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Il riconoscimento del diritto all'affettività dei detenuti per un carcere più umano: una lacuna normativa da superare

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO

ALL'AFFETTIVITA' DEI DETENUTI PER UN CARCERE PIU' UMANO:

UNA LACUNA NORMATIVA DA SUPERARE

Candidato: Relatore: Derito Allegra Chiar.mo Prof. Bresciani Luca

(2)

«Tu piuttosto come stai?». - Lei scrollò leggermente la testa. «Non posso avere i tuoi baci». - Da una parte all’altra. «E non posso essere sfiorata dalle tue carezze». - Poi la fermò. «Sento però lo stesso la tua presenza insieme all’energia del tuo amore». - Mosse le labbra. «Tesoro». - E mi mandò un bacio. All’improvviso la guardia entrò ad annunciare che il tempo era scaduto. Io e lei ci alzammo in piedi. Le passai un braccio intorno alla vita. E per un attimo la strinsi sul petto. Lei si fece abbracciare come una bambina. Poi la lasciai di scatto. Alzai una mano. E le accarezzai il viso. Subito dopo mi voltai. E uscii dalla porta della sala colloquio senza voltarmi.

(3)

Indice

Introduzione

CAPITOLO PRIMO

Le relazioni familiari nella normativa penitenziaria 1.1 Il regolamento del 1930

1.2 La riforma del 1975 e l'umanizzaizone della pena

1.3 Dalla legge Gozzini al nuovo regolamento esecutivo (D.PR. n. 230 del 2000)

1.4 Le mancate occasioni di riforma

1.5 Una Costituzione violata

CAPITOLO SECONDO La posizione della giurisprudenza 2.1 Il parere del Consiglio di Stato n. 61 del 2000

2.2 La sentenza della Corte Costituzionale n. 301 del 2012

2.3 La sentenza della Corte di Cassazione n. 882 del 2015

CAPITOLO TERZO Le dimensioni dell' affettività 3.1 Il diritto alla sessualità

3.2 Le ''stanze dell'amore'', un'alternativa possibile?

3.3 L'altra faccia dell'affettvità

(4)

CAPITOLO QUARTO

I progetti in itinere e le prospettive future -4.1 La petizione #AmoreTraLeSbarre di Antigone e Carmelo Musumeci

-4.2 L'associazione ''Bambini senza sbarre'' e il progetto ''Bambini e carcere'' di Telefono Azzurro

-4.3 Il disegno di legge n.1587/2015 per un carcere più umano

-4.4 Gli Stati Generali dell'Esecuzione Penale

CAPITOLO QUINTO

Il modello del carcere di Pianosa -5.1 La storia dell'isola-carcere

-5.2 L'affettività nella ''Casa delle mosche''

CAPITOLO SESTO

Le soluzioni di altri Stati europei -6.1 L'eccellenza danese in materia di affetti

-6.2 La soluzione spagnola

-6.3 L'esperienza Svizzera

Bibliografia Sitografia Ringraziamenti

(5)

INTRODUZIONE

Il perimetro entro il quale collocare il diritto del detenuto alla

relazione affettiva con l’altro, in primo luogo con i propri familiari, è

molto ampio.

In ragione di ciò, chiama in causa diverse sue possibili declinazioni

normative: gli spazi di socialità entro gli istituti carcerari, il regime dei

colloqui e delle telefonate, quello dei benefici extramurari (a

cominciare dai permessi premio).

Il problema di fondo, sul quale è opportuno soffermarsi, è la richiesta

dei detenuti ad avere, in condizioni di intimità, incontri con le persone

con le quali intrattengono un rapporto di affetto.

Senza dubbio si tratta di un terreno problematico che merita di essere

analizzato a fondo, per portare in superficie quello che è un vero e

proprio diritto sommerso, perché tale è certamente per l’ordinamento,

che lo nega a larga parte della popolazione carceraria.

E' chiara quindi l'esigenza di bilanciare da una parte la tutela delle

relazioni e, dall'altra, quella di limitare gli effetti negativi della

reclusione sui legami affettivi preesistenti.

A tal fine la legge, dopo un susseguirsi di modifiche e riforme, ha

previsto specifiche misure di favore e particolari forme di espiazione,

cosiddetta ''morbida'', della pena detentiva.1

(6)

Nonostante ciò, ancora oggi si auspica da parte del legislatore una

maggiore attenzione al tema in esame, affinchè la detenzione non

comporti una sterilizzazione delle relazioni familiari dei detenuti, per

almeno due ordini di motivi, sia ai fini di un positivo reinserimento

sociale, sia perchè sono in gioco i diritti di persone innocenti come i

familiari, ed in particolare i figli minori dei reclusi.

Tutto ciò deve essere necessariamente combinato per contrastare una

forte piaga del sistema carcerario italiano, la recidiva.

Oltreconfine, il problema non è stato ignorato; in paesi quali

Norvegia, Danimarca, Spagna e Svizzera infatti, è prevista la

possibilità di usufruire di spazi all’interno dei quali, senza il controllo

visivo del personale penitenziario, i detenuti possono trascorrere

alcune ore in compagnia di persone con cui condividono legami di

natura affettiva.

Per quanto riguarda l'Italia invece, l’incipit del nostro ordinamento

penitenziario farebbe ben sperare. L'articolo 1 infatti esprime il

convincimento che la sfera affettiva rappresenti un aspetto

indispensabile del trattamento, da proteggere e garantire anche durante

la detenzione :“Nei confronti dei condannati e degli internati deve

essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i

contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi

(7)

[…]”.

Pur tuttavia, tali affermazioni di principio non trovano poi

implementazione adeguata con riferimento alla dimensione più intima

delle relazioni affettive. L’impossibilità di sottrarsi al controllo visivo

esclude che il diritto sommerso alla sessualità del detenuto possa

emergere autenticamente in occasione dei colloqui in carcere: l’art. 18,

comma 2, ord. penit., infatti, impone l’obbligatorio controllo a vista

del personale di custodia, giustificato da elementari ragioni di

sicurezza.

Il problema della sessualità durante la detenzione finisce così per

trovare il suo sfogo giuridico esclusivamente attraverso lo strumento

dei permessi premio ex art. 30-ter, ord. penit.. Di essi, tuttavia, non

possono usufruire i detenuti in attesa di giudizio (che rappresentano

circa il 40% di quanti affollano le carceri) perché concedibili solo ai

cc.dd. Definitivi, e nemmeno a tutti, visto che la legge Cirielli n. 251

del 2005 prevede per i recidivi delle condizioni di ammissione ai

permessi premio particolarmente severe.

Rimane, alla fine, una ridotta platea di detenuti, astrattamente

ammissibile, che peraltro non usufruisce di permessi premio in

automatico, ma solo previa concessione discrezionale da parte dei

magistrati di sorveglianza.

(8)

italiana, pertanto, non stupisce che la c.d. Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati (D.M. 5 dicembre 2012) non annoveri, tra le posizioni soggettive giuridicamente riconosciute ai soggetti ristretti, il diritto alla sessualità intramuraria.

(9)

CAPITOLO PRIMO

LE RELAZIONI FAMILIARI NELLA NORMATIVA PENITENZIARIA

SOMMARIO:1.1 Il regolamento del 1930; 1.2 La riforma del 1975 e l'umanizzaizone della pena; 1.3 Il nuovo regolamento esecutivo n.230 del 2000; 1.4 Le mancate occasioni di riforma; 1.5 Una Coatituzione violata

1.1 Il Regolamento del 1930

In seguito alla formazione del primo governo Mussolini del 31 ottobre

1922, il Ministro Alfredo Rocco presentò un disegno di legge che

conferiva al Governo la facoltà di emendare il codice penale e il

codice di procedura penale, allo scopo di adeguare le norme alle

nuove esigenze di vita economica e sociale.

