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Maffettone_AviditàPaura_CrisiFinanziaria

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III “Avidità e Paura”1

Progresso dovrebbe significare che noi cambiamo il mondo per

adeguarlo alla visione, invece di cambiare sempre la visione. .

(G.K.Chesterton, Orthodoxy)

Il titolo di questa lezione è “avidità e paura”, versione italiana di “greed and fear”. Si tratta di una sorta di metafora della crisi economica attuale che partita dalla finanza statunitense- ha cominciato a diffondersi a macchia d’olio per l’universo mondo. La cronaca dei fatti è nota per aver occupato le pagine dei giornali e del web negli ultimi mesi. La crisi finanziaria comincia in maniera strisciante nel 2007, ma esplode negli Stati Uniti nel settembre 2008. Da allora in poi, il suo resoconto assomiglia sempre più al bollettino di guerra di un esercito in disfatta. Dopo la caduta dei mutui sub-prime, le grandi banche di affari americane ne sono il simbolo: fallimenti, assorbimenti, chiusure e messa in tutela contraddistinguono questi loro mesi. Il 18 settembre 2008 viene annunciata la bancarotta di Lehman Brothers; segue a ruota quella di J.P.Morgan, e nello stesso giorno Merril Lynch è comprata da Bank of America e il 21 del mese Goldman Sachs e Morgan Stanley si trasformano in banche commerciali. Negli stessi giorni AIG, il più grande gruppo assicurativo americano, soffre una insostenibile crisi di liquidità, e la Federal Riserve è costretta a intervenire per garantirla. Contemporaneamente, Fannie Mae (Federal National Mortgage Association) e Freddie Mac (Federal Loan Mortgage Association), due agenzie governative che si occupano di mutui, vengono poste sotto tutela federale. Il segretaro del Tesoro, Henry Paulson, e il Chairman della Federal Riserve, Ben                                                                                                                          

1 Ringrazio Massimo Egidi per l’idea centrale di questo testo e Alberto Petrucci, Chiara Oldani e Pietro Maffettone per i

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Bernanke, cominciano a preparare un quadro di riforme: il primo propone di acquistare titoli per svariati miliardi di dollari (700 circa), e il secondo abbassa drasticamente il tasso di interesse. La tempesta investe la politica, dove compaiono resistenze a scaricare i costi sui contribuenti. Nel frattempo, la crisi pervade tutto il pianeta, passando gradualmente al sistema economico internazionale dall’Europa a Brasile e Messico, dalle tigri asiatiche a Turchia, Singapore, India, Australia, Sudafrica. Al momento, la recessione è in atto, la depressione alle porte, e non sappiamo quando la crisi comincerà a rallentare.

Non essendo un economista, per di più in un’Università dove vi sono molti e prestigiosi economisti, non discuterò il tema in termini di scienza economica “pura”. Discutere la questione da dilettante può però essere di aiuto per tutti. Intendo dire che non considerare l’economia come una forma di matematica applicata ma piuttosto come una scienza sociale, cui servono i contributi di psicologia, sociologia, diritto, storia e forse persino filosofia, può contribuire a rendere un servizio intellettuale all’analisi delle crisi. Per il momento, mi basta dire che il mio intento non è quello di parlare della crisi in termini puramente economici. Ma piuttosto nell’ottica di quella che oggi comunemente si chiama responsabilità sociale di impresa (d’ora in poi “rsi”).

Il titolo, “avidità e paura” mi ha procurato dall’inizio un sussulto di “euforia” (il termine non è scelto a caso), dovuto a vanità accademica. Dopo circa una settimana che avevo comunicato questo titolo, infatti, lo Economist del 24 gennaio ha titolato “greed and fear” il suo pregevole “Special Report” sulla crisi finanziaria. Le euforie sono però destinate prima o poi a sgonfiarsi come “bolle”, e la delusione è figlia dell’illusione. Dopo un paio d’ore di narcisismo soddisfatto, ho infatti scoperto –“googlando”, “googlando”- che non ero stato il primo a inventarmi “greed and fear” e che c’era anche una serie di successo della BBC, “Silly Money”, in cui questa congiunzione di avidità e paura ritornava spesso e volentieri. Per fortuna, nel mio mestiere siamo stati vaccinati contro queste delusioni: quando hai un’idea prima o poi ti accorgi che Aristotele ci aveva già pensato…

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La metafora del titolo è rinforzata dalla presenza dei tulipani. La comunicazione LUISS li ha collocati nella sala per ricordare una delle prime bolle speculative della storia: quella legata ai tulipani olandesi del 1624. In quel periodo, questi bei fiori divennero oggetto prima di accaparramento, speculazione, ricchezza effimera e poi di svendita e impoverimento generale. Come è ahimè successo tante volte nella storia, come speriamo non succeda nel prossimo futuro, come è ricordato in quel godibile e istruttivo libricino sulle crisi che scrisse J.K. Galbraith (A Short

History of Financial Euphoria) nel 1990.

