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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia
L’impatto dei trigliceridi sulla tolleranza glucidica:
lipotossicità rivisitata
Relatore:
Chiar.mo Prof. Andrea Natali
Candidato:
Silvia Pinnone
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INDICE
Riassunto ... 5
Elenco delle abbreviazioni ... 8
Parte I. INTRODUZIONE ... 11
1. La β-cellula e la secrezione insulinica ... 11
1.1. Componenti della secrezione insulinica ... 11
1.2. Il modello bifasico della secrezione insulinica ... 14
1.3. Il potenziamento ... 17
2. Metabolismo lipoproteico ... 18
2.1. Chilomicroni... 19
2.2. Very Low Density Lipoprotein ... 21
2.3. Low Density Lipoprotein ... 22
2.4. High Density Lipoprotein ... 23
3. Il diabete e la dislipidemia ... 26
3.1. Patogenesi del diabete: importanza della disfunzione β-cellulare ... 27
3.2. Impaired Fasting Glucose ed Impaired Glucose Tolerance ... 29
3.3. Dislipidemia e diabete: un problema aperto ... 31
4. Lipotossicità ... 32
4.1. Ruolo dei NEFA ... 33
4.2. Ruolo dei trigliceridi ... 42
5. Manipolazione dei trigliceridi ... 44
5.1. Studi epidemiologici ... 44
5.2. Studi clinici negli animali e nell’uomo: infusione di lipidi ... 46
5.3. Carico di grassi e modifiche dietetiche ... 49
5.4. Fibrati ... 54
Parte II. DATI SPERIMENTALI ... 62
1. Scopo della tesi... 62
2. Materiali e metodi ... 62 3. Risultati ... 66 4. Discussione ... 72 5. Conclusioni ... 75 Ringraziamenti ... 76 Bibliografia ... 78
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Riassunto
Il diabete mellito di tipo 2 è una patologia metabolica che si sta diffondendo nel mondo assumendo dimensioni paragonabili a quelle di un’epidemia; questo è, almeno in parte, dovuto alla tendenza ad assumere stili di vita poco salutari, che portano a condizioni di alterato metabolismo, sovrappeso e obesità, e collocano sempre più individui nella condizione di alto rischio di diabete e di complicanze cardiovascolari.
Sia nel diabete mellito di tipo 2 che in queste condizioni dismetaboliche si riscontrano specifiche alterazioni del metabolismo lipoproteico, che nel loro complesso danno luogo alla cosiddetta dislipidemia diabetica: elevati livelli di trigliceridi, bassi livelli di colesterolo HDL ed incremento delle small dense LDL. Questo peculiare assetto lipidico predispone alla patologia aterosclerotica ed è legato da un punto di vista fisiopatologico all’instaurarsi dell’insulinoresistenza. L’evidenza di una sua presenza anche nella fase pre-diabetica, ha portato ad ipotizzare che abbia un ruolo nel deterioramento funzionale della β-cellula, elemento patogenetico fondamentale, insieme alla perdita della sensibilità periferica all’insulina, della storia naturale del diabete.
Gli studi sulla lipotossicità, intesa come l’insieme degli effetti avversi mediati dai lipidi sulla funzionalità e la sopravvivenza β-cellulare, si sono focalizzati quasi esclusivamente sugli acidi grassi liberi, non esterificati, individuati come fattori chiave nel produrre danno sia sulla β-cellula che nei tessuti che utilizzano glucosio. Il ruolo degli elevati livelli di trigliceridi circolanti, per contro è stato per lungo tempo trascurato, nonostante numerosi studi epidemiologici li abbiano identificati come fattori di rischio indipendenti per l’insorgenza del DM2, e seppure, sia nell’uomo che in altre specie, la loro manipolazione sperimentale sembri avere effetti rilevanti sul metabolismo glucidico, indipendenti dagli acidi grassi liberi.
Nel nostro studio, abbiamo voluto valutare l’impatto della riduzione cronica dei livelli di trigliceridi circolanti sulla tolleranza glucidica in 16 individui, uomini e donne non diabetici, affetti da ipertrigliceridemia, sottoponendoli ad un test da carico orale di glucosio prima e dopo un trattamento protrattosi per 5 settimane con bezafibrato 400 mg/die; osservando l’andamento delle concentrazioni ematiche di glucosio, insulina, C-peptide, glucagone, NEFA e trigliceridi, tramite l’esecuzione di un test orale di tolleranza al glucosio (OGTT), prima e dopo il periodo di trattamento farmacologico.
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Dall’analisi dei dati successivamente al trattamento, è emerso che esso riduce marcatamente i livelli di trigliceridi circolanti, provocando anche un minimo decremento dei NEFA; determina minime alterazioni del profilo lipoproteico, incrementando i livelli di HDL e riducendo il colesterolo totale; non determina variazioni significative dei principali parametri caratterizzanti l’omeostasi del glucosio, quali la glicemia a digiuno e la tolleranza; induce una minima, ma significativa, riduzione della secrezione insulinica nella parte finale dell’OGTT, accompagnata da un incremento della sensibilità periferica dei tessuti all’ormone e della clearance dell’ormone stesso.
Questi risultati evidenziano che la riduzione importante dei livelli di trigliceridi circolanti, mantenuta per 5 settimane, non influenza il quadro generale di omeostasi glucidica e la funzionalità β-cellulare, in contrasto con l’ipotesi di lipotossicità, supportata da studi in vitro, ed almeno parzialmento da studi epidemiologici e trial clinici di maggiore durata.
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Elenco delle abbreviazioni
ABC: ATP-Binding Cassette; 24
ACAT: Acil-CoA-colesterolo-aciltransferasi; 20
ACCORD: Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes; 58 ADA: American Diabetes Association; 29
ADFP: Adipocyte Differentiation related protein; 36 BIP: Bezafibrate Infarction prevention; 72
CAD: Coronary Artery Disease; 31 cAMP: AMP ciclico; 13
CETP: Cholesterol Ester Transfer Protein; 22
CREB: cAMP Responsive Elements Binding protein; 35 DM1: Diabete mellito di tipo 1; 27
DM2: Diabete mellito di tipo 2; 11 FABP: Fatty Acid-Binding Protein; 20 FFA: Free Fatty Acid; 19
FFAR1: Free Fatty Acid Receptor 1; 13 FGF21: Fibroblastic Growth Factor 21; 59
FIELD: Fenofibrate Intervention and Event lowering in Diabetes; 58 FoxO1: Forkhead box-containing protein O1; 34
FXR: Recettore X dei farnesoidi; 35 G6P: Glucosio-6-Fosfato; 12
GIP: Glucose-dependent Insulinotropic Peptide; 12 GK4: Glucochinasi 4; 11
GLP-1: Glucagon-Like-peptide-1; 12 GLUT: Glucose Transporter; 11
GSIS: Glucose-Stimulated Insulin Secretion; 12 GWAS: Genome-wide association study; 45 HDL: High Density Lipoprotein; 19
HMG-CoA: Idrossimetilglutaril-CoA; 22
HOMA: Homeostasis Index of metabolic Assessment; 59 IDL: Intermediate Density Lipoprotein; 19
IFG: Impaired Fasting Glucose; 29 IGT: Impaired Glucose Tolerance; 16; 29
9 IP3: Inositolo 1,4,5-trifosfato; 13
IVGTT: Intravenous Glucose Tolerance Test; 41 LADA: Latent Autoimmunes Diabetes of Adults; 27 LCAT: Lecitina-colesterolo Acil-transferasi; 24 LCT: Long Chain Triglyceride; 51
LDL: Low Density Lipoprotein; 19 LPL: Lipoprotein Lipasi; 19
Maturity Onset Diabetes of the Young; 27 MCT: Medium Chain Triglyceride; 51 MTP: Microsomal Transfer Protein; 20 MUFA: Monounsaturated fatty acid; 51
NDRG2: N-myc Downstream-Regulated Gene 2; 36 NEFA: Non Esterified Fatty Acid; 33
NGT: Normal Glucose Tolerance; 27 NPC1L1: Niemann-Pick C1 like 1; 20 OGTT: Oral Glucose Tolerance Test; 47
PACAP: Polipeptide pituitario attivante l'adenilato ciclasi; 36 Pdx-1: Pancreatic duodenal homebox-1; 34
PKC: Protein Chinasi C; 13 PLC: Fosfolipasi C; 13
PLTP: Phospholipids-Transfer-Protein; 25
PPAR: Peroxisome Proliferator-Activated Receptor; 44 RCT: Reverse Cholesterol Transport; 23
RE: Reticolo Endoplasmatico; 20
RISC: Relation between Insulin Sensitivity and Cardiovascular risk; 41 sdLDL: small dense Low Density Lipoprotein; 32
SFA: Saturated fatty acid; 51
Sirt1: Silent Information Regulator 2 protein 1; 36 SR-B1: Scavenger Receptor-B1; 24
SREB1c: Steroid regulatory element binding protein 1c; 34 SREBP: Sterol-Regulated Transcription protein; 22
Tg: Trgliceridi; 43
UCHL1: Ubiquitin C-terminal Idrolasi L1; 36
10 VLDL: Very Low Density Lipoprotein; 18 WHO: World Health Organization; 29
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Parte I. INTRODUZIONE
1. La β-cellula e la secrezione insulinica
Le β-cellule sono localizzate nelle isole pancreatiche di Langherans e fanno parte dell’apparato endocrino dell’organismo. Sono dotate di un complesso apparato di recettori di membrana, enzimi ed organuli intracellulari, finalizzati a rispondere a stimoli neuro-ormonali, monitorare continuativamente i livelli di substrati energetici circolanti e rispondere alla loro variazione in seguito ai pasti secernendo insulina, uno dei principali ormoni anabolizzanti, secondo le necessità dell’organismo1. Il glucosio è il più potente
secretagogo insulinico e la β-cellula ha una spiccata capacità di funzionare come suo sensore: questo avviene, sia attraverso i trasportatori di membrana Glucose Transporter (GLUT) 1 e 2, che determinano l’ingresso del substrato nella cellula, sia attraverso l’enzima Glucochinasi 4 (GK4), considerato un sensore intracellulare2,3, deputato alla fosforilazione del glucosio intracellulare ed alla sua successiva immissione nelle principali vie metaboliche. Queste molecole svolgono le loro funzioni con una precisa cinetica ed entro uno specifico range di concentrazioni di glucosio ematico ed intracellulare4, facendo sì che la risposta di secrezione insulinica sia dipendente dalla glicemia. Questi meccanismi finemente regolati dai nutrienti, sono anche finalizzati alla necessità della β-cellula di proteggersi dalla tossicità chimica che i substrati energetici in eccesso possono deteminare, favorendo l’insorgenza del diabete mellito di tipo 2 (DM2).
