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IL CARATTERE FITTIZIO DELL’ACTIO SECUNDA

[…]

Ergo cum prima Actione accusatus sit ac defensus Verres, nunc velut defensus iterum (sic enim mos erat) in altera Actione accusatur ad ultimum rursus oratione perpetua61.

Dunque, dopo che Verre era stato accusato e difeso nella prima actio, qui, una volta difeso di nuovo (questa era, infatti, la norma), viene a sua volta accusato con una orazione ininterrotta fino alla sua conclusione in un nuovo discorso d’accusa.

Lo ps.Asconio rappresenta una delle principali testimonianze in nostro possesso circa la conclusione del processo contro Gaio Verre, conclusione sulla quale pesa una forte incertezza. Lo scoliasta conclude il commento all’actio prima62 e apre quello all’actio secunda con un’affermazione circa il carattere fittizio di quest’ultima.

61 Ps.Asc. in Verr. Stangl 224, 12.

62 Ps.Asc. in Verr. Stangl 223, 24-33: Multis autem diebus prima Actio celebrata est, dum testes

Verris producuntur criminum diversorum, dum recitantur publicae privataeque litterae: quibus rebus adeo stupefactus Hortensius dicitur, ut rationem defensionis omitteret, adeo perculsus Verres, ut abiret in exilium sua sponte. Nec quid amplius in iudicio gestum est nisi quod Tullius, metuens ne tantum negotium paene tacitum praeteriret, finxit Verrem comperendinationi praesto fuisse, ut bis defensus accusaretur iterum. Etquemadmodum victoriae consuluerat brevitate dicendi, ita laudem eloquentiae tamquam repetita accusatione est consecutus reliquorum conscriptione librorum, qui ceteros consequuntur.

Insieme a lui un’altra fonte essenziale a questo proposito è rappresentata da Plutarco63, il quale, in un passo della vita di Cicerone, scrive:

τοῦτον γὰρ στρατηγὸν γεγονότα τῆς Σικελίας καὶ πολλὰ πεπονηρευμένον τῶν Σικελιωτῶν διωκόντων εἷλεν, οὐκ εἰπών, ἀλλ᾽ ἐξ αὐτοῦ τρόπον τινὰ τοῦ μὴ εἰπεῖν, τῶν γὰρ στρατηγῶν τῷ Βέρρῃ χαριζομένων καὶ τὴν δίκην ὑπερθέσεσι καὶ διακρούσεσι πολλαῖς εἰς τὴν ὑστάτην ἐκβαλλόντων, ὡς ἦν πρόδηλον ὅτι τοῖς λόγοις ὁ τῆς ἡμέρας οὐκ ἐξαρκέσει χρόνος οὐδὲ λήψεται πέρας ἡ κρίσις, ἀναστὰς ὁ Κικέρων ἔφη μὴ δεῖσθαι λόγων, ἀλλ᾽ ἐπαγαγὼν τοὺς μάρτυρας καὶ ἐπικρίνας ἐκέλευσε φέρειν τὴν ψῆφον τοὺς δικαστάς…οὕτω δὲ τοῦ Βέρρου καταδικασθέντος, ἑβδομήκοντα πέντε μυριάδων τιμησάμενος τὴν δίκην ὁ Κικέρων διαβολὴν ἔσχεν ὡς ἐπ᾽ ἀργυρίῳ τὸ τίμημα καθυφειμένος.

Grazie al confronto fra questi passi e altri che accennano alla condanna di Verre e alla sua morte in esilio64, si è comunemente accettato che l’allontanamento dell’ex pretore da Roma a seguito dell’actio prima fece automaticamente scaturire la sua condanna e consentì di passare direttamente alla fase della litis aestimatio. È ragionevole supporre che questa prospettiva implichi il mancato svolgimento della seconda fase processuale prevista dalla comperendinatio e il carattere puramente fittizio della ciceroniana actio secunda, tanto che Höeg, negando entrambe le circostanze, è stato spinto a rigettare anche la tradizione concernente lo spontaneo esilio del reo65, ma di fatto, la sua tesi, piuttosto provocatoria, è rimasta un unicum nella storia degli studi.

63 Plut. Cic. 7, 3-4.

64 Plin. Nat. Hist. 34, 6; Sen. Suas. 6, 3; 24; Lactant. Inst. Div. 2, 4, 34.

65 Höeg 1939 avanza l’ipotesi che il carattere fittizio dell’actio secunda possa circoscriversi entro i limiti delle modifiche che usualmente subivano i testi delle orazioni prima della pubblicazione.