Attraverso l'utilizzo di questa tecnica legislativa, il Parlamento non

poté esercitare la sua ordinaria funzione garantistica, rimanendo cosi

escluso dalla redazione dei nuovi codici e del regolamento di

esecuzione, che vennero infatti adottati attraverso la prassi dei

(10)

del Capo del Governo, quindi, vennero adottate una serie di misure

amministrative straordinarie che eliminarono tutte le istituzioni

giuridiche a difesa della libertà personale e delle libertà politiche.

In questo contesto nacque il Regolamento per gli istituti di

prevenzione e pena n. 787 del 1931, modellato sulla concezione che le

privazioni e le sofferenze fisiche imposte dalla detenzione fossero

l'unico strumento efficace per favorire l'educazione ed il

riconoscimento dell'errore da parte del reo, e per determinare,

attraverso il ravvedimento, un miglioramento personale2.

Già subito dopo l'entrata in vigore di tale testo, la dottrina italiana,

grazie anche a Giovanni Novelli, concepì per la prima volta il diritto

penitenziario come un autonomo campo di studi e di conseguenza ne

crebbe l'importanza e la considerazione; in particolare il focus ricadde

sui diritti soggettivi dei detenuti, sui limiti che tale regime comportava

e sugli obblighi specifici dei carcerati che solo regole generali e

provvedimenti delle autorità competenti potevano adottare3.

Tale regolamento affermava che solo l'istruzione e la religione

potessero risolvere i problemi di adattamento sociale dell'individuo; il

carcere era assolutamente impermeabile alla realtà esterna e di

conseguenza non era previto alcuno spazio per mantenere eventuali

2 Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure

alternative alla detenzione, Milano Giuffrè, 1997, pagg. 380-381

3 Tartaglione G., Sulla riforma dell'ordinamento penitenziario, in Rassegna

(11)

relazioni affettive con la popria famiglia.4

A riguardo, l'articolo 96 del Regolamento in esame fissava la durata

del colloquio in massimo mezz'ora e, solo in casi eccezionali,

l'Autorità dirigente poteva prorogarlo ad un'ora piena; sulla frequenza

di tali incontri invece, l'art 101 prevedeva nello specifico che i

condannati alla pena perpetua potessero incontrare i propri cari una

volta al mese, mentre gli altri una volta ogni quindici giorni.

Va inoltre sottolineato che solo ai prossimi congiunti era concessa la

possibilità di incontrare i detenuti e che tale consuetudine portava ad

una contrazione dei contatti esterni specie per i minori che, quindi,

non potendo usufruire dei colloqui subivano, in qualità di soggetti

passivi, una ulteriore limitazione dell'esercizio della genitorialità.

4 Brunetti Carlo, Pedagogia penitenziaria, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, pag.277

(12)

1.2 La riforma del 1975 e l'umanizzazione della pena

A causa della rigida impostazione del mondo carcerario derivante

dall'impronta repressiva e punitiva data dall'idea di detenzione nel

periodo fascista, tra il 1968 e il 1975, ci furono diverse rivolte

all'interno degli istituti, con i detenuti che chiedevano a gran voce una

riforma penitenziaria che si discostasse da tale sistema, imperniato su

principi di privazione e di sofferenza fisica quali strumenti provilegiati

per favorire il pentimento e la rieducazione del reo.

La risposta dello Stato fu inizialmente impostata sulla repressione,

attraverso l'utilizzo dei trasferimenti, internamenti nei manicomi

criminali e, nei casi più gravi, con il ricorso all'esercito.

Successivamente, la svolta venne segnata dalla riforma penitenziaria

del 1975 che andò a rivoluzionare il modo di considerare il detenuto

all'interno del mondo carcerario. Per la prima volta nella tradizione

giuridica del nostro Paese il detenuto venne considerato come

"persona", dotata di bisogni ed esigenze specifiche.5

L'affermazione di una nuova filosofia della pena, non più afflittiva, ma

tesa al recupero del reo si cominciò ad affermare nel nostro

ordinamento giuridico a partire dal dibattito sorto durante i lavori

dell'Assemblea Costituente relativi al terzo comma dell'art. 27 della

Costituzione.

5 V. Grevi sub. Art.1 in G. Giostra, F. Della Casa, L'ordinamento penitenziario:

(13)

La pena perse la sua caratterizzazione repressiva e social-preventiva,

tipica dei sistemi penali incentrati sulla "neutralizzazione" e

sull'"annullamento" del soggetto recluso, come risultava essere il

Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931, e acquista

invece una vera valenza rieducativa.

Con l'approvazione dell'art. 27 della Costituzione, si affermò il

principio secondo il quale le sanzioni dello Stato dovessero essere

rieducative, e quindi tutto il complesso regime di soggezione speciale

del condannato trovò ragione e fondamento giuridico unicamente nella

necessità di rieducarlo.

Ciò implicò che si sarebbe dovuto parlare di "potere-dovere" di punire

dello Stato, nel senso che "il potere dello Stato di comprimere beni

giuridici, costituzionalmente sanciti, del cittadino (in prima l'esercizio

del diritto di libertà personale) trova la sua giustificazione ed il suo

limite, nel dovere dello stesso Stato di provvedere alla rieducazione

del reo".6

Pertanto. sorsero in capo al detenuto una nuova serie di situazioni

soggettive attive e passive, che spinsero a ritenere che non si trattasse

di una "graziosa concessione dello Stato-amministrazione il

riconoscere questo o quel diritto del condannato, ma che la soggezione

speciale del condannato stesso non cancella i diritti inviolabili

6 Dell'Andro in D. Valia, I diritti del recluso, in Rassegna penitenziaria

(14)

dell'uomo (di cui all'art. 2 Cost.) anche se, per le necessità rieducative

e d'ordine interno dello stabilimento penitenziario, la libertà di

esercizio di alcuni dei medesimi viene necessariamente limitata".7 Posti questi presupposti, era quanto mai necessaria una revisione del

regolamento carcerario del 1931; a questo proposito, nel 1949, venne

istituita una Commissione parlamentare d'inchiesta, composta da

cinque deputati e cinque senatori, con il compito di indagare, vigilare

e riferire al Parlamento sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti

carcerari e sui metodi adoperati dal personale carcerario per mantenere

la disciplina tra i reclusi.

La Commissione depositò la relazione conclusiva nel dicembre del

1950, e pur mantenendo lo schema generale del regolamento del 1931,

e correggendone solo gli aspetti più afflittivi, introdusse alcuni

importanti elementi di novità, quali la riduzione di pena per i detenuti

meritevoli e brevi licenze per gravi motivi familiari ed a fini

rieducativi.

Nonostante la Carta Costituzionale affermasse il principio della

finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3º: "Le pene non devono

consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere

alla rieducazione del condannato"), il cammino per arrivare alla legge

penitenziaria del 1975 fu lungo e tortuoso.

(15)

Alla fine degli anni '60 infatti, a seguito di una nuova ondata di

proteste e mobilitazioni della popolazione carceraria caratterizzata da

una forte componente politica proveniente dalla contestazione

studentesca, la riforma penitenziaria ricevette un nuovo impulso, e

così, nel 1971, prese avvio il nuovo disegno di legge che portò nel

all'adozione della legge n. 354 rubricata "Norme sull'ordinamento

penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative della libertà".

