Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale
Corso di Laurea Magistrale in Chimica
Curriculum Inorganico
SINTESI DI NUOVE SONDE BIMODALI
PER LA MICROSCOPIA CORRELATIVA A
ECCITAZIONE DI DUE FOTONI/ELETTRONICA
Giuseppe Alonci
Relatore:
Relatore esterno:
Prof. Piero Leoni
Prof. Frédéric Bolze
da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al
suo esercizio […] ?
Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede all'esperienza, e
ogni conoscenza comincia con questa.”
Questo lavoro di tesi non sarebbe mai stato possibile se non fosse per la
collaborazione e il supporto, scientifico e umano, delle tante persone che mi
hanno accompagnato.
Vorrei ringraziare il Prof. Piero Leoni, per avermi accolto nel suo laboratorio,
aver creduto in me e in questo progetto sin dall'inizio e avermi concesso la
possibilità di svolgere un tirocinio di così alto spessore scientifico.
Un sentito ringraziamento va inoltre al prof. Frédéric Bolze, mio relatore esterno
presso l'Université de Strasbourg. Con il suo rigore scientifico, la simpatia, la
disponibilità e il costante buonumore, ha reso i miei cinque mesi trascorsi a
Strasburgo indimenticabili. I suoi preziosi consigli, i suoi insegnamenti e il suo
aiuto sono stati determinanti in questo percorso.
Non posso non dir grazie anche alla dr.ssa Lorella Marchetti, per i validi consigli
e per la sconfinata pazienza che ha dimostrato nei primi mesi di laboratorio che
ho trascorso a Pisa, nei quali mi ha seguito, insegnato e consigliato
costantemente.
In ultimo, ma non per importanza, vorrei ringraziare Sébastien, Mahboubi,
Chloé, Bastien, Damien e Adeline, insieme al prof. Thomas Grutter, al prof.
Thierry Chataigneau e al prof. Alexandre Specht, non solo per essere sempre
stati disponibili a darmi una mano o un consiglio, ma anche per avermi fatto
veramente sentire a casa.
CAPITOLO I: FONDAMENTI...4
I.1 I processi ad un fotone...5
I.1.1 Assorbimento...5
I.1.2 Fluorescenza...7
I.1.3 Resa quantica di fluorescenza...8
I.1.4 Tempo di vita di fluorescenza...10
I.2 Fondamenti di microscopia...12
I.2.1 La microscopia a fluorescenza...14
I.2.2 La microscopia confocale...16
I.2.3 La microscopia elettronica...17
I.3 I processi a due fotoni...20
I.3.1 Breve introduzione all'ottica non lineare e all'assorbimento a due fotoni...20
I.3.2 Ingegneria molecolare dei fluorofori per l'assorbimento bifotonico...24
I.3.3 La microscopia di fluorescenza ad eccitazione a due fotoni...27
I.4 La microscopia correlativa...28
CAPITOLO II: SINTESI E CARATTERIZZAZIONE DI NUOVE SONDE
MULTIMODALI PER LA MICROSCOPIA CLEM...30
II.1 Nuove sonde per la CLEM...31
II.1.1 Sintesi e proprietà del cluster di platino Pt6Cl2...32
II.1.2 Sintesi delle molecole organiche e coupling con il cluster...35
II.2 Caratterizzazione fotofisica...40
II.2.1 Spettri di assorbimento a un fotone...40
II.2.2 Spettri di fluorescenza...43
II.2.3 Tempo di vita di fluorescenza...48
II.2.4 Spettri di sezione efficace a due fotoni...50
II.3 Test biologici ...51
II.3.1 Microscopia confocale...51
II.3.2 Microscopia di tempo di vita di fluorescenza...52
II.3.3 Microscopia elettronica...52
II.3.4 Immagini...53
CAPITOLO III CONCLUSIONI E PROSPETTIVE...56
CAPITOLO IV: PARTE SPERIMENTALE...59
IV.1 Generale...60
IV.2 Sintesi...62
Figura 1: Semplice diagramma energetico per una molecola luminescente...7
Figura 2: Cellule endoteliali di arteria polmonare bovina al microscopio a fluorescenza. ...14
Figura 3: Semplice schema di funzionamento di un microscopio a epifluorescenza...15
Figura 4: Schema basico di funzionamento di un microscopio confocale...17
Figura 5: Ritratto di Maria Goeppert-Mayer...20
Figura 6: Schema dei livelli energetici di una molecola centrosimmetrica di simmetria D2h ...21
Figura 7: Schema della fluorescenza generata dall'assorbimento di uno o due fotoni...21
Figura 8: Fluorofori per la TPA a dimensionalità crescente...24
Figura 9: Molecole studiate dal gruppo di Marder e Perry nel 1997 e relative sezioni efficaci di assorbimento bifotonico...25
Figura 10: Relazione struttura-σ2 per alcuni fluorofori organici(17)(23)...26
Figura 11: Il cluster Cu4I4L4 studiato dal gruppo di Wang...32
Figura 12: Il cluster esanucleare di platino Pt6Cl2...32
Figura 13: Struttura dei quattro fluorofori sintetizzati...35
Figura 14: Sintesi di 1...35
Figura 15: Strategia di sintesi delle quattro sonde bimodali preparate...36
Figura 16: Spettri UV-VIS in CH2Cl2 delle quattro sonde organometalliche sintetizzate...40
Figura 17: Confronto tra gli spettri di assorbimento (linea intera) e di emissione (linea tratteggiata) del fluoroforo Pt6Ph e dei composti modello Pt6C5 e 4 in CH2Cl2 ...41
Figura 18: Spettri di assorbimento di Pt6Et in DCM e in DMSO...42
Figura 19: Confronto tra gli spettri di emissione e di assorbimento...44
Figura 20: Confronto tra gli spettri di eccitazione e di assorbimento...44
Figura 21: Spettri di emissione a 77 K in 2-MeTHF...46
Figura 22: Spettro di emissione di Pt6OH in funzione della lunghezza d'onda di eccitazione...46
Figura 23: Spettro di tempo di vita di fluorescenza di Pt6Et...48
Figura 24: Spettro di sezione efficace a due fotoni...50
Figura 25: Immagini ottenuti per microscopia a due fotoni in intensità di fluorescenza e FLIM di cellule HeLa trattate con i due cluster Pt6Ph e Pt6Et in DMSO...53
Figura 26: Immagine SEM di fetta sottile di una cellula HeLa trattata con Pt6Ph. ...53
Figura 27 : Cellule HeLa incubate con Pt6Ph e colorante di Hoechst o Pt6Ph e Lysotracker ...54
Figura 28: Cellule HeLa incubate con Pt6Et e colorante di Hoechst o Pt6Et e Lysotracker ...54
Figura 29: Cellule HeLa incubate con Pt6OH e colorante di Hoechst o Pt6OH e Lysotracker ...55
Figura 30: Cellule HeLa incubate con Pt6OMe e colorante di Hoechst o Pt6OMe e Lysotracker....55
Schema 1: Schema generico di preparazione delle quattro nuove sonde per la CLEM...31
Schema 2: Sintesi del cluster esanucleare Pt6Cl2...33
Schema 3: Meccanismo proposto per il coupling di Sonogashira...38
Tabella 1: Resa del coupling di Sonogashira promosso dalle microonde...39
Tabella 2: Proprietà fotofisiche in DCM delle quattro sonde organometalliche sintetizzate...41
Tabella 3: Confronto tra i massimi di assorbimento delle quattro sonde in DCM e in DMSO...42
Tabella 4: Confronto tra i massimi di assorbimento e di eccitazione delle quattro sonde...45
CLEM
Correlative Light-Electron Microscopy
CLSM
Confocal Laser Scanning Microscopy
DCM
Diclorometano
DMEM
Dulbecco's Modified Eagle Medium
DMSO
Dimetilsolfossido
Φ
Resa quantica di fluorescenza
FLIM
Fluorescence Lifetime Microscopy
IR
Infrarosso
s, d, dd, t, tv
In NMR: singoletto, doppietto, doppio
doppietto, tripletto, tripletto virtuale
σ
2Sezione efficace di assorbimento a due fotoni
SEM
Scanning Electron Microscope
τ
Tempo di vita di fluorescenza
TBAF
Tetrabutilammonio fluoruro
TBDMS
t-butildimetilsilano
TEM
Transmitting Electron Microscope
THF
Tetraidrofurano
TPA
Two Photon Absorption
TPEM
Two Photon Excited Microscopy
CAPITOLO I
: FONDAMENTI
I.1 I processi ad un fotone
I.1.1 Assorbimento
Un fotone di energia E=hv può interagire con un elettrone promuovendo una transizione da uno stato elettronico a energia inferiore ad uno stato eccitato a energia superiore. Perché questo processo avvenga, è necessario però che siano rispettate delle condizioni molto stringenti:
a) L'energia del fotone incidente deve corrispondere esattamente alla differenza di energia tra lo stato iniziale, di energia E1, e quello finale di energia E2
hν =E2−E1 (1)
b) Non si deve avere una variazione dello stato di spin dell'elettrone nella transizione;
c) Nel caso di molecole centrosimmetriche, i due orbitali coinvolti nella transizione devono avere parità opposta (regola di Laporte);
d) Δl=0, ±1 (in cui l è il numero quantico orbitale).
