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LE AZIENDE DI SERVIZI ALLA PERSONA COME INCONTRO TRA ECONOMICITA' ED ECONOMIA SOCIALE: IL CASO DELLA CASA G.ASCOLI

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“La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C’è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta. [..]

Lo stato dell’economia richiede un’azione, forte e rapida, e noi agiremo”

Barack Obama Washington 2009

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PARTE I

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Introduzione.

Il presente lavoro ha lo scopo di descrivere l’iter di trasformazione delle ex IPAB in ASP nonché l’economia e la gestione delle neonate aziende di servizi alla persona.

La prima parte è interamente dedicata alla normativa, ripercorrendo le fasi maggiormente rilevanti che, dal punto di vista legislativo, hanno caratterizzato l’evoluzione non solo dei suddetti enti ma anche dell’intero settore dell’assistenza pubblica.

Come primo intervento normativo si è quindi considerata la Legge 17 luglio 1890 n. 6972, meglio nota come Legge Crispi, reputata dalla maggior parte della dottrina il primo vero provvedimento regolatore della disciplina di tal tipo di organizzazioni, note fin dall’ora come Opere Pie.

Da questa data in poi si è assistito a quasi un secolo di silenzio legislativo, nessuna norma o minimo intervento che abbia in qualche modo regolato una disciplina che con l’andare del tempo si palesava sempre più inadeguata alle dinamiche realtà sociali; solo con la Legge n. 328 dell’8 novembre 2000, il D. Lgs n. 207 del 4 maggio 2001 e le varie Leggi Regionali si è dato inizio all’ondata riformatrice che ha coinvolto e stravolto l’intero sistema dell’assistenza pubblica e dei servizi sociali in generale. I sopra citati riferimenti normativi infatti hanno avuto il merito di creare un sistema integrato di interventi e servizi sociali, decretando l’assistenza quale diritto inviolabile ed assoluto di ogni cittadino, ed in più hanno avviato la trasformazione delle strutture pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB) di matrice crispina, in aziende di servizi alla persona (ASP).

Tale trasformazione prevede che gli istituti in questione conservino (qualora lo volessero) la personalità di diritto pubblico, ma che allo stesso tempo la loro gestione ed organizzazione assuma i connotati tipici delle aziende private, e che quindi si ispiri e si adegui ai principi dell’economicità, dell’efficienza e dell’efficacia; tutto questo con forti conseguenze sulla dimensione organizzativa, amministrativa, contabile, fiscale, etc.

Una volta delineato il quadro normativo si è passato all’analisi di un caso aziendale, la ASP Casa G. Ascoli di Massa, la quale ha messo in atto la propria trasformazione nell’esercizio 2007.

Tale caso inoltre è servito come modello e come “cavia da laboratorio” per dimostrare la possibilità di realizzare e generare un binomio favorevole e sostenibile tra economicità ed economia sociale. Con questo intento quindi l’azienda è stata analizzata in tutte le sue dimensioni, competitiva, sociale ed economico-finanziaria, cercando di capire ed individuare, anche attraverso l’avallo di analisi di benchmarking tra vari istituti, le principali problematiche che affliggono le gestioni di tali enti. Lo studio peraltro non ha avuto il mero scopo di individuare in modo semplicistico gli elementi critici per il raggiungimento di un solido e duraturo equilibrio economico, ma affianco alla ricerca delle cause della crisi si è cercato di individuare anche il potenziale inespresso dell’azienda e le leve

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competitive da muovere, necessarie per la conquista del vantaggio competitivo e di posizioni di successo.

Infatti a tal scopo si è deciso di fotografare, in primis l’attuale situazione dell’ente, con riferimento all’esercizio 2007, evidenziando quindi i principali punti di debolezza (sia specifici della struttura sia riguardanti l’intero settore) ed iniziando ad intravedere ed ipotizzare le linee da seguire per risanare la gestione attuale e per dirigersi verso strade maggiormente competitive e redditizie.

Una seconda parte dell’analisi invece riguarda l’illustrazione degli scenari ipotizzati e delle conseguenze derivanti dalla messa in atto dei progetti di sviluppo futuri, già individuati in sede di diagnosi dell’azienda.

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CAPITOLO 1

Le IPAB: Dalla Legge Crispi al Decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207

1. Dalle Opere Pie alla Legge 17 luglio 1890, n. 6972

Le riforme e le collegate leggi hanno come riferimento il contesto sociale, storico e politico dal quale si sviluppano; così ogni grande rivoluzione non è mai da considerarsi come fenomeno avulso dal suo tempo e di ogni uomo che ha respirato quell’aria di novità, e che è stato investito da quel vortice di cambiamento, capace di dare un nuovo volto e una nuova impronta alla realtà, agli ideali, alle tradizioni, al mondo.

Così inevitabilmente la storia delle IPAB coincide con la storia dello stato sociale italiano, legandosi insieme attraverso un rapporto meccanicistico di causa-effetto.

Gli albori delle Istituzioni di assistenza e beneficenza iniziano a vedersi nel Medio Evo con la nascita delle Opere Pie le quali conferiscono alla acerba tradizione assistenziale uno stampo privatistico con motivazioni etico-religiose volte, non tanto alla beneficenza gratuita e disinteressata, ma piuttosto finalizzate ad ottenere un posto in paradiso; la beneficenza e la solidarietà non nascevano dalle coscienze degli uomini e dallo spirito filantropico, ma rappresentavano esclusivamente una facile via per salvare la propria anima.

La grande diffusione delle opere di carità, esclusivamente di matrice privata o religiosa, trova una logica motivazione nell’assenza di uno Stato Sociale; con l’emanazione della Legge 3 agosto 1862, n. 753 si rompe il silenzio e l’indifferenza dello Stato nei confronti dell’assistenza ai bisognosi, lo Stato quindi, ponendosi come garante del benessere dei propri “figli”, inizia a preoccuparsi delle difficoltà, dei disagi e delle problematiche che affliggevano i ceti meno abbienti.

Tale rottura comunque non nasce soltanto dalla presa di coscienza di un necessario impegno civile, ma soprattutto da un interesse più politico che sociale: l’allontanamento della Chiesa dal potere temporale; eliminando la roccaforte clericale rappresentata dalle opere pie si compiva il primo passo verso questa direzione.

La citata Legge 3 agosto 1862, n. 753 ha come scopo fondante la razionalizzazione delle iniziative benefiche prevedendo che gli enti a ciò preposti si costituissero in forma di associazioni o fondazioni (senza chiarire se di natura pubblica o privata) e che fossero disciplinati dalle norme di diritto civile e dalle leggi amministrative; l’intervento dello Stato si traduce in sussidi e contributi finanziari.

Tuttavia tale intervento normativo, seppur importante, non ha segnato in modo radicale il destino delle organizzazioni di assistenza, la sua portata innovativa risulta assai limitata; esso rappresenta

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solo il primo passo verso una lunga e macchinosa riforma durata più di un secolo e probabilmente non ancora completata.

2 La legge 17 luglio 1890, n. 6972

Se la Legge 3 agosto 1862, n. 753 ha avuto il merito di avviare la spinta riformatrice che ha coinvolto il tema dell’assistenza pubblica, la Legge Crispi è una delle protagoniste di questo percorso, le novità da essa introdotte finiscono per riformare l’intero quadro assistenziale italiano; le sue disposizioni infatti, sia a causa dell’inerzia del legislatore e un po’ per la loro effettiva validità, resteranno in vigore fino al 2000; la legge si aggiudica così il “titolo” di unica normativa organica sull’assistenza dall’unità d’Italia ad oggi.

La Legge 6972 riflette l’epoca nella quale è stata concepita, ritraendo nei suoi contenuti il passaggio tra Stato Liberale e Stato Sociale che stava avvenendo in quegl’anni.