Questa legge inaugurò un nuovo periodo in materia di trattamento

penitenziario, perché introducendo il concetto di "individualizzazione"

del trattamento, si abbandò l'antica logica della depersonalizzazione, e

si puntò invece alla valorizzazione degli elementi della personalità del

detenuto ai fini del suo riadattamento sociale.

Tale riadattamento fu perseguito attraverso il trattamento penitenziario

e la rieducazione.

L'art. 1 dell'Ordinamento penitenziario operava una distinzione tra

questi due concetti, definendone i contenuti concreti; il trattamento

penitenziario doveva uniformarsi a criteri di assoluta imparzialità,

oltre ad essere conforme a umanità e assicurare il rispetto della dignità

umana, in conformità con i principi enunciati dalle "regole minime per

il trattamento dei detenuti", approvate nel gennaio 1973 dal Comitato

dei ministri del Consiglio d'Europa, e successivamente revisionate nel

(16)

Il trattamento rieducativo doveva invece "essere attuato secondo un

criterio di individualizzazione, in rapporto alle specifiche condizioni

dei soggetti", secondo una strategia differenziata e flessibile, meglio

rispondente alle esigenze del singolo detenuto o internato.8

La novità principale fu costituita dalla considerazione dei "contatti con

il mondo esterno" come vere e proprie modalità di trattamento, quasi a

confermare che, se l'ordine e la disciplina degli istituti penitenziari

potevano essere assicurati e mantenuti attraverso un'applicazione

rigida delle norme sul trattamento penitenziario (pur rispettando la

"dignità della persona"), il recupero sociale necessitava invece di una

partecipazione attiva dei soggetti, che doveva essere facilitata e

promossa attraverso l'utilizzo di una serie di stimoli culturali, umani e

affettivi, ex art.1 comma 6º O.P.9

Da qui emersero due principi fondamentali cui il trattamento doveva

uniformarsi, che entrarono a far parte delle usuali modalità di

trattamento, e realizzarono un momento significativo di testimonianza

della nuova concezione di trattamento assunta dal legislatore del 1975;

l'uno quello attinente ai contatti con l'ambiente esterno (tra questi la

famiglia), l'altro quello dell'individualizzazione, meglio specificata

all'art. 13 dell'O.P. sul "trattamento e la rieducazione", che dovevano

determinarsi in modo individualizzato, nella rispondenza "ai

8 Grevi V. In Grevi V. Giostra G. Della Casa F., op. cit. pagg 4-5 9 Brunetti C. op. cit. pag. 196

(17)

particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" (art. 13).10 Il trattamento, pertanto, assunse una connotazione sempre più

individualizzata e diretta ad un intervento mirato alla considerazione

della situazione e dei bisogni personali del soggetto.

Una delle novità più significative introdotte dalla legge di riforma

dell'ordinamento penitenziario fu la considerazione dei rapporti con la

famiglia come elemento funzionale e centrale del trattamento,

menzionati dall'art. 15 O.P., insieme ai "contatti con il mondo esterno"

in relazione anche con quanto espresso nell'art. 1 ultimo comma

dell'O.P..

L'innovazione ebbe una portata sia sul piano concettuale che su quello

operativo: sul piano concettuale espresse il convincimento che le

relazioni affettive del detenuto con la famiglia rappresentassero un

aspetto importante della vita del detenuto e un bene di alto valore

umano che meritasse di essere protetto dai danni derivanti dalla

carcerazione, tanto che si richiese un preciso impegno, da parte

dell'Amministrazione penitenziaria ad intervenire adeguatamente al

riguardo; sul piano operativo invece essa affermava il principio che il

recupero del condannato non potesse prescindere dalla permanenza o

dal ristabilimento di condizioni interiori di vita affettiva capaci di

sostenerlo nella difficile situazione in cui si trova, dando concrete e

(18)

vive immagini alla sua speranza di liberazione e di ritorno.11

Tale principio, ad oggi, trova esplicita menzione nell'Ordinamento

Penitenziario, ove all'art. 28 si riconosce che "nella sua dimensione

più ampia riconducibile alla sfera affettiva del detenuto.... la famiglia

costituisce per l'ordinamento un sicuro punto di riferimento al quale

dedicare particolare cura".12

Proseguendo l'analisi, si evince che il legislatore del 1975 rinunciò a

dettare una disposizione di portata generale in tema di "rapporti con la

famiglia e con il mondo esterno", a favore di una serie di articoli

destinati a dare precisione e concretezza al principio: la sostanza

rimane quella già codificata in un'unica disposizione nel corso dei

lavori preparatori della riforma penitenziaria, ma migliore risulta la

garanzia di quei rapporti in quanto regolati a livello di legge più che di

regolamento di esecuzione.13

La scelta del legislatore ordinario, per il quale la famiglia rappresenta

un punto di riferimento cui "dedicare particolare cura" ex art. 18 O.P.,

è apprezzabile, ma nonsufficiente a dare concretezza al favor familiae

cui sono ispirati gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione e in

particolare, alle previsioni di cui agli articoli 30 comma 2º e 31

comma 1º, che stabiliscono che la Repubblica agevoli "con misure

11 G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit. pp. 170-171 12 Spangher G. In Grevi G Giostra G. Della Casa F. op. cit. pag. 334

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economiche ed altre provvidenze" l'adempimento dei compiti relativi

alla famiglia, anche in caso di incapacità (o impossibilità) del genitore

di assolvere ai propri doveri verso il coniuge e la prole.14

In ambito penitenziario quindi, i contatti con la famiglia non

interessano tanto in una prospettiva di tutela dell'istituzione familiare e

del ruolo genitoriale, né in quella di cercare di limitare il più possibile

le ripercussioni della detenzione sulle persone estranee al reato, che

inevitabilmente ne risultano coinvolte in quanto facenti parte dello

stesso nucleo familiare; interessano, piuttosto, quali strumenti del

trattamento rieducativo, nella misura in cui sono capaci di sviluppare

le aspettative di vita futura dei soggetti detenuti.

A questo riguardo la normativa penitenziaria viola, o quanto meno

ignora la previsione costituzionale di tutela della famiglia,

rapportandosi al nucleo familiare, non come ad un soggetto meritevole

di tutela, ma piuttosto in senso strumentale, sfruttando la potenzialità

che il mantenimento dei rapporti affettivi esercita sul comportamento

del detenuto all'interno dell'istituto, e sulle concrete possibilità di

successo del suo percorso di reinserimento sociale.

In questo senso i rapporti con la famiglia costituiscono un elemento

centrale del trattamento rieducativo, in quanto essa è ritenuta

dall'ordinamento un'importante risorsa, sia nell'immediato, con

(20)

l'assistenza affettiva e materiale al soggetto recluso, sia nel proseguo

della detenzione, durante la quale rappresenta sicuramente il punto

focale di contatto con la società esterna, che soprattutto nella fase

precedente la liberazione, in cui potrà essere di fondamentale

importanza, per fornire un sicuro punto di riferimento da cui poter

ripartire per realizzare il reinserimento sociale.15

Una delle previsioni che contribuiscono al mantenimento dei rapporti

esistenti, è rappresentata dalla scelta del luogo di esecuzione della

pena o della misura di sicurezza che, deve essere stabilito in linea di

principio, "nell'ambito della regione di residenza" o qualora ciò non

sia possibile in "località prossima" (art. 30 Reg. Esec.).

Nel testo di legge si prevede infatti che i trasferimenti vengano

disposti anche per motivi familiari, o che comunque sia sempre

favorito il criterio di territorialità della pena, al fine di destinare i

soggetti in istituti prossimi alle residenze delle famiglie (art. 42 1º e 2º

comma O.P.), in modo da non rendere difficoltosi i contatti con la

famiglia e, in particolare le visite e i colloqui.