1.1. Componenti della secrezione insulinica
Il 50% del fabbisogno insulinco giornaliero è soddisfatto attraverso un’attività secretoria di fondo, che oscilla nel soggetto normale, tra 0,2 ed 1,5 U/h di insulina: quest’attività è finalizzata ad inibire la gluconeogenesi, la lipolisi e la chetogenesi, che altrimenti, in condizioni di carenza dell’ormone (o di importante squilibrio nel rapporto insulina/glucagone), nella fase di digiuno aumenterebbero notevolmente, portando a situazioni di iperglicemia, iperlipidemia e chetosi.
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Il rimanente 50% del fabbisogno è quello che si verifica in risposta ai pasti e prende il nome di secrezione insulinica glucosio-mediata (GSIS), anche se è notevolmente influenzata da altri nutrienti come gli amminoacidi, in particolare l’alanina, la glutamina e l’arginina, e gli acidi grassi5 che sembrano giocare un ruolo diretto o indiretto di amplificazione, anche attraverso la generazione di possibili messaggeri a livello mitocondriale6. Inoltre, precocemente durante il pasto, si ha una fase, cosiddetta cefalica o di preassorbimento, in cui la secrezione insulinica è indotta dallo stimolo parasimpatico dei nervi afferenti alle isole pancreatiche2,7.
Una volta che il glucosio è entrato nella β-cellula ed è stato fosforilato a glucosio-6-fofato (G6P), dopo una serie di reazioni a cascata viene convertito in piruvato, il quale, trasportato nei mitocondri sarà soggetto ad ossidazione con produzione di ATP.
L’incremento della concentrazione di questo substrato energetico e la variazione del rapporto ATP/ADP nel citoplasma, induce la chiusura dei canali del K+ ATP-dipendenti (K
ATP), la
riduzione del flusso in uscita dello ione e la depolarizzazione della membrana plasmatica, con successiva apertura dei canali del Ca2+ voltaggio-dipendenti di tipo L. Il gradiente di calcio nel citoplasma, determina l’immediata fusione dei granuli di esocitosi contenenti insulina con la membrana e quindi la secrezione dell’ormone8. Così come si è osservato nelle
terminazioni nervose, anche nelle β-cellule abbiamo l’accoppiamento tra il fattore solubile di membrana sensibile alla N-etilmaleimide (t-SNARE) con la proteina SNARE incorporata nella membrana delle vescicole (v-SNARE), tuttavia sono ancora in atto studi per comprendere i meccanismi con cui il calcio induce l’esocitosi. Questa via, definita anche “Katp-dipendente”, è considerata la principale via di innesco della secrezione insulinica, ed è
pertanto denominata “triggering pathway”9.
Tuttavia è stata individuata un’altra componente in grado di modulare ed implementare la secrezione insulinica: si tratta della via dell’amplificazione metabolica (metabolic amplifying pathway), identificata come indipendente dall’attivazione dei canali KATP10,11.
Questo duplice controllo sulla secrezione insulinica è mediato dal glucosio, ma anche da altri nutrienti12,13, neurotrasmettitori ed ormoni, che agiscono legandosi a recettori accoppiati a proteine G, ottimizzando la funzione della β-cellula nella fase post-prandiale. Tra i mediatori coinvolti, troviamo le incretine, gruppo di ormoni, secreti dall’intestino a seguito del pasto. Le più importanti sono il Glucose-dependent insulinotropic peptide (GIP), secreto dalle cellule K nel duodeno, ed il Glucagon-like-peptide-1 (GLP-1), secreto dalle cellule L
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dell’ileo e del colon il quale ha un ruolo predominante in termini quantitativi e qualitativi dato che oltre a stimolare la secrezione insulinica, inibisce quella di glucagone14,15. Una volta attivato, il recettore del GLP-1 tramite la proteina Gs a cui è associato, induce un aumento
dei livelli di cAMP intracellulare16, incrementando in questo modo l’attività β-cellulare. Questi effetti insulinotropici, sono anch’essi glucosio dipendenti, ma nel senso che hanno luogo solo se si verifica il superamento della soglia glicemica di 4 mmol/L, al di sotto della quale il GLP-1 non agisce17.
Anche alcuni lipidi sono coinvolti nella via dell’amplificazione metabolica, attraverso l’attivazione di un recettore, noto come GPR40 (o FFAR1)18-20, espresso nelle β- cellule ed
attivato da parte di acidi grassi a media e a lunga catena. Il GPR40, accoppiato con la subunità α di una proteina Gq, incrementa la concentrazione citoplasmatica di Ca2+, anche se
sono stati ipotizzati meccanismi che coinvolgono l’attivazione della Fosfolipasi C (PLC) ed aumentano la produzione di cAMP20,21.
Per quanto riguarda gli stimoli parasimpatici che agiscono precocemente, nella fase di preassorbimento, tramite l’attivazione vagale, sono stati individuati recettori muscarinici di sottotipo M3 nelle isole pancreatiche, a cui si lega l’acetilcolina, determinando un aumento dei livelli di inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3) intracellulare, attivazione conseguente della
Protein chinasi C (PKC) e massiccia stimolazione della GSIS22. A sottolineare l’importanza della componente cefalica, si è osservato che topi knock-out per il recettore M3 specificamente a livello pancreatico, mostravano una riduzione della secrezione insulinica e ridotta tolleranza glucidica, mentre, topi transgenici con iperespressione del recettore mostravano la situazione opposta23.
Anche il glucosio stesso, sembra avere un’azione insulinotropica KATP-indipendente e quindi
contribuire anch’esso all’amplificazione: quest’azione è stata dimostrata osservando la forte stimolazione al rilascio insulinico indotta dal glucosio, nel momento in cui i canali KATP
erano stati bloccati farmacologicamente in uno stato di apertura o di chiusura10,11,24, rispettivamente con diazossido e glibenclamide. Anche quest’attività insulinotropica dipende dalla concentrazione di glucosio, e la curva di secrezione dell’ormone, rapportata ai livelli glicemici è spostata lievemente a sinistra rispetto alla curva della GSIS in condizioni regolari, a suggerire che la soglia di concentrazione di glucosio per la realizzazione del suo effetto K-ATP-indipendente, sia più bassa, rispetto a quella necessaria per realizzare l’azione K-ATP-dipendente. Inoltre, riguardo al meccanismo, sembra che non sia necessario
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l’incremento concomitante della concentrazione di Ca2+ citoplasmatico, essendo coinvolti
probabilmente di attivatori della protein chinasi C (PKC) e dell’Adenilato-ciclasi25,26.