Dopo aver letto il titolo, qualcuno mi ha ricordato il libro del nostro Ministro dell’Economia Tremonti (La paura e la speranza). Devo dire che avevo in mente cose più antiche e più familiari per me, come gli scritti di Mandeville e Hobbes. Mandeville era un padre putativo della tesi della “mano invisibile” e della perfetta razionalità economica. Hobbes era di certo un precursore dell’interventismo statalista. Non voglio farne qui due protagonisti ante litteram della rivalità tra le scuole economiche di Chicago e Yale. Tuttavia, oggi come oggi non è difficile dire che quella mano invisibile ha forti crampi e che il puro interventismo statalista non è una ricetta soddisfacente. Detto in maniera accademicamente più consona, credo che – nell’analisi delle crisi finanziarie- si possa dubitare di chi (come Friedman) sostiene che la speculazione non è mai destabilizzante, perché sempre compensata dai feed-back del mercato. O di chi, come i fan del keynesianesimo duro e puro, non considera a sufficienza le conseguenze macro-economiche di drammatiche variazioni dei prezzi. D’altra parte, forse la più nota storia delle crisi finanziarie, Manias, Panics

and Crashes di Charles Kindleberger (1978)2, non a caso parte da assunti critici non

troppo differenti da questi.

Per le ragioni dichiarate all’inizio, non voglio però proporvi oggi un’analisi critica delle crisi finanziarie. Ne tanto meno ho pretese revisioniste nei confronti dell’economia scientifica. Molto più modestamente, prenderò la crisi in atto come punto di partenza per un ragionamento di carattere più generale. Questo                                                                                                                          

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ragionamento parte da qualche dubbio che, a mio parere, è lecito nutrire sui fondamenti filosofici di alcune assunzioni standard della scienza economica. Mi riferisco ad assunzioni come quelle di razionalità economica, di mano invisibile e di auto-sufficienza del mercato. Del resto che ci fossero troppi “rational fools” in giro me lo ha insegnato il mio illustre ex-professore Amartya Sen più di trenta anni fa3.

Ma molto prima di lui Adam Smith che –come Sen e Sigdwick- era filosofo morale oltre che economista ha messo giù a chiare lettere che i “wild spirits” dell’economia competitiva presuppongono un sostrato morale e sociale non opportunistico. Insomma, se è vero che “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che attendiamo la nostra cena…” ma piuttosto dal loro interesse personale, è anche vero che senza virtù come l’onestà e la fiducia non si va troppo in là4.

Anche accettando che pensare che tutto quanto gli agenti umani facciano sia razionale è irrazionale, non abbiamo ottenuto grandi risultati. Intendo adoperare questa premessa per sostenere tre tesi tra loro imparentate. A dirla tutta, accennerò soltanto alle prime due, che adopero qui come pezze d’appoggio per la terza che rappresenta invece il punto centrale del mio argomentare. Le tre tesi sono le seguenti:

(i) la letteratura sulle crisi finanziarie fa ampio ricorso a temi e problemi che esulano dalla stretta razionalità economica;

(ii) i modelli formali della teoria finanziaria standard trascurano variabili importanti per comprendere le crisi;

(iii) se si prendono sul serio i punti precedenti, allora ci sono tutte le premesse standard per affermare che la regolamentazione dei mercati attraverso la rsi è necessaria.

                                                                                                                         

3 V. il suo Etica ed economia. V. anche il suo noto articolo “Rational Fools”

4 La famosa citazione di Smith sulla “benevolenza…” sta ne La ricchezza delle nazioni, libro I, cap.2. L’idea è

confermata nello stesso libro –quando si dice che coloro che si impegnano in attività economiche per il bene pubblico

non ottengono i medesimi risultati positivi (idem libro IV, cap. 1). Nella stessa Ricchezza delle nazioni e nella sua Teoria dei sentimenti morali Smith enfatizza il valore di sentimenti morali di sfondo per garantire la fiducia e il progresso economico.

Gianfranco Pellegrino 8/2/y 20:28

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Sarò molto breve, come accennato, sui primi due punti, che sono tra l’altro legati tra loro. Parole come “euforia”, “mania”, “panico”, “febbre” sono quelle normalmente adoperate dall’analisi delle crisi finanziarie. E’ proprio un caso che questi lemmi vadano a costituire un dizionario più simile a quello di un pensatore sovversivo come Michel Foucault che a quello di manuali classici di economia come Samuelson e Varian? La domanda è retorica, e la mia risposta è un deciso “no!”. In realtà, senza appellarsi alla psicologia e alle scienze sociali non si da comprensione effettiva di questo tipo di problemi. Schiller (il drammaturgo tedesco, e non Robert Schiller il bravo professore di Yale, autore di un altro libro utile in materia, Irrational

Exuberance)5 scrisse : “Ognuno preso come individuo è sensato e ragionevole, ma

come membro di un folla improvvisamente diventa incapace di capire”. Robert Schiller, questa volta il professore, ha elencato nel libro appena menzionato un’impressionante serie di fattori di accelerazioni e fattori culturali che propagano le crisi finanziarie, fattori che hanno a che fare soprattutto con la psicologia del mercato e con elementi esterni (come Internet). Lo stesso Galbraith ha spiegato la storia della speculazione finanziaria e dei suoi pericoli in termini psicologici, parlando di “insanìty”, e collegando le bubbles e le operazioni c.d. “Ponzi” alla avidità e alla vanità delle persone. In sostanza, Le Bon e la sua psicologia delle folle, oppure Freud, sono strumenti utili se non indispensabili per farsi un’idea appropriata della questione. D’altronde, perlomeno in questa università, dove la tradizione che guarda con sospetto all’assunzione di razionalità economica come fondamento esclusivo delle dinamiche economiche (da Simon a Kanheman) è di casa, suppongo di sfondare una porta aperta6.