Il rapporto tra l'intensità della radiazione I0 incidente su un campione e quella emergente I1 è detto
trasmittanza (T)
T =I1 I0
(2) Il logaritmo decimale della trasmittanza è detto invece assorbanza (A)
A=logT =log I1 I0
(3) L'assorbanza di una soluzione è legata dalla legge di Lambert-Beer (4) ad alcuni parametri quali la molarità (M) della soluzione, lo spessore di soluzione attraversata (l) e il coefficiente di estinzione
molare (ε), che è caratteristico di ogni specie e varia al variare della lunghezza d'onda
A=ελl M (4)
Dato che normalmente sia d che M sono costanti per tutta la durata dell'esperimento, l'assorbanza ad una determinata lunghezza d'onda è direttamente proporzionale al coefficiente di estinzione molare
a quella lunghezza d'onda.
Rappresentando in un grafico come varia l'assorbanza del campione al variare della lunghezza d'onda della luce incidente si ottiene uno spettro di assorbimento. Nello spettro d'assorbimento si possono identificare una o più bande legate alle transizioni elettroniche che vengono identificate da una λmax e dal rispettivo coefficiente di estinzione molare εmax.
Generalmente le transizioni elettroniche avvengono a frequenze corrispondenti alla luce ultravioletta o visibile, da cui deriva il nome comune di spettroscopia UV-VIS per la spettroscopia elettronica.
Nel caso di molecole organiche, la posizione di λmax e l'intensità dell'assorbimento sono legati alla
presenza sulla molecola di particolari gruppi cromofori. La presenza del carbonile porta ad esempio ad una banda di assorbimento intorno a 280 nm, che in presenza di legami multipli in posizione α si
sposta però verso lunghezza d'onda inferiori. Questo effetto è detto batocromo (red shift) ed è
particolarmente evidente quando la molecola contiene lunghe catene coniugate. In questo caso infatti l'assorbimento può passare dall'ultravioletto al visibile. La maggior parte delle molecole organiche in cui invece non sono presenti molti legami coniugati o anelli aromatici assorbe solamente nell'UV.
Nel caso di molecole contenenti metalli di transizione, come il cluster utilizzato in questo articolo, è invece molto più comune ritrovare bande di assorbimento nel range della luce visibile. Queste possono essere dovute principalmente a due tipi di fenomeni:
a) Transizioni d-d. I cinque orbitali d, sebbene degeneri in un atomo isolato, acquisiscono energie differenti quando viene persa la simmetria sferica. Nel caso di un complesso ottaedrico i cinque orbitali si ripartiscono in due set, uno a energia inferiore che comprende tre orbitali degeneri e uno a energia più alta che ne contiene due. Sono quindi possibili transizioni tra orbitali d appartenenti a insiemi diversi. La differenza di energia tra i due set di orbitali è detto Δoe dipende grandemente non solo dall'elemento considerato, ma anche dai leganti sulla molecola, dallo stato d'ossidazione e dall'eventuale presenza di carica positiva o negativa nel complesso.
Sebbene formalmente vietate dalla regola di Laporte nel caso di complessi ottaedrici, le transizioni d-d possono comunque avvenire perché permesse vibronicamente. Le vibrazioni molecolari e l'interazione con il solvente possono infatti portare ad una momentanea perdita di simmetria della molecola e a un debole mescolamento degli orbitali d con gli orbitali p.
Si tratta comunque di bande di modesta intensità;
b) Transizioni a trasferimento di carica. In questo caso la transizione avviene grazie allo spostamento di un elettrone dall'atomo centrale a uno dei leganti o viceversa. Dato che il tasso di transizione è legato al momento dipolare di transizione, l'assorbimento è molto intenso. È il caso dello ione MnO4-, il cui colore è dovuto al forte assorbimento ascrivibile alla transizione di carica da
legante a metallo (LMCT).
I.1.2 Fluorescenza
Dopo che un elettrone interagisce con un fotone e viene promosso in uno stato eccitato S1 a più alta
energia, può ritornare allo stato fondamentale S0 seguendo diverse vie. Innanzi tutto l'elettrone si
può trovare non solo in uno stato elettronico eccitato, ma anche in uno stato vibrazionale eccitato. In figura 1 sono rappresentati i livelli energetici per una molecola fotoluminescente. L'assorbimento può promuovere un elettrone a uno stato vibrazionale eccitato di un livello energetico superiore. L'elettrone disperde energia tramite rilassamento vibrazionale fino a porsi nello stato vibrazionale
fondamentale del livello S1. A questo punto il decadimento verso lo stato S0 può avvenire in tre
modi:
a) Processi non radiativi. L'energia può venire dissipata tramite l'interazione con molecole esterne, come quelle di solvente o di soluto. Il meccanismo più comune è però la conversione interna, cioè un meccanismo di dispersione energetica intramolecolare. Un caso semplice è quello in cui i livelli vibrazionali dei due livelli S1 e S0 si sovrappongono anche solo parzialmente. Questi eventi
avvengono generalmente in tempo nell'ordine dei 10-12secondi. Si può indicare con k
nr la costante di
velocità totale per tutti i processi di rilassamento non radiativo;
b) Fluorescenza: In alcuni casi l'elettrone può ritornare al suo stato fondamentale emettendo un
fotone. La costante di velocità per questo processo è generalmente indicata con kr. Come si vede
chiaramente in figura 1 l'energia dei fotoni emessi per fluorescenza è inferiore a quelli assorbiti, fatta eccezione per la transizione tra gli stati vibrazionali fondamentali che richiede sempre la stessa energia. Per questo motivo gli spettri di fluorescenza sono generalmente simmetrici a quelli di assorbimento, ma leggermente spostati verso lunghezza d'onda maggiori. Questo spostamento è chiamato spostamento di Stokes. La scala dei tempi per la fluorescenza è compresa all'incirca tra i 10-9 e i 10-7 secondi;
c) Fosforescenza: A volte i livelli vibrazionali eccitati dello stato S1 possono essere sovrapposti a
quelli di uno stato elettronico eccitato di tripletto T1. In questo caso, la transizione T1-S0 è proibita,
dato che si avrebbe una variazione dello stato di spin dell'elettrone. Questo comporta che l'emissione radiativa di energia avviene in tempi molto lunghi, anche di qualche secondo, dato che la probabilità di transizione è molto bassa.
I.1.3 Resa quantica di fluorescenza
(1)Come sì è visto, quando una molecola assorbe un fotone di luce UV, si ha il passaggio di un elettrone dallo stato elettronico fondamentale ad uno stato elettronico eccitato. La naturale tendenza del sistema sarà, a questo punto, di ritornare allo stato energeticamente più favorevole, in maniera radiativa emettendo un secondo fotone o in maniera non radiativa attraverso altri meccanismi (conversione interna, rilassamento vibrazionale, intersystem crossing). È quindi necessario definire un parametro che possa esprimere quale sia la probabilità che lo stato eccitato decada in una maniera o nell'altra. Questo parametro è la resa quantica di fluorescenza Φ, che corrisponde al
rapporto tra il numero di fotoni assorbiti dal fluoroforo e il numero di fotoni riemessi Φ = fotoni assorbiti
fotoni emessi (5)
Un altro modo per esprimere la resa quantica è in funzione della costante di velocità per il decadimento radiativo kr e della costante di velocità per il decadimento non radiativo knr
Φ = kr
kr+knr
(6) Se chiamiamo Iem l'intensità della luce emessa, IA l'intensità della luce assorbita e I0 l'intensità della
luce incidente sul campione, si può scrivere che
Iem=IAΦ =(I0−It) Φ (7)
in cui It è l'intensità di luce trasmessa. Dato che per la legge di Lambert-Beer (4) vale che
It I0
=e−(κl M )
e quindi It=I0e−(κl M ) (in cui con κ si è indicato il coefficiente di assorbimento
molare neperiano, con l la lunghezza della cella di misura e con M la molarità della soluzione), sostituendo quest'espressione nella (7) otteniamo
Iem=I0(1−e −κl M
)Φ (8)
Espandendo in serie di Taylor e−κl m≈1−κ l M e passando alla base decimale dei logaritmi ponendo ε =κ ln 10 , si ottiene in definitiva
Iem=I0Φ εl M (9)
La (9) mostra che l'intensità della luce emessa per fluorescenza è quindi direttamente proporzionale alla concentrazione del fluoroforo (purché ci si trovi nelle condizioni in cui sia valida l'approssimazione necessaria per l'espansione al primo ordine in serie di Taylor, cioè purché la concentrazione sia estremamente bassa).