Figura 1. Rappresentazione schematica della via dell’innesco e della via
dell’amplificazione metabolica alla base della GSIS nella β-cellula (modificato da Henquin, Diabetes Research and Clinical Practice 2011; 235: 527-531)
1.2. Il modello bifasico della secrezione insulinica
La cinetica temporale della secrezione insulinica glucosiomediata è stata a lungo studiata, sia in vitro, che in vivo tramite clamp iperglicemici, dimostrando che la risposta si sviluppa secondo un caratteristico pattern bifasico27,28. Già a fine anni ’60, Grodsky et al,
individuarono questo andamento infondendo, per un periodo di un’ora, una soluzione contenente glucosio in un pancreas isolato di ratto27. La fase più rapida e precoce di secrezione, cessava in circa due minuti, seguita da una più tardiva e lenta, che aumentava in maniera continuativa fino al termine dell’infusione. Si cercò anche di capire quale fosse il contributo relativo dell’insulina di nuova sintesi ad ogni fase, comparando il rilascio
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dell’ormone in normali preparazioni di controllo, al rilascio in preparati trattati con paromomicina, un antibiotico inibitore della sintesi proteica. Ciò che emerse fu che la risposta rapida non era influenzata dal trattamento, mentre la risposta lenta era decisamente ridotta, ad indicare che l’ormone di nuova sintesi, è rilasciato nella seconda fase di secrezione. Per contro, il trattamento con tolbutamide, farmaco appartenente alla classe delle sulfaniluree, che incrementano il rilascio insulinico bloccando i canali del K+, causava la risposta rapida, non seguita però dalla fase lenta, a suggerire che il farmaco non ha effetto sull’insulinogenesi e/o sul meccanismo che dà origine alla seconda fase. In più, un’altra cosa interessante che emerse fu che, la quota totale di insulina rilasciata sia nella fase precoce che in quella tardiva, risultava proporzionale alla quota di Ca2+ presente nel liquido di perfusione, fino ad una concentrazione di 4 mEq/l; mentre a livelli di calcio maggiori non si osservava un incremento ulteriore del rilascio insulinico.
Nelle decadi successive numerosi studi hanno cercato di indagare i meccanismi molecolari alla base della riposta secretoria bifasica. Inizialmente si è pensato che essa fosse imputabile ad un’eterogeneità funzionale delle isole pancreatiche, ma anche ad una variabilità tra singole β-cellule29. Queste ipotesi sono poi state scartate per mancanza di evidenze a loro
favore, così come l’idea che la risposta fosse determinata da variazioni di metaboliti, anch’esse dall’andamento bifasico. I modelli più accreditati ad oggi, che non si esclusono a vicenda e potrebbero coesistere, sono lo “storage-limited model” ed il “signal-limited-model”30-32.
Secondo il primo modello, sostenuto anche da osservazioni al microscopio elettronico, le vescicole secretorie contenenti insulina all’interno delle β-cellule, esistono in pool funzionalmente e logisticamente distinti, ed è il rilascio in sequenza di questi diversi pool, a determinare la dinamica della secrezione. La maggiore quota di granuli, localizzati nei depositi intracellulari, nelle vicinanze del reticolo endoplasmatico, fa parte del pool di riserva, mentre la rimanente quota (meno del 5%) è costituita da granuli pronti ad essere secreti, che si trovano nei pressi della membrana cellulare a stretto contatto con in canali del Ca2+ che ne regolano l’esocitosi33,34. Si stima che di più di 10000 granuli maturi contenenti insulina all’interno della β-cellula, solamente tra 50 e 200 costituiscano questo pool, e il modello sostiene che la prima fase della GSIS sia caratterizzata dal rilascio di questi granuli, mentre la seconda vedrebbe attuarsi la mobilizzazione dei granuli di riserva verso i siti t-SNARE della membrana plasmatica, per rimpiazzare i granuli secreti nella prima fase, ma
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anche per permettere la fusione con la membrana e la succesiva esocitosi35. Questa seconda fase avviene con una quota di 5-40 granuli rilasciati, per cellula al minuto33.
Studi precoci su cellule β isolate, riportavano la presenza di strutture costituite da microfilamenti che sembravano influenzare l’accoppiamento tra stimolo e secrezione bifasica36,37. Molti anni fa, il citoscheletro di actina è stato riconosciuto come mediatore chiave, e originariamente si pensava che si comportasse come una barriera in grado di bloccare i granuli che si spostavano verso la periferia. Più recentemente, la scoperta di GTPasi coinvolte nella riorganizzazione dei filamenti di actina nelle cellule β, combinata con la disponibilità di reagenti e strumenti più specifici per studiare i meccanismi che regolano i movimenti dei granuli, ha contribuito in maniera straordinaria alla comprensione del ruolo del citoscheletro nel regolare la secrezione dell’insulina38.
Per quanto riguarda il signal-limited model, esso sostiene che la risposta bifasica potrebbe essere il risultato della somma di stimoli con dinamica e latenza differenti39,40. Importanti a
questo proposito, sembrano essere i movimenti ionici del Ca2+: nella prima fase di secrezione
abbiamo infatti un aumento della concentrazione di Ca2+ all’interno della β-cellula, sincrono all’aumento dela glicemia; mentre nella seconda fase, i canali ionici del calcio, vanno incontro ad una serie di aperture e chiusure, con una conseguente fluttuazione rapida della concentrazione dello ione, che provoca dei quanti di secrezione insulinica32,41. Queste fluttuazioni ioniche, risultano asincrone in β-cellule isolate, ma sincrone nelle isole pancreatiche, dove le cellule sono unite da gap junctions: se queste comunicazioni vengono bloccate, la secrezione insulinica perde il suo andamento pulsatorio42.
È interessante notare che, l’aspetto bifasico della secrezione insulinica è più marcatamente evidente in condizioni patologiche, quando le concentrazioni più elevate di glucosio, determinano maggiori oscillazioni della concentrazione di Ca2+intracellulare e quindi una maggiore demarcazione tra prima e seconda fase di secrezione; cosa che invece non si riscontra in maniera così netta in condizioni fisiologiche43. È ben noto poi, che una riduzione soprattutto della prima fase può essere rinvenuta nelle fasi precoci del DM2, ma anche nella ridotta tolleranza glucidica (IGT)44, correlando prognosticamente con la progressione verso la malattia.
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1.3. Il potenziamento
Tramite alcuni esperimenti sia in vitro che in vivo, si è osservato che le variazioni della concentrazione ematica di glucosio, sono in grado di influenzare positivamente l’effetto insulinostimolante di alcune sostanze come l’arginina e la tolbutamide45,46. Si tratta di noti
secretagoghi, i cui effetti non sono secondari ad una stimolazione nel metabolismo energetico delle β-cellule: infatti l’arginina, amminoacido carico positivamente a pH fisiologico, entrando nella cellula provoca la sua depolarizzazione, producendo in questo modo l’apertura dei canali del Ca2+ voltaggio-dipendenti e stimolando quindi il rilascio
insulinico47, mentre la tolbutamide, come tutte le sulfaniluree ha come bersaglio i canali K+ATP.
Più precisamente, all’aumentare della concentrazione di glucosio extracellulare, si osserva un incremento in ampiezza della risposta insulinica a tali sostanze, pertanto definiamo quest’effetto, come potenziamento. Per cercare di comprendere come il glucosio esplichi tale azione, se stimolando la via dell’innesco o la via dell’amplificazione, Ishiyama et al, hanno misurato gli effetti di varie concentrazioni dell’amminoacido o della sulfanilurea, sulla secrezione insulinica e sui livelli di Ca2+ intracellulari, in isole pancreatiche di ratto, perfuse con varie concetrazioni di glucosio. La conclusione che ne hanno tratto è che il glucosio potenzi l’azione dei secretagoghi agendo sia sulla via dell’innesco, che sulla via dell’amplificazione metabolica48.
Fisiologicamente il fenomeno potrebbe aiutare a prevenire l’ipoglicemia che stimoli non glucidici potrebbero provocare se fossero pienamente attivi a bassi livelli di glicemia, e ad aumentare la risposta della β-cellula a frequenti situazioni di stimolazione mista.
Nel paziente con DM2 però, questa attività di potenziamento viene progressivamente a mancare49-51.
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2. Metabolismo lipoproteico
I lipidi, molecole idrofobiche, insolubili in acqua ma solubili in solventi organici, nel nostro organismo, svolgono funzioni importanti, sia dal punto di vista fisiologico, che metabolico: il colesterolo è necessario per la produzione degli ormoni steroidei, della bile ed è componente fondamentale della membrana plasmatica, di cui determina la fluidità; i trigliceridi, lipidi complessi costituiti da acidi grassi esterificati con una molecola di glicerolo, rappresentano una fonte energetica per la maggior parte dei tessuti e sono normalmente depositati negli adipociti ed in parte nel fegato; i fosfolipidi sono molecole anfipatiche, ossia costituite da una porzione polare, idrosolubile, ed una porzione apolare, liposolubile. Questa peculiarità li rende adatti a costituire le membrane cellulari e l’architettura delle lipoproteine. Queste ultime, sono grosse macromolecole, di forma sferoidale, che rappresentano l’unico mezzo attraverso il quale, i lipidi, altrimenti insolubili, possono essere veicolati nel torrente ematico.