La più importante novità è forse rappresentata dalla creazione delle Istituzioni Pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), enti che, come recita l’art. 1, hanno in tutto o in parte il fine:

• di prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia

• di prestarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere,

od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico

L’art. 2 invece stabilisce che non sono compresi nelle istituzioni di assistenza e beneficenza, e quindi non sono soggetti alla presente legge:

• i comitati di soccorso ed altre istituzioni temporanee, mantenuti con il contributo di soci o

con oblazioni di terzi

• le fondazioni private destinate a pro di una o più famiglie determinate

• le società o associazioni regolate dal codice civile e dal codice di commercio

Le IPAB sono enti pubblici locali, autarchici ed autonomi, sono infatti in grado di autodeterminare la propria organizzazione amministrativa e possono regolarsi con statuto e regolamenti.

I principi fondanti di tale norma, che descrivono anche i tratti salienti delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, possono essere così riassunti:

1) Finalità assistenziale (art. 1) che deve costituire il fine ultimo delle attività poste in essere

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lo stesso non corrisponda ad un interesse di pubblica beneficenza, le istituzioni devono trasformarsi per ripristinare l’interesse attuale e durevole della pubblica beneficenza

2) Qualificazione pubblica dell’attività di assistenza (art. 2) la quale non è più destinata a

singoli individui ma a categorie e fasce della società (disabili, anziani, minori in condizioni di disagio, donne in difficoltà, lavoratori..). L’art. 78 ribadisce che l’attività di tali istituzioni è indirizzata nei confronti di tutti coloro che ne hanno titolo senza distinzioni di culto religioso o di opinioni politiche.

3) Personalità giuridica di diritto pubblico, tutte le istituzioni già esistenti devono convertirsi

in enti pubblici abbandonando la loro natura di persona giuridica di diritto privato. Tale principio esprime la volontà dello Stato di occuparsi e di entrare a pieno titolo nella gestione dell’assistenza pubblica; si crea quindi un sostanziale monopolio pubblico, non essendo prevista la possibilità di esercitare le funzioni benefiche ed assistenziali da parte di organismi privati.

4) Controllo statale sugli organi amministrativi, lo Stato verifica il rispetto di quanto stabilito

agli artt. 11-17 che definiscono, per gli organi amministrativi, le modalità di nomina, le cause di ineleggibilità e incompatibilità, la durata della carica, le funzioni, le responsabilità.

5) Controllo statale sull’attività amministrativa nella forma del controllo preventivo sugli atti

salienti della gestione, quindi in conformità con l’art. 36 sono soggetti all’approvazione della Giunta provinciale: a) i bilanci preventivi; b) le deliberazioni circa la locazione di immobili per un periodo superire ai nove anni; c) le deliberazioni riguardanti la trasformazione o la diminuzione del patrimonio; d) i regolamenti interni di amministrazione.

6) Controllo residuale su deliberazioni e provvedimenti per i quali non sia previsto

espressamente il controllo

7) Vincolo alla gestione e conservazione dei patrimoni, i quali non possono essere utilizzati per

la copertura di spese di gestione.

Da tali principi è possibile osservare che la partecipazione dello Stato nel settore assistenziale avviene non tanto attraverso l’attività diretta, ma assume i connotati del controllo esercitato sugli amministratori e sulle loro attività, sia nel caso in cui tale controllo sia espressamente previsto sia che non ci sia alcuna disposizione in merito; lo Stato quindi celandosi dietro lo strumento del controllo, finisce per esercitare una vera e propria funzione di indirizzo.

La disciplina delle IPAB, pur restando per oltre un secolo regolata dalla legge Crispi, ha subito numerose variazioni soprattutto per quel che riguarda la natura accentrata e decentrata delle competenze; originariamente infatti erano in seno allo Stato, successivamente in seguito all’entrata

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in vigore della Costituzione Repubblicana e all’emanazione dei D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9 e 24 luglio 1977, n. 616 l’intera materia è transitata nelle mani delle Regioni.

2.1 La Costituzione Repubblicana

Con l’avvento della Costituzione Repubblicana oltre a modificarsi la concezione di assistenza, si assiste alla transazione da un sistema accentratore ad uno decentratore, tali modifiche sono state introdotte sia per la necessità di adattamento alla realtà sociale sia in seguito all’opera innovativa messa in atto dalla Corte Costituzionale attraverso le sentenze 6-24 luglio 1972, n. 139 e 17-30 luglio 1981, n. 174.

Gli articoli 2, 3, 38 trasformano in modo radicale la tradizionale concezione dell’assistenza sociale, intesa non più come intervento pubblico a carattere eventuale e di tipo «caritativo» per coloro che versano in condizioni di bisogno, ma come diritto sociale universale, vengono considerati non solo gli individui in difficoltà ma la persona umana nella sua unicità e nella sua dignità; l’assistenza diviene quindi un diritto soggettivo e non più un atto caritativo e volontario.

Gli articoli 2 e 3 costituiscono il riferimento normativo di tale nuova concezione della persona umana, vengono riconosciuti e garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle collettività sociali (art. 2); viene stabilito ancora che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche; spetta alla Repubblica il compito di favorire l’eguaglianza e la libertà dei cittadini e di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione (art. 3).

L’art. 38 prospetta le precedenti disposizioni nell’ambito del settore dei servizi sociali creando un sistema di «sicurezza sociale», cioè una rete di servizi ed attività messi in atto per garantire ai cittadini benessere fisico e morale e fornire adeguati mezzi di sostegno laddove tale benessere sia assente; viene introdotto il principio della libertà dell’assistenza sociale, superando il monopolio statale creato dalla Legge Crispi viene consentita anche ai privati la gestione di iniziative benefiche. Di tutt’altro tema si occupa l’articolo 117 che disciplina il decentramento amministrativo (disposto dall’art. 5) nell’ambito dell’assistenza sociale stabilendo che le Regioni legiferano, nei limiti imposti dalla legge, su beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera, istruzione artigiana e professionale, assistenza scolastica.

L’art. 118 precisa che alle Regioni spettano tutte le funzioni amministrative per le materie stabilite dall’art. 117, ad eccezione per quelle di interesse locale, affidate a Province, Comuni, Enti locali.

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2.2 Il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9, “Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di beneficienza pubblica e del relativo personale”

Grazie ai decreti delegati nn.1-11 del 1972 si realizza la cosiddetta prima regionalizzazione, ossia il trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, anche la materia della beneficenza pubblica è stata investita da tale ondata di decentramento attraverso il decreto numero 9.

Lo Stato quindi attribuisce alle Regioni funzioni concernenti:

1. Le IPAB previste dalla Legge Crispi con raggio d’azione regionale; 2. Gli enti comunali di assistenza;

3. Le controversie fra province e comuni ed istituzioni di beneficenza

4. Il mantenimento degli inabili al lavoro o di coloro che non abbiano mezzi di sussistenza; 5. I controlli sulle IPAB;

6. Assistenza ai minori in condizioni di disagio; 7. assistenza ai bisognosi;

8. Interventi in favore dei profughi italiani e dei rimpatriati. Restano in seno allo Stato le competenze relative a:

1. Rapporti internazionali in materia ed assistenza agli stranieri;

2. Interventi assistenziali per soccorso e assistenza a popolazioni colpite da calamità; 3. Comitati di soccorso ed istituzioni private

4. Pensioni ed assegni disposti in favore di ciechi, sordomuti, invalidi civili;

5. Interventi in favore degli orfani dei caduti per servizio, delle famiglie dei militari richiamati o trattenuti alle armi, dei profughi stranieri;

6. Autorizzazione agli enti assistenziali (pubblici o privati) ad accettare lasciti e donazioni e ad acquistare beni immobili;

7. Studi e sperimentazioni relative alle funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di assistenza e beneficenza.

