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Oltre il confine: proposta di adattamento cinematografico del romanzo The Crossing di Cormac McCarthy.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione. ... 1

1. L’adattamento cinematografico... 4

1.1 Che cos'è il racconto? ... 4

1.2 La traduzione Intersemiotica. ... 10

1.3 L'adattamento è un falso problema? ... 13

1.4 Il cinema e la letteratura. ... 15

1.5 Un necessario cambio di natura. ... 17

1.6 Tipologie di adattamento. ... 21

2. No country for old man. ... 27

2.1 Negazione del topos di genere. ... 29

2.2 Dal libro al film. ... 32

3. The road. ... 47

3.1 L'apocalisse di McCarthy. ... 48

3.2 Dal libro al film. ... 51

4. La sceneggiatura cinematografica. ... 63

5. Oltre il confine. ... 70

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Introduzione.

Lo scopo del presente lavoro è di proporre un adattamento cinematografico del romanzo The Crossing dello scrittore americano McCarthy. Le riflessioni che seguiranno proveranno a definire gli strumenti teorici e pratici necessari per il nostro proposito, considerando comunque che si tratta di un lavoro che, almeno nella sua parte creativa, consiste in un esperimento, un tentativo mosso da finalità auto-didattiche e compiuto con atteggiamento di assoluta reverenza rispetto al romanzo da cui ci siamo lasciati affascinare.

Il rapporto fra il cinema e la letteratura è uno dei più studiati; la magia che permette all’uomo di raccontare delle storie, di partecipare emotivamente a vicende che riguardano gli altri sembra trovare in queste due forme d’arte una delle sue manifestazioni più stupefacenti.

Cinema e letteratura nel ‘900 si sono confrontati a più riprese: il cinema, fin da quando si è reso conto di poter raccontare delle storie, ha attinto a mani basse dal patrimonio letterario mondiale, non perché i primi registi fossero a corto di idee ma, più probabilmente, perché prendere in prestito storie dai libri considerati le più alte espressioni dell’intelletto umano era un modo per nobilitare la nuova arte. Recentemente, invece, è stata la

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letteratura ad assorbire alcuni stilemi del cinema ed il linguaggio letterario si è fatto più visivo, la messa in sequenza dei fatti sempre più ardita, l’immaginario cinematografico è sconfinato nei libri.

Nella prima parte del presente lavoro ci occuperemo del rapporto tra cinema e letteratura da un punto di vista narratologico, verificando come riflettere sul passaggio da un libro a un film significa riflettere sulla natura stessa dei dispositivi coinvolti. Partendo dal terreno comune del racconto e delle strutture profonde della narrazione, si verificherà in che termini il passaggio di un contenuto narrativo da un sistema semiotico ad un altro implica una ridisposizione, una interpretazione ed una decisiva trasformazione del materiale di partenza. Si collocherà in una prospettiva storica la questione dell’adattamento cinematografico e si analizzeranno alcune dei principali contributi teorici sull’argomento, insieme ad una disamina delle possibili risposte pratiche e operative alla domanda posta da quella che verrà definita traduzione intersemiotica.

I casus studi consistono in due libri dello scrittore McCarthy, portati sullo schermo rispettivamente nel 2007 e nel 2009: si tratta di Non è un paese per vecchi per la regia di Joel ed Ethan Coen e de La strada di John Hillcoat. Si analizzeranno le trasformazioni subite dal materiale di partenza e le interpretazioni che gli autori ne hanno dato, che vedremo essere connesse

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con la sensibilità, le attitudini e le finalità dei diversi registi.

Concluderemo con un breve accenno a quel testo peculiare e ambiguo che è una sceneggiatura e ci avventureremo nella stesura di un trattamento tratto da The Crossing.

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1. L’adattamento cinematografico.

1.

1

Che cos'è il racconto?

Nonostante i numerosi tentativi del cinema moderno di sottrarsi al regime della narratività, è fuori di dubbio – e facilmente riscontrabile storicamente - che il cinema si sia sviluppato sull'asse privilegiato del racconto. Fin dalla sua nascita, la nuova forma di spettacolo trovò nel patrimonio letterario una fonte pressoché inesauribile di storie da raccontare. Come ha brillantemente sostenuto Metz, “è proprio nella misura in cui il film ha affrontato i temi del racconto che è stato condotto a darsi un insieme di procedimenti significanti specifici”1, il film ha sviluppato il suo linguaggio

superando lo stadio di semplice apparecchio riproduttivo dal momento in cui ha preso a raccontare delle storie, assecondando quella che molti studiosi ritengono essere una innata vocazione.

Prima di chiedersi in che modo il cinema racconta le storie, riteniamo utile fornire una breve definizione della narrazione: cosa è il racconto? Genericamente, narrare significa comunicare ad altri avvenimenti o esperienze concluse; una celebre quanto efficace definizione ci viene ancora da Metz, che identifica il racconto come un “discorso chiuso che viene ad

1METZ 1972, p. 143. 2METZ 1972, p. 60.

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irrealizzare una sequenza temporale di avvenimenti”2. Il racconto è un

discorso, un processo in cui un autore – più opportunamente, un enunciatore o istanza narrante – per mezzo di precise strategie di trasmissione, comunica qualcosa ad uno o più spettatori, o meglio enunciatari. L'oggetto della comunicazione, il racconto, ha un inizio ed una fine, è un discorso chiuso. Ogni racconto è una sequenza temporale di avvenimenti tale da fondere un tempo in un altro tempo (esiste il tempo dell'atto del narrare e il tempo della cosa raccontata: un film dura generalmente 120' ma può raccontare storie che coprono un arco temporale ben più ampio). Se la realtà presuppone la presenza e l'immediatezza del qui ed ora, il racconto irrealizza la cosa raccontata in quanto ogni evento narrato è di fatto già avvenuto, ogni racconto è una finzione, una rappresentazione della realtà. Un racconto, infine, è una sequenza ordinata di avvenimenti.

In virtù della predilezione per il racconto, il problema del film va allora affrontato da una parte tenendo ben presente la sua dimensione narrativa, dall'altra considerando la specificità del suo linguaggio, definendo le modalità attraverso cui l'immagine-tempo produce senso3.

Abbiamo chiarito cosa sia il racconto, ma non ancora il modo in cui il

2METZ 1972, p. 60.

3Certamente la narratività non esaurisce l'espressione filmica ma, come nota Costa, lo studio

delle strutture narrative può condurre ad una maggiore comprensione di tutti quei complessi meccanismi che organizzano, attivano e potenziano gli aspetti che producono la significazione cinematografica.

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cinema racconta, quali siano gli strumenti di cui si dota per articolare una narrazione. I primi ad occuparsi di problemi propriamente narratologici sono stati i formalisti russi, le cui riflessioni, a partire dall'analisi delle funzioni narrative della fiaba russa proposta da Propp, hanno dato l'avvio ad una serie di indagini alla ricerca di un modello teorico universale delle strutture narrative; da Barthes, Greimas, Todorov, Benveniste a Genette e Chatman, l'approccio narratologico ha conosciuto notevole fortuna e, sotto l'influsso del celebre Figure III di Genette, si sono registrati importanti tentativi di applicare anche al cinema le problematiche legate alla narrazione4: si è

tentato di approfondire la teoria generale della narrazione valutando in modo comparato le diverse forme espressive, con una predilezione ai rapporti tra letteratura e cinema. In sostanza, a testi basati su diverse materie dell'espressione vengono poste le stesse domande relative ai temi classici della focalizzazione, del tempo, dei modi e delle voci, individuando così problematiche comuni, legate alle modalità attraverso cui nel cinema e nella letteratura si garantisce la formalizzazione di un universo narrativo coerente. Il racconto si svolge in un mondo, uno spazio-tempo in cui gli eventi sono collocati, una diegesi5. Lo sfondo della narrazione non è preesistente, ma è

costruito dal racconto stesso che ce ne fornisce le caratteristiche e le regole

4COSTA 1993, p. 35.

5Utilizziamo il termine nell'accezione data da AMBROSINI, CARDONE, CUCCU 2011, p. 134

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di funzionamento interno contemporaneamente al suo svolgimento; la diegesi è una condizione di lettura che la lettura stessa costruisce, presupposto e insieme risultato del racconto.

