• Non ci sono risultati.

Sintesi di nuovi potenziali inibitori di tirosina chinasi a struttura diidropirimidochinazolinica per la terapia antitumorale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Sintesi di nuovi potenziali inibitori di tirosina chinasi a struttura diidropirimidochinazolinica per la terapia antitumorale"

Copied!
90
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

SINTESI DI NUOVI POTENZIALI INIBITORI DI TIROSINA CHINASI A

STRUTTURA DIIDROPIRIMIDOCHINAZOLINICA PER LA TERAPIA

ANTITUMORALE

Relatori: Candidata:

Prof.ssa Sabrina Taliani Laura Vatteroni

Dott.ssa Silvia Salerno

(2)
(3)

INDICE

INDICE 3

CAPITOLO 1: IL TUMORE 5

1.1 Neoplasia, tumore e cancro 5

1.2 I numeri del cancro in Italia 5

1.3 Cancerogenesi 8

1.3.1 Alterazioni nella regolazione del ciclo cellulare 10

1.4 Caratteristiche delle cellule tumorali 13

1.5 Tumori maligni e benigni 21

1.6 Le cause del cancro 22

1.6.1 Fattori endogeni 22 1.6.2 Fattori esogeni 23

1.7 Il trattamento del cancro 28

CAPITOLO 2: LE TIROSIN-CHINASI, TARGET DELLA TERAPIA

ANTITUMORALE 30

2.1 Il più grande gruppo di enzimi presenti in natura: le chinasi 30

2.2 Le proteine tirosina chinasi 31

2.3 Tirosina chinasi e vie di segnalazione coinvolte nel cancro 34

2.3.1 ErbB 34

(4)

2.3.3 PDGFR 42

2.3.4 InsR 42

2.3.5 Ret 43

2.3.6 Src 43

CAPITOLO 3: LA TERAPIA MULTITARGET 45

3.1 La terapia mirata 45

3.2 Inibitori tirosin-chinasici e loro meccanismo d’azione 47 3.3 Approccio terapeutico multitarget nel trattamento del cancro 54

3.3.1 Punti di forza e limiti della terapia multitarget 60

CAPITOLO 4: INTRODUZIONE ALLA PARTE SPERIMENTALE 63

CAPITOLO 5: PARTE SPERIMENTALE 77

(5)

CAPITOLO 1: IL TUMORE

1.1 Neoplasia, tumore e cancro

Con il termine neoplasia (dal greco νέος, nèos, «nuovo», e πλάσις, plásis, «formazione») o tumore (dal latino tumor, «rigonfiamento») si intende “una massa di tessuto che cresce in eccesso ed in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali, e che persiste in questo stato dopo la cessazione degli stimoli che hanno indotto il processo” [1].

Il termine tumore (tumor, «rigonfiamento») fa riferimento all’aspetto macroscopico della patologia, che spesso si presenta come una massa rilevante sul sito anatomico di origine; il termine neoplasia «nuova formazione», invece, non fa riferimento all’aspetto esteriore della massa ma al suo contenuto cellulare, costituto da cellule di nuova formazione. La manifestazione in forma maligna di un tumore viene anche chiamata cancro.

Il termine cancro infatti, dal latino “cancer” e dal greco “karkinos” (granchio), fa riferimento alla tendenza della massa tumorale, specie in stadio avanzato, di dare origine a propaggini all’interno del tessuto sano, paragonabili alle chele di un granchio, poiché il tumore può ramificarsi dalla massa principale per insinuarsi nei tessuti circostanti[2].

1.2 I numeri del cancro in Italia

Nel 2019, in Italia, sono stati diagnosticati circa 371.000 nuovi casi di tumore maligno, di cui 196.000 negli uomini e 175.000 nelle donne.

In Italia ogni giorno circa 1000 persone ricevono una nuova diagnosi di tumore maligno infiltrante.

Le 5 neoplasie[3] (Figura 1) più frequenti nel 2019 sono state il tumore della mammella

(53.500 nuovi casi), del colon-retto (49.000), del polmone (42.500), della prostata (37.000) e della vescica (29.700).

(6)

Il tumore alla prostata è il più frequente tra gli uomini (19%), seguito dal tumore del polmone (15%), del colon-retto (14%), della vescica (12%) e dello stomaco (4%). Nel sesso femminile prevale il tumore della mammella (30%), seguito dai tumori del colon-retto (12%), del polmone (12%), della tiroide (5%) e del corpo dell’utero (5%).

L’incidenza non dipende solo dal genere ma anche dall’età: nei maschi giovani il tumore maggiormente diagnosticato è il cancro del testicolo, seguito dai melanomi e dal tumore della tiroide; nella fascia di età 50-69 anni e negli ultrasettantenni il tumore più frequente è quello della prostata, seguito da quello del polmone, del colon-retto e della vescica. Nelle femmine, invece, il cancro della mammella è la neoplasia che si presenta con maggiore frequenza in tutte le classi di età.

Come emerge dai dati ISTAT, i tumori sono la seconda causa di morte (29% di tutti i decessi), dopo le malattie cardio-circolatorie (37%).

La frequenza dei decessi causati da neoplasie, nelle aree italiane coperte dai Registri Tumori, è, ogni anno, di circa 3,5 decessi ogni 1000 uomini e di 2,5 decessi ogni 1000 donne: in totale, circa 3 decessi ogni 1000 persone.

Possiamo dunque constatare che, ogni giorno, in Italia, muoiono oltre 485 persone a causa di un tumore.

Nel 2016 (ultimo anno disponibile) i dati ISTAT indicano come prima causa di morte oncologica nella popolazione il tumore del polmone (33.838), seguito da colon-retto (19.575), mammella (12.760), pancreas (12.049) e fegato (9.702) [3].

La sopravvivenza è il principale outcome in ambito oncologico e dipende principalmente da due parametri: la fase nella quale avviene la diagnosi della patologia e l’efficacia delle terapie messe in atto. Quella che viene valutata è la sopravvivenza netta, ovvero la sopravvivenza non imputabile ad altre cause diverse dal cancro.

I valori di sopravvivenza osservati (Figura 2) variano in base alla tipologia di tumore: si passa dal 90% circa (dopo 5 anni dalla diagnosi) per il tumore del testicolo, della mammella e della prostata, a meno del 10% per tumori come quello del pancreas.

(7)

Figura 2[4]. Sopravvivenza netta a 5 anni dalla diagnosi per il periodo 2005-2009.

Considerando la proporzione di persone che vivono dopo una diagnosi di tumore, in relazione alle tipologie di tumore più frequenti e al sesso, è stato stimato che oltre la metà delle donne (52%) cui è stato diagnosticato un tumore sono guarite, mentre tra gli uomini questa percentuale è minore (39%), a causa della maggior incidenza di tumori a prognosi più severa.

Ad esempio, il tumore della mammella (Figura 3) è il più frequente nel sesso femminile (815.002 casi) e quasi la metà delle donne (44%) vivono dopo una diagnosi di tumore.

Figura 3[3]. Percentuale di persone che vivono dopo una diagnosi di tumore in Italia nel

(8)

I dati riportati dall’Associazione Italiana dei Registri tumori indicano una crescita costante del numero di italiani che vivono dopo una diagnosi di tumore di circa il 3% l’anno[5].

Attualmente[3] si stima che gli italiani che sopravvivono ad una diagnosi oncologica siano

circa 3 milioni e mezzo, ovvero il 5,3% della popolazione (un italiano su 19), cifra in costante aumento, grazie ad armi sempre più efficaci e alla maggiore adesione ai programmi di prevenzione e screening.

Le persone che vivono dopo una diagnosi di neoplasia da più di 5 anni sono circa 2,3 milioni, i 2/3 del totale dei pazienti.

Circa il 50% delle persone che si ammalano è destinata a guarire e almeno un paziente su quattro è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e può ritenersi guarito[6].

1.3 Cancerogenesi

Una cellula normale si trasforma in neoplastica mediante un processo che coinvolge varie tappe, con accumulo di anomalie genetiche, funzionali e morfologiche.

In un organismo sano si ha infatti un perfetto equilibrio fra vita e morte cellulare (omeostasi cellulare) ovvero fra divisione cellulare (mitosi) e morte cellulare programmata (apoptosi). Questi processi sono finemente regolati affinché tessuti e organi conservino la loro integrità. Nel momento in cui tale equilibrio viene a mancare possono insorgere mutazioni nel DNA: questo dà luogo ad una divisione cellulare incontrollata e ad una possibile manifestazione tumorale[3].