È possibile quindi determinare la resa quantica di fluorescenza di una nuova molecola
semplicemente confrontando la pendenza della retta Iem/M per la nuova specie con quella di uno
standard di cui è nota la Φ. Indicando con Grad la pendenza delle due rette, otteniamo
Iem Iem
standard=
Φ εM
Φ =Φstandard Grad
Gradstandard (11)
Questa formula è valida purché il solvente e la cella utilizzata sia uguale sia per lo standard che per per il nuovo fluoroforo da sintetizzare. Nel caso in cui il solvente sia diverso è necessario applicare la semplice correzione alla formula precedente mostrata nell'equazione 12, che tiene conto della differenza in indice di rifrazione η tra i due solventi.
Φ =Φstandard Grad
Gradstandard η2
ηstandard2 (12)
I.1.4 Tempo di vita di fluorescenza
Il tempo di vita di fluorescenza corrisponde al tempo medio che una molecola spende nello stato eccitato prima di ritornare al suo stato iniziale emettendo un fotone. È in genere indicato come τf e
può essere espresso matematicamente in funzione di kr e knr
τf= 1
kr+knr (13)
Immaginiamo di inviare sul campione un impulso di luce di durata infinitesima che eccita tutte le molecole presenti. Se chiamiamo N*(t) il numero di molecole che si trovano allo stato eccitato dopo che è passato il tempo t, posso scrivere la legge cinetica del decadimento come
dN*(t )
dt =−(kr+knr)N *
(t) (14)
Dato che N* è direttamente proporzionale all'intensità di fluorescenza, posso integrare l'equazione (14) ottenendo
I (t)=I0e−τt (15)
In cui I0 è l'intensità di fluorescenza al tempo zero. Tuttavia nella realtà può accadere che i
fluorofori possono interagire con l'ambiente esterno e con altre molecole in più modi diversi ed è quindi necessario ricorrere a un più complesso modello multi esponenziale, nel quale il decadimento radiativo viene espresso come combinazione lineare di più processi in cui ognuno ha il proprio tempo di vita
I (t)=
∑
i
aie(−τti)
(16)
In genere i tempi di vita di fluorescenza sono nell'ordine di qualche nanosecondo (10-9 s) ma
possono arrivare fino a 10-7 s.
Determinare il tempo di vita di fluorescenza permette di ottenere importanti informazioni sulla fotofisica e sui processi elettronici che entrano in gioco nella molecola di interesse.
Uno dei metodi più utilizzati per questo tipo di misura è il time-correlated single-photon counting (TCSPC)(2). In questa tecnica il campione è eccitato da un impulso luminoso di brevissima durata (~
1 ns). L'impulso viene però sdoppiato da un beam-splitter, in modo che contemporaneamente all'eccitazione del campione venga anche attivato un fotodiodo, che in questo modo dà il segnale di partenza per la conta del tempo. Un rivelatore microchannel plate (MCP) riceve i fotoni emessi dal campione e quando viene colpito dal primo trasmette l'informazione all'unità di controllo, che ferma il cronometro e misura il tempo intercorso tra l'eccitazione e il rilevamento del primo fotone. Tra il campione e l'MCP in genere si interpone un monocromatore, in modo da poter selezionare la lunghezza d'onda dei fotoni desiderati. L'esperienza viene ripetuta molte volte e in questo modo si otterrà una curva che rispecchia la funzione di decadimento reale del sistema, poiché i fotoni saranno emessi in maniera random. Perché questo sia vero è però necessario che l'intensità della luce incidente sul campione sia adeguatamente controllata, in maniera che la probabilità di emissione sia sempre inferiore all'1 %. Dato infatti che lo strumento misura il tempo trascorso fino all'arrivo del primo fotone, se tra un impulso e l'altro venissero emessi più fotoni lo spettro finale risulterebbe distorto verso i tempi più brevi. Se la probabilità che venga emesso un solo fotone tra un impulso laser e l'altro è solo dell'1 %, allora la probabilità che in quello stesso lasso di tempo ne vengano emessi due è solo dello 0,01 %.
Una volta che l'MCP riceve il primo fotone, il segnale viene amplificato e inviato ad un secondo amplificatore, che provvederà poi a portarlo ad un time-to-amplitude converter (TAC). Il TAC funziona come un condensatore. Quando riceve il segnale di start inizia a caricare le armature. Quando arriva il segnale di stop le armature di scaricano e l'impulso elettrico così ottenuto, direttamente proporzionale al tempo di carica, viene convertito dall'elettronica in una misura di tempo. Prendendo come segnale di start quello in arrivo dal beam-splitter avremmo però molti start senza uno stop (dato che la probabilità di emissione, come detto, deve essere inferiore all'1 %). Per questo motivo in genere il TAC funziona in modalità inversa: il segnale arrivato dal campione,
quindi legato al primo fotone rivelato, dà il segnale di start mentre l'impulso splittato inizialmente dà il segnale di stop.
L'altezza dell'impulso ottenuto dal TAC passa quindi ad un convertitore analogico-digitale e da qui ad un multi-channel analyzer (MCA), in cui ogni canale corrisponde ad un certo intervallo di tempo. L'esperimento continua fin quando il numero di fotoni rivelati in un canale prefissato non raggiunge un valore arbitrario definito dall'utente in relazione alla precisione necessaria per la misura.
È fondamentale che il segnale ottenuto venga alla fine corretto per il rumore strumentale. Si determina inizialmente quindi la curva dell'IRF (instrumental response function, cioè la curva ottenuta posizionando al posto del campione un riferimento non fluorescente). Lo spettro finale sarà la convoluzione dell'IRF e del decadimento esponenziale.
I.2 Fondamenti di microscopia
Con il termine microscopio ci si riferisce in genere ad uno strumento capace di ingrandire l'immagine di un campione di ridotte dimensioni, permettendo di osservarne anche i più minuti dettagli. L'osservazione al microscopio può essere effettuata direttamente dall'operatore con i suoi occhi o indirettamente tramite tecniche fotografiche o digitali. La microscopia può essere generalmente divisa in due grandi branche: la microscopia ottica, che fa uso della luce visibile per ottenere le informazioni desiderate dal campione, e la microscopia elettronica, che invece utilizza gli elettroni come mezzo d'indagine.
Il potere di risoluzione di un qualsiasi sistema ottico è un indice della distanza minima alla quale due punti appaiono ancora perfettamente separati. Il potere di risoluzione di uno strumento è limitato dalla lunghezza d'onda λ della luce utilizzata
R= λ
NAobbiettivo+NAcondensatore (17)
In questa equazione R è la distanza minima alla quale due punti possono essere risolti, mentre con NA si indica l'apertura numerica dell'obbiettivo e del condensatore. Nel caso della luce visibile questo limite teorico è pari a circa 0,2 μm mentre per un microscopio elettronica la risoluzione può arrivare a 0,2 nm per il microscopio elettronico a trasmissione (vedi paragrafo I.2.3 ). Questi limiti sono validi per sistemi limitati dalla diffrazione, ma è possibile superarli con tecniche apposite di
microscopia a super-risoluzione(3). Per lo sviluppo di queste tecniche è stato assegnato il premio
Nobel 2014 per la chimica a E. Bertzig, S. Hell, W.E. Moerner(4).