Le lipoproteine sono costituite da una porzione centrale, idrofobica, definita core, contenente principalmente trigliceridi, esteri del colesterolo e vitamine liposolubili; e da un guscio periferico idrofilico, formato da fosfolipidi, colesterolo non esterificato ed apolipoproteine, la componente proteica di questi complessi, che non solo ne definisce la struttura, ma anche il destino metabolico: infatti le apolipoproteine hanno la capacità di interagire con recettori specifici indirizzando le macromolecole verso differenti sedi52. Esistono diverse famiglie di lipoproteine, che si differenziano per dimensioni, densità, definita dalla composizione relativa in lipidi e proteine, e mobilità elettroforetica. La densità è direttamente proporzionale al contenuto relativo in apoliproteine, mentre è inversamente proporzionale al contenuto relativo in lipidi. All’opposto, maggiore è il contenuto lipidico, maggiori sono le dimensioni.
I chilomicroni sono le lipoproteine più grandi (500 nm) e meno dense, essendo costituite per l’80% da lipidi, soprattutto trigliceridi e in misura minore, esteri del colesterolo. Essi sono prodotti dagli enterociti della mucosa intestinale in fase di assorbimento: le cellule impacchettano infatti queste componenti lipidiche esogene, di origine dietetica e liberano le macromolecole sul versante basolaterale, in modo da distriburle ai tessuti periferici. Le Very Low Density Lipoprotein (VLDL), sono anch’esse lipoproteine ricche in trigliceridi, ma sono prodotte a livello epatico ed hanno la funzione di trasferire i lipidi accumulati nel fegato ai
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tessuti periferici. Una volta nel plasma, le VLDL sono idrolizzate dalla Lipoproteina lipasi endoteliale (LPL) a generare particelle più piccole e dense, le Intermediate Density Lipoprotein (IDL), depauperate dei trigliceridi e con un contenuto relativo in esteri del colesterolo progressivamente maggiore. Durante la lipolisi, questi remnants vengono arricchiti anche dalla Apo-E, che viene ceduta loro dalle High Density Lipoprotein (HDL): queste sono le lipoproteine più piccole e dense, dall’alto contenuto proteico e di colesterolo, che vengono prodotte a partire dalle componenti circolanti. L’Apo-E, ha un’elevata affinità per il recettore delle Low Density Lipoprotein (LDL) a livello epatico e questo fa sì che una quota elevata di IDL sia ricaptata dal fegato. Le IDL circolanti possono andare incontro ad un ulteriore processo lipolitico, perdendo l’Apo-E e convertendosi in LDL. Queste ultime sono estremamente ricche in esteri del colesterolo e l’unica apolipoproteina che esprimono in superficie è l’ApoB-100, riconosciuta dai recettori delle LDL.
2.1. Chilomicroni
I lipidi assunti con la dieta sono costituiti per il 90-95% da trigliceridi, che contribuiscono a fornire la maggior parte dell’energia derivante dai pasti, mentre la rimanente quota è data da fosfolipidi, soprattutto fosfatidilcolina, steroli, tra cui il predominante è il colesterolo, e vitamine liposolubili.
La digestione dei lipidi comincia già nella cavità orale, attraverso l’esposizione alla lipasi salivare e continua nello stomaco, il maggior sito di emulsione, grazie soprattutto alla peristalsi. Quest’attività genera piccole goccioline lipidiche che raggiungono la seconda porzione duodenale, dove si mescolano alla bile ed ai succhi pancreatici, contenenti lipasi e colipasi.
La digestione e l’assorbimento dei trigliceridi comincia proprio grazie all’attività della lipasi pancreatica, che fa sì che le molecole siano frammentate in 2-monoacilgliceroli (MAG) ed acidi grassi liberi (FFA)53, quindi assorbiti attraverso il lume intestinale. Proteine di
membrana quali FAT, CD36 ed FATP4 hanno un ruolo importante nel mediare l’assorbimento, oltre che il trasporto successivo dei chilomicroni verso il sistema linfatico54,55. Anche il colesterolo entrerà a far parte del core dei chilomicroni nella sua forma esterificata: esso nell’organismo è presente sia come quota assorbita a seguito dei pasti, sia come componente endogena prodotta dal fegato e dai tessuti periferici. Dei 400 mg circa
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assunti giornalmente con la dieta, solo il 50% di colesterolo è assorbito nell’intestino, mentre il rimanente è escreto con le feci. Il suo assorbimento dipende dalla disponibilità di acidi biliari e dalla presenza di proteine trasportatrici sulla membrana apicale degli enterociti. Si tratta infatti di un trasporto facilitato, che coinvolge Niemann-Pick C1 like 1 (NPC1L1) che ne media l’ingresso nella cellula, mentre ATP-binding-cassette ABCG5 e ABCG8, ne mediano l’efflusso56,57. Questi trasportatori sono espressi anche a livello degli epatociti e
contribuiscono al circolo entero-epatico degli acidi biliari, che garantisce il riassorbimento della maggior parte degli acidi secreti con la bile nel lume intestinale, così come al trasporto bidirezionale del colesterolo: il trasporto diretto, dal fegato ai tessuti che ne hanno necessità ed il trasporto inverso, con il ritorno del colesterolo al fegato ed eliminazione dell’eccesso con le feci. Una volta nell’enterocita, gli enzimi di membrana del reticolo endoplasmatico (RE), acil-CoA-colesterolo-aciltransferasi (ACAT), catalizzano l’esterificazione del colesterolo, passaggio importante per inglobarlo nel core dei chilomicroni nascenti58. I prodotti di degradazione dei trigliceridi raggiungono anch’essi il RE grazie a specifiche proteine carrier, di cui le due principali appartengono alla famiglia delle Fatty Acid-Binding Proteins (FABPs), espresse sia negli enterociti che negli epatociti59. Successivamente, grazie all’azione degli enzimi monoacilglicerolo-aciltransferasi e diacilglicerolo-aciltransferasi vengono sintetizzati nuovamente trigliceridi che si legano alla Microsomal Transfer Protein (MTP). Questa proteina possiede tre domini, uno legante apoB, uno per il trasferimento di lipidi ed uno per legarsi alla membrana60 e parteciperà all’assemblaggio non solo dei chilomicroni, ma anche delle VLDL. Passaggio fondamentale per il processo multistep di produzione di queste grosse lipoproteine, è la sintesi e la modifica post-trascrizionale dell’ApoB48, forma tronca dell’ApoB100, rinvenuta in ognuna di esse61. Una volta
assemblati, i chilomicroni sono immessi nel sistema linfatico, tramite il quale raggiungeranno poi il torrente ematico per distribuire i lipidi ai vari tessuti. In circolo essi acquisiscono altre apolipoproteine: Apo-CI, Apo-CII, Apo-CIII e dApo-E. ApoCII è in grado di attivare la LPL, determinando l’idrolisi dei trigliceridi e quindi la riduzione del volume del core dei chilomicroni ed il trasferimento di componenti lipidiche in eccesso, tra cui fosfolipidi ed esteri del colesterolo, di Apo-CII ed Apo-CIII alle HDL in formazione. I trigliceridi, intanto sono assorbiti dal muscolo per ricavarne energia e dal tessuto adiposo per costituirne depositi, mentre i remnants dei chilomicroni, acquisicono esteri del colesterolo (sia dalla dieta che dalle HDL circolanti) ed Apo-E, che legandosi al recettore delle LDL epatico, ne media la rimozione dal circolo, che si realizza entro 12-14 ore dal pasto62.
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2.2. Very Low Density Lipoprotein
Una delle principali funzioni del fegato è quella di sintetizzare VLDL, in relazione alla disponibilità di trigliceridi63. Questi sono sintetizzati nel lume del RE degli epatociti, in risposta a flussi intermittenti di acidi grassi liberi (FFA), che derivano soprattutto da: FFA mobilizzati dagli adipociti, remnants dei chilomicroni e quelli derivanti dall’assorbimento intestinale tramite la vena porta64.
Si tratta di un processo altamente controllato, che gioca un ruolo importante nel regolare l’omeostasi lipidica: un’eccessiva produzione di VLDL associata da un’eccessiva secrezione nel torrente ematico è uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di aterosclerosi65. Infatti elevate concentrazioni di VLDL nel sangue, si traducono in conseguenti elevati livelli di LDL, particelle altamente aterogeniche. Quindi al fine di evitare conseguenze avverse, tra cui anche la steatosi epatica, la produzione di VLDL deve essere sincronizzata con la loro secrezione66.
I componenti strutturali di queste lipoproteine sonon quindi soprattutto trigliceridi, circondati da fosfolipidi, colesterolo e suoi esteri e specifiche apolipoproteine67. Le dimensioni delle VLDL variano tra i 35 ed i 100 nm di diametro e tra le apolipoproteine, le ApoB, sono le più importanti nel conferire alla particella nascente la stabilità strutturale68. Nell’uomo l’apolipoproteina chiave nell’architettura sia delle VLDL che delle IDL e delle LDL è l’ApoB100, sintetizzata sulla superficie del RE.