Possono manifestarsi alterazioni neoplastiche in qualunque cellula nucleata, poiché tutte le cellule del corpo umano sono dotate di un programma genetico per la loro replicazione. Elemento imprescindibile per la genesi tumorale è la perdita della risposta ai controlli della crescita normale. Le cellule tumorali, infatti, possono replicarsi in maniera parzialmente o totalmente indipendente dai meccanismi regolatori che garantiscono l’omeostasi dei tessuti[7].

La cancerogenesi[8] è un processo lungo e complesso: una singola alterazione genetica non

è sufficiente a determinare lo sviluppo di un tumore, il quale infatti deriva da un accumulo di mutazioni, ovvero da alterazioni di geni che regolano la proliferazione e la sopravvivenza delle cellule.

Il tumore benigno può essere ritenuto la prima tappa di queste alterazioni; malgrado ciò, questo stadio viene spesso saltato e si arriva alla malignità senza evidenti segnali precursori.

(9)

Le mutazioni a cui possono andare incontro le cellule dell’organismo umano si dividono in acquisite o ereditate.

Le mutazioni acquisite sono attribuibili a errori casuali nella replicazione del DNA o all’esposizione a fattori di rischio modificabili e non, come stili di vita poco salutari. Le mutazioni ereditate, invece, sono presenti al momento della nascita e possono derivare da uno o da entrambi i genitori. La presenza di queste mutazioni comunque non implica inevitabilmente l’insorgenza di un tumore ma ne aumenta, in misura individuale, il rischio. Pertanto, più che di ereditarietà del cancro, è giusto parlare di predisposizione genetica allo sviluppo della malattia.

Se infatti sono presenti, già dalla nascita, una o più mutazioni, sarà sufficiente un minor numero di danni al DNA affinché si raggiunga la soglia critica necessaria ad innescare il processo di trasformazione neoplastica.

Nel processo di cancerogenesi (Figura 4) è necessaria l’attivazione dei geni che promuovono la crescita (oncogeni) e l’inattivazione dei geni che la inibiscono (oncosoppressori): il risultato è una proliferazione cellulare incontrollata.

Figura 4[3]. Cancerogenesi.

(10)

1. Geni proto-oncogeni: geni che codificano per proteine deputate al controllo della divisione e della differenziazione cellulare. I proto-oncogeni, mutati a causa di alterazioni a livello del DNA, divengono oncogeni, i quali generano proteine difettose, che si dividono in maniera continua.

2. Geni oncosoppressori: geni[7] che codificano per proteine capaci di inibire la

proliferazione cellulare, agendo da “freno” in caso di danno. Mutazioni a livello di tali geni inducono la sintesi di proteine inattive, mentre delezioni a livello degli stessi causano la mancata sintesi di proteine; in ogni caso viene meno qualsiasi controllo negativo sull’avanzamento del ciclo cellulare.

3. Geni implicati nel processo di morte cellulare programmata: geni che codificano per proteine implicate nell’apoptosi, processo di “autodistruzione” cellulare, che si attiva in caso di danno. Mutazioni a carico di questi geni impediscono alla cellula di entrare in apoptosi, favorendo dunque la sopravvivenza della cellula mutata.

4. Geni implicati nei meccanismi di riparazione del DNA: in caso di mutazioni a carico di proteine facenti parte dei sistemi di controllo e di riparazione del DNA, si rende impossibile la riparazione delle lesioni al genoma cellulare e le mutazioni non riparate possono condurre allo sviluppo di una cellula tumorale.

Se quindi questi genisubiscono alterazioni, alla cellula vengono a mancare istruzioni corrette, mentre si attivano meccanismi che conducono ad una abnorme divisione cellulare. Questo è il primo passo della trasformazione di una cellula sana in cellula tumorale. Le due cellule figlie, derivanti dal processo di divisone cellulare, a loro volta, continueranno a riprodursi, dando vita ad una popolazione di cellule, che si organizza a formare una massa, la quale si differenzia dal tessuto di origine.

La massa tumorale continua a crescere, prima limitandosi a comprimere tessuti e organi circostanti, poi infiltrandovisi[9].

1.3.1 Alterazioni nella regolazione del ciclo cellulare

Il termine ciclo cellulare definisce la sequenza di eventi, coordinati tra loro, che si susseguono in maniera unidirezionale, dai quali dipende la corretta proliferazione delle cellule eucariotiche.

Esso è costituito da più fasi: G1, S, G2, M.

Il primo stadio è la fase G1 (gap 1), in cui la cellula accresce il suo volume e sintetizza i

(11)

la replicazione del DNA. Nella fase G2 (gap 2) la cellula si prepara alla fase M (mitosi),

durante la quale si avrà la formazione di due cellule figlie, geneticamente identiche alla progenitrice e tra loro.

Il ciclo cellulare (Figura 5) presenta dei punti di controllo (checkpoints), per far sì che la cellula intraprenda il passaggio successivo del ciclo, solo se la fase precedente è stata svolta con regolarità e se le condizioni intra ed extracellulari sono favorevoli. Sono tre le stazioni regolatrici[10]:

1. Checkpoint G1 o “punto di restrizione”: è localizzato al termine della fase G1 e,

superandolo, la cellula entra nella fase S, per duplicare il proprio DNA.

2. Checkpoint G2 o “punto di controllo G2/M”: è posto alla fine della fase G2 e permette

l’inizio della mitosi, solo se è avvenuta la corretta replicazione del DNA.

3. Checkpoint M o “transizione metafase-anafase”: si trova nella fase M e permette alla cellula di stabilire se i cromosomi sono correttamente attaccati al fuso mitotico: il suo superamento porta al completamento della mitosi e della citodieresi.

Figura 5[11]. Ciclo cellulare e checkpoints.

Il ciclo cellulare[12] è finemente regolato dalle chinasi ciclina-dipendenti o Cdk

(cyclin-dependent kinases), proteine chinasi la cui attività è subordinata all’associazione con

molecole proteiche, dette cicline.

Le cicline, infatti, formando un complesso con l’enzima Cdk, costituiscono l’innesco per la sua attivazione, che conduce alla fosforilazione di altre proteine.

In ogni fase del ciclo cellulare è presente un solo tipo di complesso ciclina-Cdk attivo, cosicché vengano fosforilate e attivate proteine bersaglio diverse.

(12)

Catalizzando la reazione di fosforilazione di una determinata proteina bersaglio, i complessi Cdk-ciclina ricoprono un ruolo importante nel dare inizio alle varie fasi del ciclo cellulare (Figura 6).

• La ciclina A-Cdk2 stimola la replicazione del DNA, durante la fase S.

• La ciclina B-Cdk1 esercita la propria funzione nella fase di transizione da G2 a M,

dando inizio alla mitosi.

• I complessi ciclina D-Cdk4 e ciclina E-Cdk2 svolgono la loro azione a metà della fase G1, facendo progredire il ciclo cellulare oltre il punto di restrizione (R). Il fattore

chiave che permette ad una cellula di procedere oltre il punto di restrizione è costituito da una proteina detta RB (proteina retinoblastoma). Essa normalmente inibisce il ciclo cellulare, ma quando viene fosforilata da una chinasi si inattiva, permettendo così alla cellula di procedere oltre la fase G1, per entrare in fase S.

Figura 6[13]. Cdk e cicline nel controllo del ciclo cellulare.

I complessi ciclina-Cdk hanno dunque un ruolo chiave nella regolazione del ciclo cellulare, a livello dei punti di controllo.

Ad esempio, se durante la fase G1, il DNA è stato danneggiato da radiazioni, viene prodotta

una proteina, detta p21, che blocca l’attivazione di Cdk, ad opera delle cicline: in questo modo, il ciclo cellulare si arresta, per permettere alla cellula di riparare il DNA danneggiato. L’espressione di p21, soppressore tumorale, è strettamente correlata a p53:

(13)

tramite la loro interazione il ciclo cellulare si arresta in G1, per prevenire la trasformazione

di una cellula, che ha subito un danno genetico, in cellula tumorale.

Oltre la metà di tutti i tipi di tumore coinvolgono cellule dotate di p53 difettosa, la quale impedisce il controllo del normale ciclo cellulare.

Considerando che divisioni cellulari non appropriate conducono al cancro, non sorprende che nelle cellule neoplastiche risulti interrotto il controllo esercitato dal complesso ciclina-Cdk.

1.4 Caratteristiche delle cellule tumorali

Tutte le forme di cancro, per quanto diverse tra loro, presentano dieci caratteristiche comuni, denominate “hallmarks” (Figura 7): proprietà biologiche che le cellule acquisiscono durante lo sviluppo del tumore[14].

Figura 7. “Hallmarks” del cancro.

