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Value at Risk del portafoglio di tesoreria di una Banca di Credito Cooperativo

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Corso di Laurea Magistrale in

Amministrazione, Finanza e Controllo

Tesi di Laurea

Value at Risk del portafoglio di

tesoreria di una Banca di Credito

Cooperativo

Relatore

Ch. Prof. Marco Corazza

Laureando

Fabio Pitteri

836122

Anno Accademico

2012 / 2013

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(3)

Ringraziamenti

Se sono giunto a questo importante traguardo della mia vita lo devo anche a tutte le persone che mi sono state vicino e mi hanno aiutato nel compimento dei miei studi. Ritengo dunque innanzitutto doveroso ringraziare il Professore Marco Corazza per le numerose ore dedicate alla mia tesi.

Inoltre ringrazio sentitamente il Dottor Massimo Palombella che si è sempre dimostrato disponibile a dirimere ogni mio dubbio durante la realizzazione di questo elaborato. Infine un ringraziamento speciale è rivolto alle persone che mi stanno più a cuore ovvero ai miei genitori per avermi dato la possibilità di continuare gli studi e per essermi stato vicino in ogni momento della mia vita, alla mia fidanzata per aver avuto la pazienza di assecondare la mia volontà di finire in tempo gli studi, a mia sorella ed alla sua famiglia per il grande supporto morale fornitomi, a mia nonna che mi ha accolto ed ospitato nella sua casa durante questi due anni di laurea magistrale ed a tutti i miei amici per i bellissimi momenti passati insieme.

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(5)

Indice

INTRODUZIONE

1

1 IL RISCHIO DI MERCATO ED IL VALUE AT RISK

5

1.1 Il rischio negli intermediari finanziari 5 1.2 Classificazione dei rischi di mercato e le tradizionali misure di rischio 7

1.3 Il Value at Risk 11

1.4 Le fasi di calcolo del Value at Risk 13

1.5 Metodi di calcolo del Value at Risk 14

1.5.1 L’approccio parametrico 15

1.5.2 L’approccio di simulazione 19

1.5.2.1 La simulazione storica 20

1.5.2.2 La simulazione Monte Carlo 21

1.5.3 Confronto tra le tre metodologie 23

2 IL CALCOLO DEL VALUE AT RISK DI UN PORTAFOGLIO

OBBLIGAZIONARIO

25

2.1 L’approccio di RiskMetrics™ 25

2.2 I titoli obbligazionari 26

2.3 Le fasi di calcolo del Value at Risk di un portafoglio obbligazionario secondo l’approccio parametrico di RiskMetrics™ 29

(6)

3 IL CALCOLO DEL VALUE AR RISK DEL PORTAFOGLIO DI

TESORERIA DELLA BANCA DI CREDITO COOPERATIVO 35

3.1 Il portafoglio di tesoreria della banca di credito cooperativo 35

3.2 Il calcolo del Value at Risk del portafoglio di tesoreria 44

3.2.1 Il calcolo del Value at Risk del 04/03/2013 45

3.2.2 Il calcolo del Value at Risk del 05/03/2013 87

3.2.3 Il calcolo del Value at Risk del 06/03/2013 107

3.2.4 Il calcolo del Value at Risk del 07/03/2013 126

3.2.5 Il calcolo del Value at Risk dell’08/03/2013 146

3.2.6 Il calcolo del Value at Risk dell’11/03/2013 166

3.2.7 Alcune considerazioni sui risultati ottenuti 186

3.3 Le modifiche al portafoglio della banca 187

3.3.1 La modifica del portafoglio del 04/03 ed il calcolo del Value at Risk 188

3.3.2 La modifica del portafoglio del 05/03 ed il calcolo del Value at Risk 196

3.3.3 La modifica del portafoglio del 06/03 ed il calcolo del Value at Risk 205

3.3.4 La modifica del portafoglio del 07/03 ed il calcolo del Value at Risk 215

3.3.5 La modifica del portafoglio dell’08/03 ed il calcolo del Value at Risk 223

3.3.6 La modifica del portafoglio dell’11/03 ed il calcolo del Value at Risk 231

3.3.7 Alcune considerazioni sul Value at Risk del portafoglio “modificato” 244

3.4 Il valore di mercato del portafoglio “non modificato” e del portafoglio “modificato” 247

CONCLUSIONE

262

Appendice

265

Bibliografia

294

(7)

1

INTRODUZIONE

Nel corso di questi cinque anni di università uno dei temi sicuramente più ricorrente che ho affrontato è stato quello della gestione del rischio. In quasi tutti i corsi infatti è emerso chiaramente come l’attività finanziaria sia un’attività per sua natura rischiosa, quindi diventa fondamentale all’interno delle principali istituzioni finanziarie dotarsi di adeguati strumenti e metodologie per la gestione del rischio.

Come questa gestione del rischio non sia affatto però una cosa semplice sono riuscito a capirlo realmente durante il tirocinio che ho effettuato nell’estate del 2012 presso una filiale di una Banca di Credito Cooperativo. Essendo infatti iscritto al corso di laurea magistrale in Amministrazione, Finanza e Controllo, per poter completare il percorso di laurea come previsto dal piano di studi è necessario conseguire i sei crediti relativi al tirocinio. Durante questo stage di circa 260 ore mi è stata data la possibilità di avere una visione generale del funzionamento della filiale ed in particolare dell’ufficio consulenza titoli. Di questa esperienza ciò che mi ha veramente colpito è stata la complessità di gestione dei vari strumenti finanziari (principalmente azioni ed obbligazioni) offerti dalla filiale ai propri clienti. Bastava infatti soffermare l’attenzione sull’andamento giornaliero di questi strumenti per rendersi conto di come, soprattutto in un periodo molto turbolento

(8)

2 come quello degli ultimi anni, la gestione del portafoglio titoli di ogni singolo cliente fosse molto complicata a causa dell’elevata volatilità delle principali variabili di mercato. Una volta concluso lo stage è sorta in me la curiosità di capire come avvenisse la gestione del portafoglio di tesoreria dell’intera banca. Mi sono allora messo in contatto con la direzione risorse umane ed ho chiesto loro la disponibilità a fornirmi tutte le informazioni relative sia alla composizione del portafoglio di tesoreria sia alla modalità con la quale tale portafoglio viene gestito.