La sintesi delle macromolecole, avviene in due step successivi: primo, la traslocazione di ApoB100 appena tradotta, attraverso la membrana del RE rugoso e la sua parziale lipidazione, a formare una primitiva particella VLDL ancora povera di lipidi. Questo step è facilitato dall’azione della MTP. La lipidazione dell’apolipoproteina, dipende strettamente dalla disponibilità di trigliceridi: se ciò non avviene, la maggiore quota di ApoB100 viene degradata67. Nel secondo step, si realizza la fusione tra la VLDL primordiale ed altre particelle ricche in trigliceridi già presenti nel citosol. Molti studi indicano che il RE sia il sito finale di maturazione delle VLDL, mentre altri indicano che l’apparato di Golgi sia sede di una loro maturazione secondaria69. In ogni caso, una volta mature, le VLDL sono liberate in circolo e veicolate verso i tessuti perferici: anche in questo caso, come accade per i chilomicroni, saranno bersaglio dell’attività lipolitica della LPL, generando inzialmente
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quelle che vengono definite VLDL remnants e trasferendo la componente lipidica in eccesso sulle HDL in formazione52. Quindi, dato che queste lipoproteine ricche in trigliceridi sono substrato dello stesso enzima lipolitico in circolo, può succedere che un eccesso di chilomicroni nel periodo post-prandiale, inibisca la clearance delle VLDL.
2.3. Low Density Lipoprotein
Le LDL hanno un core lipidico costituito soprattutto da colesterolo, trasportandone una quota pari al 70% di quello totale plasmatico. Tuttavia nel torrente ematico, la loro composizione subisce delle modifiche: esse infatti interagiscono con Cholesterol ester transfer protein (CETP), enzima in larga misura legato alle HDL, che determina lo scambio di esteri del colesterolo e trigliceridi tra le lipoproteine. Precisamente sostenendo il passaggio di trigliceridi dalle VLDL alle LDL ed alle HDL e raccogliendo colesterolo esterificato. In questo modo le LDL si arricchiscono in trigliceridi che saranno poi idrolizzati dalla LPL70.
I livelli di LDL circolanti, sono determinati da un equilibrio tra produzione e rimozione. Il recettore delle LDL è in grado di legare ApoB100 espressa sulla superficie delle lipoproteine, permettendo ai tessuti che necessitano di colesterolo, di effettuarne l’uptake, con un meccanismo, finemente regolato attraverso un sistema a feedback, grazie ad una famiglia di fattori di trascrizione denominati sterol-regulated transcription proteins (SREBPs). Quando il colesterolo nella cellula scarseggia, le SREBPs, sono veicolate da proteine denominate cleavage activating proteins (SCAP) verso l’apparato di Golgi, dove sono processate da due proteasi, a rilasciare frammenti che entrano nel nucleo ed attivano la trascrizione di molti geni target, inclusi quelli codificanti per l’idrossi-metilglutaril coenzima A (HMG-CoA), enzima chiave per dare il via alla produzione di colesterolo, e per il recettore delle LDL71, che sarà in questo modo maggiormente espresso sulla membrana cellulare. Tra le altre molecole che funzionano come sensori del colesterolo, troviamo PCSK9, una serina proteasi in grado di promuovere la degradazione del recettore delle LDL per via lisosomiale e in questo modo di controllare i livelli di LDL circolanti72.
Il recettore delle LDL epatico è responsabile della rimozione del 70% circa del colesterolo circolante e la sua espressione sugli epatociti è modulata, oltre che in relazione al contenuto di colesterolo intracellulare, anche rispetto alla produzione di IDL ed LDL a partire dalle VLDL. Infatti il recettore è in grado di legare con elevata affinità anche ApoE espressa sulle
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IDL, quindi un aumento della captazione epatica di queste ultime, corrisponderà ad una diminuita produzione di LDL ed una diminuizione dell’espressione del recettore52.
Figura 2. Vie metaboliche delle lipoproteine ricche in trigliceridi (modificata da Ramasamy,
Clin Chem Lab Med 2014;52; 1695-1727
2.4. High Density Lipoprotein
Le HDL sono le lipoproteine plasmatiche più piccole e dense. Nell’uomo, loro elevati livelli, mostrano una relazione di proporzionalità inversa con l’incidenza di malattie cardiovascolari su base aterosclerotica73. Le proprietà antiaterogeniche sono legate principalmente alla loro
capacità di rimuovere il colesterolo in eccesso dalle cellule, inclusi i macrofagi e le cellule schiumose costituenti le placche lipidiche, nel processo di trasporto inverso del colesterolo74 (RCT), che lo veicola verso il fegato dove sarà eliminato per via biliare; in più esse inibiscono l’ossidazione delle LDL75, promuovono la riparazione endoteliale76, hanno
proprietà antitrombotiche ed antinfiammatorie77,78, ed inibiscono il legame dei monociti all’endotelio79.
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Il loro metabolismo è molto più complesso rispetto a quello delle altre lipoproteine: i componenti lipidici e proteici sono infatti per lo più assemblati dopo la secrezione, frequentemente scambiati o trasferiti ad altre lipoproteine ed attivamente rimodellati nel compartimento plasmatico74. L’apolipoproteina A1 (ApoA-1) è la più importante componente proteica delle HDL, sia dal punto di vista strutturale, che funzionale, e costituisce l’80% della particella. È secreta principalmente nel fegato e nell’intestino, inizialmente come ApoA-1 povera di lipidi. In seguito, un processo di progressiva lipidazione con fosfolipidi e colesterolo, poduce a partire da queste lipoproteine primitive, HDL sempre più mature, discoidali e sferiche. Le HDL discoidali, sono costituite da particelle proteiche di ApoA-1 che avvolgono un monostrato lipidico di fosfolipidi e colesterolo libero, mentre le HDL sferiche, sono più grandi e meno dense, costituite da esteri del colesterolo e crescenti quantità di trigliceridi80. Dal punto di vista della composizione nel
plasma troviamo sottopopolazioni di HDL estremamente eterogenee: sono state individuate più di 75 tipi di proteine ad esse associate; e studi di elettroforesi ed ultracentrifugazione, nello specifico le classificano in 5 sottopopolazioni di dimensioni decrescenti: HDL 2b, HDL 2a, HDL 3a, HDL 3b, e HDL 3c. Le HDL di sottotipo 3, sono piccole e dense, con dimensioni inferiori a 9 nm, peso inferiore a 200 kDa ed elevata densità, mentre le HDL di sottotipo 2, sono grandi e leggere. Per queste caratteristiche morfologiche è possibile che le HDL 3 corrispondano alle HDL discoidali in formazione, mentre le HDL 2 siano quelle più mature, sferiche81-83.
Il processo di lipidazione avviene innanzitutto grazie all’efflusso di colesterolo dalle cellule periferiche, reso possibile da trasportatori di membrana con cui ApoA1 interagisce: i principali sono ABCA1, ABCG1 ed il recettore scavenger B1 (SR-B1). ABCA1 trasferisce colesterolo libero e fosfolipidi dai macrofagi carichi alle HDL discoidali e la sua importanza nel processo di formazione delle HDL è dimostrato da studi in cui animali con deficit del gene avevano una carenza sia di HDL che di ApoA-184,85; ma anche dal fatto che mutazioni del gene sono alla base dell’eziopatogenesi della malattia di Tangier, determinando livelli di colesterolo HDL estremamente bassi86. ABCG1 invece garantisce l’efflusso di colesterolo e
fosfolipidi esclusivamente verso le HDL sferiche; mentre SR-B1, media un trasporto bidirezionale tra epatociti e macrofagi, dipendente dal contenuto intracellulare di colesterolo.
Dopo la fase di assemblaggio, le HDL in circolo vanno incontro ad ulteriori rimodellamenti mediati da enzimi quali Lecitina-colesterolo acil-transferasi (LCAT) e CETP. LCAT genera la maggior parte del colesterolo esterificato nel plasma87. Gli esteri del colesterolo essendo
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estremamente idrofobici, tendono a portarsi al centro della particella nascente nel momento in cui si formano, e questo contribuisce a stabilire un gradiente, riducendo il colesterolo in superficie e favorendone un continuo afflusso sia da altre lipoproteine che dalla reazione dell’enzima LCAT. CETP come abbiamo visto, media il trasferimento di trigliceridi tra le lipoproteine contenenti ApoB, chilomicroni, VLDL ed LDL, e le HDL in formazione. Quindi progressivamente si formano le HDL discoidali, costituite da particelle proteiche di ApoA-1 che avvolgono un monostrato lipidico costituito da fosfolipidi e colesterolo libero, e successivamente le HDL sferiche, più grandi e meno dense, costituite da esteri del colesterolo e crescenti quantità di trigliceridi80. Un altro enzima che agisce modificando la composizione delle HDL è Phospholipids Transfer Protein (PLTP), che vi trasferisce fosfolipidi derivanti dalle VLDL e dalle LDL. Con l’aumento di dimensioni e l’incremento della quota di trigliceridi, le HDL divengono substrato dell’attività della LPL ed inoltre alcune particelle di Apo-A1 si dissociano, dando origine nuovamente ad ApoA-1 povere di lipidi e quindi pronte a ricominciare il ciclo di lipidazione52. Oltre a questa via catabolica, le
HDL mature possono essere internalizzate dal recettore delle LDL, che riconosce Apo-E, presente sulla loro superficie, oppure tramite un processo noto come estrazione oloparticellare, in cui la particella viene endocitata e catabolizzata per intero74.