2.3 Il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, “Attuazione della delega di cui all’art.1 della L. 22luglio 1975, n. 382”

Con i decreti del Presidente della Repubblica nn. 616, 617 e 618 del 1977 si apre la porta alla

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La colonna portante di tale riorganizzazione è senza dubbio il decreto n. 616/1977 che si caratterizza per:

L’introduzione del settore dei servizi sociali

• L’avvio della riorganizzazione del settore dell’assistenza

Per quanto riguarda il primo punto, il nucleo normativo è rappresentato dal titolo III del citato decreto che dipinge la nozione di servizi sociali come summa eterogenea di alcune materie :

• polizia locale ed urbana

• beneficenza pubblica

• assistenza sanitaria ed ospedaliera

• istruzione artigiana e professionale

• assistenza scolastica

• musei e biblioteche di enti locali

All’interno di tale summa spicca per importanza l’attività della beneficenza pubblica la cui definizione risulta, in base alle disposizioni fornite dall’art. 23, dalla commistione di alcune funzioni:

• assistenza economica in favore delle famiglie dei defunti o delle vittime di delitto

• assistenza post-penitenziaria

• interventi nei confronti di minorenni soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria

Merita menzione e spiegazione particolare anche l’attività dell’assistenza sanitaria ed ospedaliera, cioè ogni iniziativa volta alla promozione, mantenimento e recupero dello stato di benessere fisico e psichico degli individui (art. 27), quindi ogni attività riguardante:

• prevenzione e cura di malattie;

• riabilitazione degli stati di inabilità fisica, psichica e sensoriale;

• salvaguardia di igiene e sicurezza negli ambienti di vita e di lavoro;

• tutela igienico-sanitaria nella produzione, commercio, lavorazione di alimenti e bevande;

• controlli sulle acque;

• tutela igienico-sanitaria delle attività sportive;

• educazione sanitaria;

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Il decreto non si limita solo a creare nuove definizioni nell’ambito dei servizi sociali ed in particolar modo dell’assistenza e beneficenza, esso compie infatti un ulteriore passo verso la direzione del decentramento amministrativo, già messo in atto da altri esperimenti normativi.

Si precisa quindi che al Comune spettano tutte le funzioni amministrative relative all’organizzazione ed erogazione dei servizi di assistenza e beneficenza, mentre le Regioni hanno il compito di definire gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali, anche attraverso forme cooperative ed associative tra enti locali.

Restano sempre in capo allo Stato le funzioni:

• interventi in caso di calamità naturali o catastrofi;

• assistenza nei confronti di profughi e rimpatriati;

• pensioni ed assegni disposti ai sensi dell’art. 38 Cost.

La seconda linea di intervento del D.P.R. 616/1977 si prefigge l’arduo obiettivo di riorganizzare il settore dei servizi sociali eliminando in primo luogo la moltitudine di attori operanti nell’ambito assistenziale e stabilendo come uniche forme di organizzazione gli Enti pubblici nazionali e le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza di ambito regionale.

Per le prime figure viene previsto:

• l’accertamento della natura pubblica o privata e della struttura associativa o di fondazione;

• soppressione degli enti a carattere di fondazione ed il conseguente trasferimento del loro

patrimonio;

• trasformazione in associazioni di diritto privato per gli enti di carattere associativo.

Diverso è invece il destino delle istituzioni regionali per le quali si annuncia il trasferimento di

«funzioni, personale e beni… a comuni, singoli, associati».(art. 25 commi 5 e 6)

Risulta evidente il tentativo di soppressione delle IPAB, subito stroncato grazie all’azione tempestiva della giurisprudenza; la Corte costituzionale infatti, con la sentenza 30 luglio 1981, n. 173 ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 commi 5 e 6 ed ha mosso i primi passi verso la strada della successiva dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 1 della legge 6972/1890.

2.4 La Legge Bassanini e il D.lgs 112/1998

Il percorso verso il decentramento amministrativo si conclude con la Legge Bassanini e con il decreto legislativo 112/1998; i due provvedimenti contribuiscono a razionalizzare la ripartizione dei

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compiti tra Comuni, Regioni e Stato, sia in via generale sia nell’ambito più ristretto dei servizi sociali.

A. LA LEGGE BASSANINI, LEGGE 15 MARZO 1997, N. 59

Scopo del legislatore è delegare alcune competenze in seno allo Stato ad enti periferici in grado di presidiare più efficacemente l’assolvimento, data la maggior prossimità al cittadino.

Tale trasferimento avviene tramite tre direttrici:

• definizione di blocchi di competenze riservate allo Stato;

• nell’ambito di altre competenze, individuazione precisa di quanto trasferito alle Regioni;

• previsione di trasferimento di competenze tra la Regione ed i comuni ed enti locali tramite

provvedimenti. B. IL D. LGS 1127/1998

Con questo decreto lo Stato si prefigge l’obiettivo di normare le previsioni della Legge Bassanini al settore dei servizi sociali, in quest’ambito si realizza quindi un decentramento molto più incisivo di quello prospettato dal precedente intervento normativo (D.P.R. 616/1977).

Mentre la passata concezione si traduceva in una pedissequa suddivisione dei compiti tra Comuni, Regioni e Stato, in questa nuova normativa vengono trasferiti a livello locale i compiti di natura amministrativa, mentre l’intervento dello Stato rimane solo in via residuale.

L’individuazione delle materie da trasferire agli enti periferici avviene in base a settori omogenei e non per competenze, quindi tramite:

• sviluppo economico e attività produttive;

• territorio, ambiente ed infrastrutture;

• servizi alla persona e comunità;

• polizia regionale e locale.

Tale decreto ha comunque il merito di formulare una nuova definizione di servizi sociali, non più intesi come summa di materie estremamente eterogenee ma come autonoma materia rientrante nel più vasto ambito dei servizi alla persona, genus che racchiude anche le seguenti attività:

• tutela della salute

• istruzione scolastica

• formazione professionale

• attività e beni culturali

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I servizi sociali comprendono quindi tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi volti a rimuovere situazioni di bisogno o di difficoltà.

In tale nozione non rientrano le prestazioni previdenziali e sanitarie.

3. La legge 8 novembre 2000, n. 328, “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.”

Dopo più di un secolo di indifferenza e silenzio e dopo anni di gestazione è venuta alla luce la Legge 8 novembre 2000, n. 328 che si prefigge la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Tale riforma sconvolgerà totalmente l’intero settore dell’assistenza pubblica, soprattutto per la trasformazione degli Istituti pubblici di assistenza e beneficenza (IPAB) in Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP), trasformazione che ha rivoluzionato il posizionamento e le dinamiche gestionali ed amministrative di tali organizzazioni; ma forse l’aspetto più rilevante di questo cambiamento, è nella collocazione che queste organizzazioni hanno: al confine tra pubblico e privato.

Il legislatore nel riorganizzare l’intera disciplina si è trovato dinanzi a non pochi limiti, in primis la necessità di ricostruire punto per punto un’intera materia e di plasmarla sull’impronta di una società estremamente mutata, in secondo luogo la difficoltà di creare disposizioni generali a valenza nazionale, che fungano non solo da precetti da rispettare, ma anche da linee guida sulle quali elaborare le legislazioni regionali.

La presenza di queste problematiche ha dato vita ad una riforma viziata e piena di lacune, tanto che per molti viene considerata una “semi riforma”; appare quindi evidente la difficoltà di tali enti di gestire un cambiamento di tale portata e le sue conseguenze.

