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LA DISCIPLINA GIURIDICA DEGLI ESERCIZI DI VICINATO

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LA DISCIPLINA GIURIDICA DEGLI ESERCIZI DI VICINATO

Indice

Introduzione III

CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DEGLI ESERCIZI DI VICINATO

1 Definizione di esercizio di vicinato 1

2 La disciplina antecedente alla Riforma

“Bersani” del commercio 4

3 Le innovazioni introdotte dal Decreto legislativo

n. 114/1998 13

4 Il riparto di competenze Stato-Regioni ex art.

117 Cost. 22

5 Il secondo Decreto “Bersani” del 2006 27

6 Le novità introdotte dalla Direttiva europea sui servizi e il relativo recepimento nel D. Lgs. n.

59/2010 32

7 I più recenti interventi normativi di

semplificazione 35

CAPITOLO II

LA “CONTRORIFORMA” REGIONALE IN MATERIA DI COMMERCIO AL DETTAGLIO

1 La valorizzazione del ruolo delle Regioni 41

2 L’evoluzione della disciplina regionale 46

3 Il Testo Unico del commercio della Regione

Toscana 53

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CAPITOLO III

LE PROCEDURE E I REQUISITI NECESSARI PER L’ACCESSO AL MERCATO

1 I requisiti morali 64

2 I requisiti professionali 73

3 Il procedimento per l’apertura 78

4 Il trasferimento di sede 85

5 L’ampliamento della superficie 86

6 Il sub ingresso 87

7 Il sistema sanzionatorio 92

8 La chiusura dell’esercizio di vicinato 95

CAPITOLO IV

COMPETITION ADVOCACY E

ESERCIZI DI VICINATO

1 Il ruolo e i poteri dell’Antitrust 97

2 Gli esercizi di vicinato nei centri storici 113

3 Le scelte strategiche relative alla

riqualificazione, alla salvaguardia e alla

rivitalizzazione dei centri storici 124

4 Il caso particolare delle attività di

somministrazione di kebab nei centri storici 132

5 Nuovo Regolamento di decoro urbano nel

centro storico di Firenze 143

Conclusioni 146

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INTRODUZIONE

Gli esercizi di vicinato noti anche come “piccole botteghe”, rientrano all’interno del commercio al dettaglio e da sempre hanno caratterizzato la vita commerciale delle nostre città e dei nostri borghi, rappresentandone una componente fondamentale del tessuto sociale ed economico, proiettandosi sulla vita quotidiana e sulle attività che vi si svolgono.

Per anni l’attività del commercio al dettaglio è stata disciplinata dalla legge n. 426 del 1971, che conferiva un ruolo preponderante al Comune, a cui spettava una programmazione del commercio che però non coincideva, anzi contrastava, con la programmazione urbanistica. Infatti, la legge prevedeva una programmazione di equilibrio fra domanda e offerta dei prodotti al fine di soddisfare sia gli esercenti del commercio sia i consumatori, nonché l’istituzione del registro degli esercenti del commercio (REC). Tutto ciò era caratterizzato da un forte intervento di diritto pubblico che dava luogo ad una vera e propria pianificazione strutturale del mercato, che però lasciava spazio solo alla concorrenza contingentata. La situazione era paradossale perché colui che era l’interessato all’apertura o trasferimento od ampliamento di un esercizio commerciale doveva rispettare, anche dal punto di vista degli oneri procedimentali, due diverse discipline:

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quella urbanistico-edilizia e quella commerciale, poco in linea con il principio di libera iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost.

La svolta è avvenuta nel 1998 con il d.lgs. n. 114, di “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art.4, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59”, il quale definisce gli esercizi di vicinato e ne precisa le relative dimensioni.

Il legislatore ha tenuto conto, questa volta, del principio di iniziativa economica ex art. 41 Cost., delle influenze del diritto

comunitario, volte ad una semplificazione amministrativa

nell’apertura di un esercizio di vicinato e di una apertura del mercato a più soggetti. Di conseguenza c’è stata la soppressione del REC e l’introduzione della dichiarazione di inizio attività (DIA, successivamente divenuta SCIA) per l’apertura o il trasferimento di un’attività commerciale. Le Regioni iniziano ad avere un ruolo preponderante per quanto riguarda la programmazione commerciale ed urbanistica andando a scalzare sempre di più il ruolo dello Stato.

Il compito delle Regioni viene decisamente amplificato dalla Riforma del Titolo V della Costituzione ad opera della legge Cost. n. 3 del 2001, intaccando profondamente la distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Il vigente testo dell’art. 117 Cost, individua le materie di competenza esclusiva dello Stato e le materie

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alle Regioni le materie non espressamente assegnate alla legislazione statale. Posto che la materia del commercio non viene menzionata nelle materie di competenza esclusiva statale, né viene inserita nel novero delle materie nelle quali le Regioni godono di potestà legislativa concorrente, Regioni e Province autonome hanno potuto emanare delle proprie leggi regionali in materia di commercio.

Negli anni successivi, alla luce di politiche volte a favorire una maggior liberalizzazione del settore e una semplificazione delle procedure di accesso al mercato di nuovi soggetti, sono state emanate norme come il secondo decreto “Bersani” (d.l. n. 233 del 2006 convertito con la legge n. 248 del 2006) e il d.lgs n. 59 del 2010 (norma di recepimento della Direttiva “servizi” 2006/123/CE); ciò ha condotto all’introduzione dello Sportello Unico per le attività produttive, strumento di connessione fra le pubbliche amministrazioni e gli operatori del commercio, nonché ad un nuovo assetto organizzativo del settore.

Infine, allo scopo di rilanciare l’economia nazionale alla luce della crisi economica sono stati emanati i decreti legge n. 201 del 2011 (convertito con la legge n. 214 del 2011) e il d.l. n. 1 del 2012 (convertito con la legge n. 27 del 2012) che hanno apportato una maggior spinta di liberalizzazione nel commercio al dettaglio e

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conferito nuovi poteri all’Autorità garante della concorrenza e mercato.

Queste politiche volte a favorire il commercio, la semplificazione amministrativa e la tutela del consumatore, negli ultimi anni hanno favorito la comparsa di nuovi operatori e di nuovi esercizi di vicinato, come ad esempio gli esercizi di somministrazione di kebab, i minimarket, i money transfert, ecc., che hanno contribuito a mutare l’assetto urbano, in particolare nei centri storici delle città d’arte ove presente un forte afflusso turistico.

Pertanto, si è deciso di non limitare il lavoro di tesi alla disciplina degli esercizi di vicinato, emanata secondo le esigenze politico-economiche e sociali nei vari decenni, ma di trattare anche tra le innovazioni introdotte, il ruolo e i poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato; allo stesso tempo, si vogliono anche evidenziare le conseguenze negative introdotte con gli ultimi interventi legislativi in materia di liberalizzazione del settore. In particolare, la diffusione di tali attività commerciali che in alcuni casi hanno variato il tessuto urbano e soppiantato le attività tradizionali storiche che per anni hanno caratterizzato la vita commerciale delle città italiane.

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DEGLI ESERCIZI DI VICINATO

1 Definizione degli esercizi di vicinato

La definizione di esercizi di vicinato è contenuta ai sensi dell’art. 4, comma 1, let. d) del D. Lgs. 114/1998, intesi come quelli aventi una superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10000 abitanti. Tali esercizi rientrano all’interno del commercio al dettaglio (o al minuto): cioè “l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale” (art. 4, comma 1, let. b); tale tipo di commercio si contrappone al commercio all’ingrosso, conformemente all’abrogato art. 1 della legge 426/1971: “l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende ad altri commercianti, all'ingrosso o al dettaglio, o ad utilizzatori professionali, o ad altri utilizzatori in grande. Tale attività può

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assumere la forma di commercio interno, di importazione o di esportazione” (art. 4, comma 1, lett. a).