Come ulteriore punto di partenza per l'impostazione dei problemi narrativi e per capire ancora meglio cosa sia un racconto, è utile ricorrere alle riflessioni formulate dallo studioso americano Chatman nel suo volume Storia e Discorso, che costituisce uno dei primi tentativi di uno studio comparato delle forme narrative fra cinema e letteratura. Con riferimento alla tradizione strutturalista, Chatman individua due componenti della narrativa: la storia, ovvero il contenuto (azioni, eventi ed esistenti) ed il discorso, ovvero le modalità per mezzo delle quali il contenuto viene comunicato. La storia è ciò che viene rappresentato in una narrativa, il discorso è il come6. Se la storia

riguarda il cosa del racconto, il suo contenuto, ogni sua rappresentazione discorsiva (il suo come), ogni sua espressione, dipende dalle diverse forme in cui la narrazione si incarna, si manifesta. Ogni tipo di contenuto narrativo, ogni storia, è raccontabile attraverso mezzi diversi (romanzo, film, pièce teatrale, fumetto), mentre il discorso, il piano dell'espressione, è specifico del mezzo impiegato, non riguarda ciò che viene raccontato ma il modo in cui viene raccontato: ecco perché un film può essere realizzato a partire da una

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leggenda, un'opera, un racconto breve, un fatto storico, dei quali riprende la storia - ridotta o amplificata, semplificata o sviluppata – e la applica alla specifica modalità narrativa del cinema, la incarna in un'altra forma di espressione.

Se la storia è trasponibile è perché la narrativa in realtà è una struttura indipendente da qualsiasi medium. Chatman verifica questa affermazione sulla formulazione di Jean Piaget, che definiva struttura un gruppo di oggetti le cui caratteristiche corrispondono alle nozioni di totalità, trasformazione ed autoregolazione, se la narrativa è davvero una struttura possiede tali qualità: la narrativa, argomenta Chatman, è una totalità perché gli elementi che la compongono, eventi ed esistenti, non sono isolati e distinti ma raggruppati in sequenze, molto spesso collegate ed interdipendenti, rivelando un preciso criterio organizzativo7. Le narrative comportano autoregolazione, ovvero

sono strutture chiuse e complete in cui le trasformazioni generano elementi coerenti alla struttura stessa, di cui conservano le leggi. La trasformazione è il processo tramite cui si rivela ogni evento narrativo, ogni racconto si struttura essenzialmente come un sistema di stasi e trasformazioni che si concludono nel finale, e dunque la struttura si chiude in sé.

Abbiamo accennato al fatto che il cinema, dotato di una essenziale

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vocazione narrativa, sia cresciuto in stretto contatto con la letteratura subendo ed esercitando, a sua volta, su di essa un'influenza, secondo quella circolarità caratteristica dei media 8 . Questo processo simbiotico ha

permesso che si sedimentassero strutture profonde – personaggi, eventi, categorie spazio-temporali – che formano un nucleo comune sia per la narratività letteraria che per i racconto filmico; ad esempio, se i personaggi vengono indagati in base alle funzioni che svolgono nello sviluppo del racconto diventa indifferente se il testo analizzato sia filmico o letterario9. Al

netto delle caratteristiche specifiche dei personaggi, è comunque possibile individuare delle caratteristiche costanti. Greimas individua sei funzioni principali per i personaggi, che vengono definiti Attanti: un Destinatore incarica un Soggetto di raggiungere un certo Oggetto Valore a beneficio di un Destinatario; il compito potrà essere agevolato da un Aiutante e

8F. ZUCCA nel saggio “Elementi per una genealogia intermediale” ricorda le riflessioni di

Bolter e Gruisin sulla rimediazione, processo per il quale un medium si appropria di tecniche e forme mutuate da altri media; ciò produce quello che Ortoleva chiama sistema dei media, un sistema in cui i diversi mezzi allacciano relazioni di interdipendenza e complementarietà che influiscono sullo sviluppo e la trasformazione gli uni degli altri. S. MARINIELLO nel saggio “Intermedialità dieci anni dopo” ricorda come il sistema dei media rappresenti uno dei sottoinsiemi che compongono il sistema sociale e che dunque le relazioni sociali prendono forma nei e attraverso i media: media e società si co-costruiscono permanentemente. Il cinema, prosegue la Mariniello, è impiantato nella nostra cultura e questa presenza costante influisce necessariamente sul modo di vedere le cose, modifica la percezione dello spazio e del tempo: la nostra memoria è fatta anche di immagini cinematografiche, di visioni che creano un immaginario comune e dei modi di rappresentazione che finiscono inevitabilmente per influenzare anche le altre arti. ZUCCA, in DE GIUSTI, a cura di 2008, pp. 50-51; MARINIELLO, in DE GIUSTI, a cura di 2008, pp. 24, 33.

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ostacolato da un Oppositore10. Qualunque racconto si fonda su questo

schema. Allo stesso modo si posso individuare modi di implicazione e strategie di gestione dell'informazione (focalizzazione) che ricorrono nei racconti letterari quanto in quelli cinematografici11. In definitiva, se il cinema

e la letteratura differiscono per le materie e le forme dell'espressione esistono aspetti comuni che riguardano i piani della materia e della forma del contenuto (o significato) ed è proprio in virtù di questi elementi comuni che sono possibili le pratiche di trasferimento di contenuti da un medium all'altro.

1.

2

La traduzione Intersemiotica.

Il cinema ha affinità con la letteratura dal momento che racconta delle storie, ma è anche in contatto con la pittura e la fotografia poiché è una rappresentazione imitativa della realtà, è composto (anche) da immagini, alle quali aggiunge il movimento, la durata. Bisogna allora supporre che nel travaso di contenuti e significati dalla letteratura al cinema – che è appunto un'altra cosa – avvenga una trasformazione. Resta dunque da chiarire quali siano i procedimenti semplici e universali che accompagnano questo passaggio: esiste una formula di equivalenza logica, esistono codici di conversione convenzionali fra la parola scritta e l'immagine in movimento?

10GREIMAS 1970, pp. 155 e seg. 11COSTA 1993, p. 36.

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Oppure i procedimenti specifici di messa in scena cinematografica impongono una profonda ridisposizione, un radicale ripensamento dell'opera di origine?

Molte delle riflessioni teoriche riguardanti la pratica dell'adattamento prendono come punto di partenza le ricerche di Jakobson sulla traduzione e la sua celebre tripartizione: traduzione endolinguistica, che consiste nell'interpretazione di segni linguistici per mezzo di altri segni linguistici della stessa lingua (riformulazione); traduzione interlinguistica, che consiste nell'interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un'altra lingua (traduzione propriamente detta); traduzione intersemiotica, che consiste nell'interpretazione di segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici (trasmutazione)12.

Nel suo recente libro Dire quasi la stessa cosa, Eco riprende e sviluppa le riflessioni di Jakobson: riassumendo in maniera essenziale (ed ingenerosa) le articolate riflessioni del semiologo di Alessandria, potremmo dire che egli considera la traduzione una pratica che non riguarda soltanto l'interpretazione linguistica (risalire ad un significato per mezzo di un segno), ma anche la comprensione testuale13 in quanto (la traduzione) non è solo

affare interno al testo ma rimanda a mondi possibili: il traduttore, dato un

12JAKOBSON, Aspetti linguistici della traduzione, in DUSI 2003, p. 5. 13ECO 2003, p. 230.

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ventaglio di significati attribuibile ad una stessa parola, deve scegliere l'accezione più probabile, ragionevole e rilevante nel contesto che il libro evoca14. Nella traduzione, dunque, è legittimo violare i principi della sinonimia

e persino quelli dell'esattezza del riferimento pur di produrre lo stesso effetto del testo di partenza15. Queste decisioni richiedono una negoziazione16

ovvero la scelta, la selezione di ciò che del testo di partenza si deve mantenere e ciò che deve essere eliminato o modificato pur di dire – quasi 17-

quello che il testo originale dice o vuole farci capire.

Se quindi non è possibile una traduzione propriamente detta che sia assolutamente fedele alla lettera del testo di partenza, figurarsi se è possibile una traduzione intersemiotica completamente fedele al testo di partenza!