La gestione di portafoglio è da sempre considerata un tema di grande complessità. In particolare la continua innovazione di prodotti finanziari, il processo di globalizzazione, lo sviluppo tecnologico e la costante rivisitazione della normativa in materia finanziaria hanno reso sempre più complesse le decisioni di investimento. Per cercare di ridurre, per quanto possibile, tale complessità nel corso degli anni sono state proposte numerose teorie di gestione delle quali quella forse più nota è la teoria della selezione di portafoglio di Markowitz per le attività azionarie (risalente al 1952). Ciò che accomuna tutte queste teorie è il tentativo di interpretare il mercato con l’obiettivo di coprirsi dai rischi fornendo indicazioni strategiche alla funzione di capital allocation. Riuscire infatti ad ottimizzare l’impiego del capitale a disposizione diventa ancor più importante in un periodo di grande crisi come quello degli ultimi anni, e soprattutto per quelle banche come ad esempio i crediti cooperativi, le cui dimensioni non sono molto elevate e quindi la loro capacità di sopportare impieghi inefficienti del capitale risulta essere sicuramente inferiore rispetto ai grandi gruppi bancari nazionali ed internazionali. L’introduzione all’interno degli istituti di credito di modelli di gestione dei portafogli volti a guidare le decisioni di investimento è stata senza dubbio incentivata anche dalle sempre maggior crisi della fonte tradizionale dei profitti bancari ovvero il differenziale tra raccolta ed impieghi, obbligando in questo modo gli istituti stessi a ricercare ulteriori fonti di reddito come ad esempio l’investimento in strumenti finanziari. Ovviamente quest’attività di investimento comporta il sostenimento di tutta una serie di rischi tra cui il cosiddetto rischio di

(9)

3 mercato1. Spetterà dunque all’alta direzione il compito di gestire l’esposizione a questi rischi stabilendo che tipo di rischio sopportare, controllando costantemente il loro livello di esposizione ed intervenendo nel caso in cui questa esposizione sia superiore ai livelli consentiti.

Il tentativo di semplificare quest’attività di gestione del rischio spinse alcune istituzioni finanziarie ad elaborare dei modelli che consentissero di quantificare, controllare e valutare il rischio presente in un portafoglio. Tra questi modelli vi è senza dubbio quello del Value at Risk , ed una delle prime istituzioni a sviluppare e rendere pubblico il proprio modello del Valore a Rischio fu la banca statunitense J.P. Morgan autrice del modello

RiskMetrics™.

Avendo dunque la possibilità di aver a disposizione la composizione del portafoglio di tesoreria di una Banca di Credito Cooperativo (per i giorni 04/03/2013, 05/03/2013, 06/03/2013, 07/03/2013, 08/03/2013 e 11/03/2013), portafoglio sostanzialmente obbligazionario, e sapendo che tale portafoglio viene ad essere gestito sulla base del modello RiskMetrics™, l’obiettivo della mia tesi consisterà dapprima nel verificare se sarà possibile replicare la loro gestione andando a calcolare il VaR parametrico ed in secondo luogo cercare di capire che risultati sarebbe possibile ottenere tramite delle modifiche alla gestione quotidiana del portafoglio (sostituendo, ad esempio, alcune obbligazioni con altre il cui acquisto da parte della banca è espressamente vietato dal Consiglio di Amministrazione ma che sarebbe ben visto da alcuni dei responsabili della gestione del portafoglio).

In altre parole essendo il Value at Risk uno strumento utilizzato nella gestione sia tattica che strategica del portafoglio e quindi del rischio a cui tale portafoglio è esposto, questo elaborato nasce dall’esigenza di verificare se la strategia della banca possa essere considerata “corretta o meno” ed in questo caso proporre alcune soluzioni per rendere “migliore” tale strategia.

1 Rischio inerente la possibilità di subire delle perdite economiche a causa della volatilità, nei mercati, delle

(10)
(11)

5

Capitolo 1

IL RISCHIO DI MERCATO ED IL VALUE AT RISK

1.1 - Il rischio negli intermediari finanziari

La gestione dei rischi a cui gli intermediari finanziari sono esposti sta assumendo un’importanza sempre maggiore per il successo degli intermediari stessi. Il rischio è infatti un elemento presente quotidianamente nelle strutture finanziarie ed il suo impatto sul risultato di gestione può assumere un’importanza molto significativa.

L’attività di risk management e quindi la gestione del rischio, è diventata un’attività di notevole interesse a partire dagli anni novanta del secolo scorso. Come riportato dalla letteratura i numerosi cambiamenti avvenuti nel mondo della finanza e dell’economia come ad esempio la sempre più crescente globalizzazione dei mercati, lo sviluppo

dell’Information Technology, la crescita dell’attività commerciale, l’instabilità dei tassi di

interesse e di cambio, i sempre maggiori episodi di crisi e di insolvenza di numerose istituzioni finanziarie ed aziende, la creazione di strumenti derivati e l’elevata complessità dei prodotti finanziari hanno esposto le banche ad un numero elevato di rischi. Ovviamente tali cambiamenti hanno obbligato gli istituti di credito non solo a ricercare nel mercato del lavoro figure professionali con elevate competenze ma anche di dotarsi di

(12)

6 strutture organizzative e di strumenti di controllo funzionali e coerenti con l’ambiente nel quale si trovano ad operare. È bene precisare però come l’inserimento di personale qualificato e con elevata esperienza non sia una condizione sufficiente a garantire un’adeguata gestione del rischio. Diventa fondamentale infatti, per le banche dotarsi anche di sistemi tecnologici atti ad una valutazione ed ad un monitoraggio efficace dei rischi derivanti dall’utilizzo dei prodotti finanziari. È quindi possibile affermare come le tecniche di risk management adottate all’interno delle istituzioni finanziarie non siano altro che un mix di risorse informatiche (risorse hardware e software che consentono l’elaborazione dei dati), modelli (che guidano l’elaborazione dei dati) e persone (che giudicano, valutano e gestiscono i dati elaborati).

L’obiettivo del risk manager è dunque quello di scongiurare perdite economiche derivanti da eventi sfavorevoli. Per una buona attività di gestione del rischio diventa allora fondamentale identificare, misurare e controllare i rischi a cui si è esposti, nonché mitigare tali rischi qualora l’esposizione raggiunta risulti essere superiore rispetto ai limiti prefissati dall’alta direzione.