Come è dato rilevare, ciò che differenzia i due tipi di attività di commercio, all’ingrosso o al dettaglio, non è la quantità di merce, ma il soggetto con cui si intrattiene lo scambio, che per il commercio al dettaglio o al minuto, è l’utilizzatore finale, cioè il consumatore, mentre per quello all’ingrosso è esclusivamente un altro commerciante od un utilizzatore, professionale o in grande1.

Tra le varie forme di commercio al dettaglio, oltre alla vendita su aree private in posto fisso, che è la più usuale e vi rientrano gli esercizi di vicinato, si registrano: la vendita su aree pubbliche (già commercio in forma ambulante), la vendita per corrispondenza, mediante distributori automatici, a domicilio del consumatore con incaricati. È pure considerato commercio al dettaglio la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, con la differenza che tali prodotti si consumano sul posto.

Negli esercizi di vicinato si consente a quelli che somministrano alimenti e bevande come servizi sostitutivi di mensa, ai sensi art. 4 della l.77 del 1997 (attività propria dei pubblici servizi di somministrazione) di permettere il consumo immediato dei medesimi,

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a condizione che sia escluso il servizio di somministrazione (mediante personale). Con l’art. 3, comma 1, let. f-bis), del d.l. 223 del 2006, è concesso a tutti gli esercizi di vicinato il consumo immediato dei prodotti di gastronomia, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico sanitarie.

Per quanto riguarda la tipologia di struttura di vendita, in relazione all’art. 5 della l. 59 del 1997, gli esercizi di vicinato vanno distinti dalle medie strutture di vendita, dalle grandi strutture di vendita e dal centro commerciale (art 4, comma 1, lett. e, f, g). Per medie strutture di vendita si intendono quelle aventi una superficie superiore a 150 mq. fino a 1500 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10000 abitanti e con una superficie compresa fra i 250 mq. e i 2500 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10000 abitanti; per grandi strutture di vendita ci si riferisce agli esercizi aventi una superficie superiore ai limiti previsti per le medie strutture; infine con il termine centro commerciale ci si riferisce ad una media o una grande struttura di vendita nella quale più esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti

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unitariamente2; ai fini del presente punto, per superficie di vendita di un centro commerciale si intende quella risultante dalla somma delle superfici di vendita degli esercizi al dettaglio in esso presenti3.

2 La disciplina antecedente alla Riforma “Bersani” del commercio

L’esercizio dell’attività commerciale era considerata, al momento, dell’Unità d’Italia con la conseguente unificazione amministrativa, attività libera, soggetta alla sola disciplina che i comuni autonomamente stabilivano, per consentire il corretto esercizio del commercio nell’ambito comunale.

Pertanto, la materia era oggetto di previsione nei regolamenti di igiene, che dettavano le norme di carattere igienico-sanitario da rispettare, nei regolamenti di polizia locale, cui era demandato il compito primario di stabilire apposite norme “per gli esercizi di vendita di generi annonari” (art. 109, n. 1, reg. del 1911) e nelle norme

2 Cfr., in terminis, T.A.R. Lombardia, Brescia, 22 giugno 2001, n. 482, in I T.A.R., 2001, I, pag. 2800; Id., 24 agosto 2001, n.730, ivi, 2001, I pag. 3295, il quale precisa che non ha rilevanza il fatto che la struttura sia unica o articolata in più edifici; T.A.R. Campania, Salerno, II, 22 Aprile 2005, n.

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che attribuivano al Comune il potere di istituire i mercati e curare la gestione (art. 131, comma 1, n.12, del t.u. com. prov. Del 1915)4.

Accanto alla normativa regolamentare dei comuni esisteva un’apposita legislazione statale, emanata per disciplinare alcune specifiche attività (ad esempio commercio di armi, preziosi, oggetti usati, alimenti e bevande), per il cui esercizio era prescritto il rilascio di un’autorizzazione non di natura economica bensì avente la funzione di polizia e di controllo per accertare la pericolosità dell’attività in questione e, quindi, per tutela dell’ordine pubblico. Tali autorizzazioni rappresentavano una prima forma di controllo delle attività economiche5.

Lo Stato si adoperò a dettare una specifica disciplina per le attività commerciali non rientranti nella polizia di sicurezza, con il r.d.l. 16 dicembre 1926, n. 2174 (convertito in legge 18 dicembre 1927, n. 2501). In base all’art. 1 si assoggettò al “rilascio di una speciale licenza da parte dei relativi comuni” gli enti privati e le persone che intendevano “esercitare il commercio per la vendita al pubblico di merci sia all’ingrosso sia al dettaglio”.

4 Per un esauriente excursus sulla legislazione post unitaria e sulle vicende che condussero all’adozione del d.lgs. 114 del 1998 cfr. M.A. SANDULLI, in AA.VV., Il commercio, Milano 1998,

pagg. 1 segg.; RAGAZZINI, La disciplina dell’attività commerciale dal dopoguerra alla legge

Bersani: considerazioni circa la normativa introdotta sul suddetto testo circa i limiti entro cui le Regioni potranno modificarla, in Foro amm. CDS, 2003, pag. 1747.

5 CHITI, Licenze commerciali e libertà di iniziativa economica, cit., pag. 875; cfr., anche MASTRAGOSTINO, Il commercio nel sistema delle autorizzazioni amministrative, in Foro amm., 1971, I, pag. 1326; ANGELETTI, Vendita al pubblico, in Noviss. dig. it., Torino, 1975, vol. XX, pag. 642; AMORTH, Commercio, cit., pag. 810.

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Secondo l’intento del legislatore, questa “speciale licenza” doveva trovare applicazione generalizzata, nei confronti, cioè, di qualsiasi tipo di commercio sia all’ingrosso sia al minuto in appositi negozi o locali (secondo quanto stabiliva l’art. 1 del d.m. 31 dicembre 1926, recante il regolamento di esecuzione del r.d.l. 2174 del 1926). Come è dato rilevare si era dato vita ad una normativa di carattere generale, destinata a regolamentare il commercio – nella sua accezione tipica di scambio (ovvero vendita) di merci – in ogni sua forma e modalità, all’ingrosso o al minuto.

Al podestà competeva il rilascio della licenza, previo parere di un’apposita Commissione e dopo l’accertamento del possesso, da parte del richiedente, degli stessi requisiti soggettivi stabiliti per le autorizzazioni di polizia e del riscontro dell’assenza di cause ostative. Era, infatti, previsto che la licenza potesse essere negata – con l’esercizio di un potere ampiamente discrezionale – quando la commissione riteneva che “il numero di spacci già esistenti era sufficiente per le esigenze del comune, tenuto conto dello sviluppo edilizio, della densità della popolazione, della ubicazione dei mercati

rionali”; inoltre, la Commissione doveva tenere conto

“dell’importanza dell’esercizio di rivendita, della sua ubicazione e delle data di inizio dell’esercizio” (art. 2, r.d.l. 2174). Il rilascio era

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limitare il proliferare di richieste di licenze e, allo stesso tempo, di provvedere ad un fabbisogno finanziario dell’economia nazionale6.

L’art. 1 del r.d.l. 2174 precisava che “la licenza di cui all’art. 3 della legge (e quindi, dell’ordinaria licenza di commercio) doveva ritenersi necessaria per qualsiasi tipo di commercio”; di fatto la legge del 1926, pur provvedendo a delineare le strutture portanti della nuova disciplina del commercio all’ingrosso ed al minuto, riguardava – a ben vedere – il solo commercio in sede fissa non prestandosi a regolamentare alcune particolari fattispecie in cui si evidenziavano caratteristiche economiche ed organizzative diverse da quelle che attenevano al commercio in sede fissa7.