In quanto ai modelli, sono fatti per semplificare: un modello di un palazzo dopotutto non è un palazzo. Semplificando, si omettono elementi della situazione reale. Talvolta, però, questi elementi sono semplicemente troppo importanti per                                                                                                                          

5 Princeton University Press 2000

6 L’idea di curare le crisi finanziarie come malattie virali può essere derivata dalla tesi di un economista di nicchia qual

è Hyman P. Minsky, The Financial Instability Hypothesis(May 1992). The Jerome Levy Economics Institute Working Paper No. 74. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=161024. Per Minsky, nei periodi di prosperità il sistema finanziario ha una tendenza a destabilizzarsi.

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essere omessi. Lo si noti, non sto qui riprendendo la nota querelle tra storici e teorici dell’economia: per gli storici tutti gli eventi sono tendenzialmente unici e irripetibili, e quindi le leggi generalizzanti un mero tradimento della realtà effettuale. La mia ipotesi non è questa. Piuttosto, sembra che ci sia qualcosa che non funziona sotto il coperchio della c.d. VaR (Values at Risk), cioè i modelli standard di analisi del rischio adoperati dagli analisti finanziari. I modelli matematici adoperati per studiare questo tipo di problemi, come quello di Scholes e Block (che serve tra l’altro a studiare i prezzi dei derivati),7 adoperano meccanismi analitici non sempre idonei a rappresentare il sopravvenire di una crisi. Come è stato osservato, questo modello mima le fasi del modello del moto browniano nella dinamica dei gas, modello troppo

smooth questo che non riesce bene a rendere conto dei picchi di una crisi. E’ stato più

volte sostenuto che, in generale, bubbles e bursts finanziari mal si prestano a essere trattati in termini di regressioni statistiche. Se ci confrontiamo con “cigni neri”, sarebbe a dire con singolarità, è possibile che un formalismo come quello della teoria delle catastrofi o dei fuzzy sets sia più adatto a costituire la base matematica del modello analitico8. O ancora, una selezione di dati statistici di venti anni fa, senza adeguata riflessione su ciò che sta cambiando ora, mi può rendere cieco rispetto al futuro.

Arrivo (finalmente!, dirà qualcuno) al nodo centrale della mia lezione. Sarebbe a dire, il rapporto tra le crisi finanziarie ed economiche da un lato, e la necessità di regolazione via rsi dall’altro. Anche in questo caso, il mio argomento è svolto in tre stadi. In primo luogo, sosterrò che il tipo di situazione che stiamo discutendo crea tutte le premesse economiche standard della rsi; in secondo luogo, parlerò della rsi; in

                                                                                                                         

7 Black, Fischer; Myron Scholes (1973). "The Pricing of Options and Corporate Liabilities". Journal of Political

Economy 81 (3): 637–654. Merton, Robert C. (1973). "Theory of Rational Option Pricing". Bell Journal of Economics and Management Science 4 (1): 141–183..

8 The Black Swan: The Impact of the Highly Improbable’, di Nassim Nicholas Taleb, sfrutta teorie filosofiche sulla

logica induttiva (da Hume a Popper) per criticare la statistica standard, sostenendo che quello che non si conosce non può essere dedotto da quello che si conosce già. Sebbene le teorie di Taleb siano applicabili ai fenomeni radicali della finanza, io non sto sposando qui il radicalismo della sua visione ma solo l’enfasi sulla singolarità.

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terzo luogo, chiuderò con una breve esposizione sui dubbi che una soluzione di questo tipo può generare.

Secondo le teorie economiche della rsi, alcune basi economiche che ne generano la necessità teoretica sono le seguenti: moral hazard; asimmetrie informative; contratti incompleti; selezione avversa. E’ un fatto che tali caratteristiche sono presenti puntualmente nell’analisi di boom e burst finanziari. E non è neppure tanto difficile constatarlo.

Il moral hazard si verifica perché spesso e volentieri gli operatori di borsa sono i primi a entrare nel boom e i primi a uscire dal burst. Questo fatto di per sé non costituisce un azzardo morale. Potrebbe essere solo frutto di abilità e intelligenza. Non è così, però, se gli operatori hanno una qualche garanzia preventiva di riuscire a scaricare i loro eventuali costi futuri sui risparmiatori e sui contribuenti. Questo fatto genera tra l’altro la necessità di non assicurare in anticipo gli operatori stessi sull’aiuto che potrebbero ricevere.

Le asimmetrie informative avvengono quando tra le parti di un contratto c’è un’evidente differenza di informazione. Il modello tipico di asimmetria informativa è quello del rapporto medico-paziente. Il problema che si pone in questi casi dipende dal fatto che il più informato può approfittare della sua situazione di maggiore conoscenza. Come nel caso precedente, gli operatori si avvantaggiano della loro competenza nei confronti dei risparmiatori. Questo può contribuire a generare operazioni di leverage troppo spregiudicate o creazioni di titoli inaffidabili. La rsi impone, in questi casi, speciale attenzione alla composizione del profilo di rischio.

I contratti incompleti sono così chiamati per la loro non-verificabilità. Un contratto del genere espone le parti all’eccesso di comportamenti opportunistici nella fase di (ri)-negoziazione continua, che caratterizza questa fattispecie. Contratti come quelli sui derivati sono tipicamente contratti incompleti. Una crisi finanziaria può essere accentuata dall’opportunismo che questa fattispecie incoraggia.

