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MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE TURISTICA Analisi descrittivo-funzionale della gestualità spontanea nelle visite guidate

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Academic year: 2021

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(1)DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA TEORICA E APPLICATA. TESI DI LAUREA MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE TURISTICA Analisi descrittivo-funzionale della gestualità spontanea nelle visite guidate. CANDIDATO Francesca Perchinenna. RELATORE Chiar.ma Prof.ssa Marcella Papi Bertuccelli CONTRORELATORE Chiar.ma Prof.ssa Gloria Cappelli. ANNO ACCADEMICO 2015/2016.

(2) INDICE Introduzione. 3. Capitolo 1. L’importanza della comunicazione non verbale nel processo comunicativo 1.1 Il processo comunicativo 1.1.1 La multimodalità 1.1.2 Origini ontogenetiche della comunicazione umana 1.2 Le origini dello studio scientifico sulla CNV 1.3 Le diverse forme di CNV 1.3.1 Classificazione della CNV 1.3.2 Segnali di accentuazione e segni-guida 1.3.3 Funzioni della CNV 1.4 Metodi e tecniche di ricerca nello studio della CNV. 5 5 7 9 13 17 18 31 35 36. Capitolo 2. Strategie comunicative della guida turistica 2.1 Il turismo 2.2 La comunicazione turistica e la figura della guida 2.3 Il valore dello spazio nel contesto turistico e il rapporto guida-pubblico. 38. Capitolo 3. Studio della comunicazione multimodale delle guide turistiche: raccolta e analisi dei dati 3.1 ELAN 3.2 Metodologia 3.3 Strategie comunicative e gestualità presenti nell’intero corpus di studio 3.4. Analisi del video di introduzione al “Barri Gòtic Tour”. 50. Conclusioni. 77. Appendice A. 79. Appendice B. 80. Bibliografia. 81. 2. 38 41 46. 50 52 54 61.

(3) INTRODUZIONE Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di presentare un’analisi della comunicazione multimodale delle guide turistiche, focalizzando l’attenzione sulla gestualità, sulla funzione che ad essa viene attribuita in relazione all’interazione con il pubblico e sul tipo di rapporto temporale che si genera fra gesto ed espressione linguistica associata. La prima parte è dedicata alla discussione approfondita di un modello teorico della comunicazione, cercando innanzitutto di mostrare come lo studio della gestualità si inquadri all’interno di quello più vasto del comportamento non verbale e dell’espressività corporea in generale. Ciò ha permesso di avanzare delle ipotesi sui segnali non verbali utilizzati dall’uomo per trasmettere contenuti, che vengono verificate nella seconda parte mediante l’analisi di dati reali raccolti ai fini della ricerca empirica. Nel primo capitolo, partendo dal concetto di multimodalità, si passa ad indagare l’origine ontogenetica della comunicazione umana sottolineando l’importanza della gestualità nella fase di acquisizione linguistica. Si è poi ritenuto utile mostrare che, per quanto lo studio sulla comunicazione non verbale abbia il suo battesimo moderno in Darwin, tuttavia un interesse per i gesti risalga all’antichità classica, come testimonia l’analisi sistematica dei gesti dell’oratore fornita da Cicerone e Quintiliano, per poi continuare anche in epoca cortigiana. A tali considerazioni preliminari segue la classificazione della comunicazione non verbale (CNV): tra le numerose presenti in letteratura la scelta è ricaduta su quella di Mastronardi che si rifà a quella di Ekman e Friesen, basata sui gesti della vita quotidiana soprattutto nella civiltà occidentale. Tale preferenza si deve anche ai suoi caratteri di completezza, chiarezza e generale consenso. Infine è fornito un elenco delle funzioni fondamentali assunte dai comportamenti non verbali.. 3.

(4) Il secondo capitolo, dopo un breve excursus finalizzato a ricordare il legame del turismo di massa con la modernità, dunque con i fenomeni di industrializzazione e urbanizzazione, si concentra sulla figura della guida turistica e sulle sue strategie organizzative e comunicative, che mirano a rendere il viaggio un’esperienza indimenticabile, di svago, di socializzazione, di arricchimento, culturale ma soprattutto personale. Nel terzo e ultimo capitolo vengono dimostrate le teorie sul linguaggio non verbale, e in particolare sulla comunicazione multimodale delle guide turistiche, illustrate nei due capitoli precedenti. Mediante l’uso di ELAN, un software di trascrizione multimodale studiato appositamente per l’analisi delle lingue, della lingua dei segni e dei gesti, è stato infatti possibile analizzare dati raccolti per mezzo di filmati di tour guidati. Un approccio di tipo qualitativo ha permesso di evidenziare i differenti tipi di rapporto temporale tra gesto e parlato anche grazie alla comparazione degli stili comunicativi delle guide prese in esame. Le analisi ottenute potranno essere utili non solo nell’impostazione di una ricerca concreta sul gesto ma, se scambiati telematicamente tra gruppi di esaminatori, anche per contribuire alla creazione di corpora multimodali.. 4.

(5) CAPITOLO 1. L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE NEL PROCESSO COMUNICATIVO «E ciò che lingua esprimer ben non puote, Muta eloquenza ne’ suoi gesti espresse». T. Tasso - “Gerusalemme Liberata”. 1.1 Il processo comunicativo Il significato del termine “comunicare” e il profondo valore che racchiude vanno ricercati nella sua etimologia: dal latino communicare, mettere in comune, derivato di commune, composto da cum insieme e munis incarico, funzione, dovere. La comunicazione, dunque, è un processo costituito dalla trasmissione e condivisione di contenuti, pertanto è improbabile in senso assoluto e possibile solo se rapportata agli attori coinvolti nell’interazione. La comunicazione è fondamentale per la sopravvivenza, infatti non è prerogativa degli esseri umani ma è un fenomeno biologico presente anche negli animali 1. Ciò che distingue gli uni dagli altri è ciò che Sebeok (1990) definisce «congegno di modellazione specifico di specie dell’uomo» ossia il linguaggio, non inteso come semplice “parlare” ma come sintesi del canale verbale e non verbale che, alternandosi o integrandosi, consentono all’essere umano di esprimersi. Tale espressione si può dire conclusa solo quando un’informazione, trasmessa da una fonte e recepita da un destinatario, diviene patrimonio comune e base per la costruzione di una discussione, di un sapere, di una cultura.. Le tipologie di comunicazione degli animali sono state oggetto di numerosi studi. Essi comunicano servendosi di segnali sonori, visivi e olfattivi allo scopo di: realizzare rapporti di tipo gerarchico sia all’interno che all’esterno del gruppo di appartenenza, circoscrivere il proprio territorio, chiedere aiuto, manifestare aggressività o paura e anche nel rituale del corteggiamento. 1. 5.

(6) Dunque, perché si verifichi l’atto comunicativo sono indispensabili una fonte ed un destinatario, un messaggio da trasmettere attraverso il canale comunicativo prescelto, i processi di codifica dell’informazione da parte dell’emittente e di decodifica da parte del ricevente, e che quest’ultimo fornisca all’interlocutore un feedback, un segnale che gli consenta di capire che il messaggio è stato recepito e che reazione ha suscitato. Spesso, erroneamente, si identifica la comunicazione con il linguaggio verbale. In realtà l’uomo non comunica solo attraverso le parole ma anche attraverso il corpo che è indubbiamente il principale mezzo di trasmissione di segnali non verbali, quali le espressioni facciali, i gesti, la postura, il modo di vestire. Questi ultimi, sebbene spesso non siano intenzionali, rafforzano, completano o, in alcuni casi, contrastano il contenuto del messaggio verbale. Per uno studio del 1972, pubblicato con il titolo Nonverbal Communication, lo psicologo Mehrabian condusse delle ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione nel trasmettere un messaggio, concludendo che i movimenti del corpo (soprattutto mimica ed espressioni facciali per il 55%) e l’aspetto paraverbale (volume, tono, ritmo della voce per il 38%) influissero maggiormente rispetto al contenuto verbale (solo per il 7%). Sebbene la sua teoria negli anni successivi sia andata incontro a numerosi fraintendimenti divenendo spesso oggetto di polemica, ha contribuito a stabilire l’importanza degli elementi non verbali nella comunicazione. Il riconoscimento di una stretta relazione tra linguaggio verbale e segnali non verbali permette di considerarli come aspetti differenti, ma anche dipendenti e interagenti dello stesso processo comunicativo. Tale prospettiva considera la comunicazione come un fenomeno multimodale (Poggi, Magno Caldognetto, 1997) che va, pertanto, studiato tenendo conto di tutti gli indici, verbali e non verbali, che caratterizzano lo scambio, in quanto entrambe le componenti partecipano alla costruzione del significato comunicato.. 6.