All'art. 14-quater 5º comma dell'Ordinamento Penitenziario, si

ribadisce il concetto che i trasferimenti debbano determinare il

"minimo pregiudizio possibile... per i familiari", anche quando si tratti

di soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare ex art.

(21)

bis O.P..

Il principale istituto previsto per il mantenimento dei contatti diretti tra

i detenuti ed i loro familiari è quello dei colloqui; l'art. 18

dell'Ordinamento Penitenziario dispone sul tema che "i detenuti e gli

internati sono ammessi ad avere colloqui...con i congiunti e con altre

persone", precisando che "particolare favore viene accordato ai

colloqui con i familiari".

La disciplina specifica delle modalità di accesso all'istituto e di

colloquio è stabilita dal regolamento di esecuzione, che esige la previa

richiesta del permesso di colloquio al direttore dell'istituto, e solo nel

caso di imputati per i quali non è stata ancora pronunciata sentenza di

primo grado, l'autorizzazione deve essere emessa dall'autorità

giudiziaria procedente (art. 37 1º e 2º comma del Nuovo Reg. Esec.).

Il presupposto per la concessione di detta autorizzazione è

rappresentato dal rapporto di parentela, e non dall'esistenza di non

meglio identificati "ragionevoli motivi", come accade per le persone

diverse dai congiunti e dai conviventi, cosicché si deve ritenere che

l'autorizzazione al colloquio sia, sotto questo profilo, un

provvedimento che non ammette margini di discrezionalità.

Limiti all'ammissione al colloquio derivano piuttosto dalla necessità di

un regolare andamento dell'istituto, che stabilisce i giorni e gli orari in

(22)

Il regolamento di esecuzione del 1976 conteneva poi, all'art. 35, il

principio generale secondo il quale i detenuti e gli internati potessero

usufruire di un colloquio alla settimana (comma 7º), a meno che non

ricorressero eccezionali circostanze per le quali le visite familiari (e i

colloqui) potessero essere concesse anche fuori dei limiti stabiliti:

ricorrendo tali circostanze, anche la durata del colloquio, che di regola

non poteva superare l'ora, poteva essere prolungata (commi 8º e 9º

Reg. Esec.).

Su questo punto è poi intervenuta la circolare D.A.P. n. 3136/5586 del

1985 che ha introdotto la possibilità di fare "quattro colloqui al mese",

intendendo in questo modo superare la cadenza settimanale e

permettendo che i colloqui possano essere effettuati, eventualmente,

anche in giorni consecutivi.

Motivo esplicito di concessione del permesso di colloquio e di un suo

prolungamento è, inoltre, la "grave infermità" del condannato, e in

assenza di controindicazioni normative, di un suo congiunto.16

Il favor familiae, cui questa disciplina è informata, emerge anche da

una precisa scelta non restrittiva fatta dal legislatore: anzitutto, sono

ammessi al colloquio tutti i congiunti, e non soltanto i prossimi

congiunti come invece prevedeva in maniera esplicita l'art. 101 del

regolamento del 1931.

(23)

Questo è un aspetto non marginale del diverso atteggiamento del

legislatore nei confronti dei rapporti con la famiglia: si ricordi, infatti,

che secondo gli articoli 96 e seguenti del regolamento 1931 la durata

del colloquio era di mezz'ora (e in casi eccezionali di un'ora); la

frequenza era quindicinale (settimanale per i condannati a pene assai

brevi e mensile per gli ergastolani); ed erano escluse dai colloqui,

anche se prossimi congiunti, le persone che non avevano una

"specchiata moralità".

Qualora infatti i familiari avessero riportato condanne, o fossero

semplicemente sottoposti a procedimenti penali, o fossero donne di

facili costumi, o delinquenti abituali, professionali o per tendenza, era

prevista la possibilità che in via eccezionale i familiari esclusi dal

colloquio designassero persone con una condotta morale ineccepibile,

perchè incontrassero il congiunto detenuto in loro vece.17

In secondo luogo, acquista rilievo anche la famiglia di fatto, atteso

che, introducendo un ampliamento rispetto alla legge cui dà

esecuzione, l'art. 37 Reg. Esec. riserva alle "persone conviventi" con il

detenuto un trattamento paritario in materia di colloqui rispetto ai suoi

congiunti. Si tratta di un'importante apertura verso situazioni non

considerate dal legislatore e di un adeguamento del dato giuridico alla

realtà, dato che tante sono invece le restrizioni che la cosiddetta

17 Bertolotto Enrica sub art.18 in Grevi G. Giostra G. Della Casa F., op.cit, pagg. 215-216

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"famiglia di fatto" subisce anche in altri settori.18

Nel 1986, fu emanata la legge Gozzini che, modificando la legge

penitenziaria del 1975, introdusse la forma di contatto più diretta che

i detenuti potessero avere con i loro familiari, permettendo l'uscita

dalle strutture carcerarie.

In questa prospettiva, si colloca prima di tutto l'istituto dei permessi

premio, disciplinato dall'art. 30ter Ord. Penit., volto proprio al

mantenimento degli interessi affettivi.

Prima della sua introduzione, con l'art. 9 della legge n. 663 del 1986,

l'ordinamento prevedeva solo l'art. 30 che regolamentava i "permessi

di necessità", concedibili soltanto nel caso in cui un congiunto del

detenuto versasse in condizione di grave infermità, ammettendo

l'uscita del detenuto o dell'internato in base al "permesso di recarsi a

visitare, con le cautele previste dal regolamento, l'infermo", qualora vi

fosse "imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente"

(comma 1º), od anche in presenza di "altri eventi familiari di

particolare gravità" (comma 2º).19

Prima dell'entrata in vigore della legge n. 663 del 1986, la

magistratura di sorveglianza utilizzò la possibilità di brevi permessi,

anche oltre il significato letterale della disposizione, proprio al fine di

portare conforto ai detenuti particolarmente meritevoli che si

18 Di Gennaro G. Breda R. La Greca G., op. cit., pag 126 19 Di Gennaro G. Breda R. La Greca G, op.cit. pagg. 181-182

(25)

trovassero di fronte a partivolari avvenimenti esterni riguardanti ls

propria persona e i propri familiari.

Con l'introduzione dei permessi premio, l'interpretazione estensiva di

questa norma quasi a carattere surrogatorio, non fu più necessaria,

costruendo la possibilità di soddisfare esigenze apprezzabili sul piano

dei rapporti sociali senza sforzarsi di ricomprendere nel concetto di

"eventi familiari di particolare gravità" situazioni che, a rigore, vi

potevano essere ricondotte solo a prezzo di un notevole sforzo

interpretativo.

Non si deve comunque ritenere che l'istituto dei permessi-premio

abbia totalmente soppiantato quello dei permessi per gravi motivi di

famiglia previsto dall'art. 30, in quanto la loro applicabilità risulta

essere profondamente diversa, essendo il primo una misura premiale,

e quindi subordinata alla buona condotta, alla partecipazione al

trattamento e al raggiungimento dei termini di pena previsti per la

concessione dei benefici, ed essendo invece il secondo uno strumento

destinato alla tutela di esigenze familiari, e quindi concesso

indipendentemente dai requisiti previsti per la fruizione dei benefici;

tale permesso può infatti essere concesso anche agli imputati.