La selezione avversa in una crisi finanziaria avviene perché tra le due tipiche opzioni: (a) ti forniremo guadagni più elevati e (b) tieni i tuoi soldi al sicuro, nel

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periodo di boom la prima batte regolarmente la seconda. E tende ad escluderla. Ma questo implica a sua volta che la crisi diviene prima o poi inevitabile, perché il divario tra prezzi (in equity) e utili (aziendali) cresce vorticosamente creando le premesse per il burst.

Queste quattro fattispecie sono ritenute –dalla maggior parte degli economisti- necessarie per spiegare la necessità di regolamentare il sistema in termini di rsi. Ma che cos’è la rsi e quali problemi pone? Per capirlo, si può partire dal suo opposto, da una affermazione tanto famosa quanto discutibile: “business of business is business”, come scrisse Milton Friedman in un rinomato articolo del “N.Y.Times Magazine”9. Nella visione tradizionale dell’economia, l’impresa ha un solo compito istituzionale: fare profitto. Oggi, quasi nessuno troverebbe adeguata simile visione dell’impresa (da questo punto di vista, come è stato più volte detto, la rsi ha già vinto)10. Quest’ultima,

secondo la tesi prevalente, non deve rendere conto solo agli “stockholders”, cioè a coloro che ne detengono il controllo proprietario, ma a un assai più vasto rango di “stakeholders”, così come si chiamano tutti coloro che hanno a che fare comunemente con l’impresa. Su questa base, nasce e si diffonde l’interesse per la rsi. Spesso la rsi è stata collegata alla sostenibilità generale del sistema economico-sociale. Una buona definizione di sostenibilità è stata data, in occasione del cosiddetto Millennium Round del 2000, dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Per Kofi Annan, bisogna cercare, da questo punto di vista, di “riconciliare le forze creative dell’imprenditoria privata con i bisogni degli svantaggiati e le necessità delle future generazioni”. La tesi va vista in armonia con

                                                                                                                         

9 M.Friedman, “The Social Responsibility of Business is to Increase the Profits”, NewYork Times Magazine del 13 sett.

1970.

10 D’altronde, le premesse dell’etica dell’economia sono assai antiche. La distinzione aristotelica tra “economia” e

“cremastica” ne è un buon esempio. Cicerone ne I doveri e Tommaso d’Aquino nella Summa tra gli altri insistono su una visione critica dell’economia separata dall’etica.

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l’esercizio del sospetto su una visione troppo materialistica e quantitativa dello sviluppo11.

Dal punto di vista teorico, la stakeholder analysis si fa nascere di solito con un libro di Evan e Freeman del 1988, A Stakeholder Theory of Modern Corporation: a

Kantian Capitalism. Con il termine “stakeholder” si intende una vasta gamma di

persone che hanno rapporti con l’impresa, quali “fornitori, clienti, dipendenti, azionisti e la comunità locale”. Tutti costoro possiedono una sorta di interesse legittimo nei confronti della compagnia, e i dirigenti della compagnia stessa –si sostiene- sono titolari di un dovere speciale nei confronti degli stakelholder. In questo modo, si pretende di formulare quella nozione di “corporate responsability” più ampia, cui facevamo prima riferimento, nozione che è poi la base per la diffusione della fiducia nell’impresa e nel mondo a essa circostante, e, per conseguenza, la base su cui poggiare l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile12.

Dal punto di vista pratico, tre sono i campi d’azione tradizionali della rsi: (i) la classica corporate philanthropy, che consiste nel devolvere parte del bilancio aziendale a compiti eticamente raccomandabili (Bill Gates è senza dubbio il nome più noto in questo settore); (ii) un ramo del management, che dipende storicamente da vari disastri aziendali nel tempo: Bhopal, Exxon Valdez, Big Pharma e la questione dei farmaci anti-virali a basso costo, le scivolate di Nike e Gap e persino compagnie apparentemente molto neutre come Google e Yahoo! per il loro comportamento in Cina; (iii) un modo alternativo di fare impresa e quindi creare valore aggiunto.

Il termine “stakeholder” è stato creato in contrapposizione a quello tradizionale “stockholder”, cioè azionista, e l’idea di fondo è che la dirigenza di impresa non                                                                                                                          

11 Per questa visione critica, si può far riferimento alle più grandi agenzie etiche del mondo, dalle Nazioni Unite (v. per

es. UNDP Human Development Report, Oxford University Press, 9909 alla Chiesa Cattolica (dalla Populorum Progressio di Paolo VI, LEV Roma 1967, alla SolIicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II, LEV Roma 1987).

12 La letteratura tra business ethics e sri è sconfinata. V. tra gli altri: Commissione europea, Green Paper “Promoting a

European Framework for Corporate Social Responsibility”, COM (2001) 366, Brussells; T.Donaldson and T.Dunfee, Ties that Bind. A Social Contract Approach to Business Ethics, Harvard University Press 1999; R.E.Freeman, Strategic Management: A Stakeholder Approach, Preston 1989; D.Wheeeler, B.Colbert and E.Freeman, “Focusing on Value: Reconciling Social Responsibility, Sustainability and a Stakeholder Approach”, Journal of General Management, 2003 pp 1-28.

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debba avere di mira solo la tutela degli interessi dei titolari dei diritti di proprietà, ma anche quella di tutti coloro che hanno rapporti perduranti con l’impresa. E’ interessante notare come l’approccio, basato sulla stakeholder analysis, possa considerarsi orientato pregiudizialmente a favore dell’analisi etica. Quest’ultima, in altre parole, può considerarsi implicita nello spostamento di preoccupazioni della dirigenza dalla tutela degli “stockholder” alla tutela universalistica degli “stakeholder”. In questa prospettiva, è naturale –come io stesso ho proposto in Etica

pubblica (2000)- proporre l’approccio degli stakeholder in termini di contrattualismo

etico-politico.