Come elencato nella principale letteratura riguardante l’argomento le più importanti categorie di rischio finanziario sono (Accorinti, Conti e Pucci 2000):

rischio di mercato (market risk) ovvero la variazione di valore di un’attività

finanziaria causata da movimenti sfavorevoli delle variabili finanziarie. Il rischio di mercato è dunque funzione di due elementi in stretta connessione tra di loro: l’incertezza circa l’andamento futuro delle variabili di mercato e la sensibilità dei prezzi delle attività finanziarie a tali variabili;

rischio di credito (credit risk) cioè il rischio relativo alla possibilità che la controparte

non sia in grado di rispettare i propri impegni contrattuali ovvero sia insolvente. È bene precisare come nonostante il rischio di credito rappresenti la fonte di rischio principale per una banca, lo sviluppo di metodologie e di sistemi atti a gestire il credit

risk all’interno degli intermediari creditizi è stato senza dubbio inferiore rispetto agli

(13)

7

rischio di liquidità (liquidity risk) ovvero il rischio che evidenzia la difficoltà per il

possessore di un titolo nel vendere tale titolo nel mercato;

rischio operativo (operational risk) cioè la possibilità di ottenere perdite monetarie

causate da errori del personale, da malfunzionamenti dei sistemi utilizzati o dall’errata specificazione degli stessi. Solitamente tale rischio si manifesta nell’operatività ordinaria e quindi è proprio nel compimento delle operazioni quotidiane che diventa fondamentale attuare un controllo diretto sul personale responsabile del compimento di tali operazioni per conto dell’istituzione stessa, verificando la correttezza dei comportamenti assunti ed il corretto funzionamento dei sistemi utilizzati;

rischio di regolamento (settlement risk): ovvero il rischio connesso al mancato

funzionamento dei sistemi di pagamento. Tale rischio può essere inteso come un rischio misto, in quanto il mancato pagamento può derivare da difficoltà tecniche (rischio operativo) o dalla pregiudicata capacità della controparte di tener fede ai propri impegni contrattuali (rischio di credito).

Emerge chiaramente come i manager delle società debbano cercare di gestire nel miglior modo possibile l’esposizione a tutte queste categorie di rischio. In accordo con l’alta direzione devono cioè stabilire quali rischi possono supportare, controllare costantemente il loro livello di esposizione e qualora tale esposizione sia troppo elevata riportarla entro i livelli ritenuti tollerabili per l’organizzazione stessa.

1.2 - Classificazione dei rischi di mercato e le tradizionali misure di

rischio

Nel paragrafo precedente sono state elencate le varie categorie di rischio a cui sono esposti gli intermediari finanziari nel compimento della propria attività. In questo paragrafo verrà, invece, approfondito il concetto di rischio di mercato e saranno elencate

(14)

8 alcune tradizionali misure di tale rischio come il beta per la azioni, la duration per i titoli obbligazionari e le “greche” per le opzioni.

Come definito in precedenza il rischio di mercato è la variazione del prezzo degli strumenti finanziari a causa dei movimenti delle variabili di mercato. In particolare è possibile individuare quattro tipologie di rischio di mercato (Betti 2001, Accorinti, Conti, Pucci 2000):

rischio di cambio il quale si riscontra ogni qual volta si detengono in portafoglio

attività il cui valore di mercato è sensibile a variazioni dei tassi di cambio;

rischio di interesse il quale si riscontra ogni qual volta si detengono in portafoglio

attività il cui valore di mercato è sensibile a variazioni dei tassi di interesse;

rischio azionario ovvero il rischio di perdite derivante dalla variazione del prezzo di

un’azione o dall’incertezza circa la distribuzione o meno del dividendo e sull’eventuale ammontare dello stesso;

rischio su beni cioè il rischio di perdite economiche derivante dalla variazione del

prezzo di beni (tipicamente prodotti energetici, prodotti agricoli e metalli preziosi). Da ciò emerge chiaramente come quando si parla di rischio di mercato non ci si riferisca all’eventualità che l’ammontare di denaro che viene ad essere investito in una determinata attività finanziaria possa andar perduto a causa dei problemi di crisi finanziaria dei soggetti coinvolti nell’operazione stessa bensì per market risk si intende la potenziale perdita economica ottenibile a causa delle fluttuazioni ordinarie del prezzo delle attività stesse. Infatti ogni attività finanziaria, sia essa connessa al mercato dei titoli di capitale, a quello dei tassi di interesse, al mercato delle valute o a quello delle merci è esprimibile in termini di prezzo il quale a sua volta è influenzato fortemente dall’andamento dei fattori di rischio del mercato di riferimento (Cherubini, Della Lunga 2001).

Nel corso degli anni si sono sviluppate diverse misure di rischio per i principali strumenti finanziari. Tra queste le più importanti sono il beta (β) per le azioni, la duration per i titoli obbligazionari e le cosiddette “greche” per le opzioni.

(15)

9 Come definito dalla Borsa Italiana nel proprio sito internet, il beta è un coefficiente che definisce la misura del rischio sistematico di un’azione ovvero la variazione del valore di un’azione al variare del valore medio del mercato di riferimento. Se un’azione presenta

β = 1 vuol dire che tale titolo tenderà a replicare fedelmente le variazioni di valore del

mercato di riferimento. In altre parole se il mercato sale o scende del 10% un’azione con beta pari ad uno subirà un incremento o un decremento del proprio valore pari al 10%. Quando invece il beta dell’azione è minore di uno, le variazioni di valore del titolo saranno inferiori rispetto alle variazioni subite dall’indice di mercato, mentre se il beta del titolo sarà maggiore di uno il valore dell’azione varierà con un’intensità maggiore rispetto a quella subita dall’indice di riferimento.

Le obbligazioni sono soggette al rischio di tasso in quanto il loro prezzo varia a seconda dell’andamento del tasso di interesse. Uno strumento che permette di esprimere il rischio di interesse a cui un’obbligazione è esposta è la durata media finanziaria meglio conosciuta come duration.

La duration rappresenta la media ponderata delle scadenze di tutti i flussi di cassa prodotti dall’obbligazione, con pesi che dipendono sia dall’ammontare sia dalla distribuzione temporale dei flussi di cassa (Basso, Pianca 2010):

D

=

∑ t

k

Ced 1+i

-tk

+t

n

CN(1+i)

-tn n

k=1

∑ Ced 1+i

n -tk

+ CN(1+i)

-tn k=1

(1.1)

=

∑ t

k

Ced 1+i

-tk

+

t

n

CN(1+i)

-tn n k=1

P

(1.2)

dove:

t

k = data in cui avviene lo stacco della cedola;

• Ced = cedola incassata all’istante temporale

t

k;

t

n = data in cui avviene il rimborso del capitale dato a prestito;

• CN = capitale restituito a scadenza solitamente pari al valore nominale del titolo;

(16)

10 In particolare le formule 1.1 ed 1.2 si riferiscono al calcolo della duration per un’obbligazione a cedola costante la quale da ancora diritto ad incassare n cedole.

La duration in altri termini permette di evidenziare quanto tempo occorrerà attendere all’investitore prima di recuperare in media l’investimento fatto. Se un’obbligazione trentennale presenta duration pari a 12,00 vuol dire che l’investitore che ha sottoscritto il titolo all’emissione dovrà attendere circa 12,00 anni prima di recuperare in media l’investimento fatto. Oltre ad esprimere ciò, la durata media finanziaria permette anche di evidenziare la sensibilità del prezzo di un’obbligazione al variare del rendimento del titolo. Nel caso precedente infatti, il prezzo del bond scenderà di circa il 12,00% in seguito all’aumento del tasso di mercato di un punto percentuale. Quindi maggiore è il valore della duration e maggiore risulta essere la sensibilità del prezzo dell’obbligazione a variazioni del tasso di mercato.