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3. Il diabete e la dislipidemia
Il diabete mellito, i cui criteri diagnostici sono riportati nella Tabella 1, è una malattia cronica sistemica complessa, caratterizzata da alterazioni del metabolismo glucidico, proteico e lipidico, conseguenti ad un deficit nella secrezione o nell’azione insulinica, la cui causa primaria è un danno a livello del pancreas endocrino e delle β-cellule. Dal punto di vista epidemiologico è una patologia in forte aumento: la prevalenza globale tra gli adulti era stimata a 285 milioni (6,4%) nel 2010, ed entro il 2030 ci si aspetta che arrivi a 439 milioni (7,7%)88. L’impatto della malattia è fortissimo, determinando essa non solo complicanze microvascolari, quali la retinopatia, la nefropatia e la neuropatia, ma anche e soprattutto, un aumento da 2 a 4 volte del rischio di eventi cardiovascolari89,90 e quindi complessivamente
della mortalità.
Diagnosi/dosaggi OMS 2006/2001 ADA 2003/2012
Diabete HbA1c
FPG
2hPG
Può essere usato
Se il risultato è ≥6,5% (48 mmol/mol) Raccomandato ≥7,0 mmol/l (≥126 mg/dl) O ≥11,1 mmol/l (≥200 mg/dl) Raccomandato ≥6,5% (48 mmol/mol) ≥7,0 mmol/l (≥126 mg/dl) O ≥11,1 mmol/l (≥200 mg/dl) IGT FPG 2hPG < 7,0 mmol/l (<126 mg/dl) ≥7,8<11,1 mmol/l (≥140 < 200mg/dl) < 7,0 mmol/l (<126 mg/dl) Non richiesto Se il risultato è 7,8-11,0 mmol/l (140-198 mg/dl) IFG FPG 2hPG 6,1-6,9 mmol/l (110-125 mg/dl) Se il risultato è <7,8 mmol/l (<140 mg/dl) 5,6-6,9 mmol/l (100-125 mg/dl)
FPG = glicemia plasmatica a digiuno; IGT = Alterata tolleranza al glucosio; IFG = alterata glicemia a digiuno; 2hPG = glicemia plasmatica 2 ore dopo carico orale di glucosio
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Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è caratterizzato dalla distruzione delle β-cellule, principalmente su base autoimmune, cellulo-mediata (DM1a), meno frequentemente su base idiopatica (DM1b), che porta, già all’esordio clinico, ad una riduzione della massa pancreatica del 70-90% e progressivamente ad una carenza totale di insulina, che raggiunge nel sangue livelli non dosabili. Questa forma si presenta di solito in un bambino od un adolescente, che manifesta il più delle volte un episodio acuto e violento di scompenso metabolico, una chetoacidosi. Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) è la forma prevalente, costituendo globalmente il 90% dei casi91 e mostrando un trend in aumento, più marcato nei paesi in via di sviluppo che in quelli sviluppati (69% vs 20%)88 : questo soprattutto a causa di modifiche dello stile di vita quali, la riduzione dell’attività fisica e la tendenza alla dieta ipercalorica, e di un conseguente incremento dell’incidenza di sovrappeso ed obesità92,93,
condizioni associate ad una progressiva riduzione dell’azione insulinica, definita insulinoresistenza. Questo comporta, inizialmente un tentativo di compenso, caratterizzato da un’aumentata attività di secrezione da parte delle β-cellule, che mantiene la glicemia a livelli normali o lievemente patologici. La condizione di iperinsulinemia, si protrae fino all’esaurimento funzionale della β-cellula, che quindi non riesce più a dominare il progressivo instaurarsi dell’iperglicemia e della malattia conclamata.
Esistono anche altre forme di diabete, caratterizzate da fenotipi intermedi tra le due principali, tra cui il Latent Autoimmunes Diabetes of Adults (LADA), una forma di DM1 a presentazione tardiva, ed il Maturity Onset Diabetes of the Young (MODY) quest’ultimo, un gruppo di sindromi diabetiche legate a difetti di singoli geni94.
3.1. Patogenesi del diabete: importanza della disfunzione β-cellulare
La patogenesi del DM2 è caratterizzata sia da insulinoresistenza che da disfunzione β-cellulare95,96, per quanto, nel tempo si sia data molta più enfasi al primo meccanismo, anche
a seguito dell’evidenza, tramite dosaggio dell’insulina con saggi immunoenzimatici, di come i suoi livelli in soggetti diabetici, fossero più elevati rispetto a quelli di individui con normale tolleranza glucidica (NGT).
Tuttavia, noi sappiamo che in condizioni fisiologiche, la normoglicemia è mantenuta grazie ad un equilibrio tra insulinosensibilità e secrezione ormonale, strettamente correlate, in modo che quando la sensibilità insulinica si riduce, la secrezione aumenti; questo fino a quando
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l’aumentata attività β-cellulare, non è più in grado di compensare l’insulinoresistenza periferica. Pertanto è la progressiva perdita di funzione della β-cellula, a determinare la transizione dallo stato pre-diabetico allo stato di malattia conclamata97. Questa transizione avviene lentamente, essendo il DM2 caratterizzato da una lunga fase subclinica che precede la malattia. Quindi possiamo individuare un continuum di eventi che si sovrappongono e portano al progressivo deterioramento della tolleranza glucidica, il cui primum movens è rappresentato da un eccesso cronico di nutrienti in soggetti geneticamente predisposti95,98, che riduce la sensibilità periferica all’insulina ed insieme ad eventi stressogeni, porta allo scompenso β-cellulare. Tra questi, i meccanismi più importanti sono condizioni quali l’infiammazione cronica, gli aumentati livelli circolanti di adipochine, rilasciate dal tessuto adiposo in eccesso, quali leptina, adiponectina, visfatina ed apelina99; così come,
disregolazioni dell’autoimmunità100 che conducono all’accumulo di sostanza amiloide a
livello insulare101; e non in ultimo gli effetti mediati dall’iperglicemia stessa, la glucotossicità102. L’iperglicemia cronica infatti aumenta l’apoptosi delle β-cellule,
compromette la sintesi e la secrezione dell’insulina oltre all’insulinosensibilità, attraverso la graduale perdita di espressione del gene codificante per l’ormone o di altri geni specifici delle β-cellule; lo stress ossidativo cronico a carico del RE e cambiamenti nel numero, nella forma e nella funzione dei mitocondri103.
Quindi il deficit β-cellulare è una caratteristica comune sia al DM1 che al DM2 e nella pratica clinica, talvolta è difficile discriminare tra le due forme, che sostanzialmente possono sovrapporsi: possiamo prendere in considerazione molti criteri clinici e di laboratorio, quali l’età, la gravità dei sintomi, il grado di iperglicemia, la presenza di chetosi, il body mass index (BMI), la necessità di una terapia insulinica e, quando è possibile misurarli, la presenza di anticorpi diabete-specifici; tuttavia nessuno di questi criteri ha una soglia definita, che ci permette una precisa distinzione, né è esclusivamente correlato con una delle due forme. È stato quindi suggerito che il diabete mellito sia uno spettro continuo di patologie la cui patogenesi vede la distruzione cellulare su base autoimmune nell’infanzia da una parte, e il deterioramento metabolico correlato all’invecchiamento dall’altra104. In più, “l’ipotesi
dell’acceleratore” suggerische che anche se su differenti background genetici, il DM1 ed il DM2, siano di base lo stesso disordine, distinti solo dalla quota di distruzione β-cellulare e da fattori causali (“acceleratori”) che portano alla perdita delle cellule: tra questi, un alto tasso apoptotico intrinseco, insulinoresistenza ed autoimmunità, presenti in vario grado in individui diversi105-107.
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Comunque, considerato che il deficit di massa β-cellulare funzionante è presente alla diagnosi di DM2 e progressivamente peggiora in relazione alla durata di malattia, essendo chiaramente associata ad un peggioramento del controllo glicemico e ad una riduzione dell’efficacia delle terapie, è necessario preservare la massa di β-cellule funzionanti e dato che la loro capacità rigenerativa nell’uomo è molto limitata, possiamo farlo riducendo il sovraccarico, innanzitutto con modifiche dello stile di vita e perdita di peso97.