Recentemente Venturini ha cercato di dimostrare che l’opinione comune fin qui accettata sia debole nella sua premessa iniziale, caratterizzata dagli effetti ascritti alla partenza dell’imputato da Roma66.

I dati a noi noti in relazione alle procedure proprie della quaestio perpetua

de repetundis sembrano avversare la tesi secondo cui tale allontanamento,

configurandosi come ammissione di colpevolezza, avrebbe comportato un’immediata sentenza di condanna, accompagnata dall’aqua et igni

interdictio67.

La procedura alla base del processo contro Verre, regolata dalla lex

Cornelia repetundarum dell’82 a.C., prevedeva un iter giudiziario composto

da due fasi indipendenti tra loro, la seconda delle quali doveva concludersi con la sentenza; a questa, in caso di condanna, faceva seguito una terza fase dedicata alla litis aestimatio, ovvero alla concreta determinazione della pena. Tale adempimento trovava il proprio necessario presupposto di carattere giuridico nella pronuncia di colpevolezza operata dai giudici nelle forme previste dalla legge; ritenere che questo potesse aver luogo

66 Venturini 1980.

67 Venturini 1979 sostiene la legittimazione della quaestio de repetundis nell’irrogare pene capitali e in riferimento alla natura dell’aqua et igni interdictio afferma che, qualora si neghi tale legittimazione, è chiaro che la permanenza in esilio di Verre dopo la condanna debba intendersi come volontaria. Sono sicuramente da respingere le congetture secondo le quali l’imputato scegliesse l’esilio per evitare la possibilità di ulteriori accuse, per la speranza di circoscrivere la misura della condanna pecuniaria, o per spontanea rinuncia a rimanere in Roma dopo la compromissione della propria vita pubblica. I limiti di queste pur plausibili congetture sono impliciti nell’esigenza da cui derivano, ovvero nello sforzo di interpretare i dati delle fonti salvaguardando il supposto principio della non idoneità del crimen

repetundarum a comportare condanne di natura capitale. Secondo Santalucia, 1998, pp. 78-79,

il perdurare della vecchia prassi dell’esilio volontario sanzionato dall’aqua et igni interdictio è unicamente ciò che ha fatto escludere il mantenimento da parte della legislazione corneliana dell’antica pena di morte, tanto che questa prassi condusse lo stesso legislatore a comminare l’exilium con perdita della cittadinanza come pena autonoma per alcuni crimini rimessi al giudizio di quaestiones. Con ciò l’esilio si trasformò da semplice mezzo per sfuggire all’esecuzione della condanna in vera e propria pena, così che sotto la denominazione di poena

capitalis si intese non soltanto la morte, ma anche l’esilio con conseguente aqua et igni interdictio.

senza la conlusione formale del rito precedente significa operare delle semplici illazioni.

Altrettanto infondato è il presupposto per cui l’esilio avrebbe reso superflua la continuazione del processo, dal momento che non si trova alcuna attestazione di ciò negli iudicia repetundarum. Le fonti, al contrario, mostrano che generalmente si cercava di evitare che l’esilio o la morte del reo provocassero un arresto delle attività processuali già compiute e precludessero l’effettuazione della litis aestimatio e il diritto delle vittime di beneficiarne. Le stesse Tabulae Bembinae prevedevano che se la delatio

nominis fosse avvenuta prima della morte o dell’esilio dell’imputato, il

processo si sarebbe dovuto tenere come se questo fosse in vita o a Roma68. A meno, quindi, di non voler congetturare un’ipotetica e non verosimile deroga a questa norma da parte della successiva lex Cornelia, è inevitabile concludere che l’allontanamento di Verre da Roma non poteva né estinguere il procedimento giudiziario, né comportare l’autonoma condanna dell’esiliato. A questo punto, ne consegue che l’incidenza dell’esilio sulle concomitanti attività processuali deve essere ridimensionata.

Sia il racconto dello ps.Asconio, sia quello di Plutarco si presentano entrambi come brevi richiami della vicenda, alla cui base si deve immaginare con verosimiglianza una tradizione piuttosto approssimativa che intorno a questa venne a formarsi nell’età appena successiva.