(7) 1.1.1 La multimodalità L’uomo parla tramite gli organi fonatori, ma comunica con tutto il corpo. L’uso concomitante di più canali comunicativi, il parlato, l’espressione facciale, la postura, lo sguardo, la prossemica, rende la comunicazione multimodale. Possiamo distinguere almeno cinque modalità di produzione, a seconda delle parti del corpo coinvolte nella trasmissione del segnale (Poggi, Panero): verbale (le frasi e le parole che pronunciamo), prosodico-intonativa (gli aspetti temporali del parlato, pause, lunghezza delle vocali, l’intensità e l’intonazione della nostra voce), gestuale (i movimenti delle mani, delle braccia e delle spalle), facciale (sguardi, riso e sorriso, espressioni del volto, movimenti del capo), corporea (posture, movimenti del corpo, collocazione e spostamenti nello. spazio).. Tutte. le. modalità. produttive. vengono. usate. contemporaneamente e in modo sincronizzato quando parliamo, e tutte racchiudono un preciso significato, che può avere funzioni diverse (Poggi, Magno Caldognetto, 1997): funzione ripetitiva, ovvero di ribadire il contenuto dell’enunciato, funzione aggiuntiva, inserendo altre informazioni, sostitutiva, prendendo il posto dell’espressione verbale, o infine anche contraddittoria, opponendosi al contenuto delle frasi. L’interesse nei confronti di questo aspetto della comunicazione umana, e in particolare della gestualità, ha radici antiche. Essa incuriosì già Cicerone e Quintiliano nell’antica Roma, che vi si dedicarono con un intento conoscitivo mirato a elaborare una serie di indicazioni pratiche da utilizzare nell’oratoria. Quasi sicuramente, però, il primo a stilare un vero e proprio catalogo completo di gesti fu Giovanni Bonifacio, di cui nel 1616 fu pubblicata a Vicenza L’arte de’ cenni. Nobile di Rovigo, conosciuto e stimato come storico e uomo politico, si cimentò nello studio del comportamento approfondendo l’uso del. 7.

(8) gesto nell’etichetta, ovvero i segni adoperati per presentarsi agli altri nelle vesti di gentiluomo 2. Un altro elenco di gesti fu pubblicato, in forma di dizionario, a Napoli nel 1832 per opera di Andrea De Jorio, canonico del Duomo di Napoli, uomo colto e all’epoca noto come archeologo. Fu proprio grazie al suo mestiere che si interessò all’argomento: riteneva, infatti, che lo studio dei gesti quotidiani della Napoli a lui contemporanea potesse contribuire alla comprensione dei reperti archeologici dell’antica Grecia. Convinti che i gesti fossero innati, e quindi universali, né Bonifacio né De Jorio approfondirono le differenze culturali nell’uso dei gesti. Tale ipotesi resistette a lungo, supportata anche da Wundt che nel suo lavoro del 1929 3, in cui approfondiva la natura psicologica dei gesti e operava una prima distinzione fra gesti indicativi e gesti simbolici, sosteneva che essi consentissero a parlanti di diverse lingue di capirsi. Poco più tardi il gesto fu analizzato come precursore del linguaggio verbale da studiosi che subirono l’influenza della teoria evoluzionista di Darwin. La ricerca analitica dei gesti e della loro funzione è confluita nell’elaborazione di numerosi dizionari dei gesti, alcuni più semplici e destinati ad un pubblico non specialistico, altri più specifici incentrati sull’analisi del linguaggio gestuale di comunità particolari, come gli indiani o i sordomuti (Mallery, 1881; Hadley, 1893; Tomkins, 1969). Molti studiosi si sono impegnati anche nell’analisi comparata del comportamento gestuale tra diverse culture 4, che ha confermato l’ipotesi dell’influenza di fattori sia culturali che sociopsicologici su di esso. L’interesse per la multimodalità si estende anche in altre discipline, come la psicologia sociale, che si concentra sulle funzioni emotive ed espressive degli indicatori non verbali. Contemporanei di Bonifacio furono Castiglione e Della Casa, anch’essi autori di manuali di condotta, rispettivamente Il cortigiano e Il galateo. 3 Citato in Contarello (1980: 73). 4 Tra gli studi più rilevanti ricordiamo quelli di Efron (1941) e di Morris et al. (1979). 2. 8.

(9) Kendon e McNeill con i loro studi hanno dimostrato il ruolo decisivo dei gesti sul piano linguistico e cognitivo, concludendo che gesto e parlato sono strettamente sincronizzati e che i diversi tipi di gesti concorrono in modo complementare all’espressione del significato di un enunciato secondo i bisogni comunicativi degli utenti. McNeill (1992, 2000, 2005) sostiene che gesto e parola costituiscano un’unità che ingloba due diverse dimensioni di uno stesso concetto. Il gesto veicola l’aspetto iconico del significato che il parlato può trasmettere solo parzialmente data la sua natura fonica; in particolare svolge un ruolo centrale nell’accesso lessicale per quelle parole che hanno contenuto semantico spaziale. I gesti, dunque, costituiscono la dimostrazione tangibile di come la dimensione corporea dell’essere umano sia parte essenziale della costruzione del significato. Numerosi studi sul gesto in condizioni critiche, ovvero nei casi di balbuzie o di non vedenti congeniti 5 costituiscono un’ulteriore conferma all’ipotesi del dualismo funzionale del gesto co-verbale, che ha una natura sociale in quanto assolve a funzioni comunicative, e una natura cognitiva poiché svolge funzioni di supporto all’espressione e all’organizzazione del pensiero (Mayberry, Jacques, Dede, 1998; Iverson e Goldin-Meadow, 1998). 1.1.2 Origini ontogenetiche della comunicazione umana La natura della comunicazione umana è fondamentalmente cooperativa ed è fondata sull’intenzionalità condivisa che caratterizza tutte quelle attività, più o meno semplici, in cui è implicato un soggetto plurale, un “noi”.. Il primo studio (Mayberry, Jacques, Dede, 1998) ha dimostrato che l’inizio della fase di balbuzie non coincideva mai con il momento significativo del gesto. Nei casi in cui ciò si verificava, il gesto veniva interrotto (fenomeno della frozen hand) per poi riprendere nel momento in cui la fase era superata. L’esistenza di un collegamento forte fra gesto e parlato è supportata anche dal secondo studio (Iverson e Goldin-Meadow, 1998) che ha mostrato come l’uso della gestualità dei bambini ciechi congeniti sia identico a quello dei bambini vedenti della stessa età. 5. 9.

(10) Presupposti necessari di ogni comunicazione sono la percezione dell’altro come candidato all’azione cooperativa e l’identificazione del “terreno comune” da parte di ogni partecipante, ovvero percepire il contesto comunicativo rilevante per l’interazione sociale alla stessa maniera dell’interlocutore. La relazione tra atto comunicativo palese e terreno comune è inversamente proporzionale: quanto più materiale condiviso esiste tra comunicatore e ricevente, tanto meno sarà necessario esprimere atti comunicativi palesi. Anzi, essi possono anche essere del tutto eliminati senza modificare la qualità del messaggio. Rispetto alle convenzioni linguistiche arbitrarie, che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione e differenziate in base al fattore culturale, la gestualità, più naturale, è concepita come adattamento biologico alla cooperazione e all’interazione sociale in generale. Tuttavia linguaggio e gesto sono strettamente legati sin dalle prime fasi dello sviluppo: la comunicazione gestuale prelinguistica infantile, infatti, costituisce una componente importante del processo di acquisizione della lingua. Intorno al primo anno di vita, dunque prima che inizino ad acquisire pienamente il linguaggio, i bambini iniziano ad additare principalmente per due motivi (Bates, Camaioni, Volterra, 1975; Carpenter, Nagell, Tomasello, 1998): per chiedere qualcosa (motivazione imperativa) o per condividere con gli altri le proprie emozioni ed esperienze (motivazione dichiarativa). Quest’ultima categoria si suddivide in due sottocategorie: motivazione dichiarativa espressiva (il bambino cerca di condividere con l’adulto un atteggiamento su un referente comune) e informativa (il bambino cerca di aiutare l’adulto fornendogli un’informazione necessaria su un referente). La gestualità deittica non viene acquisita dagli infanti imitando gli altri, ma viene loro naturale e, esattamente come nel caso degli adulti, stabilisce tre classi di motivazioni sociali: condividere, informare, richiedere.. 10.