L'apertura numerica è una misura dell'angolo massimo col quale il sistema ottico può raccogliere la luce e dipende, oltre che dall'angolo a che corrisponde al semiangolo di accettazione della luce, anche dall'indice di rifrazione n del mezzo nel quale opera il sistema
NA=n sin a
2 (18)
Per migliorare l'apertura numerica che, come visto precedentemente, influisce direttamente sulla risoluzione, si utilizzano in genere degli olii con un indice di rifrazione maggiore di quello dell'aria e il più simile possibile a quello del vetro, in maniera da ridurre anche le aberrazioni cromatiche. La profondità di campo indica il numero di piani che possono essere messi contemporaneamente a fuoco dal microscopio. In un sistema a bassa profondità di campo la messa a fuoco si perde rapidamente man mano che ci si allontana dal campo focale. È quindi molto difficile l'osservazione di campioni tridimensionali, come possono essere i cristalli. In questo caso può anche essere impossibile riuscire a mettere a fuoco il campione. La profondità di campo è inversamente proporzionale all'apertura numerica, per cui obbiettivi ad alta apertura numerica hanno in genere una profondità di campo ridotta.
Il contrasto indica la quantità di sfumature di colore (o di grigio) che possono essere osservati. Il massimo contrasto corrisponderebbe alla presenza dei soli colori bianco o nero. Un aumento eccessivo del contrasto porta necessariamente alla perdita di particolari nell'immagine. Il contrasto può essere ottenuto tramite coloranti specifici per il campione o, nel caso della microscopia a fluorescenza, dalla differenza di luminosità delle varie regioni cellulari.
L'obbiettivo è il vero cuore del microscopio ottico composto. È formato da un insieme di più lenti che ingrandiscono l'immagine e la ribaltano, proiettandola poi nell'oculare dove sarà raddrizzata e ulteriormente ingrandita. Dalla qualità delle lenti dell'obbiettivo dipende fortemente la qualità dell'immagine finale.
Perché sia possibile ottenere un'immagine è ovviamente necessaria della luce che illumini il campione. L'illuminazione è regolata da un condensatore, un insieme di lenti che permettono di cambiare le dimensioni del fascio luminoso e di focalizzarlo un punto. Il saggio utilizzo del condensatore è fondamentale per migliorare il contrasto dell'immagine e la profondità di campo.
I.2.1 La microscopia a fluorescenza
La microscopia a fluorescenza sfrutta la luce emessa dal campione per fluorescenza o per fosforescenza per ottenere un'immagine dell'oggetto d'indagine.(5) Contrariamente alla microscopia
ottica classica, nella quale tutto il campione illuminato riflette la luce incidente, nella microscopia a fluorescenza è spesso solo una piccola parte del campione a emettere radiazione, quella coniugata ad una sonda fluorescente. Questo si può ottenere grazie all'utilizzo di marker specifici, che si vanno a legare con dei target ben definiti permettendone facilmente l'identificazione.
Il funzionamento di base di un microscopio a fluorescenza è relativamente semplice. Una sorgente di luce invia la radiazione eccitante ad un monocromatore. L'utente seleziona quindi la lunghezza d'onda desiderata per l'eccitazione in base alle caratteristiche del fluoroforo e il monocromatore permette che solo la luce della lunghezza d'onda desiderata possa arrivare fino al campione. Il campione quindi emette per fluorescenza e riflette anche una parte della luce incidente. La luce riflessa viene eliminata grazie ad uno specchio dicroico e a un secondo monocromatore, che permette di selezionare la lunghezza d'onda alla quale osservare il campione. La luce emessa per fluorescenza, come già visto, ha infatti lunghezza d'onda inferiore rispetto quella incidente ed è quindi facilmente isolabile. Al posto del monocromatore è anche possibile utilizzare dei filtri, più economici.
Oggi esistono migliaia di fluorofori, che possono essere utilizzati per marcare differenti target cellulari: membrane, acidi nucleici, proteine, organelli e così via. È possibile anche trattare uno stesso campione con più coloranti differenti, che assorbano ed emettano a diverse lunghezze d'onda, permettendo di mettere in risalto parti differenti del campione contemporaneamente (vedi figura 2).
Due degli effetti svantaggiosi di cui tener conto duramente un esperimento di microscopia a fluorescenza sono il
photodamage e il photobleaching. Con il
Figura 2: Cellule endoteliali di arteria polmonare bovina al microscopio a fluorescenza. I nuclei sono evidenziati in blu, i microtubuli in verde e i
primo ci si riferisce al danno biologico prodotto dalla radiazione di eccitazione, che spesso ha una lunghezza d'onda che cade ad alte frequenze, anche nell'ultravioletto. Con il secondo ci si riferisce al danno che subisce la molecola di fluoroforo che, dopo un periodo più o meno lungo di esposizione alla luce UV, può iniziare a degradarsi e modificarsi smettendo di fluorescere.(6)
Un grande cambiamento in questo ambito è avvenuto negli anni '90, quando è entrata in gioco la proteina fluorescente verde (GFP, Green Fluorescent Protein). Si tratta di una proteina fluorescente derivata da una medusa, la Aequorea victoria, che ha portato Martin Chalfie, Osamu Shimomura e
Roger Y. Tsien a vincere il premio Nobel per la chimica nel 2008.(7)(8) Oggi è infatti possibile
utilizzare l'ingegneria genetica per modificare il corredo di microorganismi o animali modello per permettere l'espressione della GFP o di un suo derivato in un particolare tipo di tessuto o per marcare selettivamente una certa proteina. È possibile inoltre modificare praticamente a piacimento la lunghezza d'onda di eccitazione e di emissione della proteina in funzione del tipo di esperimento, permettendo una grandissima flessibilità.(9) La GFP presenta inoltre una ridottissima tossicità,
rispetto ad altri marcatori fluorescenti costituiti da piccole molecole.
Oggi si usano preferenzialmente dei microscopi ad epifluorescenza, piuttosto che a normale trasmissione, nei quali la sorgente è disposta perpendicolarmente rispetto al rilevatore. In questo modo la luce trasmessa non viene raccolta dal rilevatore, che è raggiunto solo dalla luce prodotta per fluorescenza e da una piccola parte di luce riflessa; quest'ultima può essere ulteriormente eliminata con filtri appositi. In questo modo è possibile ottenere un rapporto segnale/rumore molto più elevato.
I.2.2 La microscopia confocale
(10)Il principale problema della microscopia a fluorescenza è che la luce che arriva all'obbiettivo non proviene solamente dal piano focale, ma praticamente da tutto il campione. Questo genera un effetto sfocato che impedisce di riconoscere i dettagli più fini dell'immagine e non permette di avere alcuna risoluzione tridimensionale. La microscopia confocale nasce nel 1955 grazie al lavoro di Marvin Lee Minsky(11) ma fu solo nei primi anni '90 che i primi microscopi confocali iniziarono a diventare
commerciali.
La prima differenza tra un microscopio ottico composto e uno confocale sta nel modo in cui è illuminato il campione. Mentre nel primo caso la luce illumina tutto il campione e l'immagine si forma direttamente in una sola volta, nel secondo caso il campione è illuminato un punto per volta. Solo successivamente i punti ottenuti vengono rielaborati elettronicamente per mostrare l'aspetto del campione all'operatore. Questo aspetto è fondamentale, perché altrimenti, anche riuscendo a eliminare tutta la radiazione parassita proveniente dai piani non a fuoco, l'immagine ottenuta sarebbe comunque estremamente confusa per via della riflessione della luce all'interno dello stesso piano focale.
Esistono diverse metodologie con le quali eseguire la scansione, ma qui ci concentreremo principalmente sul Confocal Laser Scanning Microscope (CLSM), cioè il microscopio confocale a scansione laser.
La seconda differenza sta nel modo in cui è raccolta la luce. In un microscopio confocale sono infatti presenti due pinhole, cioè due piccolissime aperture: una è posta in corrispondenza della sorgente di luce, e serve ad illuminare solamente una ristrettissima zona del campione, mentre la seconda è posta subito prima del rilevatore, in modo che tutta la luce fuori fuoco non possa passare oltre.
L'utilizzo del laser presenta alcuni svantaggi, quali la ristretta banda di lunghezza d'onda, che richiede una scelta oculata dei fluorofori da impiegare. Nel microscopio impiegato per questo lavoro era possibile ad esempio selezionare quattro diverse lunghezze d'onda: 405, 488, 561 e 635 nm.