Va notato anche che, indipendentemente dai pregi analitici, la teoria degli

stakeholder si muove in sintonia con lo spirito profondo della teoria politica

normativa liberal-democratica. Quest’ultima ci impone, infatti, di considerare prioritaria la giustificazione degli stati di cose esistenti in termini di possibilità di presentarli come accettabili moralmente a tutti i membri della comunità, a cominciare dagli svantaggiati. Ciò spiega anche perché la versione contrattualistica sia particolarmente indicata in questo contesto teorico.

Nella teoria classica, l’impresa è una sorta di eccezione: mentre i processi decisionali standard, come mercato e democrazia, sono bottom up, quelli dell’impresa sono top down. Come è stato felicemente detto, nel paradigma classico, le imprese sono “gerarchie” (Williamson). Ho già detto che la stakeholder analysis rovescia questa anomalia. Ma c’è di più. Quello che si vede sempre più chiaramente è che la preoccupazione etico-politica per il quadro macro-economico costituisce una premessa indispensabile per l’analisi economica. La terminologia stessa, e il senso ultimo, della normativa sulla “corporate governance”, il diffondersi di processi di autoregolazione nel mondo imprenditoriale, l’attenzione costante al livello dei costi di transazione nelle politiche economiche per lo sviluppo, rappresentano né più né meno che il riconoscimento pratico del ruolo svolto dalla politica nell’universo del

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Queste considerazioni di etica economica contribuiscano a rendere un’immagine valutativa meno ideologica del capitalismo, immagine ideologica che è stata particolarmente popolare nei paesi latini in generale e in Italia in particolare. Nella visione ideologica, il capitalismo incarna aprioristicamente il bene, come presupposto unico della libertà individuale, oppure il male, come fonte planetaria di sfruttamento. Un esito della nostra proposta consiste nell’avere in proposito un’opinione meno aprioristica. Il capitalismo va giudicato – è questa la morale della nostra storia- secondo la capacità di risolvere problemi complessi delle società attuali, a cominciare dalla capacità di realizzare uno sviluppo sostenibile.

La teoria degli stakeholder ci dice che dobbiamo tenere conto di tutti loro, ma non ci dice come dobbiamo pesare le loro rispettive pretese, che sono normalmente differenti tra loro e che possono essere contraddittorie (per esempio, lo stakeholder cliente e lo stakeholder sportellista hanno visioni contrapposte su quale sia il migliore orario di chiusura per una banca). La teoria della sostenibilità può essere un complemento utile. Se la prendiamo sul serio, gli stakeholder che avanzano pretese sostenibili dovranno essere “favoriti”. I principi-guida, cui si ispira questa nuova responsabilità, legata alla nozione di sostenibilità, sono quelli noti, contenuti tra l’altro nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, e in vari documenti a essa collegati, tra cui quelli sui diritti dei lavoratori previsti dalla Organizzazione Internazionale del lavoro e dalla carta di Rio su ambiente e sviluppo. Non si tratta, evidentemente, di un’applicazione meccanica di principi codificati in documenti autorevoli, ma di un’ermeneutica complessa interculturale, di cui entrano a far parte anche le attività di stati, di ong internazionali e di enti come la Banca Mondiale e il FMI, che possono condizionare i loro interventi di sostegno al rispetto dei principi base di sviluppo sostenibile.

La matrice ambientalistica del concetto di sostenibilità è nota. Sorto, negli ambienti ecologisti, per trovare un’alternativa tra crescita continua e crescita zero, il concetto di sviluppo sostenibile si fa nascere ufficialmente con il Rapporto Bruntland

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(Our Common Future), pubblicato nel 198713. Negli anni successivi, tale concetto ha

subito un cambiamento significativo, spostando l’enfasi dagli aspetti ecologistici originari a una visione più allargata, che ha a che fare con la sostenibilità umana e sociale in generale. In questo senso, la sostenibilità poggia sulla c.d. “triple bottom line”, i cui indicatori chiave riguardano ecologia, efficienza ed equità. In sostanza, si pensa oggi diffusamente che mali e beni sociali o umani siano collegati strettamente a mali e beni ambientali. Ciò è particolarmente evidente in negativo, dove fenomeni come la carenza d’acqua potabile, la diffusione di epidemie, la scarsità assoluta di cibo sono ovviamente collegabili da un lato alla corruzione e alla mancanza di certezza giuridica tipici dei paesi poveri e dall’altro alla de-responsabilizzazione progressiva di quelli ricchi.

Sostanzialmente, l’approccio in termini di sostenibilità si pronuncia contro la miopia delle politiche di impresa, quando queste mirano ossessivamente al profitto a breve termine senza badare alla propria “accountability” nel tempo. Sostenibilità è stato tradotto in francese con “durabilité”, che bene esprime la capacità dell’impresa sostenibile di tenere sul mercato nel tempo. L’impresa che trascura la trasparenza, oppure l’eco-efficienza e un trattamento adeguato delle risorse umane sarà automaticamente anche instabile. Questo fatto rende conto dell’interesse generale a sostenere la sostenibilità, come si potrebbe dire con un gioco di parole. Se ciò è vero per tutte le grandi compagnie, lo è ancora di più per i gruppi finanziari. In questo ambito, sempre più gli stessi risparmiatori si pronunciano a favore di veicoli finanziari in grado di incorporare vincoli di sostenibilità. La cosa non sorprende, dato che l’instabilità potenziale del sistema socio-economico dipende essenzialmente dalla facilità con cui, tramite le nuove tecnologie delle comunicazioni, i capitali si spostano, provocando shock sui vari mercati e quindi necessità di interventi terapeutici appropriati.