In particolare le critiche mosse da teorici, giuristi e soggetti coinvolti a vario titolo nel sociale hanno investito gli aspetti della sussidiarietà, della tutela dei diritti e della metodologia usata.1

Infatti secondo alcune voci la norma, pur essendone portavoce, non ha interiorizzato in modo esaustivo il principio della sussidiarietà, soprattutto in senso orizzontale poiché il ruolo del terzo settore risulta essere ancora troppo debole e subalterno; anche se la legge ne fa esplicito richiamo (art. 5) il riconoscimento di iniziative autonome della società civile è previsto solo in un’ottica

promozionale e non anche regolamentativa.2

1 Cristiano Gori “La riforma dei servizi sociali in Italia. L’attuazione della legge 328 e le sfide future.”, Carrocci Editore, Roma, 2004.

2 Zandonai Flaviano “Due anni di riforma dei servizi sociali: un bilancio per la cooperazione sociale”, in AA.VV, 2003

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Altri “addetti ai lavori” (esponenti dei partiti Lega Nord e Rifondazione Comunista) si sono soffermati invece sul fronte dei diritti e della tutela dei cittadini affermando che in sostanza la riforma si sia limitata solo a ribadire quanto già esistente e lamentando quindi la mancata introduzione di nuovi diritti soggettivi.

La critica sulla metodologia adottata dal Legislatore nel ricostruire la disciplina dei servizi sociali riguarda perlopiù l’eccessiva enfasi nei toni e la ridondanza dei contenuti, accompagnate da generalità e analiticità del testo di legge.3

Per altri addirittura dietro una siffatta struttura prolissa e pomposa si nasconde una precisa volontà di distogliere l’attenzione su particolari problematiche.4

Le nuove IPAB, per riflesso di una normativa forse poco precisa, si trovano quindi a dover mettere in atto una trasformazione ancora non ben definita e ad affrontare una serie di limiti che ne condizionano la gestione efficace ed efficiente.

3.1. La struttura ed i contenuti generali della Legge 328/2000

La legge si divide in sei capi, il primo dei quali è dedicato ai “Principi generali del sistema

integrato di interventi e servizi sociali”; viene ribadito all’art. 1 comma 1 il principio

dell’universalità delle prestazioni ed il ruolo attivo delle famiglie all’interno di tale sistema, infatti «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi

sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione».

L’art. 2 invece introduce per la prima volta il diritto soggettivo di ogni individuo di usufruire dei servizi socio-assistenziali, «Hanno diritto ad usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema

integrato di interventi e servizi sociali i cittadini italiani, [...] i cittadini degli Stati appartenenti all’Unione Europea, [..] gli stranieri».

Il capo secondo, “Assetto istituzionale e organizzazione del sistema integrato di intervento e servizi

sociali” pone le basi della nuova disciplina delle IPAB stabilendone le competenze istituzionali e

regolando le modalità di funzionamento di servizi e strutture e delle figure professionali sociali. Il capo terzo invece, “Disposizioni per la realizzazione di particolari interventi di integrazione e

sostegno sociale” indica le priorità di intervento nei confronti di particolari casi e di particolari

tipologie di individui.

3 Cassese Sabino “Un welfare con troppe regole” in Il Sole 24 Ore, 5 luglio 1999, pag.7 4 Boeri T., Perotti R. “Meno pensioni, più welfare”, Il Mulino, Bologna, 2002

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Il capo quarto, “Strumenti per favorire il riordino del sistema integrato di interventi e servizi

sociali” prospetta ed indica gli strumenti idonei e necessari per favorire la messa in atto efficiente

del sistema integrato, tali strumenti sono individuati nei piani di zona, piani triennali degli interventi e servizi sociali ed il fondo nazionale per le politiche sociali.

Il capo quinto “Interventi, servizi ed emolumenti economici del sistema integrato di interventi e

servizi sociali” disciplina le singole misure volte a contrastare le condizioni di povertà.

La legge termina con le “Disposizioni finali” del sesto capo. 3.2. I principi fondanti della Legge 328/2000

Per sua espressa indicazione (art.1 comma 1) la legge fa propri i principi costituzionali stabiliti agli articoli 2, 3, 38 della Costituzione italiana e su di essi plasma una disciplina fondata sui seguenti valori:

1) Sussidiarietà, enti locali, Regioni e Stato devono sostenere, anche attraverso la concessione di fondi, le attività del terzo settore;

2) Unificazione delle competenze di enti locali, Regioni, Stato, in attuazione del precedente principio e nell’ottica di snellire le procedure per l’erogazione dei servizi;

3) Cooperazione di enti locali, Regioni, Stato nel coordinare interventi e servizi sociali, misure economiche ed ottimizzazione delle risorse, per garantire prestazioni di alto livello;

4) Efficacia, raggiungibile e misurabile attraverso metodi di verifica sistematica, quale il controllo di gestione;

5) Efficienza che si traduce nell’adozione di strumenti per la semplificazione amministrativa e per il controllo di gestione;

6) Economicità e omogeneità, enti locali, Regioni, Stato definiscono la programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali;

7) Copertura finanziaria e patrimoniale, enti locali, Regioni, Stato concorrono allo sviluppo del sistema integrato di interventi e servizi sociali attraverso finanziamenti;

8) Amministrazione, spetta unicamente ai comuni;

9) Autonomia organizzativa, la legge stabilisce che la gestione delle ASP deve essere indipendente ed autonoma dalle dinamiche di governo dei Comuni di appartenenza.

In questa sede è importante notare come i principi della legge 328/2000 siano totalmente diversi da quelli della 6972/1890; ora la preoccupazione primaria del legislatore è il tentativo di favorire forme

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di armonia e coordinamento tra enti locali, Regioni e Stato, infatti la sincronia tra i vari livelli istituzionali è riscontrabile in tutti i nove principi sopra elencati.

La legge Crispi, non conoscendo alcuna forma di collaborazione, si concentra maggiormente sul ruolo predominante dello Stato, chiamato a vigilare sulla funzionalità e sull’attività delle neonate IPAB, sull’operato degli amministratori e sulla correttezza dei loro atti; in questo modo, celandosi dietro le vesti del controllore assumeva in realtà le sembianze del direttore.

3.4 I principi ispiratori della riforma

La legge 328/2000 nasce con il preciso scopo di superare una disciplina ormai divenuta obsoleta ed anacronistica, non più in grado di rispondere alle esigenze della società moderna; trattandosi di una legge quadro, essa non vuole delineare definitivamente i connotati delle nuove IPAB e del contesto che le circonda, ma si limita a definire suggerimenti e linee guida che verranno chiariti più precisamente dal decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207.

Ciò detto, il legislatore all’art. 10 individua i tratti essenziali della riforma, cioè i principi che il decreto attuativo dovrà rispettare nel formulare la nuova disciplina delle IPAB:

• inserimento delle IPAB nella rete territoriale dei servizi;

• garanzia di una gestione efficace ed efficiente;

• adozione di forme gestionali privatistiche;

• abbandono dei controlli formali ed adozione di strumenti di verifica sui risultati di gestione;

• promozione di forme di accorpamento e fusione tra IPAB;

• scioglimento delle IPAB inattive o inutili;

• possibilità di separazione tra gestione dei servizi e gestione del patrimonio;

• promozione delle depubblicizzazione;

• riduzione degli oneri a carico della finanza pubblica.

Consapevole che per riformare l’attività delle IPAB era necessario riordinare anche l’intero settore dell’assistenza pubblica, il legislatore ha per questo istituito il Sistema integrato di interventi e

servizi sociali, una rete di servizi ed attività in grado di favorire la collaborazione dei vari livelli

istituzionali e di superare la frammentarietà, i conflitti e le sovrapposizioni di competenze della situazione precedente.

All’art. 22 la legge cerca di chiarire tale nozione, dettando che «Il sistema integrato di interventi e

servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la

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definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l’efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte.»