Illuminando solamente un piccolo punto per volta, la quantità di fotoni che arriva al rilevatore è però molto ridotta, e questo può generare del rumore di sottofondo sgradito. Per questo motivo l'uso
di una sorgente luminosa ad alta intensità, come quella laser, è indispensabile per ottenere immagini di buona fattura. Durante le osservazioni, è possibile intervenire su un certo numero di variabili. È possibile muovere il campione lungo gli assi x e y per selezionare la regione di spazio d'interesse, è possibile cambiare il piano focale in modo da poter osservare il campione su piani diversi, è possibile intervenire sugli ingrandimenti, sull'intensità della luce in arriva, sulla sensibilità del rilevatore e sulle dimensioni del pinhole.
Un funzionalità molto interessante della microscopia confocale è quella che consente di eseguire varie sezioni ottiche del campione e ricombinarle insieme per ottenere un'immagine tridimensionale.
I.2.3 La microscopia elettronica
Il microscopio elettronico sfrutta, al posto della luce, un fascio di elettroni accelerati. Dato che la lunghezza d'onda associata agli elettroni è molto inferiore rispetto quella dei fotoni, è possibile con questa tecnica scendere fino ad una risoluzione di qualche decimo di nanometro, mille volte più bassa di quella ottenibile con un qualsiasi microscopio ottico.
Esistono due principali tipi di microscopio elettronico: il microscopio elettronico a trasmissione
(TEM) e il microscopio elettronico a scansione (SEM).
Nel microscopio elettronico a trasmissione, il primo microscopio elettronico costruito(12), il fascio
attraversa il campione e le particelle emergenti interagiscono quindi con un rilevatore per fornire un immagine, il cui contrasto è dato dall'assorbimento più o meno efficace degli elettroni nelle varie parti del campione. È quindi necessario che il campione si presenti sotto forma di uno strato sottilissimo, spesso da qualche decina fino a qualche centinaio di nanometri.
Il fascio è prodotto da un cannone elettronico. Quest'ultimo è costituito da una sorgente, come un
filamento di tungsteno o di LaB6 che emette elettroni per via termoionica quando connesso a una
elevatissima differenza di potenziale, nell'ordine delle centinaia di kilovolt. Alla sorgente, che si comporta da catodo, è accoppiato un anodo. È proprio la differenza di potenziale tra catodo e anodo a governare l'energia degli elettroni utilizzati. Il fascio elettronico passa quindi attraverso una serie di lenti elettromagnetiche. Come le lenti ottiche con i raggi luminosi, le lenti elettromagnetiche permettono di deviare, indirizzare e collimare gli elettroni che partono dalla sorgente. Attraverso queste è possibile quindi manipolare il fascio in modo da metterlo a fuoco sul campione.
La prima lente è quella del condensatore, che produce il fascio primario di elettroni. Segue quindi la lente dell'obbiettivo, che focalizza il raggio sul campione, e alla fine una lente di proiezione che espande il raggio permettendo la formazione di una immagine ingrandita sullo schermo rilevatore. Tutto il percorso che devono seguire gli elettroni, compreso l'alloggiamento del campione, deve necessariamente essere mantenuto sotto vuoto spinto per evitare l'interazione degli elettroni con molecole in fase gassosa. Il vuoto è ottenuto tramite l'impiego di pompe rotative montate in serie con pompe turbomolecolari per l'alto vuoto.
Il campione è montato su un retino metallico (generalmente in rame, nichel, oro o platino) e ogni porzione del reticolo costituisce una frazione osservabile di campione. Non è infatti possibile utilizzare i classici vetrini per microscopia, in quanto il vetro assorbirebbe gli elettroni.
La preparazione del campione è uno stadio complesso e fondamentale per ottenere immagini nitide e prive di artefatti. Considerando infatti le condizioni drastiche di osservazione, in termini di energia degli elettroni e vuoto spinto della camera, e l'esiguo spessore richiesto per l'analisi, è evidente che i campioni, soprattutto se biologici, devono essere sottoposti ad una serie di processi di fissazione e colorazione. Il metodo classico consiste in una prima fissazione con formaldeide o glutaraldeide, seguita da un trattamento con derivati di metalli pesanti (come il tetrossido di osmio, OsO4) in modo da formare dei precipitati elettron-ricchi ben visibili al TEM. Si procede quindi alla
disidratazione effettuata immergendo il campione in soluzioni a concentrazione crescente di etanolo, fino all'etanolo assoluto. Un metodo moderno che sta acquistando sempre più spazio è la criomicroscopia. In questa tecnica il campione è raffreddato istantaneamente alla temperatura dell'azoto liquido (o anche dell'elio liquido), per poi essere sezionato. In questa maniera si preservano meglio le caratteristiche dei tessuti e gli artefatti diventano molto più rari. Quello che si ottiene è quindi una istantanea del campione subito prima dell'immersione.
Il microscopio elettronico a scansione è basato su una strategia completamente diversa. Contrariamente al TEM, nel quale gli elettroni osservati sono gli stessi provenienti dal fascio primario, nel SEM vengono osservati gli elettroni secondari, cioè quelli riemessi dal campione dopo che è stato colpito dal fascio primario. Quando gli elettroni interagiscono con gli atomi dell'oggetto in analisi questi riemettono energia sotto varie forme: elettroni secondari, raggi X, elettroni retrodiffusi e fotoni. Ognuna di queste particelle può essere osservata con un adeguato detector. L'osservazione dei raggi X per esempio costituisce la microanalisi a raggi X (Energy Dispersive
X-ray microanalysis, EDX) che permette di ottenere una distribuzione spaziale della composizione
chimica del campione. Con questo metodo è stato possibile ad esempio studiare in che modo si accumula il platino nei reni di topi trattati con il cis-platino(13).
Studiando invece l'emissione degli elettroni secondari è possibile ottenere dettagliate immagini della superficie del campione, anche se con una risoluzione di solo qualche nanometro, contrariamente agli 0,1-0,2 nm ottenibili con la TEM. Dato che la parte studiata è solo la superficie esterna del campione, è inoltre possibile trattare anche campioni macroscopici, come addirittura interi insetti. È però necessario che la superficie sia conduttiva, in modo da non permettere l'accumularsi di elettricità statica. Per questo motivo i campioni devono essere eventualmente ricoperti con un sottilissimo strato d'oro o di carbonio. Nel caso di campioni biologici è necessario che siano trattati e fissati come nel caso della microscopia TEM, dato che devono comunque sopportare una situazione di vuoto spinto.
I.3 I processi a due fotoni
I.3.1 Breve introduzione all'ottica non lineare e
all'assorbimento a due fotoni
L'esistenza di condizioni nelle quali una molecola possa assorbire due fotoni contemporaneamente era già stata prevista, nel 1931, dalla fisica tedesca Maria Goeppert-Mayer nella sua tesi di dottorato(14).
La conferma della correttezza delle sue ipotesi arrivò però solamente nel 1961, con l'avvento del laser, quando finalmente Kaiser e Garrett riuscirono a dimostrare il fenomeno sperimentalmente(15). Tuttavia fu
possibile iniziare a fare ricerca in questo ambito in maniera più generale solamente dopo il 1990, quando diventarono commerciali i primi laser pulsati a picosecondi. L'assorbimento di due o più fotoni è solo uno dei molteplici fenomeni che rientrano nel campo di studio dell'ottica non lineare.
L'interazione di una radiazione con la materia si può descrivere macroscopicamente riferendoci alla polarizzazione di quest'ultima. In generale, è possibile esprimere la polarizzazione in serie di potenze in funzione della suscettibilità elettrica del materiale χ e del campo elettrico:
P=P0+χ1E+ χ2E2+χ3E3+... (19)
Dal punto di vista molecolare l'equazione precedente si trasforma leggermente: μ =μ0+αE +β E
2
+γE3+... (20)
In questa equazione μ è il momento di dipolo indotto dalla radiazione, μ0 è il momento di dipolo
permanente, α è la polarizzabilità, β è l'iperpolarizzabilità quadratica e γ è l'iperpolarizzabilità cubica. I termini quadratici e cubici sono normalmente trascurabili. Tutti gli effetti ottici più comuni e noti fin dall'antichità, come la riflessione o la rifrazione, sono infatti effetti del primo ordine. In questi casi l'espressione (20) può essere correttamente approssimata come:
μ =μ0+αE (21)
I termini superiori iniziano ad acquisire importanza solo quando si lavora con radiazioni estremamente intense, come quelle di un fascio laser. In questi casi iniziano a entrare in gioco anche
Figura 5: Ritratto di Maria Goeppert-Mayer.
i termini superiori e il momento di dipolo molecolare diventa funzione anche del quadrato e del cubo del campo elettrico. Si parla in questo caso di ottica non lineare (NLO, non-linear optic). È stato solo nel 1961 che per la prima volta un effetto NLO, la generazione di seconda armonica, è stato osservato sperimentalmente grazie al lavoro di Franken(16), quasi contemporaneamente
all'assorbimento a due fotoni(15).