Nel mondo post-industriale globalizzato e cablato i percorsi tradizionali fabbrica-casa-tempolibero sono scomparsi, e i processi di riconoscimento avvengono                                                                                                                          

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in maniera più improbabile e complessa. Ciò è tanto più evidente quanto più il controllo finanziario dell’impresa ha luogo su sfera planetaria. La finanza, in un’età di globalizzazione, rende profitto, impresa e territorio reciprocamente lontani e slegati da un punto di vista fisico, riavvicinandoli per mezzo delle nuove tecnologie di comunicazione. Per conseguenza, quegli interventi etici, che in una fase di capitalismo più tradizionale apparivano addirittura come naturali, diventano più difficilmente concepibili. Chi incassa le sue rendite a New York, non si appassiona, di solito, alle vicende esistenziali di un operaio di Bombay.

In questa ottica, la visione dell’impresa basata sulla responsabilità sociale risponde in prima istanza alle pretese degli stakeholder, ma ha come scopo finale la salvaguardia del capitale azionario. Definita innovativamente, la nozione di “corporate responsabiliy” come il tentativo di creare valore azionario (shareholder value) di lungo periodo tramite l’attenzione ai rischi e i pericoli che lo sviluppo economico porta con sé, resta la fondamentale necessità di adoperare metodologie appropriate per la valutazione empirica. Queste dipendono da una riuscita interconnessione tra aspetti ecologici, forze socio-culturali (a cominciare dalla comunicazione mediatica) e imperativi economici. L’universo oggetto dei processi di indicizzazione tende a coincidere nel lungo periodo con tutte le aziende quotate in borsa, ma si può ipotizzare un lavoro progressivo. La creazione di un Dow Jones Sustainability Group nel 1999 è stata la spia di questo interesse diffuso da parte del mondo finanziario per le esigenze della sostenibilità. Sicuramente, su queste esigenze hanno agito fattori psicologici e politici, quali –oltre naturalmente alcune crisi dei mercati finanziari degli ultimi anni- la sorpresa con cui sono stati recepiti nell’ambiente delle transazioni internazionali i moti di protesta di Seattle 1999 e Genova 2001. Ma è da ritenere che la finanza internazionale si stia rendendo progressivamente conto che, accanto a sempre maggiori capacità di controllo dell’economia internazionale, essa debba costruire una nozione di responsabilità etica adeguata. Oggi come oggi una simile consapevolezza –ma a troppo caro prezzo!- è ampiamente diffusa.

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Da un punto di vista tecnico, l’impiego di criteri etici di sostenibilità, esterni originalmente al mondo tradizionale della finanza, per accertare il vero valore di un’impresa, ripropone l’annoso problema della costruzione di indici adeguati. Una metrica è indispensabile per rendere operativi criteri di sviluppo sostenibile. E, per formulare una metrica, un processo di benchmarking appare indispensabile. Sin dal 1999, anno della sua costituzione, il Dow Jones Sustainability World Index ha operato un benchmarking delle più importanti compagnie secondo criteri di sviluppo sostenibile. Altre strutture importanti, hanno fatto la stessa cosa in altri paesi, e nel 2001 in Gran Bretagna è nato l’autorevole Financial Times Stock Exchange .

Quali sono i criteri di “assessment” rilevanti? Posta la necessità di non pretendere un’assolutezza del tutta avulsa dai contesti in cui si opera, tali criteri hanno a che fare con la capacità di raccogliere opportunamente informazione per formulare un indice sufficientemente accurato, trasparente, affidabile e non incoerente. Tali capacità sono state sviluppate, con estrema competenza a livello internazionale per creare una metodologia di valutazione appropriata al mondo del Dow Jones Sustainability Index. Il CERSDU, il centro diritti umani dell’Università LUISS, che io dirigo- ha preso nel 2003, in cooperazione con SAM di Zurigo, l’esclusiva di Dow Jones per apprestare il rating etico dei titoli italiani in maniera uniforme alle più accreditate procedure di benchmarking internazionale.

La domanda fondamentale era e rimane dunque: è possibile che un’idea tanto astratta abbia un risultato sul mercato? Non sorprende che l’interesse sia concentrato sui modi con cui costituire questo tipo di fondo di investimento, che risulterà da un’attività di screening autonoma, oltre che dalla selezione da altri fondi che appaiono di particolare interesse dati i nostri scopi. Ciò implica una ricerca dei criteri e dei metodi atti a selezionare i titoli per ragioni etiche in maniera quanto più affidabile possibile. L’esercizio economico sottostante è abbastanza chiaro, almeno dal punto di vista concettuale: bisogna scegliere tra i titoli che sono rappresentati sulla curva paretiana al livello massimale di efficienza, e sceglierli secondo criteri di

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equità. La ragione per questa strategia è evidente: non si può pretendere che al risparmiatore sia offerto, sia pure per buone ragioni morali, un pacchetto di titoli non remunerativo quanto gli altri. Da questo punto di vista, è utile osservare quanto segue: di solito qualsiasi restrizione a priori dell’universo azionario preso in considerazione ha come conseguenza presumibile una perdita di redditività del portafoglio trattato. Questo dogma della composizione del portafoglio rende un esperto di economia e finanza sospettoso nei confronti di ogni vincolo, inclusi quelli di tipo morale, si voglia imporre alla libera contrattazione dei titoli. Ebbene, nel caso speciale della finanza sostenibile le statistiche sembrano dimostrare che la curva delle imprese, che rispettano criteri di finanza etica, supera per rendimento la curva delle imprese nel suo complesso. E’ ovvio che si tratta di un dato incoraggiante.