La normativa sul commercio fu soggetta a successive integrazioni e modificazioni, poiché nel tempo si dimostrò insufficiente a disciplinare la materia, così come si andava delineando, a partire dagli anni sessanta. Vi erano delle notevoli carenze legislative, alle quali bisognava porre rimedio, la necessità di una riforma del settore era stata sottolineata nel “Primo programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970”, approvato con la legge del 27 luglio 1967, n. 685, col quale si intendeva porre un freno alla eccessiva polverizzazione delle strutture distributive, attraverso la riduzione dei costi di distribuzione, da attuarsi attraverso politiche di

6 SAMBATARO, Ritiro della licenza per “inattività” dell’esercizio, in Foro amm., 1970, III, pag. 76, nota 19.

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razionalizzazione, finalizzate a: favorire ed assecondare la tendenza alla concentrazione delle imprese ed all’accrescimento delle dimensioni dei punti vendita; incoraggiare l’ammodernamento delle attrezzature e dell’organizzazione aziendale; infine eliminare gli ostacoli posti dall’attuale disciplina amministrativa all’evoluzione del settore. In particolare per gli esercizi di vicinato, il progetto doveva trovare concreta attuazione con la riforma del sistema delle licenze per gli esercizi commerciali, da sostituire con una semplice procedura di registrazione, subordinata soltanto all’accertamento del possesso da parte del richiedente di validi requisiti di idoneità morale e professionale, e al rispetto di vincoli di natura urbanistica, nonché delle prescrizioni di regolamenti locali di polizia urbana annonaria e igienico-sanitaria. Questo indirizzo fu però disatteso con la riforma del 1971, che richiese il rilascio dell’autorizzazione, accanto all’obbligo dell’iscrizione in apposito registro (il REC).

Successivamente si muovevano, altresì, il “Rapporto preliminare al programma economico per il quinquennio 1971-1975” (noto anche come “Progetto 80”) ed il “Progetto del programma economico 1971-1975”, non tradotto in legge8. Il “rapporto” prefissava i seguenti

obiettivi: l’unificazione delle licenze per il commercio fisso; l’istituzione di “albi” per il commercio e determinazione dei requisiti

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di iscrizione; infine per l’abolizione progressiva del sistema delle licenze9.

A partire dai primi anni ‘70 il commercio era principalmente regolato da una legge di Stato, la l. 11 giugno 1971 n. 426, con la quale si era voluto assorbire con una disciplina organica la molteplicità degli atti normativi che si erano sovrapposti nel tempo perlopiù con una portata circoscritta alle singole fattispecie. Gli elementi caratterizzanti di questa disciplina erano due: la pianificazione comunale, nella forma di piano di sviluppo ed adeguamento del commercio e l’istituzione del registro degli esercenti del commercio (il REC). La pianificazione del commercio non coincideva con quella urbanistica10. Essa disciplinava assetti e rapporti

economici relativi alle attività commerciali e si sostanziava in una programmazione dell’equilibrio tra domanda e offerta dei prodotti, al fine di soddisfare le esigenze dei consumatori in armonia con quelle dei distributori al dettaglio e all’ingrosso. Il piano comunale conteneva una disciplina puntuale, condizionante l’azione degli operatori, giustificata dalla premessa che al libero sviluppo della concorrenza dovesse anteporsi l’interesse generale ad una vigilanza dagli spiccati tratti normativi. Il piano non prevedeva solo presupposti e requisiti per

9 MAGGIORA, La disciplina del commercio, Milano, Giuffrè, 2008 pp. 11-17.

10 Sui rapporti tra pianificazione commerciale e pianificazione urbanistica anteriormente al 1998, cfr. G. Morbidelli, Rapporti tra disciplina urbanistica e disciplina del commercio, in “Riv. giur. urb.”, 1990, pp. 159 ss.; nonché C.E. Gallo, Autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, in Scritti in onore di G. Guarino, Padova, 1998, pp. 429 ss.

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l’insediamento dell’esercizio commerciale, ma regolava l’accesso al mercato, stabilendo luoghi e distanze della rispettiva collocazione, nonché il rapporto fra misura dell’offerta e capacità della domanda. L’assetto vedeva insomma una vera e propria pianificazione strutturale del mercato, la quale lasciava spazio solo alla concorrenza contingentata. Si tratta del punto massimo di intervento pubblico per finalità di polizia di sicurezza e di igiene e sanità. È comprensibile, quindi, che il giudice amministrativo al tempo ribadisse l’operatività della riserva di legge prevista dall’art. 41, comma 3, Cost., sulla disciplina dell’attività commerciale e che seguisse un’interpretazione “restrittiva” della norma costitutiva del potere pianificatorio ( in base all’art. 11 della l. n. 426 del 1971)11.

Nonostante che agli inizi degli anni ’70 si fosse auspicato a livello di programmazione di eliminare le licenze di commercio, dopo un periodo di transizione dedicato al riammodernamento e riorganizzazione delle aziende,12 al fine di conformare il settore così da assicurare al consumatore piena libertà di scelta, questo regime ha avuto la caratteristica di sottoporre, nei fatti, la libertà d’impresa a penetranti vagli amministrativi di tipo autorizzativo. È stata una ricaduta inevitabile del peso che aveva assunto la pianificazione comunale.

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Durante la fase di attuazione della l. n. 426 del 1971, uno dei principali problemi applicativi riguardava il rapporto tra la pianificazione e le autorizzazioni di tipo commerciale e la pianificazione e le concessioni di tipo urbanistico-edilizio13. Vi era stata così la proposta di accorpare quest’insieme di valutazioni – segnatamente, quelle di natura organizzativa – unite a quelle di tipo storico-ambientale, in un unico contenitore procedimentale ed in un unico nulla osta, così come vi era stata una compiacenza per sviluppare il migliore coordinamento possibile tra le due funzioni amministrative14. Si sottolineava infatti che le pur differenti funzioni pubbliche, di tipo urbanistico e di tipo regolatorio-commerciale, erano di competenza del Comune; che il carattere primario e condizionante da riconoscere agli interessi urbanistici avrebbe consigliato

l’unificazione dei procedimenti; che, infine, l’attitudine

dell’urbanistica ad assorbire interessi di forma più varia15 avrebbe

giustificato l’attribuzione alla funzione di governo del territorio di alcuni compiti pubblici riguardanti la rete del commercio locale. Tuttavia, questi tentativi non ebbero alcun successo e venne ad esistenza un sistema nel quale l’interessato all’apertura o trasferimento

13 Cfr. Morbidelli, Rapporti, cit.; per un resoconto della questione al tempo della vigenza della l. n. 426 del 1971, G. Ciaglia, Evoluzione dei rapporti tra autorizzazioni all’esercizio del commercio e

disciplina urbanistico-edilizia a seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 114, in

www.giustamm.it.

14 MORBIDELLI, Rapporti, cit.

15 Su cui cfr. E. STICCHI DAMIANI, Disciplina del territorio e tutele differenziate: verso

un’urbanistica integrale, in E. FERRARI (a cura di), L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato, Milano, 2000, p. 145.

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od ampliamento di un esercizio commerciale era tenuto a rispettare, anche dal punto di vista degli oneri procedimentali, due diverse discipline: quella urbanistico-edilizia e quella commerciale16. Questo assetto, condiviso dalla giurisprudenza17, pur tra alcuni disappunti dottrinali, dava vita a due autorizzazioni, a due procedimenti paralleli e quindi a due interessi legittimi: il primo era collegato alle scelte di governo del territorio, enunciate nei piani urbanistici – ordinati per livelli sovrapposti e per separate competenze territoriali – ed espresse, da ultimo, nel provvedimento comunale di assenso o diniego della concessione edilizia; il secondo era l’interesse legittimo collegato alla pianificazione del commercio, campo in cui, più che l’armonioso sviluppo del territorio, erano in gioco altri aspetti, tra i quali i rapporti tra consumatori ed esercenti e soprattutto, nei fatti, i conflitti tra grandi e piccoli operatori e in generale tra i vari esercenti, insorti per ragioni di insediamento territoriale e spesso in realtà volti a cristallizzare posizioni di rendita sul mercato18.