Secondo Eco, nel caso di una trasformazione da letteratura a cinema non è nemmeno lecito l'utilizzo del termine traduzione, in ragione del fatto che il lavoro di traduzione comporta una serie di scelte necessarie che finiscono inevitabilmente per modificare, aggiungere o sottrarre significato al testo di partenza18; passando da una materia dell'espressione ad un'altra, si

impone allo spettatore l'interpretazione che l'adattatore ha fornito dell'opera 14ECO 2003, p. 45. 15Ibidem, p. 80. 16Ibidem, pp. 10, 87. 17Ibidem, p. 94. 18Ibidem, p. 324.

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di partenza, interpretazione che il lettore del romanzo era invece portato a costruirsi da sé19. Eco sostiene che per trasporre un romanzo in un film

bisogna necessariamente esplicitare il non detto, colmare le inferenze, poiché nel film il mondo non viene più evocato, ma mostrato, rappresentato, incarnato nella configurazione fisica creata dall'immagine. Siamo dunque d'accordo con Eco nel preferire i termini trasmutazione o adattamento per distinguere queste interpretazioni dalla traduzione propriamente detta.

1.

3

L'adattamento è un falso problema?

L'evidenza della sostanziale impossibilità di una fedeltà assoluta di un film al testo di partenza ha generato teorie che sostengono la non trasponibilità di opere dalla diversa materia espressiva: il formalista russo Slovskij, negli anni '20, rifiutava la pratica dell'adattamento ritenendolo un lavoro di semplificazione, schematizzazione, limitazione, una riduzione (attribuendo molto probabilmente al termine una accezione negativa) dagli esiti esteticamente discutibili20. Negli anni '60 Mitry riteneva un non-senso la

pretesa di trasporre modi di espressione letterali in modi di espressione cinematografici, in virtù dell'impossibilità di distinguere e separare i significati dall'espressione che li rende visibili o ascoltabili; secondo Mitry la fedeltà allo

19ECO 2003, p. 330. 20DUSI 2003, p. 14.

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spirito del testo è impossibile, l'unico esito possibile per l'adattamento, semmai, è la fedeltà alla lettera che finisce però per essere illustrazione, ovvero una rappresentazione banale e non creativa di un soggetto tratto da un libro21. In effetti spesso in un testo, letterario quanto filmico, le

componenti narrative non sono facilmente solubili rispetto a quelle specificamente enunciative, proprie del mezzo. In realtà, come vedremo più avanti, il cinema può, con i propri mezzi specifici, creare effetti di senso in qualche modo simili o equivalenti a quelli generati dall'enunciazione letteraria. Per ora limitiamoci a dire che le posizioni di Mitry sembrano essere discutibili già a partire dalla constatazione, ad opera di Vanoye, che non serve chiedersi se l'adattamento è possibile o se esso sia soggetto a particolari restrizioni; tutto è adattabile poiché tutto è stato adattato22.

L'adattamento è un falso problema: piuttosto che chiedersi perché si adatta è utile riflettere sul come è stato adattato, individuare le procedure e le strategie specifiche che caratterizzano una pratica di grande interesse nella misura in cui è in grado di dare risposte convincenti alla problematicità del passaggio di un universo narrativo da un'opera letteraria ad un'opera cinematografica, della trasformazione da una forma espressiva ad un altra.

21DUSI 2003, p. 14. 22VANOYE 1998, p. 132.

(16)

1.

4

Il cinema e la letteratura.

La pratica dell'adattamento, come abbiamo già rapidamente accennato, non deve essere considerata un lavoro di pedissequa traduzione il cui fine ultimo è una sorta di filologica fedeltà al testo di partenza, come se fosse possibile trovare una immagine equivalente ad ogni parola scritta su carta; l'adattamento conduce ad una necessaria trasformazione in virtù della specificità dei linguaggi implicati e della decisiva differenza di materia espressiva: da una parte la letteratura, che adotta segni grafici arbitrari quanto convenzionali, dall'altra il cinema, che parte pur sempre dalla realtà, o meglio dalla sua riproduzione. Ricorriamo alle riflessioni di Metz per identificare le principali differenze tra linguaggio della letteratura e linguaggio del cinema: nel saggio Cinema: lingua o linguaggio, il semiologo francese affermava l'impossibilità di considerare il cinema come una langue (lingua) poiché, a differenza della lingua scritta-parlata, non si articola su unità minime di senso quali sono i monemi e i fonemi. Essendo ogni inquadratura unica ed irripetibile, il cui significato non è mai univoco, il cinema non ha monemi (unità minime di articolazione del senso) né tantomeno fonemi (unità autonome, ancor più piccole dei monemi, che però non recano un significato autonomo), in quanto le singole immagini non sono componibili tra loro per formare monemi, dato che ogni elemento di una inquadratura è di per sé già

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dotato di senso. Il cinema, del resto, non possiede né un dizionario né una sintassi ovvero quelle regole che definiscono la “forma” di una lingua e che presiedono la costruzione delle frasi23.

Il cinema non usa segni convenzionali, ogni inquadratura non rimanda ad altro che a ciò che essa rappresenta in se stessa. Un'immagine cinematografica, nel momento in cui indica ciò che rappresenta, inevitabilmente aggiunge anche una qualche forma di senso; un'immagine cinematografica non può mai essere solamente un atto comunicativo e così, in un certo senso, il cinema è condannato all'espressione in virtù del fatto che, sostiene Metz, il piano denotativo non sembra poter essere disgiunto da quello connotativo, dal piano dell'espressione. Nella lingua scritta si possono alternare espressioni puramente denotative ad altre fortemente connotative, che corrispondono in linea di massima al binomio lingua/letteratura; il cinema, conclude Metz, non possiede una tale dicotomia ed assomiglia più alla letteratura che alla lingua: l'ontologia dell'immagine cinematografica fa di ogni immagine un intreccio tra rappresentazione della realtà e produzione di senso24. Dire una donna o mostrare una donna sono due operazioni

sostanzialmente differenti: la donna dell'immagine non è una categoria astratta, indefinita, la donna dell'immagine è quella donna, bella o brutta,

23MINZOLI p. 41; METZ p. 61. 24METZ 1972, pp. 63 e seg.

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alta o magra, insomma produce senso di per sè.

1.

5

Un necessario cambio di natura.

Riflettere sulla pratica dell'adattamento conduce dunque al riconoscimento delle sostanziali differenze tra cinema e letteratura: vedere non equivale a leggere, scrivere non equivale a mostrare. Le materie dell'espressione cinematografica corrispondono a cinque ordini di significanti: immagini, tracce scritte, voci, rumori e musiche, elementi che il cinema ha mutuato da altri linguaggi e che articolati, mescolati e sovrapposti producono la significazione25. Tale peculiarità impone un cambio di natura: la

struttura segnica della pagina scritta deve mutare, trasfigurare nei corpi, nei suoni, nei movimenti, nella temporalità che, ir-rompendo nell'oggettività fotografica, costruiscono la significazione filmica. Dunque, il cinema deve lavorare a suo vantaggio sul libro, spesso persino rompendo la struttura del romanzo che, ricomposto sullo schermo, ne rivedrà – nei casi più felici – restituita l'essenza. L'adattamento impone un cambio di natura necessario26.

Come ha efficacemente osservato Bettetini, “il problema della traduzione non può ridursi alla traslazione del suo universo semantico […] da

25CASETTI, di CHIO 1990, p. 57. 26SABOURARD 2007, p. 16.

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un sistema semiotico a un altro27”, questo perchè ogni testo presenta una

precisa strategia enunciativa, ogni opera attiva dinamiche comunicative fra enunciatore ed enunciatario e dunque “la sua traduzione dovrebbe implicare anche il rispetto e la restaurazione delle sue istanze di enunciazione28”. La

ricomposizione della struttura dell'istanza enunciativa richiede, secondo Bettetini, un lavoro di riscrittura, una diversa organizzazione del racconto, “uno stravolgimento della struttura di superficie della primitiva enunciazione testuale29”. L'adattatore dovrà “operare una serie di scelte d'autore dotate

spesso di una caratteristica di rifondazione. […] Tradurre, nel caso di passaggio da un testo letterario a un testo audiovisivo, è produrre una nuova macchina semiotica che tenti di ripetere per analogia il lavoro di quella da cui si è partiti30”.