3.2. Impaired Fasting Glucose ed Impaired Glucose Tolerance
L’insulinoresistenza e la disfunzione β-cellulare, nella fase antecedente la patologia conclamata, portano all’insorgenza di alterazioni dell’omeostasi glucidica che sono distinte in due grosse categorie, le quali possono anche coesistere nello stesso individuo: si parla di intolleranza glucidica a digiuno (Impaired Fasting Glucose – IFG) e di intolleranza glucidica post-prandiale (Impaired Glucose tolerance – IGT). I criteri diagnostici secondo American Diabetes Association (ADA) e World Health Organization (WHO), sono riportati nella Tabella 2. ADA WHO IFG FPG ≥100 mg/dl ≤ 125 mg/dl FPG ≥110 mg/dl ≤125 mg/dl IGT 2hPG ≥140 mg/dl ≤199 mg/dl 2hPG ≥140 mg/dl ≤199 mg/dl Tabella 2.
I pazienti con queste alterazioni mostrano caratteristiche differenti, ma anche molti punti in comune. Innanzitutto l’insulinoresistenza si riscontra sia nella IFG che nella IGT108,109, ma
il sito in cui essa si realizza è differente110: nella IFG isolata, vi è una ridotta sensibilità insulinica a livello epatico, mentre nel muscolo scheletrico è normale; invece nella IGT abbiamo elevata insulinoresistenza nel muscolo scheletrico, mentre nel fegato la sensibilità è solo lievemente ridotta111. Nei pazienti con sia IFG che IGT, l’insulinoresistenza è presente sia a livello epatico che muscolare. Questo determina anche alterazioni del metabolismo lipoproteico che rendono ragione della differente correlazione con il rischio cardiovascolare
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che possiedono queste due categorie. Infatti i pazienti con IGT isolata, mostrano elevati livelli di trigliceridi, VLDL e rimodellamento strutturale delle LDL ed un chiaro aumento del rischio di mortalità cardiovascolare e generale, mentre i pazienti con IFG isolata presentano un aumento dell’apolipoproteina B e delle LDL totali ed una correlazione leggermente più incerta rispetto all’instaurarsi della patologia aterosclerotica112,113. Molti
studi riportano che i pazienti con queste alterazioni dell’omeostasi glucidica, hanno un rischio maggiore rispetto alla popolazione sana, di evoluzione verso il diabete e questo ha portato a definirli come pre-diabetici. Tuttavia questa definizione non è del tutto esatta, perché in realtà la progressione può anche non verificarsi mai durante la vita di questi individui.
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3.3. Dislipidemia e diabete: un problema aperto
Nel 1988 Reaven aveva notato una correlazione tra la presenza di insulinoresistenza ed iperinsulinemia, condizioni predisponenti al diabete, ed ipertensione, notando come tutte queste condizioni, associate insieme, portassero ad un aumento del rischio di malattia coronarica (CAD)114. Questo rischio non risultava ridotto in pazienti trattati con farmaci antipertensivi, a significare che l’aggregazione di più fattori di rischio, più che la loro singola presenza, avesse una maggiore valenza nell’incrementare il rischio di CAD. I fattori di rischio presi in considerazione, oltre al diabete ed all’ipertensione comprendevano alterazioni del metabolismo lipoproteico, tra cui un aumento delle VLDL e dei trigliceridi e bassi livelli di colesterolo HDL. Questi furono definiti da Reaven nel loro insieme come sindrome X e ad oggi fanno parte di quella che prende il nome di sindrome metabolica. I parametri diagnostici della sindrome metabolica, elencati nella figura, ci consentono di identificare individui che hanno un aumentato rischio di sviluppare DM2, CAD e morte cardiovascolare.
Figura 3. Criteri diagnostici della sindrome metabolica, secondo OMS, NCEP-ATPIII e IDF
(modificato da Fiocca et al, G Ital Cardiol 2010; 11 (Suppl 1): 295-325)
Inoltre la dislipidemia è molto comune anche nel paziente diabetico, con una prevalenza tra il 72 e l’85%115 ed assume delle caratteristiche specifiche, tanto da far parlare di dislipidemia
diabetica. Questa include non solo anomalie quantitative, ma anche qualitative e nella cinetica delle lipoproteine, che le rendono maggiormente aterogeniche. Innanzitutto si riscontra un’ipertrigliceridemia, soprattutto post-prandiale e aumentati livelli di remnants, legati ad una aumentata produzione di lipoproteine ricche in trigliceridi e loro ridotto
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catabolismo; una riduzione dei livelli di HDL, secondaria ad un aumentata clearance; ed infine, le più frequenti alterazioni qualitative, potenzialmente aterogeniche, includono un aumento di VLDL che porta a sua volta all’incremento di LDL piccole e dense (sdLDL); un’aumentata tendenza all’ossidazione delle LDL ed un incremento del contenuto in trigliceridi sia delle LDL che delle HDL116. Nel complesso, si parla di triade lipidica, ad indicare le alterazioni lipoproteiche caratteristiche di questi pazienti, l’ipertrigliceridemia, la riduzione delle HDL e l’aumento delle sdLDL, riconducendo il loro sviluppo all’aumentato flusso di FFA, legato all’instaurarsi di insulinoresistenza ed iperinsulinemia117.
Studi più recenti rivelano però che anomalie del metabolismo lipidico sono frequenti anche prima dell’insorgenza del diabete118; questo unito all’evidenza da studi longitudinali, che
ogni componente lipidica compresa nella definizione di sindrome metabolica, sia di per sé un fattore di rischio per il DM2119, conferisce forza all’ipotesi che le alterazioni del
metabolismo glucidico possano essere causate dalla dislipidemia stessa, dovuta in questi individui per lo più ad uno stile di vita scorretto. Questo fornisce nuovi orizzonti non solo rispetto all’eziopatogenesi del DM2, ma anche rispetto ai possibili interventi terapeutici e preventivi per la patologia dismetabolica e per il rischio cardiovascolare ad essa correlato: ogni alterazione del metabolismo lipoproteico può infatti costituire un potenziale bersaglio di intervento120.
4. Lipotossicità
L’evidenza che condizioni quali, sovrappeso, obesità e dislipidemia, caratteristiche della sindrome metabolica, siano, non solo tratti propri del fenotipo diabetico, ma spesso presenti anche nelle fasi antecedenti la patologia conclamata, soprattutto negli individui con storia familiare, ha portato negli anni a dare una maggiore rilevanza al ruolo della lipotossicità nella patogenesi del diabete, non solo per quanto riguarda l’insorgenza dell’insulinoresistenza, ma anche della disfunzione della β-cellula.121,122
Il termine Lipotossicità è stato coniato da Unger, che per primo ha descritto gli effetti avversi sulla secrezione insulinica e quindi sull’omeostasi glucidica, indotti dagli acidi grassi123.
Per lungo tempo si è ritenuto che gli acidi grassi agissero solo sinergicamente all’iperglicemia, nel determinare il danno sulla β-cellula, parlando quindi di glucolipotossicità124, ma ad oggi sappiamo che le varie componenti del profilo lipidico,
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presenti in concentrazioni alterate nel torrente ematico e nella β-cellula, sono in grado di agire indipendentemente dall’iperglicemia, determinando accumulo di metaboliti tossici a livello intracellulare, riduzione dell’espressione genica dell’insulina, calo della GSIS con conseguente progressiva perdita della tolleranza glucidica103.
4.1. Ruolo dei NEFA
Gli acidi grassi non esterificati (NEFA o FFA) rappresentano un substrato energetico importante per le cellule dell’organismo incluse quelle pancreatiche, soprattutto nella fase di digiuno, quando i loro livelli circolanti, sia in forma libera che di VLDL, aumentano. Le concentrazioni in assoluto più elevate di NEFA si rilevano nella zona dell’interstizio peri-insulare piuttosto che nel plasma, grazie all’idrolisi dei trigliceridi impacchettati nelle lipoproteine, mediata dalla LPL espressa sulla superficie β-cellulare. Nella fase post-prandiale, al contrario, grazie all’effetto anti-lipolitico dell’insulina, i livelli di NEFA circolanti risultano ridotti. Questo effetto dell’insulina, viene meno nel tessuto adiposo insulinoresistente, in cui, nonostante elevati livelli di ormone circolante, c’è un eccesso di attività lipolitica, con conseguente incremento dei NEFA plasmatici. Questi determinano l’insorgenza di un circolo vizioso, favorendo l’insulinoresistenza nel muscolo scheletrico e il deterioramento ulteriore della funzione β-cellulare125. Studi epidemiologici, hanno dato
supporto nel tempo all’ipotesi che gli acidi grassi liberi circolanti potessero avere un ruolo rilevante nel determinare gli effetti di lipotossicità, dimostrando sia nella razza caucasica126, che negli indiani Pima127 che loro elevati livelli circolanti, rappresentavano nel lungo termine un fattore di rischio per l’insorgenza di ridotta tolleranza glucidica e sua progressione a DM2. Studi in vitro hanno dimostrato che, se un’esposizione acuta ad elevati livelli di NEFA, comporta un miglioramento della GSIS, per contro, gli effetti di un’esposizione cronica sono deleteri, compromettendo la secrezione insulinica e determinando l’apoptosi della cellula128. Questi risultati sono stati confermati in modelli murini in cui era presente
una disfunzione β-cellulare progressiva, esposti ad elevati livelli di trigliceridi e NEFA per 48h. L’effetto deleterio di questi ultimi, risultava tanto più marcato, quanto più grave era la perdita della tolleranza glucidica sottostante129.