La legge Gozzini introdusse inoltre la possibilità che i detenuti

potessero scontare parte della pena fuori dalle istituzioni carcerarie

(26)

detenzione", che più di ogni altra cosa potevano permettere un

rapporto continuativo con i familiari.20

Il particolare interesse che l'ordinamento attribuisce al valore delle

relazioni con la famiglia in rapporto a questi istituti è poi sottolineato

all'art. 57, dalla legittimazione che la legge riconosce ai prossimi

congiunti a richiedere nell'interesse (anche) del detenuto i benefici

quali detenzione domiciliare; semilibertà; licenze per il condannato

semilibero; licenze per gli internati; liberazione anticipata; remissione

del debito.21

Altri significativi mutamenti normativi in quest'ambito sono stati

introdotti con l'approvazione della legge n. 165 del 1998, la cd. legge

Simeone-Saraceni, che ha reso possibile l'applicazione di procedure in

grado di ridurre gli ingressi in carcere e prevedendo la possibilità della

detenzione domiciliare, alle persone condannate ad una pena detentiva

non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di

maggior pena, quando trattasi di donna incinta o madre di prole

inferiore ad anni dieci; tale eventualità può essere concessa anche al

padre, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente

impossibilitata a dare assistenza alla prole (art. 47-ter comma 1º

lettera a e b).22

20 Di Gennaro G. Breda R. La Greca G., op.cit. pagg. 183-184

21 Sottanis Roberta sub art. 57, in V. Grevi, G, Giostra, F. Della Casa, op. cit. pag 737

22 Cesaris Laura sub art. 47-ter in V. Grevi, G, Giostra, F. Della Casa, op. cit. pag 567

(27)

Di grande rilievo è anche la legge n. 40 del 2001 dedicata alla tutela

delle detenute madri, che rende ancor più facile l'applicazione della

detenzione domiciliare, introducendo nell'Ordinamento Penitenziario

un nuovo istituto detto "detenzione speciale", disciplinato dal nuovo

art. 47-quinquies, concesso alle condannate madri di prole inferiore a

dieci anni, dopo l'espiazione di almeno un terzo di pena, o di almeno

quindici anni, se trattasi di condannate all'ergastolo, se non sussiste un

concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la

possibilità di ripristinare la convivenza con i figli (art. 47-quinquies

comma 1º Ord. Penit.).

La detenzione speciale, così come l'ammissione all'assistenza

all'esterno prevista per le detenute madri può essere concessa anche ai

padri, se la madre è deceduta o impossibilitata ad accudire i figli (art.

47-quinquies comma 7º e art. 21-bis comma 3º Ord. Penit.).23

Tra le altre previsioni del dettato normativo dell'Ordinamento

Penitenziario, che comunque possono essere ricondotte al tema del

mantenimento dei rapporti familiari, vanno considerate quelle relative

ai diritti d'informazione e quelle riguardanti i diritti economici.

Sotto il primo aspetto deve essere considerato l'art. 29 Ord. Penit. che

al 1º comma prevede il diritto per i detenuti di informare

immediatamente i familiari del loro ingresso in istituto o dell'avvenuto

(28)

trasferimento, mentre al secondo stabilisce che in caso di decesso o

grave infermità "deve essere data tempestiva notizia ai congiunti" e, in

maniera corrispettiva, devono essere informati i detenuti di ogni

eventuale decesso o malattia riguardante i propri familiari.24

La situazione spesso difficile in cui si trovano molte famiglie in

seguito all'evento detentivo che riguarda un loro membro necessita

anche di un impegno dell'intera Amministrazione, coadiuvata

dall'assistenza sociale, che integra il trattamento dei detenuti e degli

internati provvedendo all'assistenza delle loro famiglie, rivolgendo le

azioni concrete alla "conservazione e al miglioramento delle relazioni

dei soggetti con i familiari" rimovendo le difficoltà che possono

ostacolare il reinserimento sociale (art. 45 comma 2º Ord. Penit).25

24 Di Gennaro G. Breda R. La Greca G., op.cit. pag. 172

25 Coppetta Maria Grazia in V. Grevi, G, Giostra, F. Della Casa, op. cit. pagg. 460-461

(29)

1.3 Dalla Legge Gozzini al nuovo regolamento esecutivo n. 230 del 2000

Negli anni '80 in Italia, nel contesto di un movimento riformista che

ha posto al centro della discussione la difesa dei diritti umani, viene

emanata la legge n. 663 (c.d. legge Gozzini), la quale ha avuto il

merito di ampliare e approfondire le questioni lasciate aperte dalla

precedente riforma, permettendo l'osmosi e la permeabilità tra

prigione e mondo esterno, favorendo così la possibilità per i

condannati di godere di misure alternative alla detenzione26

Da qui è stata inserita la detenzione domiciliare, disciplinata all'art.

47-ter, al fine di consentire la prosecuzione, per quanto possibile, delle

attività di cura, di assistenza familiare e di istruzione professionale,

già in corso nella fase della custodia cautelare nella propria abitazione

(arresti domiciliari), anche successivamente al passaggio in giudicato

della sentenza, evitando così la carcerazione e le relative conseguenze

negative.

L’articolo in questione è stato modificato dalla legge n. 165 del 1998

(cosiddetta legge Simeone-Saraceni), che ne ha ampliato la possibilità

fruizione.27

26 Gozzini M., L'ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986.Problemi

ancora aperti in A. Lovati (a cura di), Carcere e territorio. I nuovi rapporti promossi dalla legge Gozzini e un’analisi del trattamento dei tossicodipendenti sottoposti a controllo penale, Franco Angeli, Milano 1988 pagg. 27-44

27 Borsari L., Casa e detenuti stranieri, in Carcere e detenuti stranieri.Percorsi

trattamentali e reinserimento di F. Berti, F. Malevoli (a cura di), Franco Angeli,

(30)

Sono stati introdotti poi i permessi premio, concessi a quei detenuti

considerati non socialmente pericolosi, aventi durata non superiore

ogni volta ai quindici giorni, per consentire di curare interessi affettivi,

culturali e di lavoro, e comunque la loro durata non può superare

complessivamente i quarantacinque giorni in ciascun anno di

espiazione, e possono essere concessi a chi ha condanne non superiori

a tre anni, o a chi ha già scontato un quarto della pena.

Infine, la liberazione anticipata, introdotta anch’essa dalla legge

Gozzini e applicabile a ciascun condannato, la quale consiste nello

sconto di quarantacinque giorni per ogni semestre scontato con

regolare condotta.28

E’ necessario, inoltre, citare l’adozione del nuovo regolamento di

esecuzione dell’ordinamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n.

230), che rappresenta la più importante realizzazione del movimento

riformatore di questi anni.29

Questa riforma si ispira espressamente alle ''Regole minime per il

trattamento dei detenuti'' adottate dall' Organizzazione delle Nazioni

Unite nel 1955 e alle ''Regole penitenziarie europee'' del Consiglio

d'Europa del 1987.

Esso è molto inportante poichè ribadisce la necessità, nonchè il

28 Poligneri C e Silvestro E., Cenni di storia dle diritto penitenziario e

caratteristiche dell'ordinamento penitenziario italiano , in

http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/index2.html, 2004 29 Ruotolo M., Dignità e carcere, Editoriale Scientifica 2014, pagg. 32-36

(31)

dovere, di umanizzare le condizioni di vita dei detenuti.30

A tale proposito l'articolo 1, 2° comma, prevede che '' il trattamento

rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a

promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli

atteggiamenti personali, nonchè delle relazioni familiari e sociali che

sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale''.31

La legge in esame lascia molto spazio agli incontri con i familiari,

previsti in appositi locali o all'aperto; in generale dunque, si ampliano,

seppur parzialmente, e non per tutti , i colloqui e le comunicazioni

telefoniche con i congiunti. 32

Da un punto di vista umano, il nuovo regolamento pone l'accento

proprio sull'attenzione e la cura con cui si debbano trattare tutte quelle

situazioni familiari e relazionali che, pur fisicamente fuori dal carcere,

continuano ad incidere sulla condizione attuale dei detenuti e sulle

loro aspettative di vita futura.