Concesso questo, il problema si sposta sui criteri di eticità che si vogliono adoperare e soprattutto sulle metodologie per accertare come, quando e perché tali criteri siano stati effettivamente rispettati dalle aziende quotate dal punto di vista della rsi. Quest’ultimo problema è complicato dal fatto che, ovviamente, i criteri etici non sono puramente universalistici, e che, quindi, la struttura del contesto li influenza in maniera talvolta decisiva. Ciò che appare etico in una cultura, in altre parole, non è necessariamente etico in un’altra. Si deve prendere sul serio il fatto che, per esempio, un mondo islamico concepirà l’etica economica in maniera diversa dal mondo occidentale.

Ritornando ai criteri di assessment, all’interno di un universo prescelto, un numero limitato di imprese va monitorato e ispezionato in profondità per costituire un

benchmark da adoperare in seguito su tutto il resto dell’universo investigato. La

selezione delle compagnie campione è ovviamente fondamentale per la ricaduta statistica su tutto il sistema valutativo. I criteri di assessment sono in primo luogo valutativi e qualitativi. I criteri vanno a formulare una sorta di bilancio etico, basato sulla sostenibilità, in cui da una parte ci sono le opportunità e dall’altra i rischi. Opportunità e rischi sono apprezzati innanzitutto da un punto di vista economico (opportunità come: programmazione strategica e finanziaria, management di qualità,

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relazioni con il cliente, qualità globale etc.; rischi come: crisi economiche, problemi del personale etc.). In secondo luogo, opportunità e rischi vanno valutati dal punto di vista ecologico e sociale, in modo da rispondere all’idea generale di sviluppo sostenibile in senso lato, di cui abbiamo detto prima.

La raccolta dell’informazione avviene, in primo luogo, attraverso la somministrazione di formulari a vari livelli aziendali. Per questo, la raccolta dell’informazione dipende molto dalla buona volontà delle compagnie investigate. In un secondo tempo, avvengono controlli esterni all’impresa e indipendenti. Le imprese vengono testate seguendo una divisione che tiene conto dei settori in cui operano.

I criteri su indicati sono ovviamente qualitativi. Un problema ulteriore dipende da come quantificare, in un indice facilmente utilizzabile, tali criteri. Una misura, perlomeno ordinale, delle compagnie investigate secondo la metodologia prescelta deve costituire l’esito finale del processo di informazione a valutazione. Una divisione delle imprese in classi, distinte secondo la loro affidabilità etica, può essere una buona base di partenza per questa quantificazione, che dipende dalla singola metodologia prescelta, dal contesto operativo e dal benchmarking ottenuto.

Detto ciò sulla rsi, è ovvio che si ponga il problema della sua utilità. Dopotutto, finora la rsi non ci ha salvato dalla le crisi più acute (anche se si potrebbe suggerire che a oggi la rsi non sia stata presa adeguatamente sul serio). In finanza, la rsi riguarda sia l’aspetto formale sia quello sostanziale del processo di controllo. Dal punto di vista formale, bisogna appurare i termini del profilo di rischio di ogni trattazione. I titoli devono essere filtrati tramite una VAR, una valutazione del rischio, in cui la rsi abbia un suo ruolo preciso. Dal punto di vita sostanziale, bisognerà prima o poi decidersi creare stanze di compensazione dove si possa effettivamente selezionare titoli “tossici”, cacciandoli collettivamente dal mercato. Sto parlando di misure preventive, il cui impatto non può che essere parziale. Ma, ancora una volta, è la mentalità che sta dietro a contare. Esistono rimedi più fantasiosi di questi, come per esempio affidarsi ai misteri della finanza islamica o condividere i

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vincoli di quella cattolica. Mi sembra, però, che il vantaggio non consista in questi casi nell’abbracciare una fede, ma piuttosto nell’assumere vincoli del tipo di quelli formali e sostanziali sopra menzionati (che funzionano, se funzionano, in base alla natura del vincolo e non alle cause spirituali che lo generano).

Ci sono, comunque, in letteratura molte obiezioni di principio e di fatto all’impiego della rsi ai fini della creazione di una maggiore sostenibilità del sistema. Si dice comunemente che la rsi non. ha come nucleo un tipo di attività che spetta alle imprese e al mercato, ma piuttosto ai governi democratici. In questo caso, la rsi costituirebbe una sorta di invasione di campo. Oppure, si dice che –come viene normalmente concepita- la rsi altri non è che un metodo complementare di gestire bene un’impresa. Sarebbe un aspetto sofisticato di marketing o di relazioni pubbliche. Anche se è lecito dubitare di simili drastiche semplificazioni, l’idea che la rsi faccia fare buoni profitti non manca di far dubitare qualcuno del fatto che essa riesca anche a realizzare obiettivi etici nell’ambito della sostenibilità.