Sono molti gli studiosi ad essere d'accordo nel considerare l'adattamento una pratica che richiede un intervento ri-creativo profondo; nella rapida rassegna che segue vedremo come le teorie dell'adattamento si siano confrontate con i problemi di ordine tecnico derivanti dalla specificità del linguaggio cinematografico, problemi da cui derivano quelle che Vanoye

27BETTETINI 1984, p. 72. 28Ibidem, p. 73.

29Ibidem, p. 84. 30Ibidem, pp. 84, 91.

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chiama “limitazioni esistenziali”31. L'adattamento, sottolinea Vanoye, obbliga

a confrontarsi con problemi tecnici, conduce a delle scelte estetiche e implica procedimenti di appropriazione32. Uno dei primi problemi a cui

bisogna fare fronte riguarda una limitazione di ordine temporale: la durata limitata della proiezione cinematografica impone una decisiva selezione del materiale narrativo di partenza, per evitare di proporre un film dalla lunghezza inaccettabile. I tagli, spiega Vanoye, non necessariamente significano un impoverimento di significati: certo, è necessario sopprimere, accorciare, ma la selezione può anche essere l'occasione per “sintetizzare, amalgamare33”, insomma mettere a frutto la densità semantica del testo di

partenza. L'adattamento comporta spesso anche le operazioni opposte: un adattamento (e non è detto che sia solo il caso delle trasposizioni di un racconto breve) può aggiungere elementi nuovi o dilatare quelli già esistenti nel testo di partenza34.

Le scelte tecniche, come accennato in precedenza, rispondono a tre grandi tipi di limitazioni: audiovisualizzazione (il cinema mostra e fa sentire, quindi chiarifica, precisa), messa in scena e messa in dialogo, drammatizzazione (si può scegliere di dare rilevanza ad alcuni elementi

31VANOYE 1998, p. 132. 32Ibidem.

33Ibidem. 34Ibidem.

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piuttosto che ad altri, dosare la carica patetica, la tensione emotiva delle situazioni fra i due estremi del coinvolgimento e del distacco) 35 .

L'adattamento conduce ad una serie di scelte estetiche, a cominciare dal modello drammaturgico che si intende adottare: Vanoye ricorda che esistono due grandi modalità narrative corrispondenti, in linea di massima, a testi classici e a testi moderni36. I testi classici sono quelli in cui la narrazione è

forte, i personaggi sono ben definiti, le motivazioni univoche e coerenti, la progressione drammatica chiara e lineare, il finale esaurisce la narrazione e non lascia niente in sospeso; la modalità narrativa moderna propone contenuti più ambigui, una frammentaria costruzione dell'intreccio e dei personaggi, apre alle interpretazioni del fruitore, spesso contiene elementi di riflessività e autoreferenzialità che producono effetti di straniamento e di distacco. A partire da questa distinzione, Vanoye ipotizza quattro possibilità combinatorie per un adattatore, che preferirà una piuttosto che un'altra a seconda della sua sensibilità estetica: da un testo classico se ne può ricavare una sceneggiatura classica o una sceneggiatura moderna; da un testo moderno una sceneggiatura classica o ad una moderna37.

Per Vanoye, infine, è fondamentale considerare l'adattamento come un processo di appropriazione, appropriazione che non deriva da una scelta, ma

35VANOYE 1998, p. 142. 36Ibidem, p. 143. 37Ibidem, p. 144.

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è piuttosto l'inevitabile conseguenza di quella limitazione definita con il termine transfert, trasferimento di ordine storico-culturale: l'opera adattata si trova sempre in un contesto storico-culturale diverso rispetto a quello in cui è stata prodotta e dunque essa viene integrata e assimilata alla sensibilità, al punto di vista, al contesto culturale specifico a cui appartiene l'adattatore; non necessariamente il transfert genera una trasformazione sulla storia o sull'intreccio, ma provoca comunque un cambiamento di prospettiva38.

1.

6

Tipologie di adattamento.

Seguendo Manzoli, distinguiamo, in termini assolutamente generici, tre diversi programmi di operazioni, tre grandi tipologie di approccio ad un testo letterario da parte di un adattatore. La più aperta delle tre, per intenderci quella che si definisce liberamente ispirato a, consiste nel prendere solo alcuni aspetti del romanzo (temi di fondo, ambientazioni, motivi) e seguire un non-schema che permette al film di svilupparsi liberamente39; un'altra

possibilità è quella di selezionare alcuni momenti privilegiati e trasporre solo quelli, considerandoli sufficienti per fornire allo spettatore il senso profondo dell'opera letteraria: è questo il caso di quei film in cui nei titoli di testa

38VANOYE 1998, pp. 149-151. 39MANZOLI 2003, p. 71.

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compare la dicitura tratto da40. La terza e ultima tipologia di approccio è

quella – utopica – della fedeltà assoluta41.

In aggiunta a queste grandi categorie, molti teorici hanno proposto variazioni e definito sfumature che approfondiscono le possibilità di approccio ad un testo letterario. Andrew, per esempio, propone una tripartizione: borrowing (presa a prestito), tipologia che accorpa le categorie che abbiamo appena chiamato liberamente ispirato e tratto da, ovvero si mutuano dal testo di partenza, ed in maniera molto variabile, materiali, idee o forme; intersection (intersezione), con riferimento a quegli adattamenti che non assimilano completamente il testo di partenza ma si concentrano solo su alcune parti, adattandole alla specificità del linguaggio cinematografico, in una sorta di rifrazione, di gioco di specchi tra il libro ed il film; fidelity of transformation (fedeltà della trasformazione), con una distinzione tra fedeltà allo spirito - che tenta di restituire, per mezzo degli stilemi tipici del cinema, il tono, il valore, l'essenza del romanzo originale – e la fedeltà alla lettera, ovvero ai personaggi, ai fatti, agli ambienti, alla storia42.

Più articolata la classificazione proposta da Garcia, che identifica tre grandi tipologie d'adattamento e per ognuna di esse individua delle sfumature, delle differenti modalità che costruiscono una struttura più

40MANZOLI 2003, p. 71. 41Ibidem, p. 73.

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rigorosa: l'adattamento semplice si muove tra gli estremi dell'illustrazione (una fedeltà alla lettera che finisce per essere una riproduzione ornamentale) e l'amplificazione (un particolare elemento del testo viene dilatato); l'adattamento libero si muove fra digressione (deviazione dal tema principale) e commento (una forma di interpretazione) e dunque si allontana dal romanzo che diventa solo un punto di partenza; infine la trasposizione, basata sui principi di analogia e messa in schermo (écranisation, affine alla visualizzazione di cui parla Vanoye), che cerca di essere fedele sia al livello discorsivo che a quello narrativo, tiene conto sia dell'espressione che del contenuto del testo di partenza43.

Resta comunque valida anche per Garcia la considerazione che un film non potrà mai essere assolutamente fedele al romanzo in virtù delle sostanziali differenze di materie espressive ed in particolare per la decisiva differenza nell'utilizzo del tempo: Garcia considera il romanzo un genere a tempo libero44, in cui l'enunciatore può, a tutte le altezze, muoversi avanti e

indietro nel tempo, fare congetture e riflessioni, mentre il cinema, che non ha queste potenzialità, è un genere a tempo limitato45. Nel confronto con la

particolare temporalità della letteratura, il cinema, dice Garcia, è costretto a fare i conti con la sua stessa essenza, la quale rende impossibile trascrivere

43GARCIA 1990, pp. 20-24.[trad. nostra]. 44Ibidem, p. 28.

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direttamente un'opera letteraria senza che essa subisca una vera e propria metamorfosi46.

Questa breve ricognizione teorica, al di là di un'evidente incompletezza, ci permette comunque di individuare un assunto comune a queste riflessioni e cioè che l'adattamento è una pratica aperta ad una vasta gamma di possibilità, ad una serie di scelte estremamente variabile, che possono tendere ad una maggiore o minore equivalenza o similarità rispetto al testo di partenza. Come ha brillantemente riassunto Dusi, si possono individuare quattro possibili strategie operative che guidano l'adattamento, strategie che offrono la possibilità di scegliere una collocazione fra i due estremi dell'equivalenza e della differenza47. L'equivalenza globale è un

assoluto che non si dà quasi mai in una traduzione (intersemiotica e non), semmai è una categoria riferibile solo ad esperienze di rifacimenti o di remake48; l'altro estremo è quello della distanza totale in cui la creazione è

completamente autonoma rispetto al testo di partenza, anche se, in assenza di un legame riconosciuto tra i testi, non è nemmeno più lecito parlare di adattamento49 . Fra i due estremi si colloca la maggior parte degli

46GARCIA 1990, p. 28. 47DUSI 2003, p. 286. 48Ibidem.

