di cui avrebbe poi trattato ampiamente nel libro 4.

Il tardo commentatore rintraccia questa ragione nel presupposto per cui, nel contesto di quel passo piuttosto denso di pathos e volto a connotare nella maniera più negativa possibile le azioni compiute da Verre agli occhi dei giudici, l’oratore avrebbe fatto cenno soltanto a quei furti che assumevano addirittura carattere sacrilego ed empio, in quanto si trattava di immagini sacre di divinità profanate e portate via dai templi che le custodivano, omettendo quindi le restanti rapine di oggetti d’arte come se fossero meno idonee, retoricamente parlando, a dimostrare alla giuria la folle bramosia del reo.

Accettando questa interpretazione dello scolio, a meno che non si ipotizzi la presenza di una lacuna più ampia, emerge la necessità di un’integrazione tra quasi e idoneis, necessità che era stata già compresa da alcuni filologi che misero mano a questo testo. Jaques Loys93, nella sua edizione del 1536, ipotizzò l’integrazione <non>94, intervento che avrebbe il pregio di spiegare l’avvenuta caduta accidentale della negazione latina sulla base della sua caratteristica di parola assai breve – anche una sola lettera, qualora si trovi in forma abbreviata ‒ e dunque più esposta a rischi di questo tipo. Se questa proposta sembra accettabile dal punto di vista paleografico, tuttavia non lo è per il senso: la negazione, infatti, renderebbe il testo un po’ troppo netto, dal momento che gli altri furti d’opere d’arte perpetrati da Verre, pur non essendo di carattere sacro e quindi non in grado di acuire la sua colpa connotandola come azione

93 Detto Tiletanus in quanto nativo della città belga di Thielt. 94 Ps.Asc. in Verr. Stangl 226, 15.

sacrilega, non possono comunque essere considerati totalmente non idonei ad offrire alla giuria una caratterizzazione negativa del personaggio (se così fosse, infatti, Cicerone non avrebbe certo dedicato alla trattazione di questi fatti un intero libro, il De signis).

La seconda proposta, presente nell’edizione di Paolo Manuzio, è <minus>95 di Pierre Danès. Tale ipotesi, per quanto meno economica di <non> e da un punto di vista paleografico meno facilmente giustificabile come caduta accidentale, tuttavia, semanticamente parlando, rappresenta quel compromesso che rende ragionevole l’interpretazione dell’intera glossa come il tentativo del commentatore di evidenziare l’artificio retorico di Cicerone, che sceglie di accennare soltanto ad una specifica tipologia di furti, quella relativa al sacro, per far presa sull’uditorio e ottenere una reazione più forte, rimandando poi al De signis tutta la trattazione relativa alla folle bramosia di Verre per l’arte.

Stangl, sulla cui edizione critica si basa la presente traduzione degli scoli, sceglie di non mettere a testo nessuna delle due integrazioni proposte, citandole esclusivamente in apparato; d’altro canto, però, chiunque si accinga ad offrire una possibile resa della glossa, può ben constatare come l’integrazione sia necessaria ai fini del senso.

È chiaro che l’esegesi del passo che è stata fin qui proposta si basa su una specifica interpretazione dell’aggettivo idoneis, che, costruito con ad e l’accusativo, assume il valore di “adatto/utile a qualcosa” (idoneis ad

furorem avaritiae). Questo significato di “essere <meno> idonei a mostrare

la folle bramosia” del reo si connota necessariamente di una sfumatura retorica, come se lo ps. Asconio volesse dire che i restanti furti, di carattere non sacro, fossero meno idonei alla strategia retorica adottata da Cicerone, la quale mirava a connotare il più negativamente possibile l’imputato agli

occhi della giuria, sfruttando, quindi, anche il tema del furor avaritiae a lui connaturato.

È altresì vero che, di tutte le attestazioni di questo aggettivo riscontrate nello ps.Asconio96, questa sembrerebbe l’unica ad assumere tale sfumatura semantica, che, tuttavia, mi sembra rimanere la più probabile sulla base dell’interpretazione di idoneus come utilis, ad usum bonus seguito da ad e l’accusativo97.

96 Ps.Asc. in div. Stangl 185; 188, 8; 191, 19; 201, 50; 203, 60; in Verr. Stangl 219, 7; 226, 15; 228, 12; 237, 16; 242, 18; 253, 19.

97 TLL Vol. VII-1 p. 233 ss. Cfr. Cic. ac. 1, 22: cetera…ad virtutum usum idonea; Varro 3, 6, 5:

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