I primi a sostenere che la maggior parte dei tipi di tumore presentano delle proprietà peculiari comuni sono stati Douglas Hanahan e Robert A. Weinberg, sulla base di alcuni studi condotti nel 2000 e poi rivisitati nel 2011.

(14)

1) Proliferazione indipendente dai segnali di crescita: ogni cellula, per proliferare, necessita di stimoli, che riceve dall’ambiente esterno. Tra i segnali proliferativi troviamo i fattori di crescita, molecole facenti parte della matrice extracellulare, che interagiscono con i recettori protein-chinasici espressi sulla membrana delle cellule, e li attivano, dando vita ad una cascata di eventi intracellulari, che sfociano nella proliferazione e nel differenziamento cellulare.

La capacità di proliferare anche in assenza di tali segnali è una caratteristica distintiva delle cellule tumorali. Alcune cellule neoplastiche, ad esempio, autoalimentano la propria crescita, producendo autonomamente i fattori di cui necessitano; altra strategia è quella di aumentare il numero di recettori presenti sulla superficie delle cellule, cosicché anche modesti livelli di ligando possano attivare risposte notevoli in termini di crescita. In molte cellule tumorali, inoltre, si riscontrano mutazioni recettoriali che rendono il recettore sempre attivo, anche in assenza del ligando specifico; un’ultima strategia, infine, prevede l’interazione tra cellule neoplastiche e cellule del microambiente, cosicché queste ultime producano e rilascino i fattori di crescita di cui le cellule tumorali necessitano[15].

2) Insensibilità ai segnali che bloccano la crescita cellulare: in condizioni fisiologiche, le cellule captano dall’ambiente esterno, non solo segnali che promuovono la divisione cellulare, ma anche segnali la inibiscono. La cellula è infatti dotata di “sensori” per intercettare i segnali antiproliferativi esterni e interni, i quali possono essere: fattori solubili, molecole facenti parte della matrice extracellulare o molecole presenti sulla superficie di cellule vicine coinvolte nei meccanismi di adesione cellula-cellula. La presenza di questi segnali attiva dei complessi molecolari, che portano tali informazioni inibitorie al nucleo e, a seconda dei segnali ricevuti, la cellula può, ad esempio, entrare nella fase G0 (fase di quiescenza) del ciclo cellulare, in cui essa è vitale, ma non si

divide; può attivare un programma definito “differenziamento terminale”, nel quale la cellula non è più in grado di dividersi e svolge il compito per cui è stata programmata; oppure può attivare il programma di senescenza cellulare o di apoptosi.

Caratteristica peculiare delle cellule tumorali è quella di sfuggire ai segnali antiproliferativi, a causa di mutazioni a livello dei geni che codificano per i recettori di questi fattori inibitori o dei geni che codificano per le molecole responsabili del trasferimento del segnale al nucleo; anche mutazioni a livello delle proteine che regolano il passaggio da una fase all’altra del ciclo cellulare fanno si che la cellula

(15)

3) Evitare la morte cellulare programmata o apoptosi: il termine apoptosi indica un insieme di eventi fisiologici che la cellula mette in atto per autodistruggersi, con la finalità di garantire l’omeostasi cellulare. Il processo apoptotico può essere innescato da fattori esterni, come la perdita del contatto cellula-cellula, o da fattori interni, come danni al DNA o la ridotta concentrazione di ossigeno intracellulare. Una volta che questi segnali di stress vengono captati da appositi sensori, si attiva il programma di morte cellulare, costituito da una cascata di eventi, che culmina con l’attivazione di proteasi, denominate caspasi, le quali degradano le strutture cellulari.

Le cellule tumorali evadono dalla morte cellulare programmata, mediante alcune strategie: mutano, ad esempio, i sensori della cascata apoptotica, cosicché la cellula diventi inerte ai segnali di stress, che in condizioni normali costituirebbero l’innesco per il processo; oppure agiscono sull’equilibrio tra i fattori che scatenano e inibiscono l’apoptosi, a favore dei secondi, rendendo la cellula incapace di avviare il programma di morte cellulare anche in presenza di segnali di stress[15].

4) Immortalità cellulare: come definisce il limite di Hayflick, le cellule possono dividersi circa 60-70 volte; dopo di che le cellule entrano in una fase di quiescenza, denominata “senescenza cellulare”, in cui, pur essendo vitali, non possono più dividersi. La maggior parte delle cellule senescenti va verso l’apoptosi, mentre un numero limitato di esse (1 cellula su 10 milioni) acquisisce il cosiddetto “fenotipo immortale”, con la capacità di dividersi in maniera illimitata. Il numero di divisioni cellulari viene registrato dai telomeri, le porzioni terminali dei cromosomi, che hanno il compito di proteggere il DNA. Nel processo di replicazione del DNA infatti i telomeri si accorciano, fino a quando la cellula, raggiunto il limite di Hayflick, non è più in grado di dividersi ed entra in senescenza. Ciò si verifica in quanto, nelle cellule sane, non è sufficientemente espressa la telomerasi, l’enzima in grado di allungare i telomeri.

La capacità di proliferare in maniera illimitata è uno dei tratti distintivi delle cellule tumorali. La strategia messa in atto dalle cellule neoplastiche è quella di mantenere elevati i livelli di telomerasi, cosicché le estremità cromosomiche si mantengano sempre della stessa lunghezza, permettendo alla cellula di dividersi senza un apparente limite e impedendole di morire[15].

(16)

5) Alterazione del metabolismo energetico: la cellula è il motore degli organismi viventi e, per moltiplicarsi e svolgere funzioni specializzate, richiede energia, che ricava dal glucosio, il combustibile chimico più comune negli organismi non fotosintetizzanti. In condizioni di normossia, dunque in presenza di ossigeno, grazie alla glicolisi, il glucosio viene ossidato a piruvato, che, a sua volta, viene ossidato ad anidride carbonica, nei mitocondri, mediante la fosforilazione ossidativa. Grazie a tali processi, per ogni molecola di glucosio otteniamo 36 molecole di ATP. In caso di ipossia, invece, la cellula ossida il glucosio, prima a piruvato, poi a lattato: per ogni molecola di glucosio sono generate ora solo 2 molecole di ATP.

Le cellule tumorali, anche in condizioni di buona ossigenazione, realizzano tale processo metabolico, per questo chiamato “glicolisi aerobica”. Questa via di produzione dell’energia, anche se è meno efficiente in termini di resa energetica, fornisce un numero maggiore e più variegato di intermedi metabolici, cioè di molecole, come, ad esempio, gli acidi nucleici, che possono essere utilizzate per produrre i costituenti cellulari, necessari alla crescita neoplastica[15]. Inoltre, l’alto livello di

enzimi glicolitici consente alle cellule tumorali di vivere in uno stato di ipossia, come è quello delle aree centrali di molti tumori solidi, vista la formazione inefficiente della loro rete vascolare. In tale situazione, la glicolisi può essere ulteriormente potenziata al fine di compensare il ridotto apporto di ossigeno[16]. Infine, l’accumulo di acido

lattico, derivante dalla glicolisi anaerobia, acidifica il microambiente e potrebbe favorire l’invasione tumorale, favorendo la neovascolarizzazione e la degradazione della matrice extracellulare[17].

6) Sfuggire al sistema immunitario: il sistema immunitario è una fitta rete di organi e cellule altamente specializzate, implicato nella difesa del nostro organismo dall’attacco di agenti patogeni ed è coinvolto inoltre nell’omeostasi tissutale. La presenza di un patogeno è rilevata da due tipi di cellule: macrofagi e linfociti B, i quali, dopo aver captato e inglobato l’agente estraneo per degradarlo, espongono sulla propria superficie frammenti del patogeno stesso. Questi due tipi di cellule attivano poi i linfociti T

helper, che, a loro volta, producono citochine, le quali stimolano i linfociti B a maturare

in plasmacellule, per produrre anticorpi specifici capaci di riconoscere il patogeno in eventuali infezioni future. In alcuni casi, la produzione di citochine attiva i linfociti T citotossici, che svolgono la loro azione principalmente eliminando le cellule infettate, evitando la propagazione dell’infezione nell’organismo. Il sistema immunitario inoltre,

(17)

rimuovendo i detriti cellulari e le cellule che considera anomale, sostiene l’omeostasi dei tessuti.

Le cellule tumorali eludono la sorveglianza del sistema immunitario, mediante due meccanismi principali: non espongono fattori che segnalano l’esistenza di danno al DNA, cosicché i linfociti NK non possano rilevarne la presenza; rilasciano inoltre mediatori con lo scopo di impedire alle cellule immunitarie l’avvicinamento alle cellule oncogene stesse, per distruggerle. In questo modo, le cellule accumulano danni al DNA e avanzano lungo il loro percorso di trasformazione neoplastica[15].