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adattamenti che prevedono o la sovrapposizione parziale50, in cui vengono

ripresi solo alcuni elementi del testo mentre altri vengono soppressi, oppure la sovrapposizione quasi totale,51 che ripropone molti livelli del testo di

partenza e tende a restituire lo spirito dell' originale per mezzo di effetti di equivalenza espressiva. All'interno di queste forme di possibilità si dispiegano due specifiche dinamiche di modi traduttivi: Dusi distingue tra modi soggettivanti e modi oggettivanti. I modi soggettivanti52 sono orientati al

destinatario, nel senso che il testo d'arrivo costruisce un nuovo lettore modello adeguato al contesto culturale di ricezione; valorizzando il lavoro di interpretazione viene fatto, del testo di partenza, una sorta di canovaccio, un insieme di linee guida sulle quali innestare variazioni narrative e discorsive. I modi oggettivanti53 si orientano sul destinante, ovvero sul testo di partenza,

eretto a valore assoluto di cui si cerca di rispettare al massimo le strategie di significazione. Il testo verrà allora considerato come una sorta di partitura in cui certamente l'interpretazione ha ancora una grande importanza, ma nella misura in cui serve a creare, nel testo d'arrivo, strategie espressive equivalenti a quelle del testo di partenza.

Resta ancora da chiarire in che modo il cinema crea effetti di

50DUSI 2003, p. 288. 51Ibidem.

52Ibidem, p. 294. 53Ibidem.

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equivalenza di senso analoghi a quelli del testo originale. Il cinema articola tre livelli della rappresentazione: messa in scena (il contenuto dell'immagine), messa in quadro (le modalità attraverso le quali vengono rappresentati i contenuti) e messa in serie (il montaggio e le relazioni che ogni immagine intrattiene con quella che la segue e con quella che la precede). Posto che non è questa la sede in cui approfondire la complessa questione della significazione cinematografica e che sarebbe impossibile catalogare organicamente tutte le soluzioni che il cinema ha adottato per restituire sullo schermo questioni quali lo stile, il ritmo, le metafore, l'espressione, ci limiteremo a dire, con Dusi, che nel cinema i livelli della rappresentazione, che appartengono sia al piano del contenuto sia al piano dell'espressione, sono vincolanti nella costruzione complessiva del senso. Il film, dunque, “ricerca l'estetizzazione del piano dell'espressione […] costruisce dei sistemi interni di risonanza e di significazione che possono essere considerati come risposta alla poeticità del testo letterario da cui muove”54.

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2.

No country for old man

.

Il primo oggetto che assumiamo come caso di studio è l'adattamento che Joel e Ethan Coen fanno, nel 2007, del romanzo di Cormac MacCarthy edito in Italia nel 2005, “No country for old man”. Le premesse teoriche e metodologiche che abbiamo condotto all'inizio ci aiutano ad evitare un confronto superficiale fra i testi, che deriverebbe dall'impostazione di problemi che riguardano prevalentemente il grado di fedeltà al romanzo di partenza che la ri-scrittura cinematografica riesce ad ottenere. Questo approccio, poco produttivo, ignora un assunto fondamentale: ogni adattamento di valore richiede un ripensamento, un processo di ri-creazione. E' dunque più interessante osservare le tracce di questa mutazione, intuire, dall'incrocio di testi dallo statuto diverso, l'interpretazione che i registi hanno dato del testo di partenza, definire le strategie espressive messe in atto nel libro e nel film, registrare e motivare le inevitabili differenze, infine provare ad ipotizzare le ragioni che hanno spinto i Coen a scegliere proprio il romanzo di Cormac McCarthy.

Texas, anni '80. Mentre è a caccia di antilopi nel deserto al confine tra Messico e Stati Uniti, Llewelyn Moss fa una macabra scoperta: cadaveri bruciati dal sole, fuoristrada crivellati di colpi, un grosso quantitativo di droga, tutti elementi che portano ad un incontro tra narcotrafficanti finito nel

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sangue. Moss è troppo furbo per non intuire che ci sono dei soldi da qualche parte, così, dopo essersi imbattuto in uno dei narcos, moribondo, assetato e terrorizzato dai lupi – animali ormai assenti in quelle zone – trova una valigetta piena zeppa di denaro. Sembra l'occasione di una vita, ma il pensiero dell'uomo lasciato a morire di sete spinge il cowboy a tornare sul posto per soccorrere il narcos, così Moss compie un gesto tanto generoso quanto imprudente. Individuato dai narcotrafficanti ad una fuga disperata, braccato da violenti sicari e soprattutto dal terrificante killer Anton Chigurh, spietato ed efficiente almeno quanto è originale ed eccentrica la sua arma, una pistola ad aria compressa letale e silenziosa. Alla vicenda partecipa, seppur relegato ad una posizione di osservatore quasi inerme, il vecchio sceriffo Bell, un uomo d'altri tempi, tutto d'un pezzo, erede di antichi valori etico-morali eppure quanto mai sgomento e sopraffatto dal male e dalla violenza dilagante, sia quella commessa in nome dell'oggetto attorno a cui ruota tutta la vicenda, la valigetta, che quella gratuita e inspiegabile che affligge la natura umana. Moss è costretto a fuggire di motel in motel, tentando di proteggere la moglie e salvare se stesso, in un crescendo di tensione vero una risoluzione che risulterà impossibile.

(30)

2.

1

Negazione del

topos

di genere.

Fermiamoci subito e proviamo a riflettere sulle ragioni che hanno spinto i Coen a scegliere “Non è un paese per vecchi”; intanto possiamo dire che il romanzo stesso costituisce un unicum nella produzione di McCarthy: l'azione si svolge quasi ai giorni nostri, ai cavalli si sono sostituite le automobili, ai bivacchi intorno ai fuochi scoppiettanti alla luce della luna l'oscurità di anguste e anonime stanze di motel, piuttosto che vecchie carabine i personaggi si affrontano impugnando moderni mitra pistole automatiche e fucili con enormi silenziatori; il ritmo della narrazione si è fatto ancora più serrato, la centralità tematica del rapporto uomo-natura viene affiancata da una profonda riflessione sulla modernità, mentre restano fondamentali e centrali i temi della violenza, del male e del destino dell'uomo. Possiamo individuare alcuni macro-elementi di fondo del romanzo di McCarthy che sembrano particolarmente vicini alla peculiare sensibilità che i Coen hanno espresso attraverso il cinema: l'ambientazione, quel confine tra USA e Messico sede dell'incontro-scontro tra culture diverse e luogo in cui l'America vede riflessa se stessa negli occhi dell'altro, del diverso, il confine come limite e zona di attraversamento, di passaggio, di contaminazione e di contraddizione, la variegata e un po' grottesca galleria di personaggi che popolano le pagine del libro, espressione della varietà umana affannata e

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sgomitante alla ricerca di un ruolo nel mondo; una progressione drammatica – diremo tra poco in che termini – che appare talvolta immotivata se non illogica. Vittorio Renzi nel suo “La forma del vuoto” riporta una dichiarazione rilasciata dai fratelli:

“Generalmente, quello che ci interessa nel rapportarci a un genere, è di ingannare le aspettative dello spettatore, che è condizionato dalle regole e i cliché del genere, e di trascinarlo nella direzione opposta. Più un film sembra che citi altri film appartenenti al genere e più noi tentiamo di minare il genere dall'interno cambiando le situazioni, le reazioni dei personaggi, i loro rapporti”55.

Questa frase, che risale al 1994, dice almeno due cose, la prima che il lavoro dei Coen porta avanti una ricerca stilistico-tematica estremamente coerente nel tempo, la seconda che i registi sembrano aver scelto “Non è un paese per vecchi” proprio perché il libro di McCarthy gioca con il topos del genere e disattende le aspettative dello spettatore, aspettative che si generano automaticamente nel momento in cui isotopie56 tematiche o

figurative si agganciano ad un genere preciso, in questo caso il western. L'inganno in cui i Coen intrappolano lo spettatore corrisponde dunque alla precisa strategia narrativa presente nel testo di McCarthy il quale, con un

55RENZI 2005, p. 33.