Il sistema integrato ha come specifiche finalità:

aiutare le persone, minori in condizioni di disagio, donne in difficoltà, persone totalmente

dipendenti, disabili, anziani, persone senza fissa dimora, dipendenti da droghe, alcool, farmaci;

garantire livelli minimi di prestazioni sociali;

promuovere la solidarietà sociale;

garantire l’accesso privilegiato ai servizi ed alle prestazioni a soggetti in condizioni di

povertà o con limitato reddito, di inabilità fisica o psichica o con difficoltà di inserimento nella vita sociale;

attuare il sistema informativo dei servizi sociali e promuovere approfondimenti sui fenomeni sociali più rilevanti;

migliorare l’efficienza e la qualità degli interventi;

promuovere la formazione professionale.

La legge quindi reputa necessario stabilire un livello minimo di prestazioni sociali erogabili, tale livello è segnato dall’insieme dei seguenti interventi (art. 22 comma 2):

1) servizi di accompagnamento e misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito, soprattutto per le persone senza fissa dimora;

2) misure economiche per favorire la vita autonoma di persone totalmente dipendenti;

3) interventi di sostegno nei confronti dei minori in condizioni di disagio, come il sostegno al nucleo familiare d’origine o l’inserimento in famiglie o strutture per l’accoglienza;

4) interventi di sostegno a donne in difficoltà;

5) provvedimenti per l’integrazione delle persone disabili, per la realizzazione di centri socio-riabilitativi e di comunità-alloggio;

6) interventi per le persone anziane, per facilitarne la vita autonoma o per l’accoglienza in strutture residenziali o semiresidenziali;

7) misure socio-educative per contrastare la dipendenza da droghe, alcool, farmaci volte alla prevenzione, al recupero, al reinserimento sociale;

8) servizi di informazione e consulenza alle persone ed alle loro famiglie.

L’art. 117 della Costituzione alla lettera m) prescrive che la determinazione dei livelli minimi sia di competenza esclusiva dello Stato ma spetta comunque alle leggi regionali stabilire, in base alle

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esigenze, alla disponibilità di risorse finanziarie ed alle priorità dei diversi ambiti territoriali, l’erogazioni delle seguenti prestazioni:

a. servizio sociale professionale di informazione e consulenza agli eventuali utenti ed alle loro famiglie

b. servizio di pronto intervento per situazioni di emergenza c. assistenza domiciliare

d. predisposizione di strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali e. predisposizione di centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.

Seppur di intenti lodevoli, la disposizione in merito al livello minimo dei servizi sociali, si mostra nella pratica ricca di lacune.

In primis il limite minimo viene stabilito solo come tipologie di interventi necessari in determinate situazioni di difficoltà, ma non definisce nulla circa le caratteristiche qualitative che tali servizi devono rispettare e sui risultati minimi che tali interventi devono raggiungere affinché venga

garantita adeguata attenzione alle problematiche evidenziate.5

In secondo luogo la decisione sulle modalità e sulla misura del soddisfacimento di tali requisiti viene delegata interamente alle Regioni che decidono per ogni ambito territoriale come tali interventi debbano essere realizzati.

Quest’ultimo aspetto se da un lato può essere considerato positivo perché le Regioni sono istituzioni più vicine alle problematiche del proprio territorio e quindi maggiormente in grado di soddisfarle, dall’altro lato questo potrebbe creare delle forti disparità di trattamento tra Regioni soprattutto sul piano economico, infatti territori più ricchi ed organizzati riuscirebbero ad offrire migliori e maggiori servizi rispetto a realtà meno evolute; è evidente che lasciando completa autonomia ed indipendenza alle Regioni si potrebbero creare situazioni estremamente disequilibrate tra loro poiché, l’idea di servizio minimo può essere interpretata e concepita in modi dissimili con il rischio di generare tanti welfare locali diversi in punto di garanzia dei diritti sociali.6

A garanzia dell’eguaglianza e dell’uniformità dei diritti su tutto il territorio nazionale la disposizione dell’art. 117 comma 2 lettera m) della Costituzione non sembra sufficiente, il Legislatore ha quindi affiancato al precetto due norme, art.119 comma 5 e l’art. 120 che rafforzano la tutela del diritto alle prestazioni di ordine sociali e che fungono da correttore delle diseguaglianze.

5 Cristiano Gori “La riforma dei servizi sociali in Italia. L’attuazione della legge 328 e le sfide future”, Carocci Editore, Roma, 2004.

6 Cristiano Gori “La riforma dei servizi sociali in Italia. L’attuazione della legge 328 e le sfide future”, Carocci Editore, Roma, 2004

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La prima prevede che «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale,

per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.»

La seconda invece stabilisce che «Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città

metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme .. ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

Nonostante le disposizioni di cui sopra «lo Stato si limita a fissare i principi fondamentali mentre le

leggi concretamente regolatrici vengono emanate dalle Regioni.»7

Con l’attuale inquadramento normativo, alle organizzazioni che sono chiamate a gestire tali problematiche non vengono forniti i mezzi sufficienti per massimizzare le loro funzioni, con conseguenti negatività sull’operato degli stessi enti e quindi sulle condizioni di vita di chi è più debole.

L’impegno, la convinzione, l’amore, la dedizione spesso non sono sufficienti.

3.5 Gli attori del sistema integrato di interventi e servizi sociali

La ripartizione delle competenze in materia di servizi sociali tra Stato, Regioni, Province e Comuni deve desumersi non solo in base alle espresse disposizioni della legge in esame, ma anche con l’ausilio di tutti gli strumenti normativi che hanno contribuito alla definizione del decentramento amministrativo, quindi il D.Lgs 112/1998 e il Titolo V della Costituzione.

La Legge 328/2000 all’art. 1 comma 3 stabilisce che «la programmazione e l’organizzazione del

sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato ai sensi del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e della presente legge, secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.»

Enti locali, Regioni e Stato devono quindi attenersi ai principi di:

• coordinamento ed integrazione dei servizi sociali con interventi sanitari, istruzione, formazione ed avviamento al lavoro

• cooperazione tra i livelli istituzionali

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• cooperazione tra livelle istituzionali e organizzazioni sindacali, aziende/unità sanitarie ed organismi che partecipano in vario modo alla realizzazione del sistema integrato (IPAB, fondazioni, associazioni di volontariato, ONLUS, ogni organizzazione no profit, etc..)

I) I COMUNI

Secondo quanto citato dall’art. 6 «I comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti

gli interventi sociali svolti a livello locale e concorrono alla programmazione regionale.»

Lo stesso articolo prevede che, oltre ai compiti già trasferiti dal D.P.R. 616/1977 e dal D.Lgs 11271998, spettano ai Comuni, secondo quanto stabilito dalle disposizioni regionali, le seguenti attività:

a. programmazione, progettazione, realizzazione del sistema locale dei servizi sociali, indicazione delle priorità e dei settori di innovazione attraverso la concertazione delle risorse umane e finanziarie locali, con il coinvolgimento di tutti i soggetti operanti nel terzo settore; b. erogazione di servizi, di prestazioni economiche e dei titoli per l’acquisto di servizi sociali

disciplinati dall’art. 17;

c. autorizzazione, accreditamento, vigilanza dei servizi sociali e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale;

d. partecipazione al procedimento dell’individuazione degli ambiti territoriali spettante prevalentemente alle Regioni;

e. definizione dei parametri per la valutazione delle condizioni per l’accesso prioritario ai servizi sociali.

Nell’esercizio delle proprie funzioni i Comuni provvedono a :

a. promuovere le risorse della collettività locali tramite forme di collaborazioni;

b. coordinare attività e programmi degli enti che operano nell’ambito dei servizi sociali; c. adottare strumenti per la semplificazione amministrativa e per il controllo di gestione; d. garantire ai cittadini la partecipazione al controllo di qualità dei servizi.