16 E.M. MARENGHI, Nuove tendenze nei rapporti tra urbanistica e commercio, in “Riv. giur. urb.”, 1999, pp.227 ss., in part. P. 230.

17 Cfr., Cons. Stato, sez. V, 22 giugno 1979, n. 336 “Foro amm.”, 1979, I, p, 1202. La giurisprudenza, in verità, non poteva che riscontare alcuni indici normativi a favore della separazione e della pluralità dei procedimenti: l’art. 41 del d.m. n. 375 del 1988, ad esempio, escludeva espressamente che all’atto della presentazione della domanda per il rilascio del nulla osta al commercio l’interessato dovesse già essere nella disponibilità di un determinato locale per la vendita. Sicché in sostanza il regolamento non subordinava il rilascio del titolo autorizzatorio per il commercio alla disponibilità del locale e così ammetteva esplicitamente che il nulla osta

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3 Le innovazioni introdotte dal Decreto Legislativo 114 del 1998

La situazione è mutata con l’entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, intitolato “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art.4, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59”19.

La riforma era esplicitamente indirizzata verso la liberalizzazione del commercio (in virtù dell’art. 2 del decreto) e si avvaleva di un convergente indirizzo dell’ordinamento comunitario a sostegno della libera circolazione della merci e della libertà di concorrenza20.

I suoi caratteri essenziali, resi espliciti dal dibattito politico-istituzionale, possono essere riassunti in tre punti essenziali. Il primo disconosceva il fondamento di una vera e propria pianificazione del commercio, assumendo evidentemente che un regime amministrativo

19Cfr. M.A. SANDULLI, Principi generali, in AA.VV., Il commercio. Commento al d.lgs. 31

marzo 1998, n. 114, Milano, pp. 14 ss.; A. Travi, La liberalizzazione, in «Riv. trim. dir.

pubbl.»,1998, in part. pp. 645 ss.; E. Boscolo, Appunti sull’attuazione regionale della riforma del

commercio: dai limiti alla legge regionale ai limiti all’iniziativa economica, in E. FERRARI, N.

SAITTA, A. TIGANO (a cura di), Livelli e contenuti della pianificazione territoriale, Atti del IV

convegno nazionale dell’Associazione italiana di diritto urbanistico, Milano, 2001, nonché in

«Riv. giur. ed.», 2001, pp. 251 ss.; ORLANDO, Il commercio, cit., pp. 3542 ss.; MORBIDELLI,

Commercio, cit.,pp. 768 ss.; F. AMMASSARI, La riforma della regolamentazione del commercio: liberalizzazione e decentramento nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, in «Dir. econ.»,

2004, pp. 113 ss.;L. PELLEGRINI, Concorrenza e regolamentazione: la distribuzione

commerciale, in G. TESAURO-M. D’ALBERTI (a cura di), Regolazione e concorrenza, Bologna,

2000, pp. 89 ss., ove si sottolineano e descrivono le inefficienze economiche prodotte dalla «pervasiva» regolazione tradizionalmente incidente sul commercio; A. RAGAZZINI, La

disciplina dell’attività commerciale dal dopoguerra alla legge Bersani: considerazioni circa la normativa introdotta dal suddetto testo e circa i limiti entro cui le regioni potranno modificarla, in

«Foro amm. CDS», 2003, p. 1747; V.R. VARALDO, La disciplina del commercio tra

liberalizzazione e regolamentazione, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 1998, pp. 983 ss.

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strutturale dell’offerta non andava a beneficio dei consumatori e non favoriva né l’ottimale allocazione delle risorse, né l’ammodernamento e il funzionamento delle funzioni distributive. Pertanto, l’unico interesse pubblico che, secondo questa impostazione, avrebbe dovuto condizionare la libertà d’impresa era quello urbanistico-territoriale, insieme ai consolidati interessi volti alla tutela dell’ambiente e dei beni di interesse paesistico e storico-artistico e fatte salve alcune misure accessorie volte a proteggere interessi meritevoli ma di portata più circoscritta (come quelli dei titolari di piccoli esercizi nei centri storici). Conseguentemente venivano eliminati i piani comunali della rete commerciale e si lasciava spazio solo ai tradizionali piani urbanistici. Questa loro esclusività aveva fatto sì che il decreto affidò alle Regioni sia un compito di definizione degli indirizzi generali per lo sviluppo delle attività commerciali (art. 6, comma 1), sia, soprattutto, l’emanazione dei criteri generali di programmazione urbanistica che i comuni erano chiamati ad assorbire nei loro piani regolatori e nei loro regolamenti (art. 6, comma 2). Il secondo punto consisteva nella soppressione del REC e del sistema delle tabelle merceologiche, sostituiti unicamente da due settori principali: quello alimentare e quello non alimentare. Il terzo punto concerneva la riduzione dei vincoli di carattere autorizzativo e la semplificazione dei

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giuridico-procedimentale. In particolare, gli esercizi di vicinato potevano essere aperti o trasferiti o ampliati senza bisogno di autorizzazione preventiva e sulla base di una semplice dichiarazione di inizio attività (DIA) (art. 7).

Il decreto legislativo n. 114 individuava in maniera solenne (art. 2) il suo fondamento teleologico nella libertà di iniziativa economica e privata e nella tutela della concorrenza e del mercato, richiamando sia l’art. 41 Cost. e la legge 10 ottobre 1990, n. 287 sulla tutela della concorrenza e del mercato. Due richiami molto significativi, dal momento che in essi si sottolineava sia il tono costituzionale del valore perseguito dal legislatore, sia l’ispirazione che questi aveva ricevuto dal diritto comunitario, ai cui principi la legge n. 287/1990 esplicitamente si uniformava. Tuttavia, accanto a questa affermazione di principio, specie lì dove erano definiti i compiti di Regioni ed enti locali, il decreto enunciava una serie di interessi pubblici concorrenti, individuati anch’essi con espressioni di tipo generale, alla stregua di altrettanti obiettivi da realizzare: dalla tutela dei centri storici, alla protezione del consumatore e della qualità dei servizi; dall’ordinato sviluppo del territorio alla tutela dell’ambiente; dalla tutela dell’occupazione alla salvaguardia delle zone di montagna, rurali, insulari. Proprio perché identificati come valori di origine generale e come finalità da conseguire, essi sembravano prestarsi, in verità, ad

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interventi di tipo regolatorio, il cui contenuto e la cui misura però non era individuata in maniera più precisa nel testo del decreto.

Questa riforma, nei suoi intendimenti dichiarati avrebbe dovuto modificare l’assetto vigente in maniera profonda secondo le tre chiavi di lettura.

Il decreto n. 114 puntava a rimodulare il trade off tra libertà di mercato ed intervento regolatorio nella distribuzione commerciale, in un duplice senso. Anzitutto, si riconosceva il primato della libera concorrenza sul preesistente modello di pianificazione pubblica, perlomeno a livello di indicazione di principio. Poi, veniva a modificarsi il tipo di interesse pubblico che poteva giustificare un intervento di regolazione, dato che esso non poteva più coincidere con lo stabilire un equilibrio strutturale di mercato tra un’offerta all’uopo programmata e una domanda libera, ma doveva solo riguardare i piani urbanistico-territoriali, ambientali e paesistici. Del pari, vennero a modificarsi gli strumenti che avrebbero dovuto trovare spazio per correggere i residui market failures: non si sarebbe dovuto trattare autoritativamente sulla struttura dell’offerta, limitando o addirittura impedendo l’ampliamento o l’apertura di nuovi esercizi, ma piuttosto attuare politiche parallele di sostegno che non alterassero direttamente un equilibrio che il mercato deve pur sempre trovare da sé. La

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non avrebbe dovuto dar luogo a misure preclusive dell’ingresso di nuovi operatori nelle fasce extraurbane, ma solo favorire lo sviluppo e sostenere quelle che versavano in difficoltà21.