La relazione di accompagnamento infatti, precisa che le nuove

concessioni sono sostenute dalla "considerazione che un più frequente

e intenso contatto dei reclusi con le persone di riferimento all'esterno,

particolarmente i familiari, può avere solo che effetti positivi: il

rafforzamento o almeno il contrasto all'indebolimento delle relazioni

30 Bresciani L., Ferradini F., Mutamenti normativi, in Inchiesta sulle carceri

italiane di S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), Carocci, Roma 2002, pagg.

99-104

31 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art 1

(32)

con la famiglia, il contenimento dell'effetto dell'isolamento della

persona prodotto dalla reclusione, la riduzione delle tensioni dei

detenuti e internati all'interno dell'istituto".

Molti infatti sono gli interventi che modificano la disciplina dei

rapporti con la famiglia.

In primo luogo l'art. 19, che si occupa di garantire assistenza alle

gestanti attraverso la presenza di personale paramedico, la costruzione

di asili nido e prevede interventi ad hoc la momento del distacco tra la

madre e il bambino in seguito al terzo anno di età, come l'avvisare il

servizio sociale nel caso in cui manchino persone disponibili a

prendersi cura del minore.

Le lacune della normativa tuttavia, sono evidenti nel fatto che non

considera la figura paterna, e non precisa se il distacco debba essere

netto o graduale, anche se l'interpretazione prevalente predilige la

seconda opzione.33

A renderci chiara l'idea del cambiamento di prospettiva di questo

nuovo regolamento, nel modo di intendere i rapporti con la famiglia,

che vengono ora completamente esclusi dall'ottica premiale e vengono

invece a pieno titolo inseriti nel percorso trattamentale di ricostruzione

delle relazioni familiari e sociali del ristretto, sono due significative

innovazioni che hanno coinvolto l'art. 61, intitolato "Rapporti con la

(33)

famiglia e progressione nel trattamento", il quale al comma 2º

attribuisce al Direttore la possibilità, in linea con i pareri fornitigli dal

gruppo di osservazione, di concedere colloqui oltre quelli di cui all'art.

37 e l'autorizzazione ad essere visitati dalle persone ammesse ai

colloqui, oltre al permesso di poter trascorrere con loro parte della

giornata.34

Tutto ciò si colloca perfettamente in linea con quella che risulta essere

la nuova impostazione del regolamento esecutivo che fa ricadere

sull'amministrazione penitenziaria la responsabilità di rendere

effettivo il trattamento, provvedendo essa stessa a fornire un'offerta di

interventi, che nell'ambito dei rapporti con la famiglia si sostanzia

nell'obbligo di attivarsi nel tentativo di "migliorare, ristabilire o

mantenere" le relazioni con i familiari, secondo il dettato dell'art. 18

O.P..35

Altre novità riguardano i rapporti con la famiglia in modo indiretto;

l'art. 48, che disciplina il lavoro all'esterno, stabilisce che nella

determinazione delle prescrizioni che corredano il provvedimento di

assegnazione al lavoro all'esterno si deve tener conto "dell'esigenza di

consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con la

famiglia, secondo le indicazioni del programma di trattamento" (13º

34 Canevelli P., Il commento al Nuovo regolamento recante norme sull'ordinamento

penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in "Diritto Penale e Processo", n. 10/2000, p. 1319.

(34)

comma).36

In conclusione, occorre tuttavia rilevare come la realtà dei fatti si

discosti notevolmente da tali disposizioni e da tali principi, i quali

sembrano trovare evidenti difficoltà di attuazione; sia il carcere, che lo

stesso diritto penale, attualmente, stanno attraversando un periodo di

crisi; di conseguenza, il principio retributivo secondo il quale la pena

dev'essere proporzionale alla gravità del reato, sembra messo alla

prova proprio dall'introduzione delle misure alternative alla

detenzione.37

Il mondo carcerario italiano ad oggi si presenta in modo

profondamente disomogeneo, caratterizzato da pochi regolamenti

interni regolarmente approvati, molte prassi tra loro diversificate,

carenza di personale, mancato adeguamento degli istituti a quanto

invece richiede il nuovo regolamento di esecuzione che rende

impossibile ad esempio introdurre asili nido per le madri detenute.

36 Pavarini M., La disciplina del lavoro dei detenuti, in Grevi V. (a cura di)

L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994 Cedam, pag 219

37 Mosconi G., La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti

sull'istituzione penitenziaria, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, pagg. 37-65

(35)

1.4 Le mancate occasioni di riforma

Negli anni sono state presentate svariate proposte di legge in materia,

ma nessuna di esse però è stata portata a termine, sia per casualità o

per scelta politica.

In generale, le suddette proposte erano accomunate dal fatto che

proponevano l'utilizzo di strumenti, spesso molto simili tra loro, volti

ad incrementare e sviluppare l'affettività in ambito penitenziario, oltre

a riformare la legge del 1975, con previsioni finalizzate a rendere

possibile rapporti affettivi, ma anche sessuali, del detenuto con il

proprio partner o coniuge.

In particolare, le proposte" Boato"38 e "della Seta"39, sono le uniche ad aver presentato il nuovo art. 28 della legge n. 354 del 1975, con l’innesto del diritto all'affettività.

La prima proposta, n. 1503 del 199640, è stata presentata dall'On. le Pietro Folena, quale primo firmatario, e dieci parlamentari

coofirmatari, ma il suo esame non è mai iniziato.

Tale progetto si focalizzava su due aspetti; il primo, sul fatto che il

carcere necessitasse di una trasformazione verso l'umanizzazione, per

far sì che la pena fosse, non solo teoricamente, anche un fattore

riabilitativo; il secondo, sulla considerazione che un'area spesso

38 Progetto di legge n. 3020 del 2002, elaborato con la collaborazione di Ristretti Orizzonti

39 Progetto di legge n. 3420 del 2012

(36)

trascurata nella normale gestione del trattamento, fosse costituita dalla

fruibilità delle normali relazioni affettive, trascurando così l’impatto

che una normale, corretta e sana vita affettiva possa ingenerare, anche

al fine di un recupero sostanziale delle normali relazioni con il

contesto familiare e sociale.

Tale proposta di legge, avrebbe potuto costituire un’indubbia e

qualificante apertura della politica penitenziaria.

La sua importanza, si evince specie dal fatto che è stata la prima, in

ordine cronologico, presentata in materia di affettività e sessualità dei

detenuti ma, come sopra esposto, non è mai stata discussa.

Essa peraltro, presentava vari strumenti giuridici per implementare, in

modo efficace, l’espansione dell’affettività per i soggetti ristretti:

l'introduzione di un colloquio mensile "nelle aree verdi", un ulteriore

colloquio di quattro ore per i detenuti coniugi o conviventi,

parificando i rapporti more uxorio ai rapporti matrimoniali, nonché

l'implementazione delle conversazioni telefoniche, nel caso di

mancata fruizione di colloqui ordinari (importante per i detenuti ed

internati stranieri).

Dalla seconda metà degli anni '90, il tema dell'affettività e della

sessualità per i detenuti ebbe vasta eco anche ad impulso dei vertici

dell'Amministrazione penitenziaria.