II) LE PROVINCE

In base a quanto stabilito dall’art. 7 «le Province concorrono alla programmazione del sistema

integrato di interventi e servizi sociali [...], secondo le modalità stabilite dalle regioni. »

Le funzioni assegnate loro dalla presente legge riguardano:

a. raccolta di dati ed informazioni sui bisogni e sulle risorse rese disponibili dai Comuni b. analisi dell’offerta assistenziale

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c. promozione di iniziative di formazione

d. partecipazione alla definizione ed attuazione dei piani di zona III) LE REGIONI

L’art. 8 regolamenta il ruolo delle Regioni all’interno del sistema integrato stabilendo che «le

regioni esercitano le funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali nonché di verifica della rispettiva attuazione a livello territoriale e disciplinano l’integrazione degli interventi stessi, con particolare riferimento all’attività sanitaria e socio-sanitaria ad elevata integrazione socio-sanitaria.»

In particolare le funzioni specifiche possono essere riassunte dal seguente quadro:

a. determinazione degli ambiti territoriali e delle modalità per realizzare una gestione unitaria del sistema socio-sanitario locale;

b. definizione di politiche integrate in merito ad interventi sociali, ambiente, istituzioni scolastiche, avviamento al lavoro, etc.. ;

c. promozione di metodi per l’attuazione del controllo di gestione;

d. definizione, sulla base di disposizioni statali, dei criteri per l’accreditamento, l’autorizzazione e la vigilanza sulle strutture pubbliche e sui servizi offerti;

e. tenuta dei registri dei soggetti autorizzati all’esercizio dei servizi sociali; f. definizione dei requisiti di qualità dei servizi offerti;

g. definizione dei criteri per la concessione, da parte dei Comuni, dei titoli per l’acquisto dei servizi sociali;

h. definizione del quantum della partecipazione degli utenti al costo delle prestazioni;

i. predisposizione e finanziamento dei piani per la formazione e l’aggiornamento professionale;

j. definizione dei criteri in base ai quali determinare le tariffe che i Comuni devono corrispondere ai soggetti accreditati;

k. esercizio di poteri sostitutivi nei confronti di enti locali inadempienti. IV) LO STATO

Lo Stato conserva e detiene poteri di indirizzo e coordinamento e di regolazione delle politiche sociali per i seguenti aspetti (art. 9):

a. definizione del Piano nazionale degli interventi e servizi sociali per delineare principi ed obiettivi della apolitica sociale;

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c. fissazione dei requisiti minimi (strutturali ed organizzativi) per l’autorizzazione allo svolgimento dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale o semiresidenziale;

d. determinazione dei requisiti e dei profili professionali, dei requisiti di accesso e di durata dei percorsi formativi;

e. esercizio dei poteri sostitutivi in caso di inadempienza delle regioni; f. ripartizione delle risorse del Fondo nazionale delle politiche sociali.

L’art. 129 del D.Lgs 31 marzo 1998, n. 112 aggiunge che spettano allo Stato le ulteriori funzioni di: a. determinazione dei criteri generali per la programmazione degli interventi sociali da attuare

a livello locale

b. rapporto con gli organismi internazionali e con gli organismi dell’Unione europea operanti nel settore delle politiche sociali e coordinamento in tale ambito con le linee di azione dell’Unione europea

c. prima assistenza in favore dei profughi

3.6 Gli strumenti del sistema integrato di interventi e servizi sociali

Il nuovo assetto organizzativo del terzo settore si avvale di alcuni strumenti operativi, da attuarsi ai vari livelli di governo (nazionale, regionale, locale) con il preciso scopo di ordinare e razionalizzare gli interventi e le iniziative nell’ambito delle politiche sociali.

E’ prevista quindi la predisposizione, da parte di ogni istituzione governativa, di alcuni piani che illustrino gli obbiettivi da raggiungere e le linee d’azione da seguire.

La legge al Capo IV (Strumenti per favorire il riordino del sistema integrato di interventi e servizi sociali) disciplina le modalità di definizione, le caratteristiche basilari che tali piani devono rispettare, i termini e le modalità di approvazione e attuazione.

Gli strumenti istituiti con la riforma non hanno contenuti esclusivamente di pianificazione, quindi di natura puramente esecutiva, ma sono contemplati anche piani di finanziamento o sistemi per favorire la comunicazione e l’informazione.

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I) IL PIANO NAZIONALE

La legge stabilisce che «il Governo predispone ogni tre anni il piano nazionale degli interventi e

dei servizi sociali ».

Alla sua stesura collaborano in concerto con il Governo, gli enti e le associazioni nazionali di promozione sociale di maggior rilievo, le organizzazioni sindacali, le associazioni nazionali che operano nell’ambito dei servizi sociali e le associazioni di tutela degli utenti.

Lo schema del piano è successivamente trasmesso alle Camere che devono pronunciarsi sulla sua validità entro trenta giorni dalla data di assegnazione, la bozza così approvata verrà adottata come Piano nazionale solo previa delibera del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la solidarietà sociale.

Tenendo conto delle risorse finanziarie a disposizione, il piano deve indicare:

1) le caratteristiche ed i requisiti delle prestazioni che costituiscono il livelle essenziale

2) le priorità di intervento attraverso l’individuazione di progetti obiettivo e di azioni programmate

3) le modalità di attuazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e le azioni da integrare e coordinare con le politiche sanitarie, dell’istruzione, della formazione e del lavoro

4) gli indirizzi per la diffusione dei servizi di informazione

5) gli indirizzi per la promozione della concertazione tra risorse finanziarie, umane ed economiche e per la realizzazione della rete locale di servizi

6) gli indicatori ed i parametri per la verifica dei livelli di integrazione e gli indicatori per la verifica del rapporto costi-benefici degli interventi e servizi sociali

7) i criteri per la definizione della parte dei costi a carico dell’utente

8) gli indirizzi ed i criteri generali per la concessione di titoli per l’acquisto dei servizi sociali 9) gli indirizzi per la predisposizione di interventi nei confronti di persone anziane, di non

autosufficienti, di soggetti disabili

10) gli indirizzi per l’attività di formazione ed aggiornamento del personale 11) i finanziamenti relativi ad ogni anno di vigenza del piano

Decorsi i tre anni di attività e validità del piano, il Ministro per la solidarietà sociale deve predisporre una relazione in cui illustrare gli obbiettivi raggiunti ed i risultati ottenuti soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra costi e benefici degli interventi; tale rendicontazione funge anche da base di partenza per la predisposizione della nuova pianificazione.

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II) I PIANI REGIONALI

Le regioni, in relazione alle indicazioni del Piano nazionale, entro centoventi giorni dall’adozione del Piano stesso predispongono piano regionale degli interventi e dei servizi sociali, provvedendo in particolare all’integrazione socio-sanitaria in coerenza con gli obiettivi del piano sanitario regionale, nonché al coordinamento con le politiche dell’istruzione, della formazione professionale e del lavoro.

III) I PIANI DI ZONA

L’art. 19 prevede che i Comuni, in accordo con le aziende/unità sanitarie locali, provvedano a definire il piano di zona per gli interventi sociali e socio-sanitari, in base alle direttive contenute nel relativo piano regionale ed in coerenza con le risorse finanziarie disponibili.

Tale piano deve regolare:

1) gli obiettivi strategici e le priorità di intervento nonché i mezzi per la loro attuazione 2) le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali 3) le modalità di raccolta e rilevazione dei dati nell’ambito del sistema informativo 4) gli indirizzi per il coordinamento con gli organi periferici statali

5) le forme di concertazione con l’azienda unità sanitaria locale

6) gli indirizzi per la collaborazione con tutti i soggetti che operano, a livello locale, nell’ambito della solidarietà sociale.