Le mie perplessità in proposito, però, sono meno generali. Pur volendo concedere un credito generico alla rsi, è possibile che essa funzioni adeguatamente al momento di affrontare problemi così gravi come quelli della crisi da cui siamo partiti? In linea di principio, la sostenibilità è un antidoto naturale contro le tendenze speculative e destabilizzanti. Ma, in proposito, almeno due problemi si pongono.

Il primo riguarda la trasformazione di un metodo generale di agire, come quello basato su una rsi sostenibile, in un rimedio contro crisi improvvise e devastanti. Che il mercato si preoccupi della sostenibilità, in sostanza, è una bella cosa, ma costituisce la base per un’attitudine individuale e collettiva di medio-lungo periodo. C’entra tutto ciò con l’emergere di picchi speculativi e le crisi susseguenti? La risposta non può che essere ambigua, del tipo “si e no”. “Si” perché la creazione di un mercato finanziario ispirato a criteri di rsi sostenibile può rendere questi picchi speculativi meno acuti, e addirittura contribuire alla formazione di un homo

oeconomicus più mite. “No”, perché rebus sic stantibus l’impatto della rsi sostenibile

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Il secondo problema riguarda la struttura stessa della rsi. La rsi, come normalmente concepita, è un atto di impegno volontario da parte di un’impresa. In quanto tale, è frutto di una scelta etica e aziendale di auto-regolarsi. In sistemi complessi come quelli socio-economici attuali l’auto-regolazione è probabilmente uno strumento indispensabile per la comprensione e la soluzione di questioni delicate e controverse (mentre la politica tradizionale non è in grado di farlo). Tuttavia, in quanto frutto di auto-regolazione gli obblighi che dipendono dalla rsi non sono equivalenti a obblighi giuridici. Certo, tali impegni potranno avere qualche efficacia legale ex jure condito, essendo manifestazioni di volontà che specificano un insieme di comportamenti. Oppure, potranno avere qualche rilievo ex jure condendo perché il legislatore può prenderli come uno degli elementi che contribuiscono alla formazione della sua volontà. Tuttavia, gli obblighi da rsi non sono normalmente coercibili da parte dei terzi. E non c’è dubbio che in certi casi noi abbiamo bisogno proprio di questo. E –nel caso della recessione attuale e di crisi sistemiche- bisognerà distinguere chi contribuisce a provocarle per “colpa”, come scarsa attenzione e professionalità, da chi ottiene simile risultato per “dolo”, come ha fatto non solo Bob Madoff ma alcune agenzie di rating e troppi speculatori.

Ho detto precedentemente che oramai la rsi si è affermata, e nessuno accetterebbe più oggi le tesi di coloro che la avversavano al principio. Ma ho anche sostento che la rsi non è stata ancora presa sul serio. Se non prendiamo la congiunzione di queste due affermazioni come una difficoltà insolubile, ma piuttosto come un invito a chiarirci le idee in proposito, allora possiamo anche cercare di rispondere ai due problemi che ci siamo appena posti. La rsi deve passare da uno stadio infantile a uno di maturità. Questo passaggio non può essere fatto se la rsi non si trasforma in un’attività più e meglio istituzionalizzata. Tocca ai giuristi e ai manager di impresa dare il contributo maggiore in questa direzione, il cui esisto tipico sarà quello di trasformare eleganti documenti etici in vincoli interni ed esterni ai processi di produzione della ricchezza.

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Naturalmente, nessuno pensa che la rsi possa essere uno strumento di tutela esclusivo. Il diritto costituisce un argine non sostituibile contro comportamenti illeciti e impropri. Tuttavia, la nascita dell’interesse per la rsi dipende anche dai vuoti che necessariamente un ordinamento giuridico ha. Indipendentemente dal problema teorico della sua “completezza” in linea di principio, un ordinamento giuridico ha difficoltà a coprire in anticipo e in via generale e astratta questioni complesse come quelle che riguardano la formazione di alcuni derivati finanziari. Ciò ci obbliga a trasferire il peso delle decisioni dal campo della formazione della volontà del legislatore a quello dell’ermeneutica applicativa ex post. La rsi potrebbe fornire un repertorio di principi base di natura etica che lo stesso giudice potrebbe prendere sul serio, come vuole la tesi del mio vecchio e illustre amico Ronald Dworkin in Law’s

Empire.

In questo modo, se all’inizio ho scontentato gli economisti, non c’è dubbio che alla fine sia riuscito a ottenere medesimo risultato anche con i valorosissimi colleghi giuristi. Tutti poi quelli che mi hanno ascoltato e preso sul serio avranno avuto la deludente sensazione che neppure io fossi troppo convinto della mia tesi principale. O forse –come appare più equo- che l’enorme complessità del problema soverchiasse le mie forze. Posso, a questo punto, solo invocare l’autorevolezza del mio compianto collega Norberto Bobbio che amava pensare fosse compito di noi filosofi seminare dubbi più che coltivare certezze. Se in questo fossi riuscito, sarei soddisfatto. In fondo, abbiamo un anno accademico per pensarci. Si dice comunemente “il mondo è

bello ma a casa è meglio”. Questa “Libera Università Internazionale di Scienze Sociali” è la casa migliore che potessimo desiderare per poter riflette assieme su questo e altri problemi fondamentali del nostro tempo.

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Pictures: Tempesta (Giorgione) Vero modello (Magritte) Beuyss (coyote)

Boetti (arazzo) Wahrol “Brillo Box” Raffaello (cappella Sistina)

Duchamp (un ready made da scegliere)  

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