L'assorbimento di due fotoni (TPA, Two-photon absorption) è un fenomeno del terzo ordine poiché dipende dall'iperpolarizzabilità cubica. Mentre l'assorbimento di un fotone aumenta linearmente all'aumentare dell'intensità della luce incidente, come visto nel paragrafo I.1.1, l'assorbimento di due fotoni è proporzionale al quadrato dell'intensità luminosa, dato che è richiesto che due fotoni si
Figura 7: Schema della fluorescenza generata dall'assorbimento di uno (in viola) o due fotoni (in rosso).
Figura 6: Schema abbreviato dei livelli energetici per una molecola centrosimmetrica di simmetria D2h .
trovino contemporaneamente nello stesso punto. In questa trattazione si considererà sempre il caso in cui i due fotoni hanno identica energia, ma è anche possibile che i due fotoni interagenti abbiano energie diverse.
In generale gli spettri di assorbimento ad uno e a due fotoni di una molecola sono differenti, dato che le regole di selezione sono diverse. Nel caso di molecole centrosimmetriche, come quelle considerate in questo lavoro, le transizioni a uno e due fotoni sono mutualmente esclusive(17). Se
consideriamo una molecola lineare centrosimmetrica di simmetria D2h, i livelli energetici coinvolti
sono tre, come riportato in figura 6. I tre stati sono di simmetria alterna. Se il primo ha simmetria pari (gerade), allora lo stato elettronico intermedio ha simmetria dispari (ungerade), mentre quello finale ha di nuovo simmetria pari. Per la regola di Laporte, la transizione 1A1g 2A1g è vietata,
mentre è permessa quella 1A1g 1B1u. Quando la radiazione incidente ha una frequenza v che non
è in risonanza con i due stati iniziale e intermedio, può formarsi uno stato virtuale dal loro mescolamento. Dato che questo stato ha parziale carattere ungerade, la transizione tra lo stato fondamentale e quello virtuale è permessa. Se a questo punto arriva un secondo fotone, sempre di frequenza v, l'elettrone può essere promosso allo stato 2A1g, dato che anche in questo caso la
transizione è permessa. Tuttavia lo stato virtuale esiste solamente per un brevissimo lasso di tempo, qualche femtosecondo, per cui per avere una probabilità non nulla che un secondo fotone vada ad interagire con l'elettrone promosso allo stato virtuale è necessaria una luce di straordinaria intensità. Si può quindi esprimere una regola di selezione per la TPA, in molecole centrosimmetriche, come:
Δl=±2 (22)
La probabilità che avvenga l'assorbimento di due fotoni può essere espresso come segue:
dNtp dt = 1 2σ2NgsI 2 (23)
In questa equazione si sono indicati con Ntp e Ngs il numero di particelle presenti rispettivamente allo
stato eccitato e allo stato fondamentale al tempo t, σ2 è la sezione di assorbimento efficace a due fotoni, misurata in Goeppert-Mayer, in onore dell'omonima fisica (1GM= 10-50 cm4 s-1 fotone-1)
mentre I è l'intensità della radiazione.
La sezione efficace di assorbimento a due fotoni è quindi il parametro principe per stabilire se una molecola è più o meno attiva per l'assorbimento a due fotoni. I due metodi più usati per la sua determinazione sono il metodo Z-Scan(18) e il metodo della fluorescenza indotta(19).
Il metodo di fluorescenza indotta per assorbimento di due fotoni è quello che è stato utilizzato per la determinazione di σ2 in questo lavoro, poiché la fluorescenza indotta sarà utilizzata anche per
la microscopia TPEM . Un fascio laser, di cui è possibile variare la lunghezza d'onda, è focalizzato sul campione e la luce emessa per fluorescenza è raccolta e misurata da un detector, come un tubo fotomoltiplicatore.
Riprendendo l'equazione (5), si può scrivere che Nemessi=Φ Nassorbiti in cui con N si è indicato il numero di fotoni emessi o assorbiti e Φ è la resa quantica di fluorescenza. Dall'equazione (23) si vede inoltre che il numero di fotoni assorbiti nell'unità di tempo dipende da σ2. Questo implica che
paragonando l'intensità di fluorescenza di un campione con σ2 incognito con un riferimento(20) è
possibile esprimere σ2campione in funzione delle concentrazioni molari del riferimento e della soluzione (Crif e Ccampione), delle due rese quantiche di fluorescenza Φrif e Φcampione, degli indici di
rifrazione del solvente η e delle intensità medie di fluorescenza <F>rif e <F>campione come:
σ2 campione=
ΦrifCrifσrifηrif< F >rif
ΦcampioneCcampioneηcampione< F >campione
(24)
È quindi necessario utilizzare un riferimento di cui siano esattamente noti σ2 e Φ a tutte le
lunghezze d'onda in esame. È inoltre necessario che venga preliminarmente misurata anche la resa quantica di fluorescenza del campione di cui si vuole determinare σ2. Un'altra limitazione riguarda
il fatto che, alle lunghezze d'onda in esame, il campione deve mostrare un assorbimento lineare trascurabile.
I.3.2 Ingegneria molecolare dei fluorofori per l'assorbimento bifotonico
Le conclusioni che si possono trarre dalla teoria dell'assorbimento bifotonico si possono riassumere nei seguenti requisiti per massimizzare la sezione efficace σ2 di assorbimento a due fotoni:(17)
a) Presenza di una lunga catena π-coniugata;
b) Presenza di gruppi terminali elettron-donatori e/o elettron-accettori agli estremi della molecola;
c) Bande di assorbimento a uno e due fotoni il più possibile strette, per evitarne la sovrapposizione.
Il primo studio sistematico sull'influenza della struttura molecolare sulle proprietà di assorbimento bifotonico è stato condotto nel 1997 da Marder e Perry(21) su derivati dell'E-Stilbene (figura 9). Il
loro lavoro mise in luce l'importanza della scelta oculata dei sostituenti presenti nella molecola per ottimizzare le proprietà ottiche desiderate e in particolare confermò che la presenza di due gruppi elettrondonatori su una molecola centrosimmetrica completamente coniugata portasse ad un aumento considerevole della sezione efficace a due fotoni.
In generale, è possibile suddividere i fluorofori per la TPA in monodimensionali, bidimensionali o tridimensionali (figura 8). In questa trattazione ci limiteremo a considerare prevalentemente quelli monodimensionali, in particolari quelli quadrupolari, che dal punto di vista strutturale possono essere assimilati ad un sistema D-π-D, costituiti da due gruppi elettron-donatori (D) separati da una catena di legami coniugati (π). Anche strutture del tipo A-π-A (con A gruppo elettron-accettore)
hanno mostrato un comportamento molto promettente, mentre strutture dipolari del tipo D-π-A, a parità di complessità della molecola, mostrano σ2 inferiori(22).
Le vie più utilizzate per cercare di ottenere fluorofori sempre più performanti sono quindi quellle che cercano di cambiare i gruppi elettro-donatori/accettori presenti sulla molecola o di cambiarne il core centrale.
L'importanza dei gruppi terminali è evidente osservando i risultati del lavoro del 1997 di Marder e Perry riportati in figura 9.
Si vede chiaramente come, rispetto l'E-stilbene semplice, l'aggiunta di gruppi amminici abbia aumentato di un ordine di grandezza la sezione efficace di assorbimento. È anche interessante notare come sostituendo i due gruppi n-butile sull'azoto con due gruppi fenile si ha un ulteriore aumento di σ2 di tre volte, nonostante il gruppo -NBu2 sia un migliore donatore rispetto -NPh2.