56Per isotopia si intende la ricorrenza in un testo di categorie semantiche, di significati

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sapiente dosaggio dell'informazione e giocando con reticenze ed ellissi, si prende gioco delle aspettative dello spettatore che, abituato alla ripetizione pressoché infinita del tema e della variazione sul tema, subisce una specie di trauma quando la vicenda si rivela non essere quello che sembrava. E' sufficiente tracciare un rapido schema attanziale per capire quello di cui stiamo parlando: un cowboy, Soggetto auto-destinante, tende verso il denaro, l'Oggetto Valore; l'onesto sceriffo è l'Aiutante, i fuorilegge messicani funzionano da Oppositori, il killer spietato fa da Anti-soggetto, nemesi del'eroe. La struttura narrativa procede per un po' appoggiandosi a questo topos, salvo poi introdurre pian piano elementi atipici e devianti che progressivamente portano le norme di genere al collasso. Fin dalle prime pagine del libro, e in maniera ancor più dalle prime inquadrature del film, vengono proposti elementi figurativi tipici del western (il deserto e la polvere, lo sceriffo e il cowboy, i cappelli a tesa larga e gli stivali in pelle) fatta eccezione per la presenza anomala e immediatamente disturbante del killer Chigurh. La negazione del topos si manifesta almeno attraverso tre elementi, primo fra tutti l'assenza del faccia a faccia, della resa dei conti risolutiva tra bene e male. Non che il racconto non contempli questa eventualità – tant'è che l'ipotetico scontro finale viene anticipato da una rocambolesca sparatoria

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tra Moss e Chigurh57, il fatto è che a circa due terzi della storia si è scossi da

una svolta inaspettata: Moss viene semplicemente ritrovato morto, per lo più in un momento del racconto in cui gli eventi sembravano tutto sommato volgere a suo favore (Moss si è appena ricongiunto con l'Oggetto Valore del quale si era dovuto, suo malgrado, sbarazzare rapidamente, e sta progettando di ricongiungersi con la giovane moglie). Ironia della sorte, non è l'inafferrabile killer Chigurh ad uccidere Moss, ma un gruppo di ordinari, anonimi narcos messicani. Nel giro di pochi minuti, l'impalcatura narrativa costruita fino a quel momento crolla, implode: il Soggetto muore, l'Oggetto Valore sparisce dalla circolazione, l'Anti-soggetto uccide il suo Destinante, lo sceriffo perde ogni speranza di realizzare il proprio progetto narrativo e raggiungere il suo Oggetto Valore, la salvezza di Moss.

2.

2

Dal libro al film.

Rispetto al libro di partenza, crediamo che la versione cinematografica di “Non è un paese per vecchi” opera strategie di sovrapposizione quasi totale, dal momento che il film ricostruisce e rispetta molte strategie di significazione del testo di partenza, pur operando una serie di scelte di

57Accade spesso, nei film d'azione o in generale nei racconti in cui il protagonista buono

deve affrontare un nemico in apparenza invincibile e che un primo scontro fra opposti si concluda con la sconfitta e la momentanea ritirata dell'eroe, che realizza qualcosa di nuovo su di sé o acquisisce la competenza necessaria per ottenere la riscossa e la vittoria finale.

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ordine tecnico – dalla selezione del materiale narrativo ai tagli, alle aggiunte – ed estetico, che producono degli scarti rivelatori dell'autonomia espressiva e dello stile personale dei Coen. I fratelli registi assecondano la tendenza remissiva dell'enunciazione originale, che lavora per ellissi relegando al non detto alcuni dei fatti principali, primo fra tutti la morte di Moss. Se nel libro la dipartita del protagonista è preannunciata (anche) dalla misteriosa presenza di un gruppo di sicari messicani a bordo di una Barracuda nera, nel film essa sopraggiunge ancor più inaspettata58 e accentuano la tendenza all'ellissi, ad

esempio scegliendo di eliminare il momento preciso in cui Chigurh, alla fine della storia, uccide, in nome della parola data a Moss, l'innocente Carla Jean, la moglie del fuggitivo: McCarthy chiudeva la sequenza dell'incontro fra Carla e Chigurh con un secco ed essenziale “E le sparò”59, i Coen preferiscono

sostituire lo sparo con una piccola aggiunta, mostrando Chigurh che, una volta compiuto il fatto, controlla che le suole degli stivali non siano sporche di sangue.

In seguito alla morte di Moss, il racconto letterario vira definitivamente verso ciò che, in fin dei conti, era fin dall'inizio: il racconto di una vicenda che scuote profondamente e irrimediabilmente la coscienza di un uomo, una

58E' interessante notare come i Coen non resistano alla tentazione di introdurre anch'essi un

piccolo indizio prefigurante, chiudendo l'ultima scena che vede Moss vivo con una dissolvenza in nero, caso unico in tutto il film.

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storia che, parole sue, “mi ha portato a un punto della vita dove non avrei mai pensato di arrivare”60, quest'uomo è ovviamente lo sceriffo Bell, le cui

riflessioni sono strategicamente collocate ad apertura e chiusura del romanzo, oltre ad essere intercalate a tutto il flusso narrativo, interrompendolo a mò di pausa; Bell è annichilito dalla comparsa di “un profeta della distruzione in carne ed ossa”61, impossibile da contrastare

perché misterioso ed inconoscibile. Lo sceriffo sente sulla sua pelle l'angosciante ineluttabilità della trasformazione della natura umana, osserva le aberrazioni prodotte da una modernità che è già degenerata, da un progresso che sembra proporre modelli etici e valoriali di gran lunga degenerati rispetto ai saldi principi dei padri fondatori americani.

Riteniamo significativo il fatto che sia proprio la figura di Bell, così centrale nel romanzo di McCarthy, ad essere oggetto di tagli abbastanza consistenti. Le riflessioni in prima persona di Bell, così ricorrenti nel libro, diventano la voce off che accompagna le prime immagini del film, amalgama di pezzi dislocati in diversi punti del libro. In McCarthy la narrazione dello sceriffo anticipa i fatti e, dunque, gli eventi si collocano in una dimensione temporale precedente al presente dell'enunciazione di Bell, e si finisce per avere l'impressione che tutto il racconto sia ascrivibile allo sceriffo stesso.

60McCARTHY 2005, p.4. 61Ibidem.

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Impressione che sembra essere confermata dal fatto che, verso la fine, la voce di Bell si sostituisce all'enunciazione (quasi) impersonale62 del narratore

onnisciente che tesse le fila della vicenda, il lettore è stato condotto ad aderire al punto di vista cognitivo-morale dello sceriffo Bell sulla vicenda. Il film, invece, preferisce rendere meno totalizzante questa adesione: ad esempio, il sogno di Bell che chiude il romanzo viene messo in scena dai Coen che trasformano il discorso in prima persona della voce di Bell in un dialogo fra lo sceriffo stesso e la moglie Loretta. Impedire allo spettatore di identificarsi completamente con una figura che, per quanto catastrofico e pessimista, offre un punto di vista sul mondo univoco, è una scelta coerente con una certa tendenza all'allontanamento, all'ottenimento di effetto straniante caratteristico dei Coen, che restituiscono un senso di indecifrabilità, costruiscono un vuoto semantico. I Coen hanno a disposizione anche altre armi per produrre effetti di messa in distanza, in particolare un'ironia tagliente e un po' grottesca ed il gusto per l'insolito, il dettaglio bizzarro: come non pensare al ridicolo taglio di capelli di Chigurh che stride profondamente con le terribili azioni che il killer compie oppure alla

62Dico quasi perché, per quanto la tendenza generale dell'enunciazione narrativa di

McCarthy si collochi esternamente ai fatti raccontati, talvolta l'enunciazione stessa apre a squarci semantici attribuibili al narratore implicito, all' enunciatore: “Le montagne di pietra grezza nell'ombra del tardo pomeriggio e vesto est l'ascissa scintillante delle pianure desertiche, sotto un cielo dove cortine di pioggia si allungavano scure come fuliggine lungo tutto il quadrante. Vive in silenzio il dio che ha purgato questa terra con sale e cenere”,

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tragicomica opposizione fra l'allegro motivo intonato dai Mariachi oltre il confine e la misera figura sanguinante e stravolta di Moss. Gli esempi sono numerosi,ma limitiamoci a questi che sembrano essere indicativi di una tendenza generale.