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4.1.1. Meccanismi cellulari e molecolari di lipotossicità
I meccanismi di lipotossicità e glucotossicità che hanno ricevuto maggior supporto come determinanti il deterioramento della funzione β-cellulare, comprendono un effetto diretto degli FFA, o mediato da PKC e ceramide, nell’indurre uno stato di infiammazione cronica, di stress ossidativo e sul reticolo endoplasmatico.130
Figura 4. Meccanismi di lipotossicità da parte dei NEFA, in base agli studi in vitro.
Sono mostrati anche gli effetti additivi e sinergici della glucotossicità.
(Modificata da Giacca et al, 2011 Am J Physiol Endocrinol Metab 300:E255-E262) Le vie di trasduzione del segnale ed i principali fattori di trascrizione che consentono alla β-cellula di differenziarsi, proliferare e rilasciare insulina, sono stati oggetto di numerosi studi, e alterazioni nell’espressione genica sono state riscontrate nelle isole pancreatiche di individui con DM2131. Tra i fattori di trascrizione implicati nell’alterazione della GSIS, sono noti in particolar modo Pancreatic duodenal homebox-1 (Pdx-1), Forkhead box-containing protein O1 (FoxO1) e Steroid regulatory element binding protein 1c (SREB1c)132.
Pdx-1 è principalmente localizzato nelle β-cellule133 e sue mutazioni in omozigosi, risultano nell’agenesia del pancreas, mentre in eterozigosi, comportano l’insorgenza di ridotta tolleranza glucidica, MODY-4 e DM2134.
Wang et al nel 2005 hanno dimostrato che sopprimendo l’espressione di Pdx-1 in linee di cellule insulari INS-1, si ottiene una down-regulation nell’espressione del recettore
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1R. Questo comporta una riduzione dell’interazione con il suo ligando GLP-1, una delle principali incretine, che normalmente agisce sulle β-cellule135 determinando il potenziamento della secrezione insulinica attraverso un aumento della produzione di cAMP e fosforilazione di CREB (cAMP responsive elements binding protein). Lo stesso effetto inibitorio sull’asse incretine-β-cellula, è stato ottenuto da Kang et al nel 2013, attraverso la prolungata esposizione di cellule insulino-secernenti di ratto al palmitato. Il trattamento con bezafibrato e quindi la normalizzazione del profilo lipidico in topi diabetici, per contro, ha mostrato di migliorare nettamente l’efficacia di terapie a base di incretinici, tra cui l’inibitore della Dipeptidil-peptidasi-4, Sitagliptin, e l’agonista del GLP-1R, Exendin-4 , ripristinando l’espressione del GLP-1R136.
Per quanto riguarda SREBP-1c, si tratta di un fattore di trascrizione espresso sulla membrana plasmatica e coinvolto nella regolazione della lipogenesi epatica132,137. La sua espressione è
incrementata dall’introito di carboidrati con la dieta ed acidi grassi saturi, come osservato recentemente in colture β-cellulari e nel topo138, in cui una sua iperespressione determina
l’insorgenza di ridotta tolleranza glucidica139. Tutti gli effetti soppressivi sulla GSIS
derivanti dall’infusione di palmitato, risultano assenti nei topi SREBP-1c-null, segno che ci potrebbe essere un’importante interazione nel signaling tra questo fattore di trascrizione, Pdx-1 e GLP-1R140.
FoxO1 fa parte di una famiglia di proteine, dotate di un dominio legante il DNA, chiamato forkhead box141. L’isoforma FoxO1 è la più abbondante nel fegato, nel tessuto adiposo e nelle β-cellule, dove regola il metabolismo glucidico e lipidico. È noto che un carico di FFA che ecceda la capacità di esterificazione della β- cellula, possa ridurre le funzioni del reticolo endoplasmatico e scatenare una sua risposta stressogena, contribuendo alla tossicità cellulare142; in queste condizioni sembra che FoxO1 possa favorire l’apoptosi e quindi la comparsa di una ridotta tolleranza glucidica concomitante143. Al contrario, l’inibizione di FoxO1 riduce l’espressione dei geni marcatori di stress del RE, promuovendo la sopravvivenza della β-cellula142 e migliorando la GSIS a valori elevati di glicemia144.
Il recettore x dei farnesoidi FXR, è un altro fattore di trascrizione, ampiamente espresso nel fegato, nell’intestino e nelle ghiandole surrenali, coinvolto nel mantenimento dell’omeostasi glucidica e lipidica145. È stato dimostrato da Popescu nel 2010, che esso è coinvolto anche
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traslocato nel nucleo ed inattivato e le insule di topi FXR- negativi, mostrano una compromissione della GSIS146.
Anche Ubiquitin C-terminal idrolasi L1 (UCHL1), enzima deubiquitinante, è stato dimostrato essere fondamentale per la normale funzionalità β-cellulare, soprattutto in condizioni di lipotossicità.
Infatti Chu et al nel 2012 hanno osservato che la proteina era iperespressa in cellule β MIN6, trattate con palmitato e che in topi UCHL1-negativi, per contro, dopo 4 settimane di dieta ricca di grassi, si osservava ridotta tolleranza glucidica e deterioramento della secrezione insulinica., a fronte di un un aumento dello stress del RE e dell’apoptosi147.
Un’altra molecola implicata nella protezione delle β-cellule dall’apoptosi in condizioni di stress è
N-myc Downstream Regulated Gene 2 (NDRG2). È stata identificata da Shen et al, come potenziale substrato della proteinchinasi Akt, la quale fa parte di vie di signaling dell’insulina e potrebbe promuovere la sopravvivenza della β-cellula in condizioni di stress indotto da FFA148.
Un altro meccanismo citoprotettivo nei confronti della lipotossicità coinvolge i domini lipidici intracellulari ed alcune proteine espresse sulla loro superficie, quali le perilipine e la roteina o adipocyte differentiation related protein (ADFP). Queste proteine sono espresse costitutivamente, ma la loro espressione aumenta in risposta a stimoli lipogenici149, indirizzando gli FFA citosolici verso depositi di trigliceridi e aumentando la capacità di stoccaggio dei lipidi nella β-cellula. In condizioni di lipotossicità, ed perespressione di perilipine in cellule INS-1, si osserva il mantenimento della GSIS150.
Silent Information Regulator 2 Protein 1 (Sirt1) è una proteina deacetilasi, che fa parte della famiglia delle sirtuine151 e gioca un ruolo essenziale nell’insorgenza del DM2, in virtù della sua attività insulinosensibilizzante. Infatti risulta marcatamente diminuita in cellule insulinoresistenti152, mentre la sua iperespressione mostra di migliorare l’omeostasi glucidica153.
Il polipeptide pituitario attivante l’adenilato ciclasi (PACAP), appartiene alla famiglia delle incretine ed è in grado di potenziare la GSIS con un meccanismo autocrino/paracrino154. L’azione insulinotropica avviene tramite il legame del PACAP al suo specifico recettore ed il successivo accoppiamento al signaling sia del cAMP che del calcio, quindi le stesse vie di
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trasduzione impiegate anche da altre incretine quali il GLP-1. Nello studio di Nakata et al del 2010, si è osservato come, un trattamento a breve termine di insule pancreatiche di ratto, con palmitato, inducesse un decremento nella GSIS, nei topi PACAP-null, ma non in quelli wild-type. Questi risultati, indicano l’importante ruolo protettivo del PACAP sulla β-cellula, contro la lipotossicità155.
Infine, anche la grelina, mostra avere un ruolo nella prevenzione del danno lipotossico: si tratta di un peptide secreto soprattutto nel fondo dello stomaco, ma anche in alcune cellule ε del pancreas, che quindi potrebbe agire sulle cellule β, sia per via endocrina che paracrina156.
Dopo numerosi studi sugli effetti della grelina, dai risultati contrastanti, è emerso che il suo effetto protettivo viene esercitato attraverso l’attivazione della via di signaling PI3K/Akt, che aumenta la proliferazione e la sopravvivenza cellulare157; in più la grelina mostra di ridurre lo stress ossidativo del RE, riducendo i livelli di Tg citoplasmatici, di sopprimere l’espressione di geni quali SREBP-1c, BAX e CHOP10 ed inibire la traslocazione nucleare di FoxO1158,159.
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Figura 5. Espressione/attività delle molecole effettrici in condizioni di lipotossicità.