(11) Come negli adulti, questi tre obiettivi implicano le motivazioni cooperative dell’aiutare e del condividere, che sono i principi alla base dell’intenzionalità condivisa. Inoltre, in ciascuno dei tre casi, l’additare è usato con varie intenzioni sociali. Dunque già a un anno i bambini si aspettano che gli altri rispondano ai loro atti comunicativi cercando di comprenderli. Ciò significa che fin da subito comprendono. gli. aspetti. più. importanti. del. funzionamento. della. comunicazione cooperativa umana esibendo una forma embrionale dell’infrastruttura sociocognitiva completa della comunicazione cooperativa matura. Nella maggior parte dei bambini l’attività deittica emerge intorno al dodici mesi di età, prima ancora del linguaggio, e ciò indica che nell’ontogenesi umana l’infrastruttura della comunicazione cooperativa agisce inizialmente a supporto non del linguaggio ma del gesto deittico. Infatti, sebbene già a pochi mesi i bambini posseggano alcune delle capacità che consentono gli atti deittici, come la postura corretta della mano, è questa l’età più precoce a cui i bambini acquisiscono la capacità di comprendere i fini altrui e le informazioni, prerequisiti della motivazione informativa dell’additare, che ha luogo solo quando i bambini riconoscono gli altri come agenti intenzionali simili a loro. Solo dopo aver raggiunto questa fase e la capacità di creare un terreno. comune. con. le. persone,. il. bambino. inizia. a. indicare. comunicativamente. Molto importanti, specialmente nella fase di transizione al linguaggio, sono anche i gesti iconici che, a differenza dell’additare, sono rappresentativi e inducono gli altri ad immaginare delle cose. Alcuni studi sulla comunicazione gestuale infantile durante il secondo anno di vita (Iverson, Capirci, Caselli, 1994; Acredolo e Goodwyn, 1988) hanno condotto alla conclusione che i gesti non deittici catalogati sono quasi esclusivamente gesti convenzionali appresi per imitazione degli adulti, che vengono acquisiti e usati allo stesso modo delle convenzioni linguistiche. I bambini, dunque, apprendono entrambi i tipi di convenzione alla stessa età, il che significa che esse dipendono dalla. 11.

(12) medesima infrastruttura sociocognitiva. Gran parte dei gesti convenzionali sono iconici, ma non vi è la certezza che i bambini li usino consapevolmente. Essi vi ricorrono spontaneamente nel momento in cui possiedono capacità di imitazione, simulazione e finzione. In aggiunta agli elementi già citati che compongono l’infrastruttura necessaria all’interpretazione dei gesti deittici, quelli iconici creativi implicano anche una rappresentazione simbolica prodotta ai fini della comunicazione interpersonale. Probabilmente è questo il motivo per cui i bambini, nel secondo anno di vita, usano i gesti convenzionali molto meno dell’additare e i gesti iconici inventati spontaneamente ancora meno. Il gesto deittico, infatti, richiamando l’attenzione su entità presenti, risulta molto più semplice e naturale come mezzo di comunicazione. La somiglianza tra gesti convenzionali e iconici e convenzioni linguistiche è dimostrata dal fatto che nella fase in cui i bambini iniziano ad apprendere il linguaggio l’uso di tali gesti inizia a scemare, cosa che invece non accade per quelli deittici che vengono integrati nel processo di comunicazione. Nel corso del secondo anno di vita, dunque, molte delle prime comunicazioni complesse dei bambini sono frutto della combinazione di parole convenzionali e gesti deittici. Ciò dimostra che questi ultimi svolgono una funzione differente da quella della comunicazione linguistica, mentre i gesti iconici e convenzionali competono con il linguaggio per la stessa funzione (Ozcaliskan e GoldinMeadow, 2005). Tuttavia i bambini continuano a ricorrere ai gesti iconici per scopi non comunicativi, bensì a fini ludici, rappresentando simbolicamente entità assenti e azioni che non vengono realmente svolte. L’acquisizione delle convenzioni linguistiche avviene intorno al primo anno di vita, stessa età a cui si apprende la comunicazione gestuale. Tale sincronia evolutiva, secondo la teoria sociopragmatica dell’acquisizione del linguaggio dipende dall’uso sia dei gesti che del linguaggio nel medesimo contesto di intenzionalità condivisa, che emerge appunto tra i nove e i dodici mesi di età (Tomasello, 2009).. 12.

(13) Sebbene tutto il linguaggio infantile iniziale è acquisito in situazioni di routine con l’adulto, i bambini divengono subito capaci di imparare parole nuove in interazioni cooperative di ogni genere entro lo spazio del terreno comune. È questa la condizione necessaria: in assenza di una relazione sociale significativa con l’adulto che usa una convenzione linguistica in un contesto di intenzionalità condivisa, il bambino sentirà solo rumori provenienti da altre persone che non consentiranno di apprendere nulla. Le prime motivazioni dei bambini per comunicare linguisticamente sono uguali a quelle per indicare: informare, chiedere e condividere. Ciò non può che suggerire un’infrastruttura comune per gesti e linguaggio. 1.2 Le origini dello studio scientifico sulla CNV La comunicazione non verbale (CNV) raggruppa gli aspetti concernenti non solo il livello puramente semantico del messaggio all’interno di uno scambio comunicativo, ovvero il significato letterale del messaggio stesso, ma tutti quegli scambi che avvengono con modalità diverse da quella verbale, quindi ciò che passa per i canali motorio-tattile, chimico-olfattivo, visivo-cinestetico: dai comportamenti più manifesti come l’aspetto esteriore, la prossemica e i movimenti del corpo (busto, arti e capo) ad attività a volte meno evidenti, quali espressioni facciali e sguardo, comprendendo anche gli elementi paraverbali come le pause, i silenzi, gli intercalari, le intonazioni vocali che, pur accompagnando l’espressione delle parole, tradizionalmente sono inserite all’interno del repertorio dei segnali non verbali (Scelzi, 2010). Tale vastità rende la CNV universalmente comprensibile ma allo stesso tempo convenzionale, in quanto alcuni gesti, seppur simili, vengono rielaborati in maniera differente in base alla cultura d’appartenenza (Scelzi, 2010). Come molti studiosi hanno sottolineato non esiste una teoria unitaria della CNV o un’unica disciplina che si occupi dello studio dei suoi aspetti e delle sue funzioni.. 13.

(14) Lo studio della CNV ha radici differenti che si ritrovano in varie discipline scientifiche che, nel corso del loro sviluppo, si sono occupate dello studio dell’uomo e del suo modo di comunicare e relazionarsi. Già nel 1872 Darwin nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali discuteva delle origini biologiche e innate della comunicazione non verbale. Egli sottolineava che, mentre per il linguaggio verbale è assodata la componente culturale, per quanto riguarda i comportamenti comunicativi non verbali ciò non è del tutto scontato. Questo studio ha fornito molti stimoli per quelli successivi al fine di capire e spiegare alcuni comportamenti sociali sia dell’uomo che degli animali, partendo dall’evidenza dell’uso di parti anatomiche per il raggiungimento di obiettivi biologicamente e socialmente importanti quali la difesa del territorio, il procacciamento di cibo, l’accoppiamento, la dominanza nel gruppo, la sopravvivenza della specie. La prospettiva biologica sostiene, facendo riferimento ai lavori di Darwin (1872), che le espressioni non verbali abbiano origine innata, quindi non sarebbero influenzate dall’esperienza individuale ma facendo parte del bagaglio genetico, sarebbero comuni tra le varie culture e le diverse specie di animali. Tale teoria deriva dall’osservazione di espressioni facciali dei bambini di studi transculturali sulle espressioni delle emozioni e sul riconoscimento delle stesse e sui risultati di studi sul ruolo della comunicazione non verbale nell’organizzazione sociale dei primati (Tomasello et al. 1994, 1997; Call e Tomasello, 2007; Povinelli e Eddy, 1996; Liebal, Call, Tomasello, 2004). Molti comportamenti sociali dei primati risultano essere del tutto simili a quelli umani i quali, pur evolvendosi, hanno continuato ad essere utilizzati per gli stessi scopi. Inoltre alcuni segnali sociali non verbali, essendo innati, possono essere compresi a prescindere da differenze culturali e linguistiche. Tuttavia ciò non rappresenta una regola generale poiché è stato osservato come alcune. 14.

(15) espressioni non verbali possano essere programmate dal singolo individuo per precisi scopi relazionali (DePaulo, Friedman, 1998; Goffman, 1969). Tale scoperta ha suscitato numerosi interrogativi che sono alla base di successive ricerche: se le espressioni emotive abbiano unicamente scopo comunicativo o di altro tipo e se la manifestazione dell’emozione sia soggetta o meno ad autocontrollo. Esistono, infatti, segnali non verbali che sfuggono al controllo cosciente, quelli che Ekman e Friesen (1969) chiamano unaware, “inconsapevoli”. Se la prospettiva biologica è orientata a una concezione universalistica, quella antropologica offre spiegazioni del non verbale che sono culturalmente specifiche. Gli antropologi, infatti, puntano a dimostrare come i comportamenti non verbali siano maggiormente influenzati dall’orientamento culturale. Secondo tale prospettiva, quindi, l’origine della maggior parte dei comportamenti non verbali è culturale. I primi studi antropologici sulla CNV risalgono alla prima metà del Novecento. Efron (1941) iniziò ad approfondire la comune credenza che gli italiani e gli ebrei gesticolassero più dei nordeuropei. A seguito del fenomeno delle immigrazioni verso il Nord America studiò le comunità ebree e italiane negli Stati Uniti e notò che queste utilizzavano il linguaggio non verbale allo stesso modo dei popoli d’origine, dimostrando, così, l’influenza culturale sulle loro espressioni. Birdwhistell (1970), facendo un’analogia fra lingua e CNV sosteneva che nessun segnale non verbale avesse di per sé significato, se non inserito in un determinato contesto, così come per le parole. Contributo fondamentale a tali studi fu quello di Hall (1968), che si concentrò sulla relazione dell’uomo con lo spazio fisico analizzando le differenze culturali della distanza interpersonale 6.. 6 Hall studia il comportamento spaziale, l’occupazione dello spazio, definendolo «l’uso dello spazio dell’uomo, inteso come specifica elaborazione della cultura» (Hall, 1968: 7).. 15.