Il Piano di zona è comunque volto a:

• favorire la formazione di sistemi locali di intervento fondati su servizi e prestazioni complementari e flessibili

• qualificare la spesa, attivando risorse, finanziarie, umane ed economiche derivate dalle forme di concertazione

• definire criteri di ripartizione della spesa a carico di ciascun comune, delle aziende unità

sanitarie locali e degli altri soggetti facenti parte della rete locale

• prevedere iniziative di formazione e di aggiornamento degli operatori.

IV) IL FONDO NAZIONALE PER LE POLITICHE SOCIALI

Il sistema integrato di interventi e servizi sociali si avvale di un finanziamento plurimo, derivante in proporzioni diverse ed in base ai rispettivi bilanci, da Stato, Regioni ed Enti locali.

Lo Stato è chiamato alla definizione del Fondo nazionale per le politiche sociali ed all’erogazione di finanziamenti tramite il rilascio di pensioni, assegni ed indennità nei confronti di invalidi civili o di

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coloro che possiedono un reddito minimo; la distribuzione e l’assegnazione di tali finanziamenti avviene per opera delle Regioni le quali provvedono anche autonomamente al sostegno economico di iniziative ed interventi messi in atto dagli enti locali.

I Comuni invece sopportano solo l’onere rappresentato dalle spese di attivazione dei servizi sociali rivolti a singoli individui o alla collettività.

Il Fondo nazionale quindi è uno strumento di finanziamento pubblico di matrice esclusivamente statale, volto essenzialmente a fornire mezzi economici per la promozione ed il raggiungimento degli obiettivi di politica sociale.

L’ammontare delle risorse da stanziare è definito dalla legge finanziaria ed in esso sono comprese anche somme derivanti da contributi e donazioni eventualmente disposti da privati, enti, fondazioni, organizzazioni, anche internazionali, e da organismi dell’Unione europea, che sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere assegnate al citato Fondo.

Questo strumento di finanziamento nasce per rispondere a precise finalità:

• la realizzazione di standard essenziali ed uniformi di prestazioni sociali su tutto il territorio

statale

• sostegno a progetti sperimentali attivati da regioni ed enti locali

• promozione di azioni concertate ai vari livelli nazionali, regionali e locali

• realizzazione di misure di contrasto alla povertà

3.7 Le nuove IPAB della Legge 328/2000

Le nuove IPAB, così come sono descritte dalla legge 328/2000, rappresentano una realtà estremamente singolare soprattutto per la loro natura impura, che fa convivere regime pubblico ed elementi fortemente privatistici.

Le caratteristiche principali che possono essere dedotte dalla legge risultano essere:

La commistione di natura pubblica e natura privata, la legge impone a tali organizzazioni

la trasformazione da Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) ad Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP), ciò comporta che la gestione avrà i tipici tratti delle aziende private, quindi il vincolo del rispetto dei principi di efficacia, efficienza ed economicità, ma in via generale è previsto il mantenimento della personalità di diritto pubblico.

Possibilità di accedere alla privatizzazione, a seguito della trasformazione, le ASP possono

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organizzazioni di natura privata; tale possibilità è tuttavia concessa solo in via residuale e solo nel rispetto di determinati requisiti.

Estrema eterogeneità dei destinatari dei servizi, secondo i dettati di legge le ASP sono

tenute a gestire una grande varietà di soggetti con problematiche estremamente diverse tra loro (minori in condizioni di disagio sociale, fisico e psichico; persone in difficoltà, persone in condizioni di povertà, soggetti con reddito limitato, persone anziane, non autosufficienti, persone in difficoltà fisica e psichica, disabili, immigrati, tossicodipendenti, alcoolisti, etc..). Come facilmente intuibile la gestione contemporanea di tali problematiche crea non pochi disagi e rende difficile anche la realizzazione di standard qualitativi adeguati.

Forte legame con le dinamiche politiche, il mantenimento della personalità di diritto

pubblico e l’attuale organizzazione del settore dei servizi sociali comportano inevitabilmente l’influenza limitante della compagine politica nella vita gestionale ed amministrativa delle ASP con forti ripercussioni sul loro grado di autonomia ed indipendenza.

Decentramento amministrativo, i servizi alla persona costituiscono una di quelle materie

oggetto del decentramento amministrativo divenendo così di competenza simultanea di Stato, Regioni, Province e Comuni; ciò comporta possibili conflitti e sovrapposizioni di funzioni tra i vari livelli istituzionali ed una forte complessità e disparità della normativa in quanto ogni Regione è tenuta a regolamentare, tramite propria legge, la disciplina delle nuove IPAB.

Se ci si ferma all’analisi della disposizione in esame, i limiti sopra accennati possono essere giustificati dal fatto che la 328/2000 è una legge quadro, cioè un particolare strumento normativo che fornisce solo linee guida e che quindi presuppone l’emanazione di un decreto attuativo che precisi con maggiore puntualità l’intera disciplina; ciò comunque non autorizza il Legislatore ad emanare una legge incompleta e lacunosa, soprattutto alla luce del fatto che fino a quando le Regioni non legifereranno autonomamente sulla disciplina rimarranno valide ed applicabili le disposizioni presenti nella 328/2000.

In realtà la speranza che il D.Lgs 4 maggio 2001, n. 207 risolva e superi tali limiti appare molto vana, infatti la disposizione si muove addirittura sul versante opposto enfatizzando ancora di più tutte le problematiche appena individuate, rendendo così fin troppo evidenti le condizioni di disagio e di difficoltà in cui le ASP oggi si trovano ad operare.

L’intera disciplina non raggiunge appieno il suo intento riformatore, molto dure infatti sono state le critiche e le prese di posizioni delle associazioni di categoria in particolar modo dell’ANSIPP

(27)

(Associazione nazionale dirigenti delle associazioni pubbliche e private di assistenza), insoddisfatte soprattutto per la maggiore invadenza che la riforma permette alle dinamiche politiche nelle attività, nell’amministrazione e nella gestione delle ASP.

Tutti questi aspetti potranno essere chiariti dall’analisi del decreto di seguito riportata. 8

4. il Decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207

Il Decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207 viene emanato in attuazione della delega conferita dall’art. 10 della legge 328/2000 per attuare il progetto di riforma delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza; il suo scopo è quindi racchiuso nell’ampliamento e nel chiarimento della disciplina.

Il decreto consta di 22 articoli ripartiti in cinque capi: Capo 1: Disposizioni generali

Capo 2: Aziende di servizi

Capo 3: Persone giuridiche di diritto privato Capo 4: Fusioni

Capo 5: Disposizioni varie

L’analisi della disposizione mostrerà come dopo 110 anni di Legge Crispi sia cambiato ben poco e come la riforma tanto aspettata abbia lasciato solo l’illusione di un cambiamento.

4.1 Il ruolo della legislazione regionale

Aspetto fondamentale della disciplina descritta dal decreto, è senza dubbio il ruolo ancora più incisivo assegnato alle regioni per quel che riguarda la razionalizzazione del sistema locale delle IPAB; queste infatti sono espressamente chiamate ad emanare un proprio intervento legislativo in attuazione dei principi e criteri dettati dal Governo centrale.

La conseguenza di tale eccessiva autonomia ed indipendenza conferita alle Regioni è inevitabilmente l’estrema frammentarietà delle disposizioni e la disparità con cui vengono trattati i medesimi aspetti dalle varie legislazioni.

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Spicca così, in maniera evidente, la natura sussidiaria della Legge 328/2000 la quale continuerà ad applicarsi solo se non verranno approvate le disposizioni locali, mentre viene prevista la prevalenza dell’intervento regionale.