Nell'anno 1997, mediante una circolare41, l'allora Capo del

(37)

Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, dott. Michele Coiro,

richiese ai Direttori degli Istituti penitenziari un monitoraggio dei

locali e degli ambienti idonei da dedicare alle cosiddette "a) visite

riservate" e, precisamente, se siano usufruibili locali idonei a

consentire le predette visite riservate, indicandone l'ubicazione,

l'ampiezza e le modalità di accesso da parte dei familiari ovvero, in

caso contrario se, con interventi di ristrutturazione e adeguamento,

siano recuperabili a quel fine altri locali.

Detta richiesta formale, prima nel suo genere, veniva appunto operata

dal DAP, sulla scorta del progetto di legge n. 3331 del 13 giugno

1996, il cui primo firmatario era l'On. le Pisapia; nonostante ciò, ben

pochi Direttori diedero esecuzione alla richiesta.

Nel corso della XIII° legislatura, il tema dell'affettività in carcere e

della sessualità, ebbe una profonda accelerata nel dibattito degli

addetti ai lavori, anche in virtù dell'impulso dell'allora Capo del

Dipartimento, dottor Alessandro Margara, il quale propose un nuovo

Regolamento di Esecuzione penitenziaria, redatto in collaborazione

con l'allora Sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone.

Tale progetto, all’art. 61, comma 2, lettera c), disponeva la possibilità

da parte del Direttore dell' istituto di pena, di autorizzare i condannati

e gli internati a trascorrere un periodo di tempo, di massimo

ventiquattro ore continuative, con le persone indicate alla lettera b), in

(38)

prevedeva inoltre il controllo esterno di queste abitazioni da parte del

personale della Polizia penitenziaria, con la possibilità di effettuare

controlli o interventi all’interno, in caso di necessità.

Questa proposta di Regolamento, segnava una svolta nella concezione

dei rapporti affettivi con la famiglia; lo stesso Margara infatti, dichiarò

che il tema dell’affettività nell'ambito della famiglia doveva diventare

uno degli elementi del trattamento previsto dall’articolo 28 della legge

(39)

1.5 Una Costituzione violata

Il quadro normativo appena analizzato presenta diverse incongruenze

rispetto alla normativa costituzionale.

Ad essere violato è, innanzitutto, il principio di legalità della pena,

sancito all’art. 25, comma 2, Cost..

La condanna penale infatti, comporta necessariamente una limitazione

sia della libertà personale, sia quelle altre posizioni soggettive di

libertà strettamente correlate alla condizione detentiva.

La domanda che ci si potrebbe porre è quindi se, tra gli effetti afflittivi

collaterali della sanzione detentiva, rientri legittimamente anche la

compressione del diritto alla sessualità del detenuto.

La risposta pare ovviamente affermativa, ma solo nella misura

imposta dalle esigenze di sicurezza; al di fuori di queste “la

limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo

supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non

compatibile” con la Carta costituzionale42.

Questo è quanto accade per tutti i detenuti, ristretti o internati, perché

il loro diritto alla sessualità non è semplicemente circoscritto, semmai

integralmente negato, e quando la prevalenza di uno degli interessi in

gioco comporta il totale sacrificio dell’altro, siamo certamente fuori

dalla logica di un corretto bilanciamento costituzionale.

La stessa linea argomentativa conduce a individuare una ulteriore

(40)

soppressione della libertà personale del detenuto, intesa nel senso più

stretto e autentico di libera disponibilità del proprio corpo ex art. 13,

comma 1, Cost..

Secondo una giurisprudenza costituzionale consolidata, “chi si trova

in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà

personale, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in

quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua

personalità individuale”, e questo residuo è esercitabile

compatibilmente con le limitazioni che lo stato di detenzione

necessariamente comporta.43

Quanto affermato, potrebbe valere per il diritto al godimento sessuale

del proprio corpo, che quindi potrebbe trovare soddisfazione

all’interno di appositi spazi carcerari secondo modalità compatibili

con le esigenze di sicurezza proprie dello stato detentivo.

Con la negazione del diritto alla sessualità dietro le sbarre si mette

inoltre a rischio anche la finalità rieducativa cui tutte le pene “devono

tendere”, secondo quanto prescritto nell’art. 27, comma 3, Cost..

Nell’affermare ciò, la norma costituzionale detta direttive vincolanti

per l’organizzazione e l’azione delle istituzioni penitenziarie che,

viceversa, l’astinenza sessuale coatta elude; essa, infatti, ostacola il

mantenimento di quelle relazioni familiari insostituibili nel difficile

percorso di recupero del reo ed essenziali per il suo futuro

(41)

reinserimento sociale.

Escludendo il rapporto sessuale con il partner, la sanzione rischia così

di produrre una sterilizzazione affettiva e relazionale che colpisce non

solo il detenuto, condannato così ad una ingiustificata solitudine causa

di depressioni psicofisiche gravi; ma anche i suoi familiari, vittime

dimenticate la cui sfera affettiva inevitabilmente si comprime in

ragione di una condanna per un reato che non hanno mai commesso.

Ancora, risulta violato anche l’art. 32, commi 1 e 2, Cost., posto a

garanzia del diritto alla salute, sia individuale che collettiva.

Per quanto attiene al primo profilo, con ''stato di salute'' non si intende

solo una mera assenza di malattia, bensì uno stato complessivo di

benessere fisico e di equilibrio psichico.

Quanto al profilo dell’interesse della collettività, è sufficiente il

richiamo al recente parere del Comitato Nazionale di Bioetica

(approvato, all’unanimità, il 27 settembre 2013)44 per la dimostrazione di come e perché la tutela della salute negli istituti penitenziari si

ripercuota sulla salute dell’intera comunità. Ciò è particolarmente

vero, nel caso di specie, se solo si pone mente agli effetti collaterali

dell’astinenza sessuale cui è costretto il detenuto.

Favorendo il ricorso a pratiche omosessuali, indotte o addirittura

coercite, la repressione delle pulsioni sessuali è responsabile di una

intensificazione dei rapporti a rischio, che incrementa in maniera

44 http://presidenza.governo.it/bioetica/pdf/4La%20salute%20dentro%20le %20mura.pdf

(42)

significativa la diffusione di malattie infettive sessualmente

trasmissibili.

Da qui deriva una situazione paradossale, ovvero che il carcere “fa

ammalare anche chi è in buona salute. Non a caso la prigione è l’unico

luogo in cui si apre una cartella clinica a una persona sana, che non è

malata, ma che probabilmente lo diventerà”45

Ultima, non certo per importanza, è la lesione al principio della

dignità personale del detenuto.

Al riguardo, la Consulta ha definito il diritto alla sessualità, corollario

dell'affettività, come “uno degli essenziali modi di espressione della

persona umana [...] che va ricompreso tra le posizioni soggettive

direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti

inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di

garantire” .46

Una volta che si è attribuito al diritto alla vita sessuale un valore

costitutivo della dignità di ogni persona, certamente non può essere

negato al soggetto detenuto in ragione della sua condizione di

cattività, compatibile con l’esercizio di quel diritto.

Certamente, modalità del sesso immaginato e solitario, come pure

dell’omosessualità, rientrano tra le espressioni legittime della propria

sessualità, ma solo alla condizione che siano il frutto di una libera

45 Castellano L, Stasio D., Diritti e castighi, storie di umanità cancellata in

carcere , 2009

(43)

scelta; se invece, sono il risultato di un consenso rassegnato alla

situazione detentiva, il ricorso a determinate pratiche assume tutt’altro

significato: quello di un avvilimento del detenuto e del degrado della

sua dignità personale.47

Guardando poi all'altra faccia dell'affettività, ovvero quella del

rapporto con altri familiari ed in particolare i figli minori, la nostra

Carta costituzionale prende in considerazione specifici diritti

inviolabili e valori fondamentali; anzitutto il primato della persona

sancito all'art. 2, per il quale l'essere umano essendo insieme spirito e

corpo assume un ruolo primario in ogni ordine sociale, e per questo i

soggetti pubblici e privati devono consentirgli di raggiungere la piena

realizzazione come persona, a ciò si collega il fatto che lo Stato è

tenuto a rispettare la dignità umana e i diritti inviolabili, nonostante la

detenzione del soggetto.48

Analizzando ancora l'art.2, si evidenzia il principio di solidarietà nei

rapporti con familiari e conviventi; la solidarietà infatti è alla base di

ogni rapporto umano e per questo si ritiene che la potestà punitiva

verso il recluso vada esercitata in modo da permettere ai familiari e ai

conviventi di mantenere e coltivare i rapporti.