L’opzione è un contratto che conferisce all’acquirente, a fronte del pagamento di un premio, la facoltà di acquistare (opzione call) o di vendere (opzione put) un determinato

asset (il titolo sottostante) ad un prezzo determinato (prezzo di esercizio o strike price)

entro o a una scadenza predefinita (expiration date) (Elton, Gruber, Brown, Goetzmann 2007). Il prezzo di un’opzione dipende in linea generale da cinque fattori quali:

• il prezzo del sottostante;

• il prezzo di esercizio;

• il tempo che manca alla scadenza dell’opzione;

• il tasso di interesse;

• la volatilità attesa del prezzo del sottostante;

Per stimare la sensibilità del prezzo delle opzioni a tali fattori solitamente si usano delle formule definite come “greche”. Le “greche” più diffuse sono Delta, Gamma Theta, Vega, Rho.

Delta esprime la variazione del valore del premio al variare del valore del sottostante. Gamma esprime la variazione del valore del Delta al variare del sottostante.

(17)

11 Theta esprime la variazione del valore dell’opzione a seguito del trascorrere del tempo cioè man mano che ci si avvicina alla scadenza.

Vega esprime la variazione del prezzo dell’opzione al variare della volatilità del sottostante.

Rho esprime la variazione del prezzo dell’opzione al variare del tasso di interesse.

Il “problema” principale del beta, della duration e delle “greche”, dette anche misure di

sensitivity, è che queste misure esprimono la sensibilità del prezzo dei titoli solamente ad

uno dei molteplici fattori di rischio e nel caso di un portafoglio caratterizzato da strumenti finanziari differenti non tengono conto delle relazioni esistenti tra gli strumenti stessi. Ecco dunque che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso per la gestione e la misurazione del rischio di mercato di posizioni singole o portafogli titoli si è diffuso il

Value at Risk (VaR). Il vantaggio di tale strumento, che ormai può essere ritenuto un

metodo diffuso per la gestione del rischio di mercato, è quello di quantificare con un unico numero l’esposizione complessiva di un titolo o di un portafoglio al rischio di mercato. È importante precisare però come l’obiettivo di ideare un modello che riesca a considerare congiuntamente l’esposizione al rischio di mercato, di credito, di liquidità ed operativo è ancora molto lontano (Betti 2001).

Siccome la Banca di Credito Cooperativo, che mi ha fornito il portafoglio di tesoreria, utilizza il VaR come strumento di gestione del rischio di mercato nei prossimi paragrafi verrà presentato tale approccio.

1.3 - Il Value at Risk

Il Value at Risk è un metodo che consente di sintetizzare il rischio di mercato presente in un portafoglio. Il Valore a Rischio esprime infatti la massima perdita che, con un

determinata probabilità (dalla quale discende il cosiddetto intervallo di confidenza) potrà verificarsi detenendo la singola posizione o l’intero portafoglio a posizioni inalterate per

(18)

12

un certo intervallo di tempo (detto periodo di detenzione o holding period) (Jorion 1997,

Betti 2001).

Il VaR è dunque una misura statistica della massima perdita che si otterrà con una certa probabilità sulla base della composizione attuale del o dei titoli detenuti nel caso in cui tale composizione rimanga invariata per un certo intervallo di tempo. Il grande vantaggio di questo strumento è che permette di riassumere il rischio di mercato a cui è esposto un portafoglio titoli con un singolo numero facilmente comprensibile. Ad esempio se il periodo di detenzione è di 10 giorni e il livello di confidenza è del 99%, un VaR di 2.380 € indica che la massima perdita che si dovrà sopportare con una probabilità del 99% mantenendo la composizione del portafoglio inalterata per i prossimi 10 giorni sarà pari a 2.380 €. In altre parole si correrà il rischio di subire una perdita superiore a 2.380 € mantenendo il portafoglio a posizione inalterate per i prossimi 10 giorni con una probabilità dell’1%.

Il VaR può essere espresso in questo modo:

Pr (P > VaR) ≤ 1 – α

(1.3)

dove:

α

= il livello di confidenza;

P

> 0 = la perdita.

Tale espressione può essere rappresentata graficamente in questo modo. Nella figura seguente la curva rappresenta la distribuzione di probabilità delle variazioni di valore del portafoglio. Data tale distribuzione di probabilità il VaR rappresenta il valore della perdita che sulla base di un determinato livello di confidenza

α,

non verrà superato detenendo il portafoglio a posizioni inalterate per un certo intervallo di tempo.

(19)

13 Media Distribuzioni di probabilità delle 1 –

α

variazioni di valore del portafoglio VaR

Area della perdita Area dei profitti

Emerge chiaramente come risulti essere elevato il potere segnaletico del Valore a Rischio, in quanto questo numero che esprime la perdita potenziale a cui si andrebbe incontro facilita molto l’individuazione del livello di rischio che si sta assumendo permettendo anche una facile conoscenza ai vertici aziendali.

1.4 - Le fasi di calcolo del Value at Risk

Le fasi generali per il calcolo del VaR sono cinque (Jorion 1997): 1. determinazione del valore di mercato del portafoglio titoli;

2. individuazione e misurazione della variabilità dei fattori di rischio a cui sono esposti i titoli in portafoglio;

3. scelta dell’holding period o periodo di detenzione; 4. scelta del livello di confidenza;

(20)

14 È fondamentale precisare come la scelta del periodo di detenzione e del livello di confidenza siano due fasi di cruciale importanza. In entrambi i casi la scelta è chiaramente arbitraria e presenta una forte connessione con le scelte di politica di gestione del rischio imposte dall’alta direzione di ogni istituto di credito.

La scelta del periodo di detenzione risulta essere fortemente influenzata dalla frequenza con la quale il portafoglio della banca viene ad essere modificato e dall’intervallo di tempo necessario alla sua liquidazione. Solitamente tale periodo risulta essere pari 1, 2 o 10 giorni. Nel caso in cui l’holding period sia pari ad un giorno il VaR viene definito come DEaR (Dealy Earnings at Risk) ovvero quantità di denaro giornaliera a rischio. Anche per quanto riguarda la scelta del livello di confidenza sono diverse le soluzioni adottabili dall’istituzione finanziaria. Solitamente i livelli di confidenza sono del 99%, 97,5% o 95%. Bisogna notare però come la scelta di un livello di confidenza molto elevato, sebbene permetta alla banca di ridurre quasi al minimo la probabilità di incorrere in perdite superiori al VaR, dall’altro canto potrebbe rendere troppo elevato il livello di protezione adottato. È chiaro dunque come la scelta del livello di confidenza sia funzione del grado di avversione al rischio dei soggetti decisori e del grado di protezione che si intende adottare nei confronti dei fattori di rischio (Accorinti, Pucci, Conti 2000).