(16) Quest’ultima, che ha un valore notevole a livello sociale, può assumere significati differenti a seconda delle culture prese in esame. Osservando la classe media americana, Hall distinse quattro tipi di distanza: . Intima (da 0 a 45 cm circa, propria dei rapporti stretti come tra madre e bambino);. . Personale (da 45 a 120 cm circa, propria delle relazioni amicali);. . Sociale (da 120 a 360 cm circa, caratteristica delle relazioni formali);. . Pubblica (da 360 cm circa in poi, propria delle situazioni pubbliche). e sottolineò come lo stesso tipo di distanza assumesse in diverse culture differente significato. Ad esempio se le popolazioni di origine anglosassone permettevano solo alle persone con cui avevano un rapporto più confidenziale di accedere al proprio spazio intimo invece quelli di origine mediorientale permettevano il contatto fisico anche ad estranei. Hall spiegò come tale differente comportamento fosse la conseguenza di una diversa concezione che i due popoli hanno dell’Io: se gli occidentali lo considerano un tutt’uno di anima e corpo, per cui la vicinanza spaziale è da loro intesa come invasione dell’intera persona, invece gli orientali identificano l’Io con la sola anima che è custodita dentro il corpo, per cui tutto ciò che è esterno non viola il proprio spazio. Dunque, lo stesso comportamento non verbale può avere diverso significato sociale. L’approccio sociologico allo studio della CNV prende spunto dalle ricerche antropologiche e, a sua volta, influenza le indagini psicologiche. Gli studi dei sociologi partono dall’assunto che alcuni segnali non verbali hanno funzioni importanti nel gestire diverse regole sociali. Tale orientamento si basa sull’idea che esistano delle regole che governano il comportamento in particolari contesti e situazioni. Ogni cultura ha le proprie regole, sulla base delle quali possono essere spiegati i segnali non verbali. Le regole sociali si sviluppano all’interno della cultura di una società e sono ad essa funzionali. Goffman (1969) sostiene che i segnali non verbali abbiano un’ampia rilevanza nella definizione del mondo sociale e, quindi, nel processo di relazione.. 16.

(17) A tal proposito sottolinea come la scelta dell’abbigliamento e degli accessori da indossare sia finalizzata a comunicare agli altri una determinata immagine di sé. Questa osservazione rivela l’esistenza di segnali non verbali dotati di particolare significati culturalmente definiti e pubblicamente condivisi. Tuttavia è stato notato anche che all’interno della stessa cultura, lo stesso segnale non verbale può avere significati differenti in contesti sociali diversi. Infine vi è l’approccio psicologico allo studio della CNV che si distingue in due orientamenti fondamentali, ovvero quello della psicologia sperimentale e quello della psicologia sociale, sebbene anche la psicologia dello sviluppo, quella clinica e la psichiatria si siano dedicate allo studio del linguaggio del corpo. Gli studi, incentrati sull’osservazione delle espressioni facciali delle emozioni condividevano l’obiettivo di analizzare la codifica e la percezione dei segnali, le loro funzioni nell’interazione sociale e il loro ruolo rispetto ad alcune psicopatologie, come ad esempio la schizofrenia (Bateason, 1976). Se i vari studi sulla CNV si sviluppano supportando alternativamente l’innatismo o l’apprendimento, nella disputa tra le due teorie Morris (1982) propone una sorta di sintesi, infatti pur dichiarandosi a sostegno dell’apprendimento, esprime il suo punto di vista con queste parole: «questi, dunque, sono i quattro modi in cui noi acquistiamo modelli d’azione: per eredità genetica, per scoperta personale, per assimilazione sociale e per apprendimento deliberato. Ma […] molte azioni devono la loro forma adulta all’influsso di più di una di tali categorie» (1982: 21). 1.3 Le diverse forme di CNV L’uso di segnali non verbali è così frequente da rendere difficile la piena consapevolezza della loro funzione e del loro significato. Inoltre, a differenza del linguaggio verbale che si basa su un sistema di segni codificato e condiviso, i segni non verbali non seguono precise regole altrettanto diffuse e. 17.

(18) conosciute, sebbene ci siano stati tentativi di codificazione sistematica (Ekman e Friesen, 1969; Argyle, 1974). Tali segnali, costantemente presenti nella nostra espressione comunicativa, sfuggono tanto alla consapevolezza quanto all’intenzionalità dei parlanti, riducendo la prevedibilità del significato e, di conseguenza, la possibilità di interpretare la comunicazione non verbale. 1.3.1 Classificazione della CNV Sebbene la personalità dei partecipanti all’interazione, il contesto e la differenza culturale rendano difficile la codifica dei segni non verbali, l’uomo ricorre a vari tipi di CNV, ognuno dei quali ha una funzione precisa. Alcuni studiosi, quindi, hanno provato a classificare i comportamenti non verbali, concentrandosi ciascuno sul proprio ambito disciplinare e analizzando alcuni fenomeni piuttosto che altri in base alle finalità prefissate. Tra le diverse classificazioni esistenti in letteratura, quella proposta da Mastronardi (1998) prende spunto dalle ricerche di Ekman e Friesen (1969), avvicinandosi a quella classica di Argyle (1974). In essa gli elementi della comunicazione non verbale sono disposti idealmente secondo una scala (Fig. 1) che procede dall’alto verso il basso, spostandosi dal generale al particolare, dai segnali più manifesti a quelli meno evidenti e più mutevoli.. 18.

(19) Fig. 1 L’aspetto esteriore si può considerare una forma di comunicazione non verbale poiché fornisce importanti informazioni sugli individui, influenza la formazione. delle. impressioni. e. contribuisce. all’autopresentazione.. Comprende diversi elementi sintetizzabili in due componenti principali: la conformazione fisica e l’abbigliamento. La prima riguarda tutto ciò che è costituzionale del fisico della persona e, quindi, difficilmente modificabile: la corporatura, i lineamenti del volto, il colore degli occhi e della pelle. Sebbene tali elementi siano i primi ad essere percepiti, danno un’informazione solo superficiale. sulla. persona.. L’abbigliamento,. invece,. rappresenta. la. componente più mutevole e, oltre agli abiti, comprende: trucco, acconciatura, accessori. Sono questi i primi strumenti di presentazione di sé e di socializzazione che contribuiscono a definire l’identità sociale della persona e la sua appartenenza ad una categoria. Molte ricerche di psicologia hanno. 19.

(20) dimostrato quanto l’abbigliamento influisca sulle relazioni interpersonali, influenzando la percezione che l’interlocutore ha della persona con cui si rapporta. Il comportamento spaziale riguarda la collocazione nello spazio di un corpo e il modo in cui questo vi si muove all’interno, assumendo determinate posizioni rispetto agli oggetti e alle persone che lo circondano. Lo studio dei movimenti di un individuo nell’ambiente, del livello di contatto fisico o della distanza che intende stabilire tra sé e gli altri, della postura che assume e del suo comportamento territoriale può consentire di comprendere aspetti della personalità, stati emotivi, atteggiamenti interpersonali, norme, valori e condizionamenti culturali. L’uso dello spazio è fortemente condizionato da fattori culturali e socioemozionali, così come dalla struttura fisica dell’ambiente stesso. Gli elementi che comprendono il comportamento spaziale dell’uomo sono: la distanza interpersonale, il contatto corporeo, l’orientazione e la postura. Tali elementi hanno la funzione comunicativa di informare l’interlocutore delle proprie intenzioni e dei propri scopi relazionali. La distanza o vicinanza interpersonale è un segnale significativo dal punto di vista sociale, poiché chiarisce immediatamente il livello di intimità tra gli interlocutori e le loro intenzioni: avvicinarsi a una persona può indicare la volontà di interagire così come, al contrario, allontanarsi indica l’interruzione della conversazione. Tuttavia non vi è una regola universale che regola la gestione della distanza, in quanto questa può essere imposta dal contesto in cui avviene l’interazione. Basti pensare all’inevitabile vicinanza di estranei all’interno di un ascensore. In questi casi è frequente il ricorso ad espedienti come l’evitare il contatto visivo per aumentare almeno la distanza psicologica con l’altro. Connesso alla distanza interpersonale è il contatto corporeo, totale assenza di distanza interpersonale. Ci sono varie forme di contatto corporeo la cui frequenza e intensità dipendono dal grado di intimità, dal luogo pubblico o privato, dalle differenze interculturali.. 20.