Questo principio quindi deve costituire un solido punto di riferimento

per il detenuto, anche in un momento successivo alla scarcerazione, al

47 Pugiotto A., La ''castrazione''della sessualità del detenuto come problema di

legalità costituzionale in Ristretti Orizzonti

(44)

fine di innescare nel soggetto un processo autocritico di quanto

commesso.49

Da ricordare infine, il combinato disposto dagli artt. 29 30 e 31 dai

quali si desume l'interesse dell'ordinamento per i componenti della

famiglia e per i figli, affermando che la detenzione deve incidere il

meno possibile sul ménage familiare, facilitando incontri e colloqui,

riducendo altresì gravi traumi e scompensi, specie sui figli minori.50

49 Mastropasqua G., op.cit., pagg. 29-30 50 Mastropasqua G., op. cit, pagg. 35-38

(45)

CAPITOLO SECONDO

LA POSIZIONE DELLA GIURISPRUDENZA

1.1 Il parere n. 61 del 2000 del Consiglio di Stato; 2.2 La sentenza n. 301 del 2012 della Corte Costituzionale; 2.3 La sentenza della Corte di Cassazione n. 882 del 2015

1.1 Il parere del Consiglio Stato n. 61 del 2000

Lo schema originario del regolamento D.P.R. n. 230 del 2000,

prevedeva una particolare forma di permesso, riconducibile all'istituto

della visita, previsto dall'art. 61, che avrebbe consentito ai detenuti ed

agli internati di trascorrere con i propri familiari un periodo di tempo,

fino a 24 ore continuative, in unità abitative appositamente predisposte

all'interno dell'istituto, limitando il controllo del personale di polizia

penitenziaria alla sorveglianza esterna dei locali, e con la possibilità di

effettuare controlli all'interno esclusivamente in presenza di situazioni

di emergenza.

Tale novità, costituiva un' importante affermazione del diritto di ogni

detenuto di mantenere relazioni naturali fondamentali per la

realizzazione del proprio diritto di vita.51

La proposta, rappresentava infatti una possibile soluzione di apertura

riguardo al delicato problema della sessualità in carcere.

(46)

In questo contesto, si prospettò la possibilità di introdurre i cc.dd.

"permessi d'amore", per consentire ai detenuti di poter intrattenere

rapporti affettivi con i propri cari in locali interni al carcere, ma senza

il controllo visivo del personale di custodia.

Si tratta di una soluzione ormai adottata da molti altri Paesi europei,

quali Spagna, Norvegia, Danimarca e Svezia.

Il duplice obiettivo di questa proposta, era quello di tutelare, anzitutto,

l'affettività lato sensu, prevedendo ambienti più vivibili, come le ''aree

verdi'', per consumare pasti insieme e trascorrere tempo insieme ai

propri familiari, e, secondariamente, il "diritto" alla sessualità delle

persone ristrette in strutture carcerarie, non inteso come diritto

illimitato di esplicazione della propria personalità, ma declinato quale

promanazione del rapporto affettivo con il proprio "coniuge", al fine

di consolidare il rapporto, anche fisico e sessuale, di coniugio. 52 Il progetto fu riconosciuto legittimo dall’Ufficio legislativo del

Ministero della Giustizia, ma non superò il vaglio del Consiglio di

Stato che ne diede valutazione negativa con il parere n. 61 del 2000, a

seguito del quale dalla bozza di regolamento furono stralciate talune

proposte di disposizioni.

Le obiezioni, si basavano sotto due ordini di questioni, non tanto di

merito, quanto, formali e procedurali: si rilevava, infatti, che "le scelte

(47)

proposte nel nuovo regolamento non potessero essere legittimamente effettuate in sede regolamentare attuativa o esecutiva, in quanto "postulano piuttosto l'intervento del Legislatore, al quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata"53, rimarcando il “forte divario fra il modello trattamentale teorico”,prefigurato nel nuovo regolamento

proposto, e l’inadeguatezza del “carcere reale”.

L'intervento, volto a dare la soluzione al problema di una vita affettiva

in carcere, senza preclusione della sfera sessuale, era apparso non

meramente esecutivo della norma primaria e, per certi versi, in

contrasto con la stessa; la sentenza de qua, nell'esprimersi sullo

schema di regolamento aveva rilevato, appunto, che le proposte di

riforma non potessero essere effettuate legittimamente in sede di

regolamento attuativo o, comunque, in sede esecutiva poiché

"postulano piuttosto il responsabile intervento del Legislatore, al

quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata".

Si ritenne opportuno rinviare l'introduzione di norme e disposizioni

esplicative del diritto all'affettività a scelte legislative, anzichè al

nuovo Regolamento di Esecuzione della Legge del 1975: “nel silenzio

della legge”, si disse, “il diritto all'affettività non è scelta che possa essere legittimamente effettuata in sede regolamentare, attuativa o

(48)

esecutiva”.54

Il diniego del Consiglio di Stato, non al merito della proposta ma alla

possibilità di utilizzare lo strumento regolamentare, ha impedito di

fatto l'avvio sperimentale, che sarebbe stato di grande utilità, di

esperienze analoghe a quelle strutturalmente concepite in altri Paesi

europei in cui il carcere non è interpretato come luogo deputato

all'annullamento dei diritti e delle emozioni, della sessualità e

dell'affettività.

In questo modo, il diritto all'affettività è stato banalmente unificato al

diritto alla sessualità: è una scelta, che il nuovo regolamento

riconosceva come tale, ma non è necessariamente un obbligo alla

sessualità.55

54 Canevelli P., Il commento al nuovo regolamento recante norme sull'Ordinamento

penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in Diritto penale e

processo, n. 10/2000, pag. 1321

(49)

2.2 La sentenza n. 301 del 2012 della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità della questione

di legittimità costituzionale dell'articolo 18, secondo comma, della

legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui prevede il controllo

visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli

internati, in tal modo impedendo loro di avere rapporti affettivi intimi,

anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno

stabile rapporto di convivenza.

Pur risolvendosi in una dichiarazione di inammissibilità, la sentenza

merita di essere segnalata sia per quanto è ribadito in relazione ai

requisiti delle ordinanze di rimessione e, di conseguenza, in ordine

alla "tipologia" delle sentenze emesse dalla Corte, sia per quanto è, di

fatto, statuito "nel merito". 56

Nel caso di specie infatti, il Magistrato di sorveglianza di Firenze ha

sollevato la questione di legittimità costituzionale, nei termini sopra

indicati, ritenendo la violazione, da parte della disposizione censurata,

degli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 27, 29, 31 e 32 della

Costituzione.

Nello specifico, secondo il rimettente, il diritto del detenuto in carcere

ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il convivente more

56 http://www.osservatorioantigone.it/difensore_civico/pages/giurisprudenza- penitenziaria/corte-costituzionale/sentenza-corte-costituzionale-n.-301-del-2012.php

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