In secondo luogo, la riforma puntava decisamente ad incrementare il ruolo strategico delle Regioni, alle quali, come già accennato, era demandata sia la formulazione degli indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali, seguendo i fini enunciati dallo Stato nell’art. 6, comma 1 del decreto, sia i criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale ed ai quali i Comuni dovevano adeguarsi, pena l’attivazione del potere regionale sostitutivo in caso di inerzia (art. 6, comma 2). I poteri regionali avevano natura indefinita, sicché era rimesso alle Regioni la scelta se attuarli con atto normativo, regolamentare o addirittura legislativo, ovvero amministrativo. Si era venuto così a creare un vantaggio a favore della legislazione regionale, e ciò in un campo nel quale il punto di riferimento era in precedenza la legge dello Stato. In questa disposizione il legislatore spargeva numerosissimi interessi pubblici, concorrenti rispetto alla scelta di apertura del mercato, e che erano enunciati come altrettanti valori ed obiettivi da tutelare e perseguire. Perciò alle Regioni spettava il delicatissimo compito di fissare il punto

21 Si allude all’utilizzo di strumenti di natura assolutamente variabile: specifiche politiche pubbliche per la dotazione infrastrutturale di un centro-parcheggi; potenziamento strategico dei trasporti pubblici; cura e miglioramento dell’arredo urbano; aggregazione di più compiti in capo ad un unico esercizio commerciale; azione diretta sulla leva tributaria.

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di equilibrio tra libertà di mercato e regolazione, nonché la parallela linea di demarcazione tra misura interventista giustificata in nome degli interessi pubblici che sopravvivono a tale mercato e misura ingiustificata e contrastante con l’assetto post liberalizzazione.

Infine il decreto legislativo 114/1998 mirava ad una notevole semplificazione procedimentale22: l’assetto previgente si basava su

una autorizzazione obbligatoria in base ad una pianificazione commerciale, che è stata sostituita con una DIA (poi divenuta segnalazione certificata di inizio attività, la SCIA). Nel caso degli esercizi di vicinato, la semplificazione consisteva nella riduzione dei vincoli amministrativi di tipo autorizzativo, in particolare con la presentazione della solo DIA 23.

Il disegno riformatore, in verità, conteneva almeno due punti deboli.

Il primo riguardava il profilo teleologico. Infatti, il decreto pur ponendo in primo piano la libertà d’impresa e di mercato, allo stesso tempo si faceva carico, elevandoli ad altrettanti “obiettivi” della

22Sebbene non siano mancate le voci che hanno segnalato alcune lacune anche in questa parte del progetto riformatore: M. OCCHIENA, L’incidenza della semplificazione sul potere e sul

procedimento amministrativo: riflessioni anche alla luce della nuova disciplina del commercio, in

V. PARISIO (a cura di), Semplificazione dell’azione amministrativa e procedimento

amministrativo alla luce della legge 15 maggio 1997, n. 127, Milano, 1988, pp. 97 ss.

23 F. MELE, Alcuni aspetti della riforma della disciplina del commercio ex d. lg. Marzo 1998

n.114, in Foro amm., fasc. 5, 1999, p. 1168; A. RAGAZZINI, La disciplina dell’attività commerciale dal dopoguerra alla legge Bersani: considerazioni circa la normativa introdotta dal suddetto testo e circa i limiti entro cui le regioni potranno modificarla, in Foro amm. CDS, fasc. 5,

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disciplina regionale e della pianificazione urbanistica, di una serie molto vasta di interessi. Sicché il d.lgs. 114/1998 avrebbe inserito “finalità di politica economica” negli strumenti urbanistici, facendo sì che il piano regolatore eccedesse la sua dimensione prettamente urbanistica per acquisire una connotazione “commerciale”24. Tali

interessi erano considerati pubblici e prefigurati come fini da realizzare, o perlomeno come elementi condizionanti il progetto complessivo di liberalizzazione. Il modo in cui il legislatore li contemplava faceva pensare che fossero meritevoli di un interesse ad

hoc.

È possibile, che il primato del libero mercato abbia influito sugli strumenti da utilizzare a questi scopi, al fine di renderli coerenti col modello auspicato dal legislatore per evitare un vero e proprio ritorno

all’idea di mercato regolamentato. Tuttavia, quest’ultima

conformazione qualitativa delle misure di tutela di numerosissimi interessi elencati dall’art. 6 era obiettivamente complessa da intendere e da praticare e soprattutto non sembrava concretamente esigibile anche dalle più efficienti tra le nostre amministrazioni regionali. Il che consente di cogliere un dato fondamentale, che nella tecnica

24 Cfr. G. CAIA, Governo del territorio e attività economiche, in Dir. amm., 2003, 707 ss., in part. 720 ss., il quale muove dalla premessa che il piano urbanistico, di norma, può solo programmare e regolare lo sviluppo del territorio per finalità economiche, mentre non può dirigere e indirizzare le attività produttive in sé, perseguendo altrettanti autonomi obiettivi di politica economica; e conclude nel senso che tuttavia il d. lgs. n. 114/1998, alla luce di quanto disposto dall’art. 6, ha ampliato il normale contenuto del PRG, consentendogli di incidere, almeno potenzialmente, anche sui profili funzionali dell’esercizio dell’impresa nel settore della distribuzione commerciale e non solo sulla dimensione morfologica e spaziale del suo svolgimento.

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legislativa del decreto n. 114/1998 si annidava, sin dal principio, il rischio del parziale svuotamento interpretativo della sua spinta riformista nel segno della liberalizzazione. I primi commentatori pensavano che tale processo di liberalizzazione riguardasse solo gli esercizi di vicinato25; tutte finalità che in passato erano eseguite nel

piano comunale di sviluppo ed adeguamento del commercio. Coloro che si sono mossi in questa prospettiva di interpretazione (secondo la dottrina minoritaria), hanno addirittura visto nel decreto n. 114 una lacuna, dovuta al fatto che, pur esistendo l’obbligo di autorizzazione e pur essendovi descritta la sua complessa finalità pubblicistica, sarebbe mancata la previsione di uno strumento pianificatorio apposito. Qualora non fosse stato possibile evincere il fondamento in via implicita dell’art. 6, sarebbe stato pur possibile stipulare un accordo di programma da parte degli enti interessati ovvero dar vita ad un livello intercomunale26.

Il secondo aspetto critico riguarda il ruolo ed i compiti lasciati agli enti territoriali, soprattutto alle Regioni.

È ingenuo pensare che l’effettiva attuazione di un mercato libero presupponga che non vi sia intervento pubblico e che tale intervento sia puntualmente giustificato da un “fallimento di mercato”. Ed è parimenti troppo scontato osservare che nessuna autentica

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liberalizzazione può trovare spazio senza un vero passo indietro della “sfera pubblica”. Ebbene, se così si tratta, è necessario che non soltanto lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni amministrative, ma anche le Regioni e gli enti locali si comportino nel medesimo modo.