Il fatto che entrambi gli autori tacciano sulla seconda fase processuale non implica che questa non vi sia stata affatto, ma soltanto che fu la prima fase ad attirare su di sè tutta l’attenzione dei contemporanei e porta a presumere che in essa si concentrassero i motivi d’interesse connessi al

68

Mommsen 1899: l. 29: De iudicio in eum quei mortuos erit aut in exilium abierit. Quoium nomen ex

h. l. delatum erit, sei is ante mortuos erit…aut in exilium abierit, quam ea res iudicata erit, praetor, ad quem eius nomen delatum erit, eam rem ab eis item quaerito, quei ioudicium ex h. l. erunt, quasei sei is, quoius nomen ex h. l. delatum erit, viveret inve ceivitate esse…

giudizio, mentre i momenti successivi assumessero rilievo inferiore. Sembra plausibile sostenere che il clamore suscitato dal processo, invece di acuirsi in prossimità della sentenza, si affievolì fino a scomparire, segnale di un compromesso successivo al procedimento dell’actio prima, nato tra i gruppi politici interessati alla condanna di Verre e l’ambiente nobiliare a lui favorevole, tale da far presumere lo svolgimento in sordina dell’actio secunda e della litis aestimatio.

Sulla base di Cic. Verr. II, 4, 3369 non si può non ammettere che Verre fosse ancora a Roma e si adoperasse per la propria assoluzione nei mesi di agosto e settembre. La sua vicenda deve essersi conclusa nel periodo appena anteriore all’inizio dell’actio secunda e viene naturale pensare che alla base del suo allontanamento ci sia non tanto la gravità delle imputazioni, come vogliono le nostri fonti, quanto la rinuncia da parte degli ambienti nobiliari a lui collegati al tentativo di salvarlo dalla condanna. Questa rinuncia probabilmente si basa sia sull’obiettiva difficoltà di contrastare le accuse, sia soprattutto sul clima generale che accompagnò l’approvazione della lex Aurelia iudiciaria, nelle cui caratteristiche si può intravedere un compromesso di fondo tra ceto equestre e mondo nobiliare. A sua volta, lasciando Roma, Verre ottenne verosimili assicurazioni circa la litis aestimatio, che, come ci testimonia Plutarco70, risultò molto modesta.

69 At ita studiosus est huius praeclarae existimationis, ut putetur in hisce rebus intelligens esse,

ut nuper (videte hominis amentiam), postea quam est comperendinatus, cum iam pro damnato mortuoque esset, ludis circensibus mane apud Lucium Sisennam, virum primarium, cum essent triclinia strata argentumque expositum in aedibus, cum pro dignitate Luci Sisennae domus esset plena hominum honestissimorum, accessit ad argentum, contemplari unum quicque otiose et considerare coepit. Mirari stultitiam alii, quod, in ipso iudicio, eius ipsius cupiditatis cuius insimularetur suspicionem augeret, alii amentiam, cui comperendinato, cum tam multi testes dixissent, quidquam illorum veniret in mentem.

Il fatto, poi, che l’esilio ebbe luogo poco prima dell’inizio dell’actio secunda porta a credere che tale decisione non fu né improvvisa né spontanea, ma rappresentò il frutto di una specie di accordo che aveva come scopo primario quello di facilitare la conclusione della vicenda, privando di ogni interesse la fase processuale imminente, la quale probabilmente, sulla base di ciò, subì una strozzatura.

Il problema relativo al carattere fittizio della ciceroniana actio secunda acquista, dunque, un’autonoma dimensione. Posto che la corrispondente fase processuale ebbe realmente luogo, si deve presumere che Cicerone, in vista del dibattito, avesse predisposto i cinque libri insieme al materiale accusatorio da utilizzare. L’incertezza si riduce, quindi, notevolmente e rimane soltanto a proposito della misura in cui le orazioni furono materialmente pronunciate e quale forma avessero rispetto alla redazione definitiva pubblicata dall’oratore e a noi pervenuta.

Malgrado non si possa negare ogni credito alla testimonianza dello ps.Asconio, se tuttavia si ammette il reale svolgimento della seconda udienza, si dovrebbe anche presumere che gli oratori abbiano preso la parola e che Cicerone abbia avvertito l’esigenza di ribadire le proprie accuse e di sollecitare una sentenza di condanna. Ed è ovvio che, in questo caso, non seguirebbe nessuna logica l’ipotesi per cui l’accusa abbia pronunciato un discorso del tutto indipendente rispetto ai cinque libri dell’actio secunda e che non ci sarebbe pervenuto. Molto più plausibile appare la supposizione per cui questi siano il frutto di una rielaborazione operata dall’oratore, che avrebbe contaminato il testo predisposto in precedenza con un breve e succinto discorso realmente pronunciato a causa della strozzatura della seconda fase processuale.