7) Infiammazione: l’infiammazione, o flogosi, è un meccanismo di difesa, non specifico, innato, dell’organismo, che risponde ad un danno di tipo chimico, fisico o biologico, il cui obiettivo è la rimozione della causa iniziale del danno cellulare o tissutale, nonché l’avvio del processo di riparazione. Ruolo chiave in tale processo è ricoperto dalle cellule del sistema immunitario, che accorrono nel sito danneggiato e intervengono con varie modalità: ad esempio, i macrofagi intercettano e rimuovono le cellule lesionate; le cellule immunitarie producono molecole per favorire la rigenerazione tissutale, come fattori di crescita, fattori pro-angiogenici, enzimi litici e fattori che stimolano la migrazione e la transizione epiteliale e mesenchimale. Tutto questo, permette di incrementare, nella sede del danno, processi come la proliferazione, l’angiogenesi, la migrazione cellulare, con l’obiettivo di riparare il danno e rigenerare il tessuto, per ristabilirne la normale funzionalità[15].

“Infiammazione e cancro vanno spesso di pari passo. Da un lato il tumore scatena una risposta infiammatoria, dall’altro proprio il contesto infiammatorio alimenta l’aggressività della neoplasia e la disseminazione di metastasi[18]”. Le malattie

infiammatorie croniche infatti, come la rettocolite ulcerosa, il morbo di Crohn, il reflusso gastro-esofageo, le epatiti ecc., sono associate ad un aumentato rischio di sviluppare il cancro negli organi interessati.

Sono molteplici i meccanismi mediante cui l’infiammazione può concorrere all’insorgenza di un tumore: può, ad esempio, indurre mutazioni in geni implicati nel controllo della sopravvivenza, della moltiplicazione o dell’invecchiamento delle cellule, oppure può renderle resistenti all’azione del sistema immunitario. L’infiammazione gioca un ruolo fondamentale nell’oncogenesi, proprio perché alimenta fenomeni come la proliferazione, la migrazione cellulare e l’angiogenesi. L’infiammazione cronica è inoltre associata alla produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e dell’azoto (RSN), entità molecolari reattive che sostengono la

(18)

trasformazione neoplastica danneggiando il DNA, le proteine e i lipidi[19]. È stato

inoltre dimostrato, attraverso uno studio finanziato dall’AIRC, che le sostanze liberate nel tessuto sede di un evento infiammatorio, limitano l’attività del più potente oncosoppressore, la proteina p53, innescando così la trasformazione delle cellule del tessuto in cellule neoplastiche. La proteina p53, che fisiologicamente tutela il patrimonio genetico delle cellule, è presente, in circa metà delle neoplasie, in forma mutata. In questo modo, essa, non solo fallisce nel proprio compito di salvaguardare l’integrità genomica, ma inibisce un fattore che controlla i segnali molecolari generati nell'infiammazione, permettendo alle cellule maligne di rafforzare la loro invasività, interpretando tali input come istruzioni a sviluppare maggiore aggressività[18].

8) Instabilità genomica: essendo il DNA il depositario dell’informazione genetica, è fondamentale che, nel tempo, le informazioni in esso contenute siano mantenute integre e stabili. L’instabilità genomica, peculiarità delle cellule neoplastiche, potrebbe rappresentare uno dei principi chiave che concorrono al loro sviluppo. Fattori esogeni o endogeni possono causare mutazioni, ovvero alterazioni nella composizione e nella struttura del DNA, modificandone il suo messaggio. Sia le mutazioni puntiformi, che modificano in singoli punti il DNA, sia le alterazioni cromosomiche, che implicano la perdita di grosse porzioni di DNA, sono state associate al cancro[19].

L’insorgenza di mutazioni nel DNA è un fenomeno raro, che si verifica una volta ogni circa cento milioni di nucleotidi, in quanto le cellule, nel corso dell’evoluzione, hanno sviluppato meccanismi per proteggere il DNA e mantenerne l’integrità. Vi sono, infatti, nelle cellule i cosiddetti “guardiani molecolari”, ovvero complessi proteici, autori del mantenimento dell’integrità genomica, capaci di individuare e di riparare i danni al DNA. Nelle cellule tumorali tali “guardiani” non sono più in grado di riconoscere il danno o di ripararlo e quindi si accumulano mutazioni a livello del DNA, che possono innescare fenomeni proliferativi, di migrazione cellulare o angiogenici[15].

9) Promuovere l’angiogenesi: l’angiogenesi è un processo finemente regolato, che porta alla genesi di nuovi vasi sanguigni. Durante la vita embrionale sostiene la crescita dell’organismo, mentre, nella fase post-natale, è attiva solo in brevi periodi, ad esempio nella cicatrizzazione delle ferite. In condizioni fisiologiche l’angiogenesi è strettamente regolata da un equilibrio tra fattori pro-angiogenici e anti-angiogenici. I tumori attivano l’angiogenesi, intervenendo su tale stabilità: aumentano l’espressione

(19)

VEGF) e riducono i livelli dei fattori che lo inibiscono. Il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) è, tra i fattori che incidono sulla formazione di un nuovo vaso, quello, ad oggi, in maggior misura studiato e caratterizzato. VEGF è infatti implicato in fondamentali funzioni pro-angiogeniche come l’aumento della permeabilità vasale, la produzione di fenestrazioni endoteliali, l’induzione dell’espressione di molecole di adesione a livello endoteliale e l’amplificazione dei meccanismi di adesione delle cellule Natural Killer all’endotelio[20].

L’angiogenesi tumorale ha luogo già nelle fasi precoci della formazione dei tumori, quando le cellule rilasciano nel microambiente fattori che promuovono la nascita di nuovi vasi. I nuovi vasi si allacciano alla rete vascolare preesistente, costituendo un sostegno attivo alla crescita del tumore in via di formazione, portando ossigeno e nutrienti all’interno di tale massa. La nuova rete vascolare tumorale presenta alcune differenze rispetto a quella fisiologica: risulta strutturalmente disorganizzata, costituta da vasi dilatati, tortuosi, permeabili, incapaci di garantire una perfusione omogenea alla massa cancerosa. Alcune aree del tumore, infatti, si trovano in condizione di ipossia, alla quale le cellule rispondono con un aumento dell’attività glicolitica, per produrre energia. Il processo di glicolisi conduce inoltre all’accumulo di sottoprodotti acidi all’interno della cellula e ciò porta ad una condizione di acidosi[15]. Ipossia e

acidosi stimolano il rilascio di ulteriori fattori pro-angiogenici, mentre l’aumentata permeabilità vascolare favorisce la disseminazione delle cellule cancerose dal tumore primario (Figura 8), altera la perfusione e quindi la somministrazione e la distribuzione di farmaci chemioterapici, riducendo dunque l’efficacia delle terapie anticancro[10].

Figura 8[21]. Angiogenesi.

(20)

10) Promuovere l’invasione di tessuti, formando le metastasi: il termine metastasi indica la crescita secondaria di una neoplasia, in un distretto differente, e spesso distante, da quello che è stato inizialmente oggetto di cancerogenesi[22].

Il processo di metastatizzazione è complesso e comprende una serie di meccanismi in successione (Figura 9): inizialmente le cellule tumorali proliferano e invadono localmente il tessuto, penetrando attraverso la membrana basale; attraversano poi la parete dei vasi sanguigni e linfatici ed entrano nel torrente circolatorio. Successivamente, le cellule tumorali, riattraversando la parete dei vasi, abbandonano il flusso ematico, per penetrare nei tessuti di organi anche molto distanti dal tumore primario: qui avviene un processo detto micro-colonizzazione, che sfocia nella formazione di noduli. Le cellule tumorali proliferano nel tessuto di arrivo e il tumore attiva il processo angiogenico, per portare ossigeno e nutrienti: si forma dunque una massa metastatica di dimensioni macroscopiche[15].

Più il tumore accresce, più numerosi sono i vasi sanguigni e linfatici che lo raggiungono e che da esso derivano; in questo modo è frequente che qualche cellula abbandoni la massa tumorale ed entri nel circolo sanguigno o linfatico, lasciandosi trasportare in altre sedi[9].

La formazione di focolai metastatici può avvenire attraverso due principali vie[24]:

• Ematica: la metastatizzazione per via ematica è frequente nei sarcomi e in alcuni tipi di tumore come quello del rene, della prostata, della tiroide e del fegato. Generalmente, le cellule dei tumori presenti nella cavità addominale, attraverso la vena porta, raggiungono il tessuto epatico e metastatizzano. Alcuni tipi di tumore, invece, che possono essere localizzati ubiquitariamente, metastatizzano, attraverso il sangue venoso, ai polmoni. Infine, tumori primitivi del polmone possono diffondersi in ogni zona dell’organismo, anche se sono frequenti metastasi nel sistema nervoso centrale.