(21) Il contatto corporeo ha varie funzioni, ad esempio di supporto nelle relazioni affettive o di coinvolgimento quando viene utilizzato per richiamare l’attenzione del proprio interlocutore. Inoltre, anch’esso fornisce informazioni sul tipo di legame esistente fra le persone; rappresentando un’invasione dello spazio personale dell’altro respingere un contatto corporeo con un’altra persona che al contrario è intenzionata ad instaurarlo, diventa un atto non verbale che assume una grande carica comunicativa. Altri comportamenti spaziali sono: l’orientazione, che è il modo delle persone di orientarsi l’una rispetto all’altra (solitamente le orientazioni assunte sono “fianco a fianco”, più intima e “faccia a faccia”, più formale) e la postura, ovvero la posizione del corpo che, più o meno consapevolmente, viene assunta dal soggetto in relazione sia al contesto che all’interlocutore. Le principali sono: eretta, distesa, rannicchiata e in ginocchio. Entrambi contribuiscono a fornire informazioni riguardo i rapporti di gerarchia esistenti tra le persone. A tal proposito Mehrabian (1972) ha svolto delle ricerche che hanno dimostrato l’esistenza di una relazione fra postura e attività svolta: ad esempio è stato osservato che l’oratore assume una postura eretta davanti al suo uditorio, mentre il commerciante è più chinato verso il cliente. Interessante è anche lo studio di Ekman e Friesen (1969) i quali hanno approfondito la postura in relazione allo stato emotivo, concludendo che essa sia indicativa dell’intensità dell’emozione provata più che del tipo di emozione. Il comportamento cinesico riguarda i movimenti del corpo (busto e gambe), i gesti delle mani, comprensivi anche dei movimenti delle braccia e infine i movimenti del capo. Essi comunicano svariate informazioni, soprattutto relative ai contenuti verbali, quando si utilizzano insieme al parlato. Tra i segnali non verbali sono quelli maggiormente influenzati dal contesto sociale e dalla cultura. Uno dei maggiori contributi allo studio di tali movimenti è stato dato da Birdwhistell (1970), a cui si deve l’introduzione del. 21.

(22) termine “cinesica”. Egli, prendendo in esame dei soggetti nordamericani, ha individuato e descritto una serie di unità di comportamento, che ha chiamato “cinemi”, i quali comprendono i movimenti del corpo che costituiscono il movimento cinesico. Kendon (1970), invece, grazie ai suoi studi ha potuto evidenziare che spesso due o più interlocutori nel corso della loro interazione tendono ad imitarsi l’un l’altro: quando uno dei due si muove, lo fa anche l’altro e lo stesso accade di fronte ad un cambio di direzione dei movimenti. I gesti delle mani e delle braccia sono movimenti realizzati all’interno di un’ideale semisfera che si trova di fronte al soggetto parlante e costruita dall’incrocio di tre assi: parlante-esterno, destro-sinistro, alto-basso. Tale è lo spazio del discorso del parlante. I movimenti delle mani costituiscono il comportamento non verbale maggiormente legato al parlato, accompagnando il discorso in modo evidente. Proprio per questo motivo, seguono le regole della lingua e della cultura di riferimento. Uno dei primi ad occuparsi del comportamento gestuale in culture diverse è stato Efron (1941) che, grazie allo studio già citato sui comportamenti di gruppi culturali diversi (ebrei e italiani immigrati a New York), finalizzato a verificare l’esistenza di differenze comportamentali oltre che linguistiche, ha dimostrato non solo la specificità culturale di alcuni aspetti della CNV ma anche l’universalità di molti elementi della lingua. Numerose e differenti sono le definizioni di “gesto” in letteratura. Se Morris (1982) individua l’intenzionalità come elemento discriminante, molti altri autori come Ekman, Friesen, Poggi, confutano questa teoria ricordando che spesso il comportamento non verbale si manifesta in modo non del tutto consapevole. Tra le varie classificazioni dei gesti delle mani una delle più note e quella di Ekman e Friesen (1969) che si basa su tre criteri: . Uso – esso si riferisce alle circostanze esterne che possono coincidere con il gesto, inibirlo, causarlo, al tipo di relazione con il parlato, al. 22.

(23) grado di consapevolezza di chi compie il gesto, all’intenzionalità di comunicare, al tipo di informazione trasmessa dal gesto; . Origine – si riferisce alla motivazione che ha reso il gesto parte del repertorio non verbale della persona: gesto come risposta della specie umana a stimoli esterni, gesto appreso perché comune a tutti i membri della specie o appreso in specifici gruppi, comunità, culture;. . Codificazione – è la corrispondenza di uno o più gesti con il proprio significato.. In base a questi criteri i due studiosi propongono cinque categorie di gesti:  Gesti emblematici. Sono gesti essenzialmente convenzionali perciò facilmente comprensibili anche da parte di interlocutori appartenenti a culture differenti, come per esempio agitare la mano per salutare. Essi sono indipendenti e possono anche fungere da espressione comunicativa sostituendo il linguaggio verbale all’interno di una conversazione. Per tale caratteristica Kendon li definisce “autonomi”;  Gesti illustratori. Sono strettamente legati al discorso, di cui illustrano o chiariscono il contenuto. Possono indicare relazioni spaziali o delineare le forme degli oggetti durante la conversazione. McNeill li chiama “representational gestures”;  Segni regolatori. Comprendono tutte quelle azioni che regolano o modificano l’andamento della comunicazione. Sono principalmente cenni del capo, sguardi, micromovimenti che spesso compiamo automaticamente e inconsapevolmente;  Espressioni dell’emozione. Sono soprattutto espressioni del volto che esprimono emozioni primarie;  Gesti adattatori. Per lo più inconsapevoli, sono gesti appresi durante l’infanzia per soddisfare bisogni. Sono distinti in tre categorie: gesti che riguardano la manipolazione del proprio corpo (es. grattarsi), gesti centrati sull’altro, nello specifico lo scambio di oggetti o il contatto fisico. 23.

(24) con un’altra persona (es. passare qualcosa, toccare la spalla dell’altro), gesti centrati sull’oggetto e sul contatto diretto con esso (es. giocare con la penna). Tutti i gesti sopra indicati non sono direttamente coinvolti nella conversazione, piuttosto sono rivelatori dello stato d’animo degli autori (ansia, disagio, agitazione, paura) e del suo modo di adattarsi alla situazione. Tuttavia i gesti non possono essere considerati come appartenenti ad un’unica categoria data la loro natura multifunzionale. McNeill (1992), ritenendo che sia errato considerare la componente gestuale come un canale espressivo indipendente da quello verbale, propone un’altra classificazione, basata sull’analisi contestuale di verbale e non verbale, che prende in considerazione solo i movimenti delle mani e delle braccia che accompagnano l’esposizione linguistica, rispetto ai quali presentano un parallelismo semantico. Di conseguenza tali gesti non sono interpretabili in assenza di parlato 7. Il criterio che McNeill utilizza fa riferimento alla collocazione dei gesti all’interno del discorso, per cui si dividono in: gesti proposizionali (appartenenti al processo di ideazione) e gesti non proposizionali (caratterizzanti l’attività discorsiva). Nella prima categoria rientrano gesti che rappresentano diversi tipi di referenti linguistici, appartenenti al mondo concreto (oggetti), astratto (idee), elementi del contesto in cui il soggetto si trova (collocazione spaziale). Questi tre sottogruppi sono rispettivamente:  Iconici. Ripropongono qualche aspetto concreto del contenuto semantico (es. creare con il movimento di mani e braccia la forma di un oggetto contenuto nel discorso); La relazione fra gesto e linguaggio secondo McNeill è dimostrata da vari fattori, primo fra tutti la sincronia temporale. Il gesto può essere suddiviso in prestroke, stroke e poststroke; lo stroke è eseguito in perfetta contemporaneità al segmento linguistico cui si riferisce semanticamente. L’onset del gesto, o la sua preparazione, è molto importante, in quanto è da questo momento che l’unità rappresentazionale dell’idea inizia a prendere forma; nella preparazione la mano si pone nella posizione per effettuare lo stroke. 7. 24.