Il rischio di una neo-pianificazione di stampo regionale era quindi nella natura delle cose: molti i poteri pubblici regionali e, come detto, molti gli interessi rimessi, anziché alle forze di mercato, alle misure correttive della regolazione pubblica. Una regolazione che non era neppure di tipo neutrale; come quella che si è affermata in altri mercati liberalizzati negli ultimi decenni; non era infatti affidata ad autorità indipendente, la quale sarebbe stata tenuta a muoversi senza assumere finalità politiche dirette, bensì ad un ente pubblico (la Regione) dotato di una naturale capacità di rappresentanza politico-istituzionale; né era circoscritta al miglior funzionamento possibile di un mercato libero, quasi si fosse trattato di “livellare il campo di gioco”; bensì era mirata alla realizzazione di determinati ed autonomi interessi pubblici. Insomma, anche dal punto di vista soggettivo, il d.lgs. 114/1998 era influenzato da valutazioni di politica economica e pertanto fondata, diversamente dalla regolazione condizionale tradizionalmente rimessa alle autorità indipendenti, sulla logica

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conformativa che ispira la clausola di utilità sociale ad i fini sociali previsti dall’art. 41, comma 2 e 3, Cost27.

4 Il riparto di competenze Stato-Regioni ex art. 117 Cost.

La legge Cost. del 2001 ha modificato l’art. 117 Cost, intaccando profondamente la distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. La precedente versione dell’art. 117 assegnava una generale potestà legislativa allo Stato, prevedendo che le Regioni emanassero norme legislative solo nelle materie tassativamente elencate, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e che le norme stesse non si ponessero in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni. Il commercio rientrava all’interno delle competenza statale, salvo per le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome.

Il vigente testo dell’art. 117 Cost., modificato dall’art. 3 della legge cost. n. 3/2001, individua, al comma 2, le materie di competenza esclusiva dello Stato; individua, poi, al comma 3, le materie nelle quali le Regioni hanno competenza concorrente. Aggiunge il comma 4

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che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione statale”.

La materia del commercio non viene menzionata nelle materie di competenza esclusiva statale né viene inserita nel novero delle materie nelle quali le Regioni godono di potestà legislativa concorrente con quella dello Stato. Dall’attuale contenuto dell’art. 117 Cost. ne consegue la competenza esclusiva delle Regioni in materia di commercio. La verifica di tale potestà deve essere effettuata non solo mediante la ricognizione (in positivo) delle materie riservate alla potestà delle Regioni (art. 117, comma 3), ma anche mediante la ricognizione (in negativo) delle materie riservate alla potestà legislativa dello Stato; infine alla ricognizione dei limiti che la

legislazione regionale incontra all’interno ed all’esterno

dell’ordinamento statale. Tutto ciò è stato compiuto per attuare una forma di federalismo all’interno del paese; per realizzare tale nuovo assetto il legislatore ha rovesciato il criterio di ripartizione della potestà legislativa fra Stato e Regione, antecedente alla riforma del Titolo V, indicando tassativamente le materie riservate alla competenza esclusiva statale e le materie di competenza legislativa concorrente spettante alle Regioni.

La potestà residuale delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla potestà legislativa statale, ha una portata

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attributiva molto più ampia rispetto a quest’ultima e risulta in grado di ampliare notevolmente la sfera della potestà legislativa regionale. Dall’ art. 117 Cost. si evince la differenza fra la potestà legislativa concorrente regionale di cui al comma 3 e la potestà legislativa delle stesse Regioni di cui al comma 4 dell’articolo; infatti mentre nell’esercizio della prima le Regioni incontrano il limite della determinazione dei principi fondamentali della materia riservata alla legislazione statale, per questo non a caso le competenze sono indicate in maniera tassativa, nella seconda non sussiste alcun limite. Le norme adottate dallo Stato, fra cui il d. lgs. 114/1998, sono di carattere suppletivo e cedevole: il legislatore regionale, se vuole, può modificare o addirittura sostituire l’intero assetto della materia.

Lo Stato, in relazione all’art. 117, comma 2 let. e), ha competenza esclusiva in materia di tutela della concorrenza. In presenza di una competenza regionale in materia di commercio, spetta allo Stato il compito di verificare che ai principi costituzionali sia assicurata vitalità e operatività attraverso norme di settore emanate dall’ente titolare della specifica competenza.

L’attività commerciale si fonda sul principio di iniziativa economica sancito ai sensi dell’art. 41 Cost. e deve essere esercitata nel rispetto dei principi contenuti nella legge n. 287 del 1990, in

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La Corte Suprema si è occupata di chiarire i confini del potere dello Stato e i limiti del potere delle Regioni. A partire dal 2002 la Corte evidenzia che la tutela della concorrenza, attribuita esclusivamente alla potestà statale, tocca trasversalmente tutti i settori del commercio, sottraendone molti aspetti alla potestà delle Regioni. Con la sentenza n. 1/2004, infatti, la materia del commercio è attribuita alla competenza legislativa residuale regionale, salvo per i profili inerenti la tutela della concorrenza. Nella sentenza n. 176/2004 la Corte traccia le linee interpretative della nozione di concorrenza, che “non può non riflettere quella operante in ambito comunitario, che ricomprende interventi regolativi, la disciplina dell’antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza”, fornendo un’interpretazione di tipo statico e dinamico tale da giustificare le misure pubbliche volte a ridurre gli squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato e degli assetti concorrenziali. Le Regioni possono effettuare degli interventi sintonizzati sulla realtà regionale, purché non creino ostacolo alla libera circolazione di persone o cose e non limitino l’esercizio del diritto al lavoro sul territorio nazionale. La competenza legislativa funzionale dello Stato non può essere negata. Tale posizione è ribadita con la sentenza n. 272/2004, che richiamando la sent. n. 14/2014, sull’interpretazione di tipo statico e dinamico sugli interventi di tipo

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statali; la materia della concorrenza ha una portata così ampia da legittimare interventi dello Stato.

Da tali sentenze appare chiaro di come la Corte abbia inteso interpretare l’intendimento del legislatore costituzionale con la legge cost. n. 3/2001: unificare in capo allo Stato gli strumenti di politica economica riguardo lo sviluppo del Paese. La materia della tutela della concorrenza in quanto trasversale rispetto a tutti i settori della vita economica, non può avere una linea di confine definita e può andare ad intaccare ambiti di materia riservata alle Regioni. Comunque l’intervento dello stato svolto a garantire l’equilibrio economico e di sviluppo generale secondo la Corte deve fondarsi sul criterio della proporzionalità ed adeguatezza ovvero quando determinati interventi siano attinenti alla sfera macroeconomica; tale indirizzo è espresso con la sentenza n. 33/2003. Infine in relazione al principio di sussidiarietà e di adeguatezza ex art. 118 Cost., comma 1, lo Stato può essere indotto ad organizzare e regolare le funzioni al fine di rendere l’esercizio permanentemente raffrontabile ad un parametro legale, sempre che il riparto di competenze, contenute nel Titolo V, si fondi su una valutazione di interesse pubblico sottostante, proporzionata e ragionevole28.

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5 Il secondo decreto “Bersani” del 2006

Il d.lgs. 114 del 1998 che rappresenta la prima fase del processo di liberalizzazione del commercio, ha avuto un prosieguo con il decreto legge n. 223 del 2006 (convertito con la legge n. 248 del 2006)29. Naturalmente la disciplina risentiva della riforma del Titolo V

della Costituzione, che aveva portato all’emanazione del nuovo art. 117, comma 4, in relazione al quale la materia del commercio, non essendo ricompresa fra quelle riservate alla legislazione esclusiva o concorrente dello Stato, è attribuita alla competenza legislativa regionale.

L’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 ha quale contenuto – come risulta dalla rubrica – la determinazione delle “regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale”; inoltre intende apportare ulteriori semplificazioni al procedimento relativo all’attività commerciale per garantire il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale.

Le prescrizioni sono indicate nell’art. 3 alle lett. a), b), c), d), e),

f) ed f bis).