• Linfatica: la diffusione delle metastasi per via linfatica è una peculiarità dei carcinomi, neoplasie di tipo epiteliale. Le cellule neoplastiche metastatizzano prima a livello dei linfonodi regionali che drenano la zona interessata, poi raggiungono altre zone linfonodali più distanti e da qui passano nel torrente ematico.

Gli organi maggiormente colpiti dalle metastasi sono fegato e polmone, in quanto organi aventi funzione di filtro, e pertanto riccamente vascolarizzati.

Poiché la presenza di metastasi denota che una neoplasia primaria si trovi in fase avanzata, esse sono considerate le maggiori responsabili delle morti per cancro.

(21)

Non si può stabilire se una neoplasia condurrà ad un tumore metastatico: solo una diagnosi precoce potrà impedire la metastatizzazione, in quanto un tumore individuato e asportato tempestivamente può non aver dato vita a focolai metastatici, permettendo una guarigione completa.

Figura 9[23]. Metastasi tumorale.

Non tutti i tumori hanno la capacità di dar luogo a metastasi: è proprio questa peculiarità che distingue i tumori maligni da quelli benigni.

1.5 Tumori maligni e benigni

I tumori maligni (Figura 10) mostrano un accrescimento di tipo infiltrativo, poiché le cellule che li costituiscono si espandono nel tessuto circostante sano, formando propaggini che conducono all’invasione e alla distruzione del tessuto stesso. In questa loro espansione, le cellule cancerose possono penetrare nei vasi sanguigni o linfatici e, trasportate dal flusso ematico o linfatico, dare luogo a metastasi, colonizzando dunque altri organi e dando vita a nuovi processi tumorali, a distanza dalla sede primitiva di origine.

I tumori benigni invece progrediscono con un accrescimento di tipo espansivo, senza infiltrarsi nei tessuti circostanti, ma restano delimitati e non danno luogo a metastasi. Le cellule facenti parte di un tumore benigno condividono le stesse caratteristiche del tessuto da cui derivano.

(22)

A differenza dei tumori maligni, quelli benigni rispondono positivamente al trattamento e la prognosi è solitamente favorevole. Tuttavia, alcuni tumori benigni possono compromettere gravemente lo stato di salute del paziente, ad esempio comprimendo i tessuti limitrofi e gli organi circostanti o determinando ostruzioni. Tumori benigni che si sviluppano all’interno della scatola cranica possono comprimere il cervello; altri, nati all’interno delle cavità cardiache possono ostruire il normale flusso ematico e provocare la morte del paziente[24].

Figura 10[25]. Principali differenze tra tumore benigno e maligno.

1.6 Le cause del cancro

La lista dei fattori di rischio chiamati in causa nell’eziologia del cancro è ampia e in continua evoluzione. La malattia neoplastica è per definizione a “genesi multifattoriale”, in quanto, generalmente, non esiste un’unica causa che possa spiegarne l’insorgenza. Nel suo sviluppo giocano infatti un ruolo chiave sia fattori modificabili, come gli stili di vita, che non, come l’età o i geni ereditati da entrambi i genitori[26].

1.6.1 Fattori endogeni

Età

L’invecchiamento è un fattore chiave nella carcinogenesi e infatti l’incidenza aumenta in modo evidente con l’età. Ciò è dovuto al fatto che con l’avanzare dell’età si accumulano

(23)

nel nostro organismo i fattori cancerogeni e si ha una diminuzione delle capacità di difesa e dei meccanismi di riparazione[3].

Fattori ereditari

Il cancro non può essere definito un fenomeno ereditario, ma possono esservi mutazioni ereditate, da uno o da entrambi i genitori, che, pur non comportando inevitabilmente la comparsa della malattia, ne aumentano il rischio relativo, determinando una predisposizione genetica allo sviluppo della stessa[26].

Squilibri ormonali

Gli ormoni, messaggeri chimici liberati in circolo da ghiandole endocrine, sono sostanze fisiologicamente presenti nell’organismo, fondamentali per regolarne le funzioni.

Tra i numerosi aspetti che vedono il coinvolgimento degli ormoni troviamo la proliferazione cellulare: alcuni di essi, infatti, se presenti in quantità eccessive, possono comportarsi come fattori di crescita, favorendo la replicazione sregolata e quindi la comparsa di alcuni tumori. Ad esempio, alti livelli di ormoni sessuali, androgeni ed estrogeni, possono promuovere l’insorgenza di tumori alla prostata o al seno[27].

1.6.2 Fattori esogeni

I. Stili di vita

Fumo di tabacco

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, un terzo delle morti per cancro e circa il 15% di tutti i decessi imputabili a qualunque altra causa è, nel nostro Paese, attribuibile al fumo. L’istituto americano Institute for Health Metrics and Evaluation ha calcolato che nel 2017, in tutto il mondo, il consumo di tabacco sia stato responsabile del 14,5% dei decessi totali (pari a 8,1 milioni di morti, di cui 1,2 imputabili al fumo passivo) [3].

Il fumo di sigaretta[28] è associato ad oltre 50 gravi patologie, non solo tumorali: aumenta

di 10 volte il rischio di morire di enfisema, raddoppia quello di avere un ictus, danneggia la circolazione del sangue al cervello e agli arti. Secondo l’OMS il tabacco uccide la metà dei suoi consumatori.

Sono circa 80 le sostanze chimiche cancerogene contenute in una sigaretta, a cui si attribuisce l’insorgenza di tumori al polmone (9 casi su 10 imputabili al fumo), ma anche a carico del cavo orale e della gola, del pancreas, del colon, della vescica, del seno e di

(24)

alcune leucemie. Tra le sostanze nocive, inalate con il fumo, troviamo il monossido di carbonio, che impedisce all’ossigeno di legarsi all’emoglobina e, di conseguenza, causa danni cardio-vascolari; la nicotina, responsabile della dipendenza fisica; il catrame, contenente sostanze cancerogene tra cui benzopirene e altri idrocarburi aromatici ecc. I componenti del fumo, con maggiore potenziale cancerogeno, sono, ad esempio, l’1,3-butadiene; l’arsenico, che interferisce con la capacità di riparare i danni al DNA; il benzene, causa di una percentuale significativa delle leucemie provocate dal fumo. Molte sostanze chimiche, presenti nel catrame della sigaretta, danneggiano il DNA, innescando mutazioni nelle cellule. Il benzopirene, ad esempio, ha un effetto inibitorio sul gene che codifica per la proteina p53, oncosoppressore di estrema importanza. I benefici dello smettere di fumare sono per il cuore e per i polmoni in un primo istante, ma è stato dimostrato che, dopo cinque anni, il rischio di sviluppare un tumore della cavità orale, della gola o della vescica si dimezza. Entro 15 anni, ad esempio, le cellule precancerose vengono rimpiazzate e la probabilità di sviluppare un tumore al polmone è pari a quella di chi non ha mai fumato. Un’analisi condotta dall’Università di Birmingham e pubblicata sul British Medical

Journal evidenzia che le persone a cui viene diagnosticato un cancro al polmone in fase

iniziale, possono raddoppiare le loro chance di sopravvivenza smettendo di fumare.

Sole e raggi ultravioletti

Le radiazioni solari contengono raggi ultravioletti invisibili (UV): i raggi UVC sono completamente trattenuti allo strato di ozono dell’atmosfera, mentre i raggi UVB e UVA riescono a raggiungere la superficie terrestre, causando, in caso di eccessiva esposizione al sole, danni alla pelle, che nel lungo periodo possono sfociare in lesioni tumorali. Esistono diversi tipi di tumore cutaneo e, tra questi, i più frequenti sono il carcinoma basocellulare, che raramente metastatizza, e il carcinoma spinocellulare, che può essere invece fatale. Il più aggressivo è il melanoma, caratterizzato spesso da prognosi infausta, soprattutto se diagnosticato tardivamente. Diversamente dagli altri tipi di tumori della pelle, provocati quasi esclusivamente da una prolungata esposizione ai raggi solari, il melanoma dipende anche da fattori genetici, come la predisposizione familiare e la carnagione chiara (fototipo I o II) [29].