(25)  Metaforici. Tentano di concretizzare con una precisa forma fisica concetti astratti (es. stringere il pugno quando si parla di forza);  Deittici. Gesti “puntatori” prodotti con le mani. Indicano entità realmente presenti nell’ambiente fisico (es. un oggetto) o solo idealmente (es. il dito in alto per indicare il Nord). Al secondo gruppo dei gesti, invece, appartengono i:  Beats (“colpi”). Sono gesti ritmici: colpi delle mani su o giù, indietro o avanti, che vengono utilizzati per enfatizzare il discorso o conferire ritmo ad esso;  Gesti coesivi. Partecipano all’espressione del contenuto del discorso marcandone coesione e coerenza. Generalmente sono ripetuti più volte e all’interno dello stesso spazio gestuale e compaiono nel repertorio gestuale intorno ai 7-9 anni di età 8. Un’ulteriore classificazione è proposta dal gruppo Bonaiuto, Gnisci, Maricchiolo (2002) i quali, riassumendo quelle di Contento (1996) e Bavelas et. al. (1995), individuano due macrocategorie:  Gesti connessi al discorso. Esistenti solo in presenza di un discorso che tendono a chiarire. Essi comprendono i gesti emblematici descritti da Ekman e Friesen e quelli proposizionali di cui parla McNeill, con la relativa distinzione fatta da Contento.  Gesti non connessi al discorso. Si riferiscono agli adattatori di Ekman e Friesen, ovvero quei gesti che possono essere eseguiti anche durante il parlato ma non vi sono strettamente connessi, né dal punto di vista strutturale, né contenutistico. Infine Poggi e Magno Caldognetto (1997) suddividono i gesti coverbali in:  Simbolici. Gesti culturalmente condivisi;. Tali conclusioni si devono agli studi di Contento (1996). L’autrice, sulla base di osservazioni condotte su soggetti che raccontavano ad un interlocutore il contenuto di un brano appena letto, ha sviluppato un sistema di sottocategorie dei gesti coesivi che si riferiscono alla forma assunta dalle mani e al movimento (chele, matassa, telaio, stella, mulinello, pennello, pinza). 8. 25.

(26)  Mimici. Rappresentativi della parola che si intende dire o dell’azione;  Pantomimici. Vengono costruiti per assomigliare al significato. Immaginando l’oggetto e le sue caratteristiche fisiche che lo accomunano ad altri oggetti o eventi, sono proprio queste ultime ad essere mimate (es. fare le ali di un uccello con le mani);  Pittografici. Gesti che descrivono la forma e le dimensioni caratteristiche del referente;  Deittici. Collocano oggetti e persone nello spazio;  Puntualizzatori. Precisano ciò che è detto verbalmente;  Batonici. Movimenti fatti con la mano o l’avambraccio. Il loro ritmo corrisponde alla prosodia 9 del parlato;  Illustratori. Utilizzati per illustrare quello che il parlante sta dicendo, per mezzo di forme disegnate nell’aria o del modo (rigoroso o delicato) con cui le mani si muovono;  Spaziografici. Gesti che indicano il luogo in cui normalmente il referente si trova, anche se non è presente. Per ciò che concerne i movimenti del capo e, quindi, la sua orientazione, la maggior parte degli studi che se ne sono occupati, tendono a metterli in relazione all’attenzione di un individuo rispetto ad un altro o ad un oggetto.. Il termine “prosodia” sta ad indicare una serie di fenomeni tradizionalmente definiti prosodici o soprasegmentali (in quanto interessano più di un segmento fonico): l’accento, il ritmo, il tono e l’intonazione. Essi partecipano direttamente alla dinamica comunicativa. L’accento è l’elemento cardine intorno al quale gravita l’organizzazione ritmica della lingua ed è caratterizzato essenzialmente dalla differenza di volume di una vocale o di una sillaba rispetto alle altre. Il ritmo, presente in tutte le lingue, è determinato dalla successione ordinata e alternata di sillabe accentate (o forti) e sillabe atone (o deboli). La struttura ritmica di una lingua dipende dalle specifiche modalità con cui elementi forti e deboli si succedono nel parlato. La variazione di altezza tonale (o melodica) con cui è realizzato uno stesso elemento lessicale è alla base della distinzione fra lingue tonali e lingue accentuali. Per intonazione si intende l’andamento melodico dell’enunciato. Essa contribuisce alla caratterizzazione sintattica, semantica e pragmatica del messaggio linguistico, ma può svolgere anche una funzione paralinguistica, concernente quegli aspetti appartenenti alla sfera dell’emotività e dell’espressività. Dal punto di vista fonetico, la melodia si deve alle variazioni di altezza tonale con cui sono realizzati i suoni, che pertanto risultano più acuti o più gravi. (Sorianello P., 2011). 9. 26.

(27) Il volto possiede oltre venti muscoli molto contrattili, la maggior parte dei quali è localizzata nella fronte e intorno agli occhi. Pertanto queste diverse contratture generano espressioni diverse del volto, nonché una diversa direzione dello sguardo. Ciò rende complesso lo studio delle espressioni del viso, considerando la rilevanza delle informazioni trasmesse dallo sguardo. Quest’ultimo rappresenta uno dei più importanti segnali comunicativi a livello non verbale. Durante un’interazione viene attivata un’ampia regione cerebrale per la ricezione e la trasmissione di informazioni e viene fatto un largo uso di sguardi reciproci, i quali forniscono precise informazioni riguardo la presentazione di sé, le emozioni provate 10, le relazioni di dominanza e status. Lo sguardo è, inoltre, un potente segnale per cercare di ottenere consenso e può essere utilizzato anche come arma di seduzione. L’essere guardati troppo a lungo, invece, può essere percepito come un segnale di minaccia. Alcuni studi sul comportamento visivo durante le interazioni sociali hanno individuato una relazione fra il tipo di orientamento dello sguardo e il tipo di relazione interpersonale dei partecipanti. Ne è emerso che sguardo e simpatia reciproci sono direttamente proporzionali: tendiamo a guardare più a lungo e più spesso le persone che ci piacciono piuttosto che quelle che non ci piacciono. Nel corso di un dialogo lo sguardo regola l’alternanza dei turni, segnala l’intenzione di prendere la parola e comunica la conclusione del discorso. Esistono poi delle differenze culturali nell’uso dello sguardo, ad esempio i popoli nordeuropei e giapponesi tendono ad evitare di guardare in modo prolungato gli interlocutori, mentre nelle culture latine o arabe lo sguardo prolungato è sinonimo di interesse.. È soprattutto attraverso le variazioni e la frequenza degli sguardi che si trasmettono indizi relativi alla loro intensità: le emozioni positive, come gioia o tenerezza, sono caratterizzate da una maggior frequenza di sguardi, mentre quelle negative, quali il disgusto o l’imbarazzo, prevedono uno spostamento dello sguardo. 10. 27.

(28) Le espressioni del volto, per la grande variabilità che le caratterizza, costituiscono il canale privilegiato per la manifestazione delle emozioni. Ekman (1982) ritiene che tutte le fondamentali emozioni dell’uomo si manifestino a livello di mimica facciale in modo nettamente riconoscibile. Nonostante le ricerche in quest’ambito differiscano per le metodologie utilizzate, tutti gli studiosi concordano sull’esistenza di sei emozioni fondamentali: felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera e disgusto. Un aspetto importante del dibattito sulle espressioni facciali delle emozioni riguarda la loro natura, ovvero se siano innate oppure apprese. I risultati di alcuni esperimenti di Ekman e Friesen sostengono la teoria dell’universalità e, quindi, dell’innatismo. Un’espressione del volto piuttosto rilevante dal punto di vista comunicativo è il sorriso, che Ricci Bitti e Cortesi (1977) definiscono come un’espressione facciale indicante aspetti positivi (felicità, tenerezza, piacere, disponibilità verso l’altro). Molteplici ricerche sono state dedicate allo studio degli stimoli che provocano il sorriso. Numerosi autori sono concordi sull’esistenza di fasi evolutive del sorriso: . Sorriso riflesso (nei primi mesi di vita). Non nasce da precisi stimoli. visivi ma anche da un semplice cambiamento di luminosità; . Sorriso sociale (tra il terzo e il settimo mese). I principali stimoli che lo. generano sono i volti umani; . Sorriso sociale selettivo (dopo il settimo mese). È generato solo in. presenza di alcuni individui selezionati; . Reattività sociale differenziale (continua per tutta la vita). Compare. soprattutto in presenza di persone note. Per quanto riguarda il sorriso dell’adulto Ekman e Friesen (1982) hanno distinto tre tipi di sorriso: quello spontaneo, che coinvolge tutto il volto con il sollevamento degli angoli della bocca e la contrazione dei muscoli orbicolari; il sorriso simulato, che coinvolge solo i muscoli zigomatici; il sorriso. 28.