Se da un lato, quindi, i Coen reinventano alcune situazioni per esprimere la propria sensibilità, notiamo come, nell'aderire al costrutto narrativo del romanzo, lo stile visivo si asciuga, la regia è calibrata per costruire una gestione del sapere spettatoriale equivalente a quella del libro.

Caratteristica dello stile di McCarthy è una narrazione che sembra appartata ed imparziale che non dà spazio all'interiorità dei personaggi, non precisa il loro punto di vista che semmai può essere dedotto dalle azioni che essi compiono: sono poche le inquadrature marcate, a livello di messa in scena e messa in quadro non ci sono particolari espedienti che sottolineano momenti cruciali della vicenda. Prendiamo come esempio due momenti fondamentali della storia, che corrispondono ad altrettante scelte di Moss, la prima quella di tenersi il malloppo, la seconda quella di tornare sul posto della sparatoria per portare da bere al sopravvissuto: nel primo caso, impossessarsi del denaro sembra l'unica cosa possibile, quasi inevitabile e in questo senso fatale, Moss si limita a rispondere “sì” d una domanda interiore che lo spettatore non conosce. La seconda scelta, relativa al ritorno sul

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posto, seppur giustificabile da un indefinito slancio di generosità, appare illogica, assurda: l'uomo a cui Moss si premura di portare l'acqua è quasi certamente morto, chi tornerebbe indietro col rischio di mettere in pericolo la sua vita e quella dei suoi cari? Moss stesso dice alla moglie “sto per fare una cazzata, ma la farò lo stesso”. Assistiamo dunque ad una storia che si sviluppa senza che siano chiare fino in fondo le relazioni logico-causali tra i fatti, una storia in cui alcune delle domande fondamentali restano irrisolte (di chi sono i soldi? Per chi lavora Chigurh? Chi è Chigurh?) ed in cui più che la volontà cosciente, a determinare le scelte sembra essere il caso, un caso che assume progressivamente i contorni di un destino inevitabile. Ancora un esempio: Chigurh annuncia al telefono a Moss che la sua ora è vicina, la sua morte non è considerata una possibilità ma un fatto certo, una conseguenza inevitabile di una relazione causale che si fonda su principi di funzionamento esterni alla storia raccontata. Chigurh: “Lo sai come andrà a finire, vero?”, e, poco dopo, “Non sto dicendo che tu puoi salvarti. Perchè non puoi”.

Moss assomiglia ad un eroe tragico: è un uomo buono e capace ma imperfetto, e il suo destino dipende direttamente da questa dicotomia: la sua intelligenza gli permette di trovare l'ultimo uomo e dunque il denaro; uno slancio di generosità lo spinge a tornare sul posto e ad essere individuato; piuttosto che rivolgersi alla polizia si illude di poter sfuggire al male assoluto.

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In questo senso una delle scene iniziali è già prefigurazione dell'esito finale: Moss è a caccia di antilopi, sembra essere un cacciatore competente, un esperto, eppure fallisce il colpo. Questo errore, questa sconfitta, anticipa e conduce alla sconfitta decisiva: la morte.

Lo stesso sceriffo Bell ha una funzione affine a quella di un coro tragico, sembra essere più uno spettatore, osserva la tragedia senza poter intervenire su di essa; sempre in ritardo sull'azione, si limita a fare congetture che non sono nemmeno utili allo spettatore che conosce in anticipo, rispetto allo sceriffo, alcuni dettagli, come ad esempio l'arma usata da Chigurh. I Coen rendono ancora più inerme lo sceriffo che rinuncia completamente e a capirci qualcosa; infatti, nel libro, Bell si reca più di una volta sulle scene del crimine, mentre nel film declina per due volte l'invito ad accompagnare gli agenti dell'antidroga nei loro sopralluoghi.

Così tratteggiato, il film dei Coen sembrerebbe un oggetto freddo e distante che non attiva strategie di coinvolgimento emotivo-cognitivo nei confronti dello spettatore; in realtà, il film è attraversato da un clima di forte tensione, riesce a produrre l'equivalente carica emotiva di alcune scene del libro mettendo a frutto procedimenti specifici del cinema, creando scene ricche di pathos e suspanse. Una lunga sequenza in montaggio alternato lega le azioni di Moss e Chigurh: rientrando nel motel la sera prima, Moss si

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accorge che c'è qualcuno nella sua camera e allora decide di cambiare momentaneamente motel. Il giorno dopo, Moss vuole recuperare il denaro; intanto, Chigurh, guidato dal segnale di una trasmittente, si avvicina pericolosamente al motel dove intanto è ritornato anche Moss che, armato di un lungo bastone e con una complicata manovra, cerca di riprendere il denaro nascosto nel condotto di aerazione, raggiungibile da una camera scelta ad hoc. Il ritmo si fa via via più serrato e mentre Moss compie queste scomode operazioni, Chigurh giunge al motel, irrompe nella vecchia camera di Moss, fa fuori i sicari messicani che, a loro volta, avevano seguito il segnale della trasmittente, contemporaneamente Moss riesce, all'ultimo istante, ad agguantare la valigetta e a darsela a gambe.

Ancora un esempio: Moss è, come al solito, nascosto in un motel, ha appena scoperto la trasmittente fra le banconote, ma è troppo tardi: Chigurh è già sulle sue tracce, avanza lentamente lungo il corridoio fino ad individuare la stanza dove si trova Moss e il suo avvicinamento è annunciato dal suono emesso dalla ricevente che si fa sempre più forte e crea un effetto di ansia, angoscia, tensione.

Anche in Non è un paese per vecchi, in continuità con la produzione di McCarthy, il paesaggio ha un ruolo molto importante: lo sguardo dell'autore vaga sconsolato e attento tra le distese di polvere e gli aridi deserti al confine

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tra Messico e Stati Uniti, un assoluto in cui l'uomo sembra quasi fuori posto, incapace di darsi risposte adeguate, sopraffatto dalla potenza di spazi eterni ed immutabili, agite da morte e violenza. Alla dialettica uomo-natura si affianca quella uomo-città, per mezzo della variante urbana delle ambientazioni (motel, parcheggi, asfalto) e tale dicotomia viene trattenuta e sviluppata dai Coen anche a livello visivo: ora le inquadrature sfruttano l'ampiezza e l'orizzontalità per disperdere i personaggi nello spazio aperto dominato da tonalità cromatiche calde, ora gli interni dei motel appaiono angusti ed opprimenti, in penombra e con forti contrasti chiaroscurali.

La musica è quasi completamente assente, mentre è molto elaborata la fitta trama di suoni e rumori associati ad ogni scena che amplificano lo spazio ed evocano un preciso sfondo in cui le azioni si collocano.

Soffermiamoci ancora su alcuni temi centrali che ricorrono nel film come nel romanzo: nei primi minuti di film Chigurh fugge dopo essere stato catturato e, verso la fine, fugge dal luogo in cui è avvenuto lo strano incidente d'auto che lo ha coinvolto direttamente; per tutto il film Moss fugge, fuggono le antilopi dal suo mirino, ha tentato la fuga il sopravvissuto messicano che porta con sé la valigetta. Tutti sembrano scappare da qualcosa e il mondo è dominato da un caos solo in apparenza ordinato dalle tensioni continue che lo attraversano: la tensione di Moss verso il denaro, quella di Chigurh verso

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Moss, quella di Bell verso entrambi.

Un altro tema ricorrente riguarda la dialettica cacciatore-preda e l'intercambiabilità di queste posizioni: Moss è un cacciatore a cui verrà data la caccia; lo stesso dicasi di Carson Wells, l'esperto segugio ingaggiato da un misterioso uomo per arginare Chigurh di cui però sarà egli stesso vittima. Bell, del resto, avverte Carla Jean che perfino nei rapporti uomo-animale il cacciatore può diventare preda, “anche nella lotta con la natura il risultato non è così scontato”. Del resto, l'arma preferita da Chigurh è una pistola ad aria compressa usata nella macellazione degli animali, come a dire che tutti gli uomini sono, in fin dei conti, delle prede, carne da macello.