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La prima prescrizione ha come contenuto l’imposizione, per poter esercitare l’attività commerciale, della iscrizione a registri abilitati, ovvero del possesso di particolari requisiti professionali. Poiché ai sensi del d. lgs n. 114 del 1998, art. 5, i requisiti professionali sono necessari solo in capo a chi intende esercitare attività merceologica alimentare30, la norma di fatto impedisce anche

alle Regioni di richiedere determinati requisiti professionali come condizione per poter vendere prodotti non alimentari.

La seconda prescrizione ha come contenuto l’imposizione di distanze minime obbligatorie fra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio. Dal momento che il citato d. lgs. n. 114 del 1998 ha abolito le tabelle merceologiche sostituendo alle stesse due soli settori merceologici e cioè quello alimentare e quello non alimentare (art. 5, comma 1), ciascun commerciante ha la facoltà di vendere tutti i prodotti appartenenti al settore in cui opera, di modo che il problema di una distanza minima si configurerebbe per tutti gli esercizi appartenenti allo stesso settore e, pertanto, quanto meno su un piano di fatto, una prescrizione del genere non risulta concepibile. In tal quadro la norma sembra riferirsi unicamente alla somministrazione di alimenti e di bevande: anche essa, come la precedente, ha lo scopo di stabilire i principi normativi cui la legislazione regionale si deve

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attenere in modo da impedire che la stessa possa determinare per i pubblici esercizi distanze minime obbligatorie.

La prescrizione di cui alla let. c) riguarda limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali trovando un precedente sul bollettino n. 9/1999 dell’autorità garante della concorrenza e mercato31; il legislatore ha cioè inteso mantener

ferma un’importante novità introdotta dal d. lgs. 114 del 1998 che ha eliminato le tabelle merceologiche, sostituendo alle stesse, come già ricordato, la distinzione fra due soli settori e cioè quello alimentare e quello non alimentare.

La successiva prescrizione, contenuta nella lettera d), riguarda il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale. Questa disposizione fa seguito ad una segnalazione dell’Antitrust del 9 luglio del 2004, in merito alla regolazione adottata dalla Regione Sicilia che aveva incluso, fra i criteri di valutazione previsti per l’istanza di autorizzazione, la considerazione attinente alla quota di mercato, superata la quale l’autorizzazione deve essere negata32.

31 L'Autorità garante, a proposito del progetto di legge della regione Lombardia, esprimeva la grave preoccupazione che si trattasse di una reintroduzione, a livello regionale, delle tabelle merceologiche, rilevando che tale introduzione era suscettibile di limitare la possibilità di adeguare flessibilmente, nel corso del tempo, la gamma dei prodotti venduti.

32 Nella predetta segnalazione l'autorità garante rilevava che la disposizione stessa, così come concepita dalla Regione Sicilia, non trovava riscontro nella normativa e nella giurisprudenza nazionale e comunitaria «riguardante la tutela della concorrenza, tutela che, peraltro rientra fra le materie fra cui lo Stato ha legislazione esclusiva nei confronti delle regioni. Essa risultava, inoltre, suscettibile di determinare ingiustificate distorsioni della concorrenza, impedendo la crescita delle

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Le prescrizioni contenute nelle lettere e) e f) concernono le vendite promozionali e stabiliscono per le stesse divieti ovvero la necessità di preventiva autorizzazione o, comunque, limitazioni d’ordine temporale o quantitativo. È da sottolineare che il d.lgs. n. 114 del 1998 regola tali forme di vendita esentandole da qualsiasi disciplina limitativa: si intende, pertanto, vincolare la legislazione regionale perché non venga adottata in materia una normativa più rigorosa di quella contenuta nella legge Bersani del 2006.

Infine, la prescrizione di cui alla let. f bis) ha come contenuto la previsione di divieti, ovvero della necessità di autorizzazione, per il consumo immediato di prodotti di gastronomia presso gli esercizi di vicinato con l’utilizzazione dei locali e degli arredi dell’azienda commerciale stessa.

Già, l’art. 7 del d. lgs. n. 114 del 1998 contiene una norma analoga; l’innovazione consiste solo nella circostanza che l’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 consente la possibilità – esclusa dall’art. 7 – di utilizzare gli arredi del negozio. Con tale norma il legislatore non ha stabilito, in via positiva, principi e criteri cui le Regioni si devono attenere, allo scopo di garantire la libertà di concorrenza e le condizioni necessarie per fornire ai consumatori locali un livello minimo ed uniforme di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi

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su tutto il territorio nazionale: ha previsto alcuni limiti e prescrizioni cui l’attività commerciale non può essere sottoposta. Quindi è da evidenziare che fra le norme introdotte ve ne sono alcune aventi carattere e portata generale come quelle in cui alle lett. a) e c) riguardanti rispettivamente l’impossibilità per le Regioni di prescrivere requisiti professionali soggettivi per l’esercizio dell’attività commerciale (escluso per quanto riguarda il settore alimentare), nonché l’impossibilità di limitare la vendita solo ad alcuni prodotti relativi al settore in cui il commerciante opera; altre hanno viceversa carattere assolutamente particolare e specifico quali le disposizioni riguardanti il divieto di stabilire distanze minime fra esercizi che vendono prodotti analoghi, le vendite promozionali ed infine quelle concernenti il consumo di prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato utilizzando i locali e gli arredi dell’esercizio stesso33.

Lo scopo dell’introduzione della legge n. 248 doveva essere quello di fornire ulteriori regole comuni per una maggiore libertà di commercio, ma anche quello di impedire l’affermarsi di legislazioni regionali in pregiudizio del corretto funzionamento del mercato, che sarebbero potute essere approvate a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione. Difatti, la legge n. 248 ha imposto alle Regioni di

33 A. RAGAZZINI, Considerazioni sull’art. 3, d.l. n. 223 del 2006: ciò che dispone ed anche ciò

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adeguare la loro normativa alle norme quadro suddette entro il primo gennaio 200734.

6 Le novità introdotte dalla Direttiva europea sui servizi e il relativo recepimento nel D. Lgs. n. 59/2010

Dopo gli interventi del legislatore nazionale, che hanno inciso sugli ambiti di azione della competenza statale sulla materia del commercio e dei servizi in nome della tutela della concorrenza, una forte spinta di liberalizzazione del mercato e della semplificazione e armonizzazione normativa sia all’interno del territorio nazionale, sia tra gli Stati membri, è rappresentata dal d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 che ha attuato la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno. Tale direttiva, infatti fornisce un contributo decisivo al

procedimento di liberalizzazione del mercato dei servizi,

coerentemente con le previsioni contenute nel Trattato di Lisbona. L’obiettivo prioritario da raggiungere è l’armonizzazione dei regimi normativi di accesso e di esercizio delle attività e l’eliminazione degli ostacoli alla prestazione del mercato interno, che impedisce ai prestatori di espandere oltre i confini nazionali e di

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sfruttare appieno il mercato unico. Per il raggiungimento dell’obiettivo la direttiva prevede la semplificazione a normativa e amministrativa della regolamentazione e, in particolare, delle procedure e delle formalità relative all’accesso e allo svolgimento dell’attività, la creazione di una rete di assistenza reciproca per garantire il controllo dei prestatori dei loro servizi e quindi l’istituzione di un sistema di comunicazione elettronica per lo scambio di informazione tra gli Stati. Questo ha richiesto che le amministrazioni, anche quelle territoriali, verificassero i requisiti e le procedure al fine di eliminare tutto ciò che non è risultato conforme ai principi e a i criteri della direttiva al fine di raggiungere il

conseguimento degli obiettivi previsti: semplificazione,

accorpamento, accelerazione, omogeneità, chiarezza e trasparenza delle procedure, nonché salvaguardia dell’unitarietà dei processi decisionali, della trasparenza dell’efficacia e dell’economicità dell’azione amministrativa e chiara individuazione dei soggetti responsabili. Ogni amministrazione è stata pertanto chiamata ad effettuare la valutazione di conformità delle autorizzazioni e dei requisiti alle norme ed alla giurisprudenza comunitaria e ad operare le proprie scelte in relazione alle diverse attività di sevizio.