Questo può essere giustificato con la presenza di più elettroni π nella molecola sostituita con i fenili. In generale inoltre, come mostrato in altri studi, i donatori all'azoto sono preferibili a quelli all'ossigeno(17).
Cambiare la struttura del core centrale, influendo sulle sue proprietà di donatore/accettore e sulla sulla sua geometria, è anch'essa una strategia molto utilizzata(23) . In figura 10 è mostrato come varia
la sezione efficace di assorbimento al variare della struttura della parte centrale della molecola. Nelle cinque molecole di figura 10a si nota come all'aumentare della lunghezza della catena di legami coniugati aumenti decisamente la σ2. Aggiungendo inoltre un gruppo accettore di elettroni,
Figura 9: Molecole studiate dal gruppo di Marder e Perry nel 1997 e relative sezioni efficaci di assorbimento bifotonico
si vede come le proprietà continuano a migliorare. In figura 10b si vede infatti molto chiaramente come l'aggiunta di due gruppi -CN abbia fatto raddoppiare la sezione efficace. Questo tipo di sistema può essere schematizzato come D- π-A- π-D.
In figura 10c si nota addirittura un aumento di cinque volte, sempre sostituendo un idrogeno con un -CN. Confrontando la figura 10b con la 10c è inoltre possibile riconoscere la presenza di un altro effetto che incrementa la sezione efficace che è legato alla costrizione della molecola in una geometria planare. La planarità è infatti una condizione indispensabile per garantire la sovrapposizione ottimale degli orbitali p necessaria a garantire una buona circolazione elettronica sulla molecola. Di conseguenza molecole rigidamente obbligate ad una geometria planare presentano σ2 normalmente superiori.
I.3.3 La microscopia di fluorescenza ad eccitazione a due fotoni
La microscopia a fluorescenza a eccitazione di due fotoni (TPEM) è basata sull'eccitazione non lineare dei fluorofori impiegati. È una tecnica che mostra dei vantaggi notevoli rispetto la microscopia confocale o la microscopia di fluorescenza a un fotone.(24)
Nella TPEM l'eccitazione è limitata ad un volume di campione microscopico, nell'ordine di qualche femtolitro. Questo è dovuto al fatto che la probabilità di eccitazione dipende dal quadrato dell'intensità del laser e quindi la fluorescenza avviene solamente nel punto focale, contrariamente alla fluorescenza classica dove invece l'intensità di fluorescenza decresce molto lentamente allontanandosi dal fuoco. Questo piccolo volume di eccitazione permette di migliorare il contrasto
delle immagini e riduce di molto il photobleaching e il photodamaging(25). È possibile ottenere
anche un'ottima penetrazione nei tessuti biologici ed è possibile studiare campioni ad una profondità di qualche micrometro, fino al millimetro(26). Questo è dovuto al fatto di usare luce infrarossa invece
della luce UV-vis. La luce rossa è infatti molto meno soggetta ai problemi di scattering elastico, poiché questi fenomeni sono proporzionali all'inverso della lunghezza d'onda. I tessuti inoltre sono spesso trasparenti nel vicino IR(27) e questo, combinato con il ridotto scattering, permette
un'indagine molto più profonda.
Ad esempio, gli studi di biosignaling o sul trasporto intracellulare sono impossibili da eseguire con la microscopia elettronica, essendo quest'ultima adatta solo all'osservazione statica, ma anche le osservazioni con normale microscopia confocale, a causa del danno ai campioni prodotto dall'esposizione prolungata alla luce UV-vis, sono di difficile attuazione. Esempi di applicazioni della TPEM in questo ambito sono molteplici: studio in vivo di strutture oculari(28), studio del ruolo
del calcio nel signaling cellulare(29), nell'imaging in vivo del cervello(30) e nello studio di vari
processi neurologici.(31)(32)
Essendo la luce inviata di lunghezza d'onda decisamente diversa da quella raccolta, non si hanno i problemi tipici della microscopia a fluorescenza classica dovuti alla contaminazione della fluorescenza con lo scattering della luce incidente. Nella fluorescenza classica è generalmente necessario osservare la fluorescenza in uno spettro di frequenza ridotto, mentre in questa maniera è possibile utilizzare tutta la porzione di spettro in cui avviene la fluorescenza e quindi ottenere un rapporto segnale/rumore più alto.
I principali svantaggi della tecnica sono invece dovuti all'elevato costo del laser a impulsi richiesto per la TPM e la minore risoluzione ottica rispetto alla microscopia classica, dato che all'aumentare della lunghezza d'onda della luce utilizzata diminuisce il potere di risoluzione dello strumento. Il primo microscopio a eccitazione di due fotoni fu inventato nel 1990 da Denk e collaboratori(33).
Oggi è uno strumento disponibile commercialmente (Leica TCS SP8 MP o Zeiss LSM710) ma che è anche possibile autocostruire.(34)(35) Il componente fondamentale che differenzia questo tipo di
microscopia dalle altre è sicuramente il laser utilizzato. Dato che il TPA è processo del secondo ordine con una bassissima sezione efficace di assorbimento, è necessario un laser a luce pulsata, tipicamente a femto o picosecondi. L'intensità del raggio può essere modulata grazie a dispositivi come i modulatori elettro-ottici (EOM) o acustico-ottici (AOM) o anche dei semplici filtri a densità neutra. La luce passa quindi attraverso un beam expander, che permette di regolare opportunamente le dimensioni del raggio in modo che corrispondano il più possibile all'apertura posteriore dell'obbiettivo. Il fascio laser viene quindi indirizzato da un galvanometro a specchio verso uno spettro dicroico. Lo specchio dicroico riflette la luce laser sull'obbiettivo, che può muoversi nelle tre direzioni per fare una scansione tridimensionale del campione. La luce di fluorescenza raccolta dal campione passa attraverso lo specchio dicroico e arriva quindi ad un fotodiodo a valanga (Avalanche photodiode, APD).
I.4 La microscopia correlativa
I differenti tipi di microscopia fin qui visti offrono un ampio range di scelta in termini di risoluzione e di caratteristiche osservabili nel campione. Lo scopo della microscopia correlativa è combinare tra di loro varie tecniche per poter ottenere informazioni morfologiche e strutturali altrimenti difficilmente accessibili. Riprendendo una definizione data da Jahn, Barton e Braet, “la
microscopia correlativa può essere definita come uno strumento di imaging che mira a osservare esattamente le stesse strutture in una singola cellula usando due o più tecniche microscopiche, preferenzialmente con differenti limiti di risoluzione”(36)
La microscopia a fluorescenza è ad esempio un approccio formidabile per studiare la dinamica delle proteine, delle membrane e intracellulare in generale. Soffre tuttavia di una scarsa risoluzione che impedisce di ottenere informazioni sulla struttura fine del campione. Queste informazioni possono però essere ottenute attraverso la microscopia elettronica (EM), che però fornisce esclusivamente immagini statiche, non è adatto allo studio di cellule vive ed ha un ristretto campo visivo.
In questa tesi, tra le molteplici tecniche correlative esistenti, mi focalizzerò sulla CLEM,
Correlative Light-Electron Microscopy, in particolare della correlazione tra microscopia a
eccitazione a due fotoni (TPEM) e della microscopia elettronica.
La CLEM si è dimostrata uno strumento formidabile per lo studio di cellule e tessuti neuronali(37),
dei meccanismi di trasporto intracellulari(38).
Uno dei principali problemi legati alla microscopia correlativa è la mancanza di molecole che possano funzionare da sonde sia per la microscopia ottica che per la microscopia elettronica. Nel nostro caso, è richiesto che la molecola abbia una sezione efficace di assorbimento bifotonico sufficiente per ottenere delle immagini dettagliate nella TPEM e sia allo stesso tempo abbastanza elettrondensa da fornire un contrasto sufficiente sia nella microscopia SEM che TEM(39).
Fin ora sono stati provati vari approcci. È possibile ad esempio legare ad una nanoparticella d'oro un anticorpo e un fluoroforo, ma questo approccio non sembra molto soddisfacente, in quanto la presenza della nanoparticella porta ad un quenching della fluorescenza(40). Usando cluster d'oro al
posto delle nanoparticelle i risultati sembrano invece più promettenti (come nel caso delle FluoroNanogoldTM, usate in numerosi studi(41)(42)). È anche possibile l'uso di quantum dots(43) o di
tecniche basate sull'ossidazione di sonde organiche come la 3,3'-diamminobenzidina (DAB)(44).