Alcol

È lunga la lista dei tumori il cui rischio può aumentare a seguito dell’eccessivo consumo di bevande alcoliche: tumore alla bocca, all’esofago, a laringe e faringe, al fegato, al colon e

(25)

al seno. Lo IARC, fin dal 1988, ha classificato l’alcol tra gli agenti cancerogeni di tipo 1 (vale a dire come “cancerogeno certo”). L’alcol esplica la sua azione cancerogena in vari modi: può danneggiare tessuti o organi, come ad esempio quelli della bocca, e irritare le mucose, impedendo alle cellule lesionate di ripararsi; nel fegato può causare alterazioni degli epatociti, che possono trasformarsi in cellule tumorali; l’alcol, inoltre, viene metabolizzato in acetaldeide, sostanza riconosciuta come cancerogena[26].

Dieta e sedentarietà

Abitudini alimentari non salutari possono promuovere la comparsa della malattia in due modi: privando l’organismo di fattori protettivi, come le fibre, le vitamine e gli oligoelementi presenti nella frutta e nella verdura, o apportando sostanze potenzialmente cancerogene, come quelle prodotte dalla carne rossa, in particolare se lavorata, e più in generale contenute in grassi e proteine animali. Nitriti e nitrati, ad esempio, sono stati inseriti dallo IARC nel gruppo 2A (“probabilmente cancerogeni per gli esseri umani”), e, oltre che essere presenti in alcuni alimenti di origine vegetale, sono impiegati nella conservazione dei salumi. La pericolosità di tali sostanze deriva dalla loro trasformazione, durante la cottura, in nitrosammine, composti cancerogeni, il cui consumo eccessivo è associato ai tumori dello stomaco e dell’esofago.

Oltre alla qualità, conta anche la quantità di cibo assunta giornalmente. Sono molte le ricerche che evidenziano una correlazione tra il cancro e l’obesità, tanto che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ritiene che l’eccesso di peso, associato ad un’alimentazione sbilanciata e alla sedentarietà, possa essere attribuito al 25-30% di alcuni dei tumori più frequenti, come quelli del colon e del seno.

Alimentazione e attività fisica agiscono sul rischio di sviluppare una neoplasia: ad esempio, nel caso del colon, sia l’apporto di fibre che l’attività fisica favoriscono la motilità intestinale, evitando che sostanze nocive e potenzialmente cancerogene rimangano a contatto con la parete intestinale[30].

II. Fattori ambientali

Inquinamento atmosferico

L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha classificato l'inquinamento atmosferico e le polveri sottili fra i carcinogeni di tipo 1.

Nel 2013 sono stati pubblicati, sulla rivista Lancet Oncology, i risultati di un ampio studio sull’inquinamento atmosferico, che ha coinvolto 367.000 persone, seguite in media per 13

(26)

anni, in 9 Paesi. L’indagine ha evidenziato la relazione tra polveri sottili e tumori del polmone, mettendo in luce un incremento della mortalità negli individui esposti alle polveri fini, ovvero al PM 2,5 (il particolato fine con diametro inferiore a 2,5 micrometri). È comunque noto da tempo che nello smog sono presenti sostanze che possono favorire la trasformazione delle cellule sane in neoplastiche, come il benzene, gli ossidi di azoto e gli idrocarburi policiclici aromatici. Inoltre, svariate ricerche epidemiologiche hanno evidenziato che i polmoni di chi abita in città, o in luoghi molto inquinati, sono frequentemente infiammati e, come è noto, l’infiammazione, soprattutto cronica, è un fattore che promuove il cancro.

Parlando della relazione tra inquinamento e cancro, è bene sottolineare che i polmoni non sono gli unici organi a rischio. In una ricerca tedesca, pubblicata nel 2018, è stata dimostrata l’associazione tra un aumento di 10 μg/m3 di PM10 e il rischio relativo di tumore alla bocca

e alla gola (53%) e di tumore della pelle (52%); meno forte, ma comunque significativo, è l’aumento del rischio per i tumori della prostata (23%) e del seno (19%) [31].

L’OMS, tramite lo IARC, classifica gli agenti cancerogeni chimici, fisici o biologici, valutandone il grado di rischio secondo criteri generali condivisi dalla comunità scientifica internazionale.

• Agenti chimici

Le sostanze che hanno causato l’insorgenza di tumori benigni o maligni, nel corso di studi sperimentali compiuti su animali, sono considerate cancerogene presunte o sospette per l’uomo, a meno che non sia dimostrato che il meccanismo che conduce all’insorgenza del tumore non è rilevante per l’uomo. Nel 2006 è stato approvato dall’Unione europea il Regolamento (CE) n. 1907/2006 (REACH), con il compito di informare in merito a tutte le sostanze chimiche impiegate nell’UE, con la finalità di garantirne l’uso sicuro[32].

Tra i carcinogeni chimici, classificati nel gruppo 1 dallo IARC, troviamo, ad esempio: il benzene, che, date le sue proprietà intercalanti, danneggia la sintesi proteica ed aumenta il rischio di leucemia; il cloruro di vinile, impiegato soprattutto nell’industria della plastica; gli idrocarburi aromatici policiclici, presenti, oltre che nel fumo di sigaretta, nei cibi cotti alla griglia e nei gas di scarico delle automobili. Sostanze nocive sono contenute anche in alcuni pesticidi usati in agricoltura, nei detergenti e nelle tinture per capelli.

La scoperta del ruolo dell’amianto (un insieme di sei diversi minerali della classe dei silicati) nella genesi di alcuni tumori dei polmoni e soprattutto della pleura (mesotelioma pleurico) ha indotto le autorità a vietarne l’uso, un tempo frequente, specie nell’edilizia. La

(27)

pericolosità dell’amianto è legata alla liberazione delle fibre nell’aria, in quanto, se inalate, penetrano in profondità nei polmoni, creando uno stato di infiammazione persistente in cui si ha la produzione di molecole che danneggiano il DNA, favorendo la carcinogenesi. Il processo di sviluppo della malattia è estremamente lungo: passano in genere oltre 25 anni dall’inizio dell’esposizione prima che compaia il mesotelioma[26].

• Agenti fisici

Le radiazioni ionizzanti, come raggi X, gamma, particelle alfa e beta, poiché interagiscono con la struttura atomica della materia, rimuovendo elettroni e conferendo all’atomo una carica elettrica, possono danneggiare il DNA. È stato dimostrato che anche bassi livelli di radiazioni possono condurre allo sviluppo del cancro, anche se il rischio è direttamente proporzionale alla dose e diminuisce con l’età. Quotidianamente siamo esposti al “fondo naturale di radiazione”, costituito da: raggi cosmici, particelle radioattive emesse dal sole e dalle altre stelle, schermate, in parte, dall’atmosfera terrestre, e da radiazioni emesse da terreni e rocce, come il radon, un gas radioattivo presente nell’aria o nei luoghi chiusi sotterranei.

Le radiazioni ionizzanti possono inoltre essere sfruttate dall’uomo per la produzione di armi nucleari o di energia, ad esempio nelle centrali nucleari. In medicina sono sfruttate invece in radiologia diagnostica, mediante i raggi X, in radioterapia e in medicina nucleare. Il rischio associato a tali procedure è relativamente basso, ma è bene considerare che l’esposizione alle radiazioni si somma nel corso della vita[33].

• Agenti infettivi

Il 13% della totalità delle neoplasie è causato da infezioni da parte di virus o batteri e, come riporta la rivista Lancet Global Health, il 90% di essi è attribuibile a soli quattro agenti patogeni: l’Helicobacter pylori, associato al tumore dello stomaco; il papillomavirus umano (HPV), causa di svariati tipi di tumore tra cui quello della cervice uterina; i virus dell’epatite B (HBV) e C (HCV), responsabili di alcuni tumori del fegato. Tali fattori di rischio sono, per la maggior parte, evitabili, data l’esistenza di un vaccino o di trattamenti farmacologici adeguati.

Le infezioni persistenti, causate da questi agenti patogeni, generano uno stato di infiammazione cronica in cui sono rilasciate molecole che possono essere implicate nel processo di cancerogenesi; inoltre si viene a creare un microambiente favorevole alla

(28)

cellula tumorale, la quale può moltiplicarsi ed eludere la sorveglianza del sistema immunitario[34].

1.7 Il trattamento del cancro

Le strategie messe in atto per combattere il cancro sono essenzialmente quattro: chirurgia, chemioterapia antineoplastica, radioterapia e immunoterapia.

L’intervento chirurgico è spesso il primo passo nel trattamento della patologia, indicato per tumori localizzati e sufficientemente piccoli, in fase non troppo avanzata. Negli altri casi è necessario ricorrere alla chemioterapia e/o alla radioterapia, per eliminare le cellule cancerose, diffuse, attraverso il circolo sanguigno e linfatico, ad altre parti del corpo[35].