1.5 - Metodi di calcolo del Value at Risk

Nel paragrafo 1.4 sono state elencate in termini qualitativi le fasi generali per calcolo del VaR. Diventa però fondamentale evidenziare come esistono diversi metodi di calcolo del Valore a Rischio, i quali pur seguendo lo schema di base sopra descritto sono caratterizzati da diverse ipotesi sottostanti e da diverse procedure. In particolare, come ricordato dalla principale letteratura, è possibile individuare due grandi approcci per il calcolo del Value at Risk:

• l’approccio parametrico tipicamente per portafogli caratterizzati da azioni ed obbligazioni. È bene precisare però come la procedura che verrà presentata nel

(21)

15 paragrafo 1.5.1 si riferisce al calcolo del VaR di un portafoglio azionario mentre quella relativa al calcolo del Value at Risk, secondo l’approccio parametrico implementato da RiskMetrics™ per un portafoglio obbligazionario sarà presentata nel secondo capitolo. Questo poiché il portafoglio di tesoreria oggetto di questa tesi, come verrà successivamente descritto, è composto solo ed esclusivamente da titoli obbligazionari ed il VaR parametrico calcolato secondo la metodologia di

RiskMetrics™;

• l’approccio di simulazione, a sua volta distinguibile in simulazione storica e simulazione di Monte Carlo, tipicamente per portafogli composti da strumenti derivati.

1.5.1 – L’approccio parametrico

L’approccio parametrico, detto anche metodo di varianza/covarianza o metodo analitico, può essere considerato come una diretta applicazione delle tradizionali analisi di portafoglio basate appunto sulla varianza e sulla covarianza.

In tale approccio si ipotizza che i profitti delle attività presenti nel portafoglio siano funzioni lineari dei fattori di rischio (a cui tali attività sono esposte) i quali si ipotizza a sua volta siano distribuiti normalmente. In questo modo la media e la varianza della distribuzione dei profitti delle attività presenti in portafoglio può essere calcolata a partire dalla media e dalla varianza dei fattori di rischio sottostanti. In aggiunta il metodo parametrico attraverso lo studio dei parametri di varianza e covarianza permette anche di considerare la correlazione esistente tra i diversi titoli che compongono il portafoglio, aspetto assolutamente fondamentale per costruire un portafoglio ben bilanciato ovvero un portafoglio i cui titoli reagiscono in maniera diversa ai movimenti dei fattori di rischio a cui sono esposti.

In sostanza l’approccio parametrico ipotizza che i profitti delle attività presenti in portafoglio assumano una distribuzione normale, che è un’assunzione forte.

(22)

16 La distribuzione normale si caratterizza per due parametri:

la media (µ) che in questo caso può essere intesa come misura attesa del valore dei profitti futuri;

la deviazione standard (σ) che può essere intesa come una misura di dispersione dei profitti intorno alla media.

Quando una variabile si ipotizza si distribuisca normalmente il suo valore atteso il 68% delle volte sarà compreso in un range dato dalla media meno una deviazione standard e la media più una deviazione standard (µ - σ ≤ X ≤ µ + σ), il 95% delle volte sarà compreso in un range dato dalla media meno 1,65 deviazioni standard e la media più 1,65 deviazioni standard (µ - 1,65σ ≤ X ≤ µ + 1,65σ), il 99% delle volte sarà compreso in un range dato dalla media meno 2,323 deviazioni standard e la media più 2,323 deviazioni standard (µ - 2,323σ ≤ X ≤ µ + 2,323σ).

Il Value at Risk di un singolo titolo è dato da quattro elementi (Jorion 1997, Betti 2001):

VaR

i

= V

i

× n × σ

i

√t

(1.4)

in cui:

V

i = valore di mercato del titolo;

n

= numero di volte per cui bisogna moltiplicare la deviazione standard per ottenere il livello di confidenza desiderato;

σ

i = deviazione standard del rendimento del titolo;

t

= periodo di detenzione.

Se invece l’obiettivo non è quello di calcolare il Valore a Rischio di un singolo titolo bensì quello di un portafoglio titoli il Value at Risk diventa:

VaR

p

= V

p

× n × σ

p

(1.5)

dove

V

p e

σ

p rappresentano rispettivamente il valore di mercato totale e la deviazione standard dell’intero portafoglio.

(23)

17

σ

2 p

=

p

2 j

σ

2 j

) +

∑ ∑

p

j

p

k

σ

j,k

)

(1.6) dove:

σ

2j

=

varianza della singola attività

p

j= peso della singola attività

σ

j,k= covarianza tra le coppie di attività

Tale varianza viene ad essere espressa in termini matriciali:

σ

2p

= p

1

, p

2

,……, p

N

σ

2 1

σ

1,2

… σ

1,N

p

1

. . .

… … σ

j,N

p

2

… … σ

k,N

σ

N,1

σ

N,2

… σ

2N

p

N (1.7) dove:

σ

2 1

σ

1,2

… σ

1,N

. . .

… … σ

j,N

… … σ

k,N

σ

N,1

σ

N,2

… σ

2N (1.8)

ènota come matrice di varianza-covarianza in cui:

σ

2

N = varianza della n-esima attività;

σ

j,N

=

covarianza tra la j-esima e la n-esima attività.

Tutte le informazioni necessarie alla costruzione della matrice possono essere ricavate dall’analisi della variabilità delle serie storiche dei titoli presenti in portafoglio e dallo studio delle interrelazioni tra le diverse attività.

L’equazione:

σ

2

p

=

p

2

j

σ

2j

) +

∑ ∑

p

j

p

k

σ

j,k

)

(1.9)

dimostra come il VaR dell’intero portafoglio sia funzione della varianza di ogni singola attività, dalla covarianza tra le attività e dal numero dei titoli che compongono il portafoglio. La covarianza (

σ

i,j) è un numero che fornisce una misura di quanto due variabili variano assieme. Se due variabili sono linearmente indipendenti allora la loro covarianza è pari a zero. Se la loro covarianza è positiva allora significa che le due

(24)

18 variabili tendono a muoversi nella stessa direzione mentre se la loro covarianza è negativa allora le due variabili tendono a muoversi in direzioni opposte.

Un semplice indicatore che permette di capire la dipendenza lineare che lega due variabili è il coefficiente di correlazione (

ρ

i,j):

ρ

i,j

= σ

i,j

/ (σ

i

σ

j

)

(1.10)

Il coefficiente di correlazione è sempre compreso tra -1 e +1. Quando è pari a +1 le due variabili si muovono nella stessa direzione in seguito a variazioni dei fattori di rischio. Se è pari a -1 le due variabili si muovono in direzioni opposte. Quando invece è pari a zero le due variabili non sono correlate. Una bassa correlazione o una correlazione negativa tra le due variabili aiuta a diversificare il portafoglio.