(29) “miserabile”, che risulta forzato, infelice e coinvolge la zona inferiore del volto. Il sorriso è considerato un facilitatore delle relazioni: annulla la minaccia competitiva e dichiara disponibilità verso gli interlocutori. Il sorriso, così come la maggior parte delle espressioni facciali, partecipa attivamente agli scambi interpersonali fornendo un commento alle espressioni verbali. Funge, ad esempio, come segnale di conferma della comprensione di un messaggio e di approvazione. I segnali vocali costituiscono un altro aspetto della CNV. Durante una conversazione le persone fanno uso, oltre che del linguaggio verbale, anche di una serie di elementi non propriamente linguistici che sono in parte indipendenti dalle parole pronunciate. Anche in questo caso le classificazioni sono numerose e si differenziano in base alle caratteristiche ritenute più rilevanti dagli studiosi che le propongono. Quella fornita da Argyle (1992) prevede una suddivisione tra segnali vocali connessi al discorso (verbali) e quelli indipendenti dal discorso (non verbali) che esprimono, invece, atteggiamenti, emozioni e qualità personale della voce. I segnali vocali verbali riguardano le proprietà transitorie che accompagnano la pronuncia dell’enunciato linguistico. Di natura provvisoria, tendono a modificarsi a seconda del contesto comunicativo e del significato semantico che si vuole trasmettere parallelamente a quello linguistico. Per Anolli (2002) i tre parametri che modificano la voce dando un diverso valore al messaggio trasmesso sono:  Tono. Varia a seconda della maggiore (tono acuto) o minore (tono basso) tensione delle corde vocali. Mutando frequentemente durante il discorso, fornisce un accento interpretativo all’enunciato;  Intensità. È il volume della voce (forte o debole) che ha la funzione di enfatizzare alcuni elementi del discorso rispetto ad altri;. 29.

(30)  Velocità. Dipende dal numero di sillabe pronunciate al secondo e dalla lunghezza delle pause all’interno del discorso. I segnali vocali non verbali riguardano la qualità della voce della persona. Essa permette di differenziare un individuo da un altro e di riconoscere una voce familiare in mezzo alle altre. Anolli distingue quattro fattori principali che influenzano gli aspetti vocali non verbali: biologici, che riguardano principalmente le differenze di genere e età; sociali, connessi alla cultura di origine della persona, alla regione di provenienza e allo status d’appartenenza; di personalità, connessi ai tratti psicologici permanenti della persona, come il temperamento e, infine, emotivi, riguardanti tratti psicologici transitori, legati a stati d’animo dettati dalla situazione. Tra i segnali vocali troviamo anche il silenzio, uno strumento potentissimo di comunicazione, data la sua ambiguità e la sua interpretazione fortemente legata ad altri segnali non verbali, al tipo di relazione, alla situazione comunicativa, alla cultura di riferimento. I primi studi sul silenzio e sul suo ruolo all’interno dell’interazione sono iniziati con Goldman-Eisler (1968), la quale ha ipotizzato che le pause siano funzionali al parlante per la pianificazione delle espressioni verbali. Le pause lunghe (fase “esitante” della conversazione) coincidono con la pianificazione cognitiva del discorso, quindi precedono l’esposizione di una maggiore quantità di informazioni e di enunciati più complessi che saranno poi espressi successivamente (fase “fluente”) con il ricorso a pause di silenzio brevi o del tutto assenti. Sacks, Schegloff e Jefferson (1974), hanno sviluppato una classificazione del silenzio all’inizio della conversazione distinguendo: . la pausa interrotta quando un parlante prende il turno, chiamata gap,. la quale è tipica della conversazione continua; . il silenzio, in cui nessun parlante prende il turno, definito lapse, tipico. della conversazione discontinua; . il silenzio, interno a un turno o che denota un ritardo di un parlante nel. rispondere a una domanda, a una richiesta o a un saluto, definito pause.. 30.

(31) Il silenzio può avere la funzione di attirare l’attenzione o di stimolare la riflessione, ma anche di ammonire, minacciare, dare consenso, esprimere forti emozioni (Meneghini, Maroni, 1999). In ogni caso va interpretato sempre in relazione alla cultura d’appartenenza, al contesto in cui si manifesta e agli altri segnali non verbali a cui si accompagna. 1.3.2 Segnali di accentuazione e segni-guida I segnali di accentuazione sono azioni che enfatizzano il ritmo delle parole, indicando i punti focali del discorso. Ognuno viene eseguito con la mano in una particolare posizione, che varia in base alla circostanza, alla persona e alla cultura di appartenenza. Sono questi mutamenti di postura la cosa particolarmente interessante. Morris (1982) descrive le principali tipologie (Fig. 2):. Fig. 2. 31.

(32) 1. La presa di precisione a vuoto. Vengono utilizzate le punte del pollice e dell’indice (come quando stringiamo delicatamente oggetti piccoli) per sottolineare la sottigliezza dell’argomentazione, indicando l’intenzione del soggetto di esprimersi con grande esattezza. Esistono due versioni molto diffuse della presa di precisione a vuoto: «la borsa» in cui tutti e cinque i polpastrelli sono riuniti in uno stretto cerchio, e «l’anello» in cui il contatto si verifica solo tra indice e pollice. 2. La presa di precisione in intenzione. La mano esegue il gesto di intenzione di afferrare un piccolo oggetto imaginario ma non lo completa del tutto, per cui pollice e indice non si toccano. Ciò rivela la ricerca di precisione da parte del parlante, non ancora raggiunta per la presenza di qualche incertezza. 3. La presa di potenza a vuoto. In questo caso è l’intera mano ad eseguire l’azione che si esprime con «la mano chiusa» o «il pugno stretto». Se la prima postura non indica né precisione di pensiero né forza, la seconda è sinonimo di vigore e determinazione. 4. La presa di potenza in intenzione (intesa anche come «stretta dell’aria»). Data dalle dita allargate e lievemente piegate è propria di chi sta cercando di conseguire il controllo della situazione ma non vi è ancora riuscito. 5. Il colpo a vuoto. La mano agisce come uno strumento per tagliare, pugnalare, colpire l’aria. Essa può assumere la forma di «ascia», con le dita unite e rigide, manifestando l’aggressività dell’oratore che vuol imporre le proprie idee, ma anche di «forbici», incrociando gli avambracci per poi riaprirsi verso l’esterno, ad indicare l’opposizione del soggetto ad una barriera ostile. Infine, «la pugnalata», anch’essa manifestazione di aggressività diretta contro un preciso interlocutore, è data dalle punte delle dita che vengono spinte violentemente verso di lui e «il pugno all’aria» che, per la brutalità che lo caratterizza, non lascia dubbi sullo stato d’animo del parlante. 6. La mano tesa. In questo caso le diverse sfumature assunte dal gesto sono determinate dalla direzione del palmo: sarà in su per implorare. 32.

(33) l’ascoltatore di essere d’accordo; in giù per controllare e soffocare lo stato d’animo dominante; in fuori per proteggere il soggetto dalla protesta di chi gli sta di fronte; in dentro (solitamente è un gesto eseguito con entrambe le mani) per abbracciare un’idea e contenere il concetto; di lato, tipica del negoziatore, per indicare la volontà del soggetto di superare la frattura con l’altro e di raggiungere la riconciliazione. 7. Il contatto in intenzione. Con le dita allargate a raggio e protese verso l’uditorio, il parlante vuole metaforicamente toccare gli ascoltatori. 8. Le mani unite. Indicano l’atteggiamento di chi, ansioso e insicuro per la tensione della situazione in cui si trova, pur volendo comunicare con gli altri, soffoca l’impulso a enfatizzare un punto del proprio discorso “tenendosi” le mani. 9. Indice teso. Tale postura è diffusa i due varianti: «l’indice puntato» verso l’ascoltatore, dichiarando ostilità e dominio nei suoi confronti, o l’oggetto in discussione, per enfatizzarne l’importanza; e «l’indice alzato», ammonitore e pronto a sferrare un colpo simbolico. 10. Segnali di accentuazione della testa. Piccoli movimenti verso il basso seguiti da movimenti di ritorno, con valore assertivo. 11. Segnali di accentuazione del corpo. Spinta del corpo analoga all’azione di abbassamento della testa. Eccessivamente accentuata indica il totale coinvolgimento del parlante nel suo ruolo di comunicatore. 12. Segnali di accentuazione dei piedi. È l’atto di «pestare i piedi» che, connesso alla violenta enfasi del soggetto che sfiora l’ira, viene udito oltre che visto. Sebbene tale classificazione sia estremamente realistica, tuttavia non costituisce la regola, dato che ognuno di noi tende a sviluppare preferenze personali per alcuni tipi di segnali di accentuazione che tenderà a utilizzare più frequentemente. Inoltre lo stile privilegiato è comunque soggetto a variazioni dettate dal contesto e dallo stato d’animo. Ad esempio, a differenza di un. 33.