La chemioterapia prevede la somministrazione sistemica di una o più sostanze, variamente combinate tra loro, dall’azione citotossica, dunque in grado di uccidere le cellule neoplastiche durante il loro processo di replicazione. I trattamenti chemioterapici sono somministrati a cicli, in quanto non tutte le cellule prendono parte contemporaneamente al processo di divisione cellulare, ma alcune si trovano in stato di quiescenza. Dato il risultato di tale terapia sulle cellule in rapida moltiplicazione, i più comuni effetti collaterali sono a livello delle cellule dei bulbi piliferi, del midollo osseo e delle mucose dell’apparato digerente, con, ad esempio, perdita di capelli, anemia, indebolimento del sistema immunitario, vomito ecc.

Nonostante ciò, la chemioterapia è ancora parte fondamentale della cura del cancro: ad oggi esistono più di 100 farmaci chemioterapici antitumorali e nuove molecole sono continuamente sintetizzare o estratte e messe a punto nei laboratori di tutto il mondo[36].

La radioterapia sfrutta le radiazioni ionizzanti, come i raggi X, per distruggere selettivamente le cellule tumorali, cercando di preservare quelle sane. Essa utilizza radiazioni ad alta energia, emesse da sostanze radioattive (iodio o cobalto) oppure prodotte dai cosiddetti “acceleratori lineari”. Il trattamento radioterapico è personalizzato per ciascun paziente, a seconda della tipologia di tumore, della localizzazione e delle dimensioni. La radioterapia, usata da sola, può portare alla completa eradicazione del tumore oppure può costituire un valido aiuto prima o dopo interventi chirurgici. Nonostante sia effettuata, generalmente, con grande precisione sulle cellule malate, esiste una procedura definita “radioterapia total body”, in cui tutto l’organismo viene irradiato, per trattare tumori a carico delle cellule del sangue e del sistema linfatico, come leucemie o linfomi[37].

(29)

Tra i maggiori progressi clinici in corso, nella battaglia contro il cancro, troviamo l’immunoterapia, basata sull’utilizzo di farmaci in grado di attivare il sistema immunitario del paziente nel contrastare le cellule tumorali[38].

(30)

CAPITOLO 2: LE TIROSIN-CHINASI, TARGET

DELLA TERAPIA ANTITUMORALE

La proliferazione, la morte e il differenziamento cellulare subiscono una regolazione da parte di molecole segnale, i fattori di crescita. Nelle cellule tumorali i meccanismi deputati al controllo del corretto svolgimento di tali segnalazioni risultano alterati, mentre sono efficienti nelle cellule sane.

Le proteine chinasi, essendo coinvolte nella trasduzione del segnale, controllano i sopracitati processi cellulari e sono, dunque, un valido target nella terapia antitumorale. Considerando che il processo di fosforilazione proteica, che vede il coinvolgimento delle chinasi, ricopre un ruolo cardine nella comunicazione intracellulare, nell’omeostasi e nel funzionamento del sistema nervoso e immunitario, appare chiaro che anomalie a livello chinasico, con chinasi spesso iperespresse, sia alla base di svariate patologie, tra cui il cancro[39].

2.1 Il più grande gruppo di enzimi presenti in natura: le chinasi

Un enzima capace di trasferire un gruppo γ-fosfato dell’ATP (o meno frequentemente del GTP) a specifici substrati è chiamato “chinasi”. Mediante tale processo, definito “fosforilazione”, le chinasi possono attivare o inibire subunità proteiche e regolare, dunque, molte funzioni cellulari, quali, ad esempio, la duplicazione del DNA, la trascrizione, il controllo del ciclo cellulare, i meccanismi di trasporto ed il metabolismo energetico. La fosforilazione è un processo reversibile e tale reversibilità è garantita da proteine che rimuovono il gruppo fosfato legato covalentemente al substrato, denominate “fosfatasi”. L’omeostasi della cellula è quindi subordinata ad un rigoroso e armonico equilibrio tra chinasi e fosfatasi.

In base al substrato accettore fosforilato, le proteine chinasi possono essere classificate in tre categorie:

• tirosina chinasi, in cui il gruppo fosfato dell’ATP è trasferito ad un residuo di tirosina; • serina/treonina chinasi, in cui il gruppo fosfato è trasferito ad un residuo di serina o di

treonina;

(31)

Nonostante fosse chiara, sin dalla metà degli anni ’70, l’esistenza di una grande famiglia di proteine con attività fosforilativa, risale agli anni ’94-’95 la prima classificazione, ad opera di S.K. Hanks e T. Hunter, delle proteine chinasi eucariotiche[40]. Tale catalogazione

fu aggiornata, grazie a Manning G., e pubblicata su Science, nel 2002[39].

Nel genoma umano sono state codificate 550 chinasi (kinoma umano), di cui 518 a struttura proteica. Come riporta la classificazione, delle 518 proteine chinasi 478 sono eucariotiche (EPK), mentre 40 sono denominate proteine chinasi atipiche (APK), in quanto, nonostante presentino differenze di sequenza rispetto alle EPK, hanno comunque attività chinasica. Le proteine chinasi eucariotiche sono ulteriormente suddivise in 8 grandi categorie: TK (tyrosine kinase), TKL (tyrosine kinase-like), STE (STE20, STE11, and STE7 related), CK1 (casein kinase 1), AGC (protein kinase A, protein kinase G, and protein kinase C

related), CAMK (Ca2+/calmodulin-dependent kinases), CMGC (Cdk, MAPK, GSK,

Cdk-like related), RGC (receptor guanylyl cyclase)[41].

2.2 Le proteine tirosina chinasi

La famiglia delle tirosin-chinasi, che comprende 90 proteine, è divisa in due importanti sottofamiglie:

- RTK (receptor tyrosin kinases): costituita da 58 diversi recettori, suddivisibili in 20 gruppi (Figura 11), in base al gene da cui derivano (ALK, Axl, DDR, ErbB, Eph, FGF, Ins, LMR, Met, MuSK, PDGF, PTK7, Ret, Ror, Ros, Ryk, STYK1, Tie, Trk, VEGF). - nRTK (non receptor tyrosin kinases): 32 proteine, suddivisibili in 10 gruppi (ABL,

(32)

Figura 11[43]. Le 20 famiglie di RTKs.

Le proteine tirosin-chinasi recettoriali, localizzate sulla membrana cellulare, sono implicate nella trasduzione del segnale dall’ambiente extracellulare a quello citoplasmatico; le proteine chinasi non recettoriali, invece, trasmettono i segnali intracellulari[44].

I recettori tirosin-chinasici (RTK) sono proteine transmembrana, costituite da 5 regioni principali:

• una regione extracellulare, N-terminale, che contiene il sito di interazione per il ligando e che rappresenta la porzione più variabile del recettore;

• una sequenza transmembrana, costituita da una singola alfa-elica, di connessione tra la porzione extra e intra-cellulare;

• una regione regolatoria juxtamembrana, che separa la sequenza transmembrana dal dominio catalitico ed è solitamente conservata tra i recettori della stessa sottofamiglia; • un dominio catalitico citoplasmatico, con attività tirosin-chinasica;

• una coda C-terminale.

Il dominio tirosin-chinasico presenta una struttura bilobata, con un lobo N-terminale, costituito da un foglietto beta a 5 filamenti e un’alfa-elica, e con un lobo C-terminale, formato principalmente da strutture alfa-elica. Tra i due lobi troviamo un’inarcatura della superficie proteica, che costituisce il sito di attacco per l’ATP[45].

(33)

Tutti i membri appartenenti alle sottofamiglie di RTKs presentano analogie dimensionali nel dominio ad attività tirosin-chinasica, mentre si osservano variazioni, in termini di dimensioni, nella regione juxtamembrana e nella coda carbossi-terminale. Alcuni RTKs inoltre, ad esempio quelli appartenenti alla famiglia PDGFR, presentano un’interruzione nel dominio tirosin-chinasico di circa 100 amminoacidi[46].

L’attivazione dei recettori tirosin-chinasici (Figura 12) avviene grazie al legame del ligando sul loro dominio extracellulare. Tale interazione determina la dimerizzazione del recettore, che attiva così un processo di autofosforilazione intramolecolare dei residui tirosinici del dominio citoplasmatico. Questo processo innesca l’attività chinasica del recettore, dando vita ad una cascata di segnali biochimici facenti parte del complesso meccanismo di trasduzione del segnale.

Figura 12[47]. Struttura e attivazione di un RTK, in particolare del EGFR.

Tali reazioni intracellulari, arrivando infatti all’interno del nucleo e interagendo col DNA, possono determinare la promozione o l’arresto della crescita cellulare[48].