Proviamo a considerare un esempio con due titoli in portafoglio ed a calcolarne il VaR: la varianza del portafoglio è =

σ

2p=

p

2 1

σ

2 1

+

p

2 2

σ

2 2

+ 2 p

1

p

2

( ρ

1,2

σ

1

σ

2

)

e se

t

= 1 allora:

VaR

p =

V

p

×

n ×

p

21

σ

21 +

p

22

σ

22 + 2

p

1

p

2 (

ρ

1,2

σ

1

σ

2 =

(V

2p

n

2

) p

21

σ

2 1

+(V

2 p

n

2

)

p

2 2

σ

2 2

+ 2 (V

2 p

n

2

) p

1

p

2

1,2

σ

1

σ

2 =

VaR

21

+ VaR

22

+ 2ρ

1,2

VaR

1

VaR

2

Da cui discende che:

• se il coefficiente di correlazione lineare è pari a zero allora:

VaR

p =

√VaR

21

+VaR

22

e quindi

VaR

p <

VaR

1 +

VaR

2

poiché un portafoglio con due asset che si muovono linearmente è meno rischioso rispetto ad uno in cui i titoli sono perfettamente correlati;

• se il coefficiente di correlazione lineare è pari +1 allora:

VaR

p =

√VaR

21

+ VaR

22

+ 2VaR

1

VaR

2

(25)

19 in quanto un portafoglio con due asset che presentano un coefficiente di correlazione pari a +1 si muovono sempre nella stessa direzione in seguito a variazioni dei fattori di rischio;

• se il coefficiente di correlazione lineare è pari a -1 allora:

VaR

p =

VaR

21

VaR

22

- 2VaR

1

VaR

2

e quindi

VaR

p =

VaR

1

- VaR

2

in quanto un portafoglio con due asset che presentano un coefficiente di correlazione pari a -1 si muovono sempre in direzioni opposte in seguito a variazioni dei fattori di rischio.

In conclusione si può ritenere che in ipotesi di normalità dei rendimenti e disponendo delle serie storiche dei titoli in portafoglio, il VaR parametrico consente di definire il rischio a cui un portafoglio è esposto e conseguentemente di rivedere la composizione dello stesso nel caso in cui risulti essere esposto ad un rischio troppo elevato per la banca stessa.

È bene ricordare però, che l’approccio varianza/covarianza venga ad essere utilizzato prevalentemente in presenza di portafogli in cui le attività sono funzioni lineari dei fattori di rischio, tipicamente azioni ed obbligazioni. Per portafogli caratterizzati da titoli che presentano relazioni di tipo non lineare (come ad esempio le opzioni) appare come soluzione migliore quella di procedere al calcolo del VaR mediante gli approcci di simulazione (Betti 2001).

1.5.2 – L’approccio di simulazione

L’approccio parametrico è senza dubbio una delle metodologie più utilizzate nell’ambito bancario per la valutazione del rischio di portafoglio. Le forti ipotesi adottate da questo approccio né rendono però non agevole l’applicazione e l’utilizzo quando si è in presenza di titoli come le opzioni. Nel corso degli anni, con lo sviluppo degli strumenti finanziari derivati, si è reso dunque necessaria l’elaborazione di ulteriori metodologie atte a

(26)

20 misurare il rischio di questi titoli e che consentissero di superare i limiti del modello prima descritto. Questi modelli rientrano all’interno del cosiddetto approccio di simulazione detto anche non parametrico. Ciò che accomuna i metodi di simulazione è che non effettuando nessuna ipotesi circa la normalità della distribuzione dei rendimenti delle variabili di mercato non si rende necessaria la stima dei parametri di tale distribuzione (Betti 2001).

1.5.2.1 – La simulazione storica

Alla base del metodo della simulazione storica vi è la convinzione che la valutazione del rischio a cui un’attività o un portafoglio titoli è esposto possa avvenire tramite lo studio dei valori storici dell’attività o del portafoglio e quindi tramite lo studio dei cambiamenti di valore registrati in un periodo passato.

L’implementazione di questa metodologia prevede la realizzazione di una serie di fasi (Betti 2001; Accorinti, Conti, Pucci 2001):

1) scelta dell’holding period;

2) realizzazione di un database indicante in ogni momento del periodo di osservazione, solitamente un giorno, un mese o un anno, il valore dell’attività o del portafoglio. In

altre parole se l’holding period è di un giorno diventerà fondamentale avere il valore passato dell’attività/portafoglio giornaliere; se l’holding period sarà mensile diventerà fondamentale estrarre il valore dell’attività/portafoglio con frequenza mensile;

3) calcolo della variazione percentuale del valore dell’attività o del portafoglio intervenuta tra un periodo è l’altro. Se Vt è il valore dell’attività/portafoglio al

periodo t e Vn è il valore dell’attività/portafoglio al periodo n (periodo

immediatamente successivo al periodo t), la variazione percentuale tra i due periodi sarà pari a (Vn-Vt)/Vt;

4) determinazione del valore ipotetico dell’attività/portafoglio. Per far ciò bisognerà

applicare le variazioni percentuali determinate al punto precedente al valore corrente del portafoglio.

(27)

21

5) ordinamento del valore ipotetico dell’attività/portafoglio dal risultato migliore al risultato peggiore;

6) scelta del livello di confidenza;

7) individuazione del VaR. Se il livello di confidenza è del 95% e sono state effettuate N

osservazioni bisognerà prendere la rilevazione pari al novantacinquesimo percentile e sottrarla al valore attuale dell’attività/portafoglio. Ad esempio se il livello di confidenza è del 95% e le rilevazioni effettuate sono state 100 (cioè per l’attività/portafoglio sono state effettuate 100 rilevazioni del loro valore storico) bisognerà prendere la quinta peggiore rilevazione di valore ipotetico e sottrarla al valore attuale dell’attività/portafoglio.

Emerge chiaramente come la semplicità di implementazione di questa metodologia risulti essere superiore rispetto all’approccio parametrico. Nonostante questo però, sono molte le critiche rivolte alla simulazione storica in quanto fortemente basata sull’utilizzo di dati storici. Soprattutto in un periodo turbolento come quello degli ultimi anni, ritenere che la storia passata recente possa rappresentare un buona approssimazione dell’andamento futuro e quindi del rischio a cui è esposta un’attività o un portafoglio è quanto mai un azzardo.