La conferma di quanto appena detto si rintraccia nell’articolo 1 del decreto che imputa alle Regioni le seguenti funzioni:

• la definizione delle modalità di concertazione e cooperazione tra livelli istituzionali e aziende pubbliche di servizi alla persona;

• la definizione delle modalità di partecipazione delle ASP e delle loro associazioni o rappresentanze alla programmazione dei servizi;

• la determinazione del finanziamento regionale per il potenziamento degli interventi sociali

delle ASP;

• la formulazione delle ipotesi in cui è esclusa la trasformazione delle IPAB in ASP;

• la definizione dei criteri per stabilire i compensi degli amministratori;

• la disciplina delle modalità di trasformazione;

• la determinazione dei criteri generali in materia di contabilità;

• la disciplina delle fusioni tra le IPAB;

• la disciplina dell’intervento sostitutivo delle regioni in caso di insolvenza delle IPAB;

• la determinazione di disposizioni per la gestione economica-finanziaria e patrimoniale;

• la disciplina delle procedure di soppressione e messa in liquidazione.

Come ben visibile il decreto conferisce autonomia su punti focali della gestione creando rilevanti differenze tra le ASP delle varie regioni, in questo modo non viene affatto assicurata uguaglianza di trattamento per le organizzazioni e per i loro utenti.

4.2 La trasformazione in Aziende pubbliche di servizi alla persona

Anche se veri solo in teoria, i punti salienti caratterizzanti le neonate ASP possono essere riassunti nel seguente quadro:

• trasformazione in aziende pubbliche di servizi alla persona

• inserimento nella rete locale dei servizi sociali

• godimento di autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale

• adozione di criteri imprenditoriali

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• obbligo di rispondenza delle attività ai principi di efficacia, efficienza ed economicità

• autonomia negoziale privata

• possibilità di costruire società e fondazioni private strumentali soprattutto se assumono come fine la gestione del patrimonio

• gestione privatistica del personale

• contabilità di tipo economico.

In seguito si avrà modo di osservare come tali caratteristiche siano innovative da una parte e di difficile attuazione nel nostro contesto sociale, culturale e politico.

La trasformazione in ASP è senz’altro l’aspetto più rilevante, in merito l’art. 5 dispone che «le

istituzioni che svolgono direttamente l’attività di erogazione di servizi assistenziali sono tenute a trasformarsi in aziende pubbliche di servizi alla persona e ad adeguare i propri statuti alle previsioni del presente capo entro due anni dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo.»

L’uso del termine direttamente ha creato non pochi problemi interpretativi, infatti per alcuni l’attività diretta coincide con la definizione di servizi sociali che il legislatore ha fornito all’art. 128 del d.lgs 31 marzo 1998, n. 112 quindi, «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione

servizi, gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita.»

Per altri invece l’art. 5 deve essere letto in combinato con il successivo art. 15 (IPAB che svolgono attività indiretta in campo socio-assistenziale mediante destinazione delle rendite derivanti dall’amministrazione), ne risulta che l’attività indiretta è circoscritta ai soli casi di erogazione di rendite nei confronti di enti o organismi pubblici e privati operanti nel settore.

A tale problema interpretativo, si aggiunge anche la questione delle legislazioni regionali che hanno inteso in modi differenti il concetto di attività diretta, ad esempio per l’Emilia-Romagna9 tale

nozione non ricomprende l’erogazione di contributi economici mentre il Friuli10, in linea con la

seconda ipotesi interpretativa, si muove nella direzione opposta prevedendo che nella stessa definizione venga inglobata anche l’erogazione di contributi economici a singoli individui in condizioni di bisogno.

La principale novità introdotta prima dalla legge delega 328/2000 e poi ampliata dal decreto 207/2001 è senza ombra di dubbio la facoltà di scelta concessa alle IPAB di trasformarsi in aziende pubbliche di servizi alla persona o in associazioni o fondazioni di diritto privato, eliminando

9 Art. 23, numero 5, lettera a) Legge Regionale Emilia-Romagna 12 marzo 2003, n. 2 “Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.”

10 Art. 2 Legge Regionale Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 19 “Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza nella Regione Friuli-Venezia Giulia.”

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l’autoritaria imposizione della Legge Crispi che prevedeva per le IPAB unicamente la natura pubblica.

Sempre su quanto previsto dalla legge delega, il decreto offre alle ASP trasformate l’opportunità di scorporarsi in due entità giuridico-organizzative distinte, da un lato una fondazione di gestione e conservazione del patrimonio e dall’altro un’unità operativa; ciò comporterebbe la separazione delle attività di gestione del patrimonio e gestione dei servizi ed il conseguente alleggerimento dei compiti e delle responsabilità in seno al consiglio di amministrazione.

In tal modo sarebbe possibile da un lato, incrementare e potenziare l’attività di found raising, che per queste organizzazioni è a dir poco essenziale, e gestire in modo più efficace, efficiente ed ottimizzante il patrimonio e le risorse finanziarie ed economiche di cui l’ente dispone.

Nell’ottica operativa e puramente gestionale, tale separazione renderebbe possibile una maggiore focalizzazione sulle attività di carattere sociale e contestualmente differenziando i servizi e le prestazioni, aspetto da non sottovalutare in quanto tale differenziazione è divenuta ormai un’esigenza vista la grande varietà di problematiche sociali che le nuove ASP si trovano a dover affrontare.

In taluni casi la via della trasformazione in ente privato diviene obbligo di legge e non più una scelta volontaria, infatti l’art. 3 comma 1 prevede che alcune particolari tipologie di IPAB, le istituzioni operanti prevalentemente nel settore scolastico, siano soggette alla transizione a persona giuridica di diritto privato se in possesso dei requisiti stabiliti dal D.P.C.M. 16 febbraio 1990, in caso di assenza di tali requisiti tali IPAB si trasformeranno in “nuovi enti pubblici”.

Il comma 2 preclude quindi la metamorfosi in ASP a tutte quelle organizzazioni non classificate come IPAB ma alle stesse equiparabili, prevedendo per esse, a prescindere dal possesso dei requisiti, la via della “depubblicizzazione”.

Ad indicazione dello stesso articolo condividono tale destino:

• conservatori della gioventù che non hanno scopi educativi

• ospizi dei pellegrini

• ritiri, eremi ed istituti consimili non aventi scopi civili o sociali

• confraternite, confraterie, congreghe, congregazioni ed istituti simili

• opere pie di culto

• lasciti o legati di culto

Il decreto non limita a questi i casi di esclusione, dispone ancora che sono estromesse dalla trasformazione tutti gli enti che svolgono attività diversa dall’erogazione diretta dei servizi

Figura

Tabella 7 Indicatori 2001 2005 2010 2015 2020 2025 2030 Popolazione (mln) 57.530 57.165 56.390 55.239 53.861 52.364 50.776 % anni 0-4 4,6 4,3 3,9 3,6 3,5 3,5 3,6 % anni 5-14 9,7 9,5 9,1 8,5 7,8 7,4 7,4 % anni 15-24 11,6 10,3 10,0 9,9 9,6 9,0 8,3 % anni › 6

Riferimenti

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110, COMMA 1, DEL TUEL, DI UN DIRIGENTE CUI AFFIDARE L'INCARICO DI DIREZIONE DEL SERVIZIO FINANZIARIO: NOMINA DELLA COMMISSIONE GIUDICATRICE E IMPEGNO DI SPESA PER IL PAGAMENTO

Le ASP sono costituite dalla Regione nell'ambito del programma di riordino e trasformazione delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) di cui alla legge

17 (Disciplina dei procedimenti di trasformazione delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) in Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP)

17 di disciplina dei procedimenti di trasformazione delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) in Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP)

2, la quale disciplina il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), con sede legale nel territorio del Lazio, prevedendone la

207, disciplina il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), con sede legale nel territorio del Lazio, prevedendone la

2, la quale disciplina il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), con sede legale nel territorio del Lazio, prevedendone la trasformazione

2, la quale disciplina il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), con sede legale nel territorio del Lazio, prevedendone la