Questa ricostruzione dei fatti, del resto, non trova ostacoli consistenti nella testimonianza dello ps. Asconio, che è caratterizzata dalla semplice omissione di ogni riferimento alla seconda udienza, cosa che non implica

per forza la sua mancata effettuazione. La notizia secondo cui, dopo l’actio

prima, nihil amplius in iudicio gestum est71 può anche essere interpretata in rapporto all’esclusivo carattere di formale adempimento che l’actio

secunda assunse dopo l’esilio di Verre, interpretazione che potrebbe

trovare un modesto sostegno nella continuazione del discorso: finxit

Verrem comperendinationi praesto fuisse, ut bis defensus accusaretur iterum, che non si pone, di fatto, contro il reale verificarsi della comperendinatio. Per quanto riguarda, poi, la testimonianza di Plutarco, è

certo confusa e poco precisa, ma anch’essa, facendo riferimento alla condanna dell’imputato prima della litis aestimatio, non contrasta tale ricostruzione.

Oltre, quindi, a non trovare ostacoli nelle testimonianze in nostro possesso, tale ipotesi fornirebbe anche una plausibile spiegazione in relazione alla rapidità con la quale le lunghe orazioni furono diffuse alla fine del processo, se si accetta la ricostruzione cronologica proposta dal Marinone72, il quale colloca la loro pubblicazione nell’autunno del 70 a.C. A sostegno di questa teoria circa la compenetrazione di composizioni diverse nelle orazioni contenute nei cinque libri di Verrinae II si possono citare due richiami alla lex Aurelia presenti in queste ultime: Verr. II, 5, 177-17873, che presenta la legge come già in vigore, e Verr. II, 1, 22-2374,

71 Cic. Verr. I, 56. 72 Marinone 1950.

73 …nempe lege de iudiciis iudicibusque novis promulgata; quam non is promulgavit quo nomine

proscriptam videtis, sed hic reus, - hic, inquam, sua spe atque opinione quam de vobis habet legem illam scribendam promulgandamque curavit. Itaque cum primo agere coepimus, lex non erat promulgata; cum iste vestra severitate permotus multa signa dederat quam ob rem responsurus non videretur, mentio de lege nulla fiebat; posteaquam iste recreari et confirmari visus est, lex statim promulgata est.

74 Non enim potest sperare populus Romanus esse alios in senatu qui recte possint iudicare, vos si

non potueritis: necesse est, cum de toto ordine desperarit, aliud genus hominum atque aliam rationem iudiciorum requirat… verum vobis dicam id quod intellexi, iudices. homines scitote esse quosdam quos tantum odium nostri ordinis teneat ut hoc palam iam dictitent, se istum, quem

dove si accenna alla legge per affermare che la condanna di Verre avrebbe potuto, forse, scongiurarne l’approvazione. Sembra evidente che i due accenni debbano riferirsi a due momenti di composizione diversi: II, 1, 22- 23 si pone in stretto collegamento con i numerosi richiami della proposta di legge contenuti nella Divinatio in Quintum Caecilium e nell’actio prima, mentre II, 5, 177 tradisce una complessiva rielaborazione, volta ad imputare l’approvazione della lex de iudiciis iudicibusque novis al fatto che, dopo l’actio prima, l’imputato recreari et confirmari visus est.

L’approvazione della legge, del resto, deve essere collocata dopo la sentenza di condanna se si considera che, se, stando a Cicerone, durante la prima fase processuale tale legge non era ancora in vigore, non potè essere approvata prima dell’inizio della seconda fase del processo, quando riprendeva l’attività dei comizi in concomitanza con quella dei tribunali. La sfasatura tra i due passi citati non si concilia con il supposto carattere interamente fittizio dell’actio secunda, cosa che avrebbe dovuto comportare una più marcata uniformità all’interno delle sue parti. Appare, dunque, plausibile ammettere in II, 1 la presenza di parti corrispondenti più o meno a un breve discorso effettivamente pronunciato nella seconda fase, impressione che sembra confortata dal carattere tutt’altro che omogeneo del medesimo libro. Tra le altre cose, il passo in cui Cicerone difende il proprio operato durante l’actio prima e nel corso del quale si inserisce l’accenno alla lex Aurelia, può valutarsi come puramente fittizio solo a prezzo di un certo sforzo logico: la difesa di un aggiramento delle norme processuali, che l’oratore non doveva avere interesse alcuno a rievocare, conduce a ritenere più plausibile che essa conservi l’eco di una replica diretta.

sciant esse hominem improbissimum, hoc uno nomine absolvi velle ut ab senatu iudicia per ignominiam turpitudinemque auferantur.

Sembra, dunque, che non possa respingersi a priori l’ipotesi del Venturini, secondo la quale almeno la parte iniziale del libro conservi traccia di un breve discorso realmente pronunciato e poi rifuso con il testo che era stato predisposto da Cicerone in vista dell’actio secunda, ma che di fatto non era stato utilizzato nel corso di quest’ultima75.

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