1.5.2.2 – La simulazione Monte Carlo

Come affermato in precedenza l’approccio varianza/covarianza non è indicato per il calcolo del VaR di quegli strumenti, come ad esempio le opzioni, che presentano un legame non lineare con i fattori di rischio ai quali sono esposti. Una metodologia particolarmente indicata per calcolare il rischio di questi strumenti finanziari è la simulazione Monte Carlo. In pratica, tale metodologia sulla base di alcune assunzioni sulla distribuzione dei fattori di rischio, non fa altro che simulare molte volte il valore dei titoli presenti nel portafoglio nell’holding period, cioè permette di determinare la distribuzione di probabilità delle variazioni di valore dei titolo componenti il portafoglio in seguito alla variazioni dei parametri di mercato (Betti 2001). Quindi mentre nella

(28)

22 simulazione storica si determina il rischio a cui è esposto un portafoglio partendo dai valori storici dei fattori di rischio, in questa metodologia la determinazione del Valore a Rischio avviene sulla base di una precisa distribuzione teorica (non storica) dei fattori di rischio. In questo modo è possibile superare uno dei limiti della simulazione storica ovvero considerare l’andamento passato dei fattori di rischio costante nel tempo.

L’implementazione di questa teoria prevede la realizzazione di una serie di fasi (Betti 2001; Saita 2000):

1. definizione del periodo di detenzione;

2. definizione delle possibili variazioni di valore di tutti i fattori di rischio e quindi individuazione dei possibili scenari. In questa fase diventerà fondamentale la scelta

della distribuzione più adatta a simulare le variazioni di valore dei fattori di rischio. Questo non risulterà essere molto complicato se in presenza di un solo fattore di rischio o nel caso in cui tali fattori siano distribuiti in modo normale mentre risulterà essere molto più complicata in presenza di distribuzioni non normali e con un elevato numero di parametri di mercato;

3. determinazione del valore del portafoglio in relazione a ciascun scenario simulato.

Aspetto fondamentale di questa fase sarà l’individuazione della tecnica ottimale di rivalutazione del portafoglio. Una delle tecniche di rivalutazione più utilizzata è quelle che prevede l’applicazione dell’espansione in serie di Taylor del valore di un portafoglio di opzioni. Tramite l’utilizzo di questa espansione è possibile esprimere la variazione del valore di un portafoglio di n fattori di rischio sotto forma del polinomio (Cherubini e Della Lunga 2001):

PVport = delta × ∆S + 0,5 × gamma × ∆S2 + vega × ∆vol + rho × ∆r + theta (1.11)

dove ∆S è la variazione del valore del titolo, ∆vol è la variazione della volatilità del titolo, ∆r è la variazione dei tassi di interesse e delta, gamma, vega, rho e teta sono le greche.

(29)

23 4. ripetizione della prima e della seconda fase per un certo numero di volte (solitamente

10.000 iterazioni cioè 10.000 possibili differenti realizzazioni di valore dei fattori di rischio);

5. ordinamento dei risultato ottenuti dal migliore al peggiore;

6. scelta del livello di confidenza;

7. individuazione del VaR. Se il livello di confidenza è del 95% e sono state effettuate N

iterazioni bisognerà prendere il risultato pari al novantacinquesimo percentile e sottrarlo al valore attuale del portafoglio. Ad esempio se il livello di confidenza è del 95% e le iterazioni effettuate sono state 10.000 (cioè per il portafoglio sono state effettuate 10.000 rilevazioni del loro valore teorico) bisognerà prendere il cinquecentesimo peggior risultato e sottrarlo al valore attuale del portafoglio.

1.5.3 – Confronto tra le tre metodologie

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come sono tre, suddivise in due approcci, le principali metodologie con le quali è possibile calcolare il Value at Risk di un portafoglio titoli. Volendo compiere un confronto tra i tre diversi metodi emerge chiaramente come la simulazione storica risulti essere il metodo di più semplice implementazione rispetto sia all’approccio parametrico sia soprattutto rispetto alla simulazione Monte Carlo. Tale semplicità di implementazione rende poi sicuramente anche più agevole la comunicazione e la spiegazione dei risultati ottenuti al top management della banca. D’altro canto la simulazione storica basando i propri calcoli sull’andamento passato dei fattori di rischio può non rappresentare il rischio a cui il portafoglio è esposto in modo molto preciso. Ecco dunque che alla luce di queste brevi considerazioni emerge chiaramente come in presenza di portafogli costituiti da titoli con payoff lineari (azioni ed obbligazioni) l’utilizzo dell’approccio varianza/covarianza appaia migliore, mentre se il portafoglio è costituito da titoli con payoff non lineari (opzioni) l’utilizzo del metodo Monte Carlo nonostante l’elevata complessità e gli elevati temi computazionale appaia la soluzione più adatta.

(30)
(31)

25

Capitolo 2

IL CALCOLO DEL VALUE AT RISK DI UN

PORTAFOGLIO OBBLIGAZIONARIO

2.1 – L’approccio di RiskMetrics™

La banca commerciale statunitense J. P. Morgan può essere ritenuta come l’istituzione finanziaria che ha reso possibile lo sviluppo e la diffusione del VaR come strumento per la gestione del rischio di mercato. Nell’ottobre del 1994 J. P. Morgan pubblicò nel proprio sito internet il documento tecnico per il calcolo del Value at Risk secondo il modello da lei ideato detto RiskMetrics™. In altre parole RiskMetrics™ può essere ritenuto come un servizio che implementa gli approcci per il calcolo del Valore a Rischio descritti nel paragrafo 1.5, che con il passare degli anni è divenuto lo standard di mercato per la misurazione del VaR. Il Valore a Rischio di RiskMetrics™ in rispetto agli accordi di Basilea 2, viene ad essere calcolato sulla base di un holding period di 10 giorni e con un livello di confidenza del 99%.

Dalla lettura del documento tecnico emerge chiaramente come il calcolo del VaR di

RiskMetrics™ avvenga attraverso una serie di ipotesi quali:

• i fattori di rischio sono distribuiti normalmente;

• i profitti delle attività presenti nel portafoglio sono funzioni lineari dei fattori di rischio;

(32)

26

• e come diretta conseguenza delle ipotesi ai primi due punti i profitti delle attività presenti in portafoglio sono normalmente distribuiti.

In altre parole l’approccio principale di calcolo a cui RiskMetrics™ si rifà è quello parametrico. In presenza però di titoli, come ad esempio le opzioni, che presentano relazioni di tipo non lineare con i propri fattori di rischio J. P. Morgan propone l’utilizzo di altri metodi da lei implementati per il calcolo del Valore a Rischio ovvero la simulazione storica e la simulazione di Monte Carlo.

Successivamente J. P. Morgan realizzò un nuovo servizio. A fronte della stipula di un contratto, la banca statunitense si impegnò a provvedere al calcolo della matrice di correlazione (necessaria per il calcolo del VaR parametrico) ed a fornire sia i valori storici dei parametri di mercato (necessari per il calcolo del VaR secondo la simulazione storica) sia le simulazioni di scenario (necessarie per il VaR secondo la simulazione di Monte Carlo) a tutte le istituzioni finanziarie interessate all’utilizzo della metodologia di

RiskMetrics™ come strumento di risk management.