L'approccio usato in questo lavoro è basato sull'uso di un cluster esanucleare di platino funzionalizzato con due molecole organiche con un'alta sezione efficace di TPA. È diverso da quelli fin ora in elencati per due motivi. Da una parte lo scopo è infatti di sintetizzare delle sonde per la TPEM, oltre che per la normale microscopia confocale a un fotone, con tutti i vantaggi che ne derivano e che sono stati esposti precedentemente. D'altra parte l'uso del cluster di platino al posto delle nanoparticelle porterebbe vantaggi da numerosi punti di vista:
• Risparmio economico, per il minor uso di metallo prezioso a parità di moli di fluoroforo;
• Maggiore riproducibilità nella sintesi del prodotto finale, che è un composto di stechiometria ben definita, monodisperso;
• Facilità di sintesi: come si vedrà in seguito il coupling tra il cluster e la parte organiche è relativamente semplice, avviene in condizioni blande ed è possibile recuperare tutto il cluster non reagito in forma pura.
CAPITOLO II
:
SINTESI E
CARATTERIZZAZIONE DI NUOVE SONDE
MULTIMODALI PER LA
MICROSCOPIA
CLEM
SINTESI E CARATTERIZZAZIONE
DI NUOVE SONDE MULTIMODALI
PER LA MICROSCOPIA
CLEM
II.1 Nuove sonde per la CLEM
Lo scopo di questo lavoro di tesi è stato la sintesi e la caratterizzazione fotofisica di nuovi mezzi di contrasto per la microscopia correlativa a due fotoni/elettronica. L'idea di base dietro l'approccio seguito è stato di coniugare una molecola organica, contenente un lungo sistema coniugato, che funge da fluoroforo per la microscopia ad eccitazione di due fotoni, con un cluster esanucleare di platino che ha la funzione di fornire l'alta densità elettronica richiesta per la microscopia elettronica. La presenza inoltre di un sistema coniugato di elettroni d nel cluster porta ad un generico incremento della sezione efficace di assorbimento bifotonico σ2.
Un approccio simile, utilizzando un cluster tetranucleare di rame, è già stato provato da X. Wang e collaboratori(45)
per provare a migliorare le proprietà fotofisiche di alcuni fluorofori organici per la TPM.
Nel mio lavoro in tutto sono state preparate quattro molecole diverse (schema 1), due delle quali (Pt6Ph e
Pt6Et) contenenti dei gruppi laterali fortemente idrofobici
e due (Pt6OH e Pt6OMe) nelle quali la catena laterale
sull'azoto aveva un carattere leggermente più idrofilo.
II.1.1
Sintesi e proprietà del cluster di platino Pt
6Cl
2La scelta del cluster da utilizzare è stata governata da diversi fattori, quali la stabilità in soluzione acquosa, la stabilità all'aria e la facilità con la quale poteva essere funzionalizzato. Il cluster Pt6Cl2, già noto, sintetizzato e
studiato dal gruppo del prof. Leoni,(46)(47)(48) soddisfa tutte queste
caratteristiche: è illimitatamente stabile all'aria, è insolubile ma stabile in acqua, può essere sintetizzato con relativa facilità e con rese accettabili e presenta due atomi di cloro laterali facilmente sostituibili gruppi alchinilici attraverso reazioni di coupling catalizzate dal Cu (I). Questa particolare reattività del cluster è stata sfruttata anche per sintetizzare polimeri organometallici contenenti unità cluster intervallate da spaziatori organici coniugati.(49)(50)
La storia dei cluster di platino è ormai abbastanza lunga e si può fare partire dalla sintesi del « platino dicarbonile », ottenuto nel 1961 da Boot e Chatt(51), al quale sono poi seguiti numerosi altri
composti simili, principalmente cluster trinucleari. Generalmente per i complessi del platino il punto di partenza è un sale dell'esacloroplatinato (IV) da cui, tramite reazioni di carbonilazione riduttiva, è possibile ottenere molti derivati basati sempre un'unità di base triangolare, eventualmente ripetuta più volte per formare cluster di formula generica [Pt3(CO)6]n-2. L'aggiunta di fosfine nella sfera di coordinazione può portare ad una
Figura 12: Il cluster
esanucleare di platino Pt6Cl2
Figura 11: Il cluster Cu4I4L4 studiato dal
maggiore stabilizzazione dei cluster dei metalli del gruppo 10, i più noti dei quali sono i cluster triangolari CO/PR3 di palladio e platino zero. Si è inoltre visto recentemente che la presenza delle
fosfine permette la formazione di cluster giganti contenenti più di cento nuclei metallici(52)(53).
Il punto di partenza per la sintesi di Pt6(μ-PtBu2)4(CO)4Cl2 (Pt6Cl2, figura 12), è stato il cluster
trinucleare Pt3(μ-PtBu2)3(CO)2(H), (Pt3H), che a sua volta è stato sintetizzato, come mostrato nello
schema 2, partendo da un sale dell'esacloroplatinato (IV). L'esacloroplatinato (IV) è stato inizialmente ridotto a PtCl42- utilizzando idrazina cloridrato in soluzione acquosa(54). Il prodotto
viene isolato e fatto reagire con Et2S soluzione acquosa, in modo da far precipitare il complesso a
trans-bis(dietilsolfuro)dicloroplatino(II). Quest'ultimo è sciolto quindi in toluene (nel quale è solubile la sola forma trans e quindi per filtrazione è possibile rimuovere la piccola percentuale di
isomero cis). Lavorando in atmosfera strettamente inerte e con solventi appropriatamente disidratati, si procede quindi alla reazione con l'allilmagnesio bromuro per sintetizzare il complesso
b. Anche questo non viene purificato, ma viene fatto reagire direttamente con una soluzione di
sodio ciclopentadienile, ottenuto per reazione di ciclopentadiene appena distillato con NaH in THF(55). La soluzione risultante, dopo essere stata filtrata, è quindi fatta reagire con
di-tert-butilfosfina a 60°C permettendo la precipitazione del dimero d(46). Quest'ultimo si presenta come un
solido incolore, è insolubile in tutti i solventi organici ed è stabile all'aria e all'umidità, e può quindi essere facilmente purificato per lavaggio con solventi. Una sospensione del dimero, scaldata a riflusso del toluene per 4 h sotto atmosfera di CO, porta alla formazione del cluster triangolare Pt3H(47), stabile all'aria e solubile in CHCl3. Quest'ultimo viene trattato con un forte eccesso di acido
triflico in atmosfera di azoto. Dopo qualche minuto di agitazione, l'atmosfera viene sostituita con una di CO e, dopo due ore di agitazione, la miscela è portata a secco e il solido purificato per cristallizzazione con Et2O/THF. Per trattamento del cluster Pt6(CO)22+ così ottenuto con una
soluzione satura di NH4Cl si ottiene quindi il cluster finale Pt6Cl2(48).
Quest'ultimo può essere formalmente immaginato come prodotto dalla condensazione di due
molecole di Pt3H a seguito della perdita di un fosfuro a ponte, che viene eliminato come sale di
fosfonio (tBu
2PH2)CF3SO3.
È formato da un core tetraedrico di quattro atomi di platino, con altri due atomi di Pt apicali che completano la struttura. I quattro fosfuri si pongono a ponte tra i due atomi di platino apicali, a cui sono anche legati i due atomi di cloro che verranno sostituiti successivamente, e quelli del core tetraedrico, quest'ultimi legati ad una molecola di CO per uno.
Vale la pena notare che a causa del forte ingombro sterico prodotto dai leganti fosfuro il core centrale del cluster non è accessibile ai reagenti più comuni. Di conseguenza la reattività del cluster è governata dai due atomi di platino apicali, che sembrano comportarsi come se fossero parte di due complessi mononucleari differenti. È infatti possibile funzionalizzare il cluster non solo in maniera simmetrica, come per Pt6Cl2, ma anche in maniera asimmetrica, legandoci gruppi diversi.(56) Nelle
reazioni tutta l'unità Pt6= Pt6(μ-PBut2)4(CO)4 rimane invariata e può quindi essere inglobata nelle
strutture desiderate.
Il cluster mostra un picco intenso di assorbimento a un fotone a 434 nm e mostra fosforescenza a 77K, con un massimo di emissione a 663 nm, con due processi di rilassamento con tempi di vita di 14.7 μs (95%) e 1,7 μs (5%).