Chigurh, il killer spietato, come interpretare questo personaggio atipico e inquietante? Il killer sembra incarnare il male puro, ci viene mostrato come una sorta di demone della morte capace di violenze brutali e illimitate che, con il suo agire, sovverte le relazioni tra crimine e giustizia, che sono pur sempre fondate su un assunto comune e cioè la stessa idea di bene; il male leggibile, interpretabile è quello che conosce la legge che vìola, che possiede un'idea di bene e deliberatamente sceglie il male. I criminali a cui Bell era abituato, nel momento in cui sfidano la legge, in un certo senso la affermano, non si collocano al di là, al di sopra del bene e del male che è invece quello che fa Chigurh: uno straniero senza passato che non fa differenza tra buoni e

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cattivi, colpevoli ed innocenti, amici o nemici; la sua condotta non è motivata da ragioni egoistiche o personali (soldi, potere), non guadagna nulla nell'uccidere la moglie di Moss o il mandante di Wells, le sue azioni rispondono a dei principi tanto solidi quanto misteriosi ed inconoscibili. E' lo stesso Chigurh a metterci di fronte alla dimensione sovrumana dei suoi principi ed a sottolineare l'inefficacia delle regole che seguono gli altri; difatti Chigurh chiede a Wells: “Se le regole che hai seguito ti hanno portato a questo punto, a che servivano quelle regole?”; ma quali sono allora le regole che segue Chigurh? Proviamo a capire qualcosa di più osservando due sequenze speculari: la prima è quella della stazione di servizio, in cui Chigurh viene infastidito da una domanda amichevole rivoltagli dal benzinaio: “Ha trovato tanta pioggia sulla strada?”; l'altra sequenza è quella in cui Chigurh uccide Carla Jean. Questi due episodi sembrano suggerire che Chigurh abbia, tutto sommato, dei sentimenti vagamente umani: pare infatti voglia uccidere il benzinaio e sembra avere una sorta di compassione nei confronti della giovane donna; in entrambi i casi Chigurh sottomette i suoi desideri alla sua legge: il Caso. E' questo il suo principio fondante, quello che lo rende invincibile e invulnerabile e questo principio deve vincere su ogni desiderio; significativo in questo senso questo scambio di battute: Carla Jean: “Tu non sei obbligato” Chigurh: “Mi stai chiedendo di essere vulnerabile e questo non

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lo posso fare”.

Chigurh è talmente pericoloso che è sufficiente vederlo per essere condannati a morire e sembra che egli sia ben consapevole di ciò, tanto da tentare di dominare il senso della vista altrui: durante la telefonata con Moss dice all'avversario: “You have to come to see me”63. I Coen recepiscono il

senso di morte che la vista di Chigurh porta con sé64, tanto che aggiungono,

quando il killer uccide il mandante di Carson Wells, un personaggio spettatore che chiede a Chigurh cosa abbia intenzione di fare con lui, e Chigurh gli chiede: “Tu mi hai visto?”. Wells è colpito dal fatto che Moss sia ancora in vita dopo aver visto Chigurh, Carla Jean capisce a prima vista che l'uomo che le siede di fronte la ucciderà; ai ragazzini che lo soccorrono, infine, dopo l'incidente d'auto, Chigurh dice: “Voi non mi avete visto. Io me n'ero già andato”. Bell, infine, arriva ad un passo dal vedere Chigurh, ma il faccia a faccia non si verifica, e così lo sceriffo si salva. Si tratta di una delle sequenze più misteriose del film: Bell ritorna nel motel dove Moss è stato ucciso (è interessante notare come questo sia l'unico momento in tutto il film in cui Bell è solo), intuendo che Chigurh tenterà di recuperare la valigetta, che non è stata ancora ritrovata. Arrivato sul posto, nota subito che la maniglia

63Riportiamo la frase originale perché nella traduzione italiana (“Devi venire da me”) non

viene restituita l'allusione al fatto che vedere Chigurh rappresenti una condanna a morte.

64Significativo il fatto che nella locandina del film campeggiano gli spaventosi occhi di

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della porta è stata forzata in un modo che reca la firma di Chigurh. Infatti vediamo il killer nascosto in un angolo buio all'interno della camera. La macchina da presa propone un surreale campo/controcampo del buco nella porta, che visto dall'esterno suggerisce il buio della stanza, dall'interno il foro è attraversato da un fascio di luce. Bell entra nella stanza, la sua ombra sdoppiata e proiettata sul muro. Eppure all'interno non sembra esserci nessuno, eppure l'unica finestra è chiusa dall'interno. Che fine ha fatto Chigurh? Questa domanda non ottiene risposta, Chigurh per tutto il film si muove come un fantasma, appare e scompare senza che nessuno sappia dove va e da dove è venuto.

Avevamo accennato al fatto che al centro del romanzo sta lo sgomento dello sceriffo che deve ammettere qualcosa che esiste ma di cui non riesce a concepire l'esistenza, un male assoluto e inarrestabile. Oltretutto assiste impotente alla distruzione del tessuto sociale, al degrado morale dell'America contemporanea, alla scomparsa di ogni valore di riferimento. Per quanto retto e coraggioso lo sceriffo non ha più la forza per rispondere con le azioni al richiamo del dovere morale e si rifugia nel ricordo dell'epoca lontana di cui egli stesso fa parte, carica di valori positivi e fondanti. Il confine un tempo era una frontiera inesplorata e selvaggia ma ancora conoscibile, in cui era possibile portare la legge e giustizia. Ormai il

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West è addomesticato ed alla vecchia, semplice, banale criminalità se ne è aggiunta una nuova, un male moderno che si è radicato inesorabilmente nella società come un cancro al punto che non si può nemmeno più fingere di credere di riuscire a combatterlo.

Numerosi dunque gli elementi che sembrano dire allo spettatore che l'umanità ha perso per sempre la possibilità di salvezza: i toni estremamente cupi, l'assenza di musica, la violenza cruda e implacabile, l'impossibilità di un confronto risolutivo fra bene e male, la ritirata dello sceriffo. Eppure i Coen conservano lo spiraglio di speranza aperto da McCarthy, anche quando la verità e la giustizia sembrano non essere più sufficienti per salvare il mondo dai venti mortali del cambiamento. La speranza è una forma di promessa, un patto che l'uomo stipula con sé stesso, nel caso del romanzo rappresentato da un abbeveratoio di pietra di cui Bell ha un saldo ricordo: colui che lo ha realizzato deve aver lottato continuamente contro le avversità che attraversano un paese che non ha mai conosciuto la pace, eppure l'uomo è riuscito a tirare fuori dalla dura pietra qualcosa che resterà intatto per decenni, promettendo a sé stesso ed al mondo il futuro. I Coen, del monologo finale di Bell, conservano solo il racconto del sogno che riguarda suo padre, che lo precede veloce al galoppo impugnando una torcia accesa. Bell nel sogno sa che il padre sta andando avanti per accendere un fuoco nel

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buio, e quando lo avrà raggiunto lo troverà lì ad aspettarlo. Un padre, il fuoco, la speranza. Qui comincia “The Road”.

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3.

The road

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Non è un paese per vecchi e La strada sembrano essere due testi strettamente legati tra loro: l'inaridimento, il degrado, la regressione amorale e nichilista del primo è la premessa e la causa logica del secondo. Se però Non è un paese per vecchi dosa al ribasso la carica sentimentale ed il pathos, La strada fa dell'emotività e dell'intensità drammatica della relazione tra un padre ed un figlio il centro del romanzo.

Morte, desolazione, violenza, cenere. Ecco cosa resta del mondo dopo la catastrofe. Il sole ha smesso di splendere, nascosto da uno spesso strato di smog e veleni che appestano l'aria. Le piante hanno smesso di fiorire, gli animali quasi del tutto estinti. La natura, da madre fertile e vitale, è diventata un guscio vuoto, sterile, morto. Ovunque incendi e terremoti fiaccano la resistenza degli sparuti gruppi di umani sopravvissuti al disastro. In questo scenario infernale si muovono un padre ed un figlio, soli al mondo, vagano fra città spoglie e disabitate, di casa in casa alla ricerca di cibo, di acqua non contaminata o di un riparo dal freddo impietoso che ogni notte si impossessa della terra. Tutto quello che possiedono riesce a stare in un carrello traballante che si trascinano faticosamente dietro: scarpe, coperte, poche provviste, tutto quanto di utile riescono a trovare.

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