Sono principalmente due le strategie mediante cui i ligandi, interagendo con il proprio recettore, avviano il processo di dimerizzazione dello stesso: il ligando può legare due molecole di recettore per dare un complesso 1:2, oppure due molecole di ligando si possono

(34)

legare simultaneamente a due recettori, formando un complesso 2:2: è questo il caso, ad esempio, del VEGF e del VEGFR[49].

2.3 Tirosina chinasi e vie di segnalazione coinvolte nel cancro

Nelle cellule tumorali, al contrario di quanto si verifica fisiologicamente, il livello di attività tirosin-chinasica può subire un incremento anche di 10-20 volte. Per tale ragione, le proteine tirosina chinasi e i relativi meccanismi di trasduzione del segnale possono essere identificate come potenziali bersagli farmacologici nella terapia del cancro.

È di fondamentale importanza interpretare come alterazioni nella regolazione di tali segnali siano associate all’oncogenesi: un’eccessiva attività chinasica, infatti, determina anomalie qualitative o quantitative nella trasduzione del segnale. Nelle cellule cancerose, contrariamente a quanto si verifica in quelle sane, possono essere espressi molti più recettori per i fattori di crescita e tale sovraespressione determina la costante attivazione del sistema di trasduzione. Si possono anche riscontrare mutazioni genetiche che determinano disfunzioni recettoriali, con continua attivazione del recettore stesso, anche in assenza del fattore di crescita; si può verificare, inoltre, una up-regulation delle proteine deputate alla trasduzione del segnale, o mutazioni genetiche a livello delle stesse, con conseguente alterazione del messaggio inviato al nucleo della cellula[50].

Ad esempio, mutazioni a livello dei geni codificanti per la regione regolatoria juxtamembrana, per il dominio catalitico o per la coda carbossi-terminale sono correlate a svariati tumori solidi e a neoplasie del sistema emopoietico.

Sono molte le malattie imputabili ad un’aberrante espressione e/o attività delle tirosin-chinasi. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology ha messo in luce la relazione tra la tirosina chinasi Src e l’invasività del cancro, specie quello intestinale[51];

altre sottofamiglie coinvolte nella carcinogenesi sono, ad esempio, ErbB, VEGFR, PDGFR, InsR[52], Ret.

2.3.1 ErbB

La sottofamiglia ErbB è composta da quattro recettori tirosin-chinasici: ErbB1 (EGFR o HER1), ErbB2 (HER2), ErbB3 (HER3) e ErbB4 (HER4).

Il recettore del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) è un recettore di membrana che lega il fattore di crescita dell’epidermide (EGF) e ha un ruolo fisiologico nella crescita, nella proliferazione e nel differenziamento cellulare. L’interazione ligando-recettore

(35)

innesca il processo di dimerizzazione, cui fa seguito l’autofosforilazione del recettore sui residui tirosinici. Si attivano, dunque, principalmente due vie di trasduzione del segnale all’interno della cellula: Ras/Raf e Inositol trifosfato 3′chinasi/Akt.

Cascata Ras/Raf/MEK/ERK

Le MAP chinasi sono una famiglia di serina/treonina chinasi, deputate al controllo della proliferazione, della morte o della sopravvivenza cellulare; pertanto, alterazioni a livello di tale via sono coinvolte nella patogenesi di molte malattie.

La famiglia delle MAP chinasi è divisa in tre sottogruppi: le chinasi regolate da segnali extracellulari (ERK1/2), Jun N- terminal Kinase (JNK) e la chinasi p38.

L’attivazione della cascata delle MAP chinasi (Figura 13) avviene a seguito dell’interazione di determinati fattori di crescita sui relativi recettori tirosin-chinasici di membrana, i quali dimerizzano e interagiscono con proteine G, che sono rappresentate da Ras per quanto concerne la via Raf/MEK/ERK. La proteina G Ras è dotata di attività GTP-asica, quindi recluta e fosforila le chinasi Raf, le quali, ora attivate, fosforilano le chinasi MEK, a livello di due residui serinici. Le proteine MEK catalizzano, a loro volta, la fosforilazione di determinati residui treoninici e tirosinici delle chinasi ERK1 e ERK2, le quali possono ora attivare, a livello nucleare, numerosi fattori di trascrizione, coinvolti nella crescita cellulare e nella prevenzione dell’apoptosi.

La cascata Ras/Raf/MEK/ERK è la via di segnalazione che più frequentemente risulta alterata nei tumori. Ad esempio, in circa il 30% delle neoplasie si riscontrano mutazioni attivanti a livello di Ras: di conseguenza, si registra l’attivazione persistente di ERK1/2, responsabile della crescita cancerosa[53].

(36)

Figura 13[54]. Pathway Ras/Raf/MEK/ERK

Via di segnalazione PI3K/Akt/mTOR

La via di segnalazione fosfatidilinositolo 3-kinasi (PI3K)/Akt/mammalian target of

rapamycin (mTOR) è coinvolta in svariati processi fisiologici e una sua deregolazione può

essere attribuita sia alla patogenesi tumorale che alla resistenza ai trattamenti (Figura 14). PI3K (fosfatidilinositolo 3-chinasi) è una famiglia di chinasi suddivisa, in base ai domini proteici che le caratterizzano, in tre classi (classe I, II e III).

Le PI3K di classe I catalizzano il trasferimento di un gruppo γ-fosfato dell’ATP sul fosfatidilinositolo-4,5-bisfosfato (PtdIns(4,5)P2) per ottenere fosfatidilinositolo-3,4,5 trifosfato (PtdIns(3,4,5)P3), il quale recluta, dal lato intracellulare della membrana, proteine ricche di domini Pleckstrin Homology (PH), tra cui Akt.

Akt è una serina/treonina chinasi, esistente in varie isoforme con la medesima organizzazione strutturale: nella porzione centrale della proteina è presente il dominio catalitico, mentre nelle regioni N- e C-terminali vi sono, rispettivamente, un dominio regolatorio e un dominio PH. Per poter giungere all’attivazione di Akt, normalmente presente a livello citoplasmatico, è necessario il suo trasferimento a livello della membrana.

(37)

Akt viene attivata da una duplice fosforilazione: il suo reclutamento a livello della membrana cellulare determina un cambiamento conformazionale della proteina, che permette al suo residuo Thr308 di essere fosforilato da una serina/treonina chinasi, detta PDK1. Per attivare completamente Akt è richiesta una seconda fosforilazione, che avviene grazie al complesso mTORC2, sul residuo Ser473[55].

Figura 14

[56]

.

Pathway PI3K/Akt/mTOR

L’attività di Akt subisce un rigido controllo da parte di proteine regolatrici, tra le quali ricordiamo la heat-shock-protein-90 (HSP90).

Si registra un aumento nell’attività di Akt a seguito di stress cellulari, quali lo shock termico, l’ipossia, lo stress ossidativo e la luce ultravioletta. Tale fenomeno di iperattivazione, indotta dai seguenti segnali di stress, viene messo in atto dalle cellule come meccanismo compensatorio, per sfuggire alla morte.

Il pathway PI3K/Akt/mTOR controlla numerosi fenomeni fisiologici tra cui la proliferazione, la progressione del ciclo cellulare, il metabolismo e l’apoptosi.

Alterazioni dell’asse PI3K/Akt/mTOR sono riscontrabili, come detto, in alcune cellule tumorali: ad esempio, l’attivazione di tale via di trasduzione è una peculiarità che accomuna le cellule leucemiche, isolate da pazienti affetti da leucemie linfoblastiche acute T[57].

Riferimenti

Documenti correlati

che accrescono l’antipatia che da qualche tempo esiste tra i Sardi e Piemontesi» afferma chiaramente che il lavoro (corsivo di chi scrive) 41 sarà diviso in 54 capitoli, dei

 Ma  Costantinopoli  è  soprattutto  il  centro  di  un  ordine  politico   cui  sono  subordinate  tutte  le  parti  dell’impero,  il  vertice  strutturale  di  

Il progetto, che rientra nello studio degli ecosistemi, ha coinvolto gli studenti di seconda media nella realizzazione di alcuni interventi volti alla rinaturazione e alla

Tra le ventun risposte due hanno detto di «non sapere» (H, V) e un soggetto dice di non capire il quesito (M). È dunque possibile dire che la maggior parte degli studenti ritiene che

Una volta identificate le identità competenti all’interno della classe, tutti i bambini sono stati coinvolti nell’invenzione e nella realizzazione di un gioco di società:

Infine, nel corso del 2007 e della prima metà del 2008 sono state realizzate ulteriori iniziative: a è stato messo a punto un prototipo di pacchetto formativo, organizzato secondo

caratterizzato da sintomi ricorrenti, a carico di più organi ed apparati, che insorgono in risposta ad una esposizione dimostrabile a sostanze chimiche, anche a concentrazioni