(34) cinico, un entusiasta volendo rendere partecipe gli altri delle sue emozioni, sente un forte bisogno di enfatizzare ogni elemento che considera importante e, in base alla reazione dell’uditorio aumenta o riduce la frequenza e l’intensità dei suoi segnali di accentuazione. I segni-guida sono gesti che servono a mostrare la direzione. Sono dunque indicazioni che dirigono l’attenzione di chi guarda o i suoi reali movimenti. Il più semplice dei segni-guida è l’«indicare col corpo», azione che spesso viene effettuata accidentalmente. Un esempio di tale situazione è l’incidente stradale: solitamente piccoli gruppi che circondano le persone coinvolte si trasformano rapidamente in una folla, la cui attenzione è attirata dalla posizione dei corpi girati verso l’interno. Mentre le forme più diffuse di segniguida intenzionali sono l’«indicare con l’indice» e l’«indicare con la mano», il primo solitamente utilizzato per mostrare la posizione di qualcosa o la meta da raggiungere, il secondo per spiegare il percorso che bisogna fare per arrivarvi. Maggiore è la distanza da percorrere, maggiore sarà l’inclinazione dell’indice. Il «salto dell’indice», utilizzato soprattutto in Italia e in Grecia, fornisce invece un’indicazione temporale: ogni salto in avanti compiuto dal dito quasi a voler tracciare un arco immaginario indica un giorno dopo oggi. Frequente è anche l’atto del «puntare il pollice» in alto o in basso. L’errata interpretazione di alcuni scritti di epoca romana avevano fatto coincidere rispettivamente i due gesti con la vita e la morte. All’epoca, infatti, quando un gladiatore veniva sconfitto nell’arena, poteva essere ucciso o risparmiato dal vincitore, la cui decisione era influenzata dalla volontà del pubblico che si esprimeva con la posizione del proprio pollice. Tuttavia il riesame degli scritti ha portato alla conclusione che il presunto pollice alto era in realtà un «pollice coperto», ovvero nascosto tra le altre dita chiuse, mentre il pollice in basso era effettivamente il «pollice verso». Tuttavia oggi il pollice alto e basso vengono rispettivamente ad indicare favore («OK») o disapprovazione.. 34.

(35) Il pollice viene anche utilizzato per indicare la direzione alle spalle del parlante, quando questo è impossibilitato a girarsi e ad indicarla con l’indice (come nel caso del vigile). Oltre che per fornire indicazioni i segni-guida sono utilizzati come forma di richiamo. Il «richiamo con la mano» si può indifferentemente effettuare con il palmo rivolto verso l’alto o verso il basso, l’elemento caratterizzante è il movimento delle dita le quali, escluso il pollice, si aprono e si chiudono. Il «richiamo con l’indice» è molto meno diffuso del precedente e racchiude solitamente una sfumatura di sarcasmo e di sfida. Per dare al gesto un senso di maggiore urgenza si usa spesso un completo movimento del braccio. Infine vi è il «richiamo con la testa» usato generalmente quando non si possono utilizzare le mani. Nel loro insieme tutti i segnali descritti confermano la varietà gestuale di cui l’uomo dispone, che gli consente di esprimersi con estrema precisione. 1.3.3 Funzioni della CNV I comportamenti non verbali all’interno dell’interazione assumono diverse funzioni, sia per chi li produce per comunicare un messaggio, sia per chi li percepisce e li utilizza per interpretarlo. Anche per la CNV, come per la comunicazione verbale, esiste una codificazione da parte dell’emittente e una decodificazione da parte del destinatario. Tuttavia l’assenza nella CNV di codici universalmente condivisi che regolino i due processi è spesso causa di un’errata interpretazione delle informazioni condivise. Tale problematica ha portato alcuni studiosi a sostenere che non tutti i comportamenti non verbali sono considerabili comunicativi, ma solo quelli che nascono con intenzione comunicativa. Tuttavia la comunicazione può avvenire, oltre che senza intenzione, anche senza consapevolezza cosciente, sia dell’emittente che del ricevente. Ciò rende l’osservazione della CNV fondamentale per gli studi sull’interazione sociale (Bull, 2002). Essa oltre a. 35.

(36) completare le espressioni verbali e favorirne l’interpretazione, suggerisce il tipo di rapporto interpersonale esistente tra i parlanti, regola l’interazione gestendo i turni nella conversazione, comunica emozioni, favorisce la presentazione di sé agli altri e può anche sostituirsi alla comunicazione verbale in situazioni che non la consentono. Un’altra funzione importante della CNV, solitamente attribuita alla comunicazione verbale, è quella di persuadere il proprio interlocutore, esercitando su di lui un’influenza sociale. Spesso, infatti, per raggiungere lo scopo di portare un individuo a svolgere un compito o ad accettare un’idea, il canale non verbale risulta essere più efficace in quanto meno diretto ed esplicito. Tuttavia l’abbigliamento, la postura, l’uso di un più ampio spazio personale, una mimica facciale pronunciata, lo sguardo prolungato, l’aumento del tono di voce, l’articolazione chiara delle parole, l’assenza di pause ed esitazioni, sono tutti segni di uno stile dominante. Ruolo sicuramente rilevante è quello della gestualità che accompagna l’esposizione verbale, come dimostrano gli studi sulla relazione fra gesti delle mani e persuasione nell’ambito della comunicazione politica e dell’oratoria (Heritage e Greatbatch, 1986; Atkinson, 1984; Argentin, Ghiglione, Dorna, 1990). Burgoon, Birk e Pfau (1990), ad esempio, hanno notato l’effetto positivo dei gesti illustratori, che andrebbero ad accrescere la credibilità del parlante. Dunque, quando il comportamento non verbale è congruente con il contenuto del messaggio, ne rinforza la persuasività.. 1.4 Metodi e tecniche di ricerca nello studio della CNV Come per ogni settore di studio, anche per la CNV la ricerca nasce dalla volontà di trovare risposte a delle domande, quindi confermare o confutare ipotesi da esse generate. In particolare la ricerca sulla CNV si concentra sui processi di codifica e decodifica di un messaggio, ovvero sul modo in cui. 36.

(37) l’emittente utilizza i segnali non verbali per inviare dei contenuti e sul modo in cui il ricevente percepisce e usa quegli stessi segnali al fine di interpretarli. Nel primo caso si utilizza principalmente l’osservazione: una volta selezionati i partecipanti alla ricerca, questi vengono sottoposti a particolari stimoli di natura sociale per poi registrare le reazioni comportamentali di tipo non verbale. L’obiettivo è osservare come, in particolari situazioni, le persone codifichino emozioni, atteggiamenti, relazioni sotto forma di segnali non verbali. Un metodo molto utilizzato in psicologia sociale è la simulazione di situazioni interattive in laboratorio. Un altro metodo per studiare il comportamento non verbale è l’osservazione naturalistica, condotta in un setting naturale senza alcun tipo di manipolazione. Se quest’ultimo consente al ricercatore di trovarsi di fronte a comportamenti molto più spontanei, tuttavia questi risultano meno controllati rispetto a quelli osservati in laboratorio. La tecnica privilegiata è l’osservazione sistematica: l’osservatore associa, tramite un sistema di categorie, i segnali non verbali a determinati eventi interattivi sulla base di esplicite regole di codifica. Generalmente le interazioni e i comportamenti sociali oggetto di studio vengono audio-videoregistrati, consentendo al ricercatore di rivedere più volte anche al rallentatore le sequenze di movimenti ritenute rilevanti e di condividere il fenomeno osservato con altri studiosi. Esistono, inoltre, sistemi automatizzati molto efficaci per la gestione dei dati raccolti, ovvero per l’esecuzione di analisi statistiche e la rappresentazione dei risultati in grafici. Per ciò che concerne la decodifica si ricorre per lo più a interviste e questionari riguardanti il tipo di percezione che i partecipanti allo studio hanno avuto degli stimoli loro presentati, che il più delle volte sono persone, complici. degli. sperimentatori,. addestrate. ad. assumere. particolari. comportamenti non verbali in situazioni simulate. L’obiettivo è capire come i soggetti decodifichino tali segnali non verbali.. 37.

(38) CAPITOLO 2. STRATEGIE COMUNICATIVE DELLA GUIDA TURISTICA «Il viaggio è l’anima della civiltà». Zora Neal Hurston. 2.1 Il turismo “Per turismo si intende l’attività di chi si rechi e soggiorni in luoghi diversi da quello in cui risiede abitualmente per non più di un anno consecutivo a scopo ricreativo, d’affari o altro. Questo settore multiforme coinvolge molte persone e riguarda numerose attività economiche differenti” 11. In questa definizione ufficiale dell’Unione europea sono racchiuse le caratteristiche fondamentali di un settore articolato, trasversale e dinamico che rappresenta una delle principali attività economiche a livello mondiale e incide notevolmente sulla crescita economica e sul livello di occupazione di un determinato Paese. Articolandosi in numerose e svariate attività (artigianato, trasporti, alberghi, musei, manifestazioni artistiche e culturali, agenzie di viaggi, pubblici esercizi e tanto altro) il turismo ricopre un ruolo primario anche nella ridistribuzione del reddito nazionale (Giordana, 2004). Il turismo non è sempre esistito, è un prodotto della modernità, in primo luogo sotto il profilo cronologico: il passaggio dal “viaggiatore individuale” al “turista della società di massa” prende forma, infatti, nella seconda metà del XIX secolo, quando si assiste a una progressiva “democratizzazione” dell’esperienza turistica e alle prime forme di turismo “di massa” che interessano la classe operaia in zone altamente industrializzate (Urry, 1995: 7).. 11 Commissione europea, Struttura, efficienza e competitività del turismo europeo e delle sue imprese, Lussemburgo, 2003. Citato in Giordana F., 2004: 17.. 38.

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