In questo senso, la Direzione generale per il mercato, la concorrenza, i consumatori, la vigilanza e la normativa tecnica ha

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realizzato il lavoro di screening delle discipline vigenti, che ha portato alla formulazione dell’art. 41 della legge n. 88 del 2009, che richiama la necessità di requisiti omogenei per l’accesso sul territorio attenendosi all’art. 41, comma 2, lett. d), e) ed i). L’attività di

screening, si è focalizzata, sia sulla individuazione delle disposizioni

in materia di autorizzazioni, denunce o comunicazioni previste per l’avvio di un’attività, e sui requisiti e presupposti richiesti per il rilascio delle autorizzazioni.

Successivamente vi è seguita la seconda fase del lavoro, quella decisionale, che ha previsto l’individuazione delle tipologie di autorizzazione ritenute vietate o non conformi, che in base all’art. 5 potevano essere sostituite dalla DIA e quindi da procedure di semplificazione ai sensi degli artt. 14 e 15.

Con il decreto n. 59, quindi sono state fatte scelte per favorire la semplificazione e la libera concorrenza sul mercato. Infatti, vi sono norme finalizzate a ridurre le pratiche amministrative mediante la limitazione dell’obbligo di autorizzazione preliminare alle attività di servizio e all’introduzione della DIA alle autorità competenti, nonché la previsione di requisiti per l’accesso all’attività solo se giustificata da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica o tutela dell’ambiente. Il decreto ha eliminato, su tutto il territorio

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nazionale, la differenziazione fra requisiti di onorabilità e requisiti di professionalità35.

Per quanto riguarda l’apertura degli esercizi di vicinato, la comunicazione mediante la DIA, prevista dal d.lgs. 114/199836, è stata sostituita con la SCIA (segnalazione certificata di inizio attività), che consente l’avvio dell’attività contestualmente all’invio della comunicazione al Comune competente per territorio37.

7 I più recenti interventi normativi di semplificazione

Come conseguenza della politica di semplificazione degli assetti procedimentali ed organizzativi, è stato emanato il d.p.r. 7 settembre 2010 n. 160. Tale decreto introduce il provvedimento dello Sportello unico delle attività produttive (SUAP), che semplifica e riordina la disciplina dello sportello unico, ne individua il canale unico tra imprenditore ed amministrazione per alleggerire le procedure burocratiche ed introduce strumenti telematici nell’esplicazione di tutte le fasi del procedimento amministrativo. Il SUAP viene individuato come l’unico soggetto pubblico di riferimento territoriale

35 M. A. SCINO, Commercio, tra regolazione giuridica e rilancio economico: quadro generale, in P. F. LOTITO LOTITO e O. ROSELLI (a cura di), Il commercio tra regolazione giuridica e

rilancio economico, Torino, G. Giappicchelli Editore, 2012, pp. 60-62.

36 Tale “comunicazione” consentiva l’avvio dell’attività solo dopo 30 giorni dalla presentazione. 37 C. FACCHINI, Lo sportello unico, perno dell’applicazione della “Direttiva servizi”, in

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per tutti i procedimenti, che abbiano ad oggetto l’esercizio di un’attività produttiva e di prestazione di servizi, comprese le azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché cessazione o riattivazione dell’attività elencate e quelle ricomprese all’interno del d.lgs. 59/2010. Le domande, le segnalazioni, le dichiarazioni, le attività e i relativi elaborati tecnici sono presentati, telematicamente, allo sportello del comune territorialmente competente. Con tale procedura, lo sportello SUAP assicura una risposta unica e tempestiva in luogo degli altri uffici comunali e di tutte le amministrazioni pubbliche coinvolte nel procedimento. Se le attività sono soggette a SCIA, la segnalazione è presentata al SUAP che verifica, con modalità informatica la sua completezza formale ed i suoi allegati. In caso di esito positivo, il sistema informatico rilascia la ricevuta ed il richiedente può iniziare l’attività. Qualora, il comune non sia grado di rappresentare l’unico punto di accesso per il richiedente in virtù delle vicende amministrative riguardanti l’attività d’impresa, di garantire l’efficienza telematica richiesta, le funzioni del SUAP sono svolte dalla Camera di Commercio competente per territorio. In relazione a ciò è previsto un sistema di autovalutazione dei Comuni sul possesso dei requisiti richiesti e con la relativa comunicazione al Ministero

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dello Sviluppo Economico, che ne provvede alla pubblicazione sul proprio sito38.

Il secondo provvedimento è rappresentato dal d.p.r. 9 luglio 2010, n. 159 che disciplina le Agenzie per le imprese, istituite per facilitare i rapporti tra imprese e amministrazione in relazione a problematiche connesse all’utilizzo esclusivo di strumenti telematici. Per la presentazione della documentazione richiesta. l’art. 38, comma3, let. c), infatti prevede la possibilità per gli imprenditori di affidare a soggetti privati, denominati Agenzie per le imprese, il compito di autorizzare la presenza di requisiti previsti dalla legge per l’instaurazione, la trasformazione, il trasferimento e la cessazione dell’attività d’impresa, con il rilascio di una attestazione avente titolo autorizzatorio, a seguito di un esito positivo al termine della relativa istruttoria. In caso di procedimenti discrezionali, questi soggetti svolgono solamente attività istruttoria in luogo e a supporto del SUAP. Naturalmente l’operato delle Agenzie è sottoposto ad un accreditamento presso il Ministero dello Sviluppo Economico. L’agenzia dovrà presentare un’apposita istanza, che contiene un’accurata descrizione delle attività economiche per le quali richiede l’accreditamento e l’ambito territoriale nel quale intende operare.

38 A. SAVATTERI, L’autorizzazione commerciale presuppone la coerente destinazione d’uso

dell’immobile, in Urbanistica e appalti, n. 2, 2016, pp. 327-328; M. A. SCINO, Commercio, tra regolazione giuridica e rilancio economico: quadro generale, in P. F. LOTITO LOTITO e O.

ROSELLI (a cura di), Il commercio tra regolazione giuridica e rilancio economico, Torino, G. Giappicchelli Editore, 2012, pp. 64-65.

(44)

Dall’istanza deve risultare il possesso di una struttura tecnico-amministrativa in relazione a criteri di competenza, indipendenza e terzietà; all’istanza deve essere allegata una copia dell’atto di stipula della polizza assicurativa di responsabilità civile professionale39.

Negli anni seguenti il Governo, utilizzando ampiamente i propri poteri di decretazione di urgenza, si è espresso più volte sul tema della liberalizzazione delle attività economiche.

In un primo momento, sulla scia della proposta di modifica dell'art. 41 della Costituzione in una chiave di (ulteriore) liberalizzazione40, è stato emanato il d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 14841, il cui titolo II è

dedicato alle “liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo”. In particolare, l'art. 3, recante “Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche”, al comma 1, ha espressamente imposto alle Regioni e agli enti locali di adeguare i rispettivi ordinamenti al principio per cui “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”, il cui campo di intervento viene circoscritto alla

39M. A. SCINO, Commercio, tra regolazione giuridica e rilancio economico: quadro generale, in P. F. LOTITO LOTITO e O. ROSELLI (a cura di), Il commercio tra regolazione giuridica e

rilancio economico, Torino, G. Giappicchelli Editore, 2012, p. 66.

40 In tema si v. M. BARTOLOMEI, Riflessioni ed esercizi di stile sulla “riscrittura” dell'art. 41

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