2.2. – I titoli obbligazionari

Prima di esporre il procedimento di calcolo del Valore a Rischio di un portafoglio obbligazionario a mio avviso è fondamentale specificare che cosa si intenda per obbligazione e quali sono le tipologie di obbligazioni più diffuse nel mercato.

Come definito dalla Borsa Italiana nel proprio sito internet le obbligazioni sono “ un titolo

di credito che rappresenta una parte del debito acceso da una società o da un ente pubblico per finanziarsi. Garantisce all’acquirente il rimborso del capitale più un tasso di interesse”. Tramite questo strumento finanziario l’emittente riesce a reperire del

capitale pagando un tasso più basso rispetto a quello che pagherebbe per ottenere lo stesso importo da un istituto di credito, mentre il sottoscrittore investe il proprio denaro in un titolo meno rischioso rispetto ad un’azione e che gli garantisce nella maggior parte dei

(33)

27 casi il pagamento certo di interessi durante il prestito e la restituzione del valore nominale a scadenza.

Gli elementi che caratterizzano un titolo obbligazionario sono dunque (Basso, Pianca 2010):

il valore nominale dell’obbligazione che viene ad essere stampato sul titolo e nella

maggior parte dei casi rappresenta la somma di denaro restituito al possessore del titolo alla scadenza del prestito;

il prezzo di emissione ovvero il prezzo pagato dal sottoscrittore per l’acquisto del

titolo all’emissione;

il valore di rimborso ovvero l’ammontare di denaro rimborsato al possessore del titolo

alla scadenza;

la quotazione ovvero il prezzo che il titolo assume nel corso del tempo nel mercato.

Tale prezzo è fortemente influenzato dall’andamento del tasso di mercato. Un aumento del tasso comporterà una diminuzione della quotazione e viceversa;

il tasso cedolare ovvero il tasso utilizzato per determinare l’ammontare della cedola;

cedole (coupon) cioè gli interessi pagati dal momento dell’emissione fino a scadenza.

Solitamente vengono emesse obbligazioni che pagano cedole trimestrali, semestrali o annuali. Le obbligazioni che non danno il diritto a ricevere cedole sono dette zero

coupon bond. La cedola è pari al rapporto tra il tasso cedolare ed il valore nominale

del titolo;

lo yield to maturity cioè il tasso che uguaglia il prezzo di emissione dell’obbligazione

con il valore attuale dei cash flow previsti.

Le obbligazioni possono essere a tasso fisso o a tasso variabile. In quelle a tasso fisso l’ammontare della cedola rimane costante per tutta la durata del titolo. In quelle a tasso variabile dette anche obbligazioni indicizzate, possono variare il capitale di rimborso, il valore della cedola o entrambi. Solitamente l’indicizzazione avviene sulla base dei tassi interbancari (Euribor), dell’inflazione nonché sulla base del rendimento di altri titoli.

(34)

28 Si è poi soliti suddividere le obbligazioni a seconda dell’emittente. Sulla base di questa distinzione è possibile individuare (Dipartimento del Ministero del Tesoro; Borsa Italiana; Elton, Gruber, Brown, Goetzmann 2007):

le obbligazioni governative i cosiddetti Titolo di Stato ovvero le obbligazioni emesse dal Ministero del Tesoro. I principali titoli obbligazionari emessi dal Ministero del Tesoro italiano sono:

o Buoni Ordinari del Tesoro (BOT): titoli che non prevedono il pagamento di

cedole e che offrono un rendimento dato dal cosiddetto scarto di emissione ovvero la differenza tra il prezzo di emissione ed il prezzo di rimborso pari al valore nominale. Tali titoli presentano una durata pari a 3, 6 o 12 mesi. Essendo dei titoli che non prevedono il pagamento di cedole sono dotati di una caratteristica rilevante ovvero offrono un tasso di rendimento ex-post a scadenza pari a quello calcolato ex-ante. Quindi nel caso in cui tali titoli vengano acquistati all’emissione e detenuti fino a scadenza non presentano alcun rischio di tasso (Mazzocco 2005).

o Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ): titoli zero coupon con durata di 24

mesi. Sono titoli che presentano molti similitudini con i BOT infatti offrono sia un rendimento dato dallo scarto di emissione sia un tasso di rendimento

ex-post a scadenza pari a quello calcolato ex-ante. Quindi nel caso in cui tali titoli

vengano acquistati all’emissione e detenuti fino a scadenza non presentano alcun rischio di tasso (Mazzocco 2005).

o Buoni Poliennali del Tesoro (BTP): titoli con cedola fissa. Emessi con

scadenza pari a 3, 5, 10,15, o 30 anni.

o Buoni Poliennali del Tesoro indicizzati all’inflazione europea (BTP€i): titolo a

tasso variabile. In realtà in questa obbligazione il tasso percentuale è fisso, ciò che varia è l’ammontare della cedola che viene ad essere determinato moltiplicando il tasso per il capitale rivalutato in base all’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo (IAPC), con esclusione del tabacco, calcolato

(35)

29 dall’EUROSTAT. Il rimborso del valore nominale del titolo viene comunque garantito alla scadenza;

o Buoni Poliennali del Tesoro Italia (BTP Italia): titolo indicizzato all’inflazione

italiana con scadenza a 4 anni. In tale titolo le cedole ed il capitale sono rivalutati in base all’inflazione italiana rilevata dall’ISTAT tramite l’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (FOI) con esclusione dei tabacchi. Il rimborso del valore nominale del titolo viene comunque garantito alla scadenza;

o Certificati di Credito del Tesoro (CCT):titoli a tasso variabile con durata pari a

7 anni. In tali titoli la cedola è indicizzata al rendimento lordo semplice annuo dei BOT a 6 mesi;

o Certificati di Credito del Tesoro Euribor (CCT eu): titoli a tasso variabile con

durata solitamente pari a 5 anni. In tali titoli la cedola è indicizzata all’Euribor a 6 mesi.

Il valore nominale di tutti i Titoli di Stato italiani è pari a 1000 €;

le obbligazioni societarie ovvero bond emessi da società private, banche e società industriali. Tali titoli presentano solitamente un rendimento superiore ai Titoli di Stato di uguale durata (Borsa Italiana).

2.3 – Le fasi di calcolo del Value at Risk di un portafoglio

obbligazionario secondo l’approccio parametrico di RiskMetrics

TM

Come elencato da J. P. Morgan nel proprio documento tecnico e dalla principale letteratura riguardante l’argomento il calcolo del Valore a Rischio secondo l’approccio parametrico di RiskMetrics™ per un portafoglio obbligazionario prevede il compimento di cinque fasi (Jorion 1997, Hull 2004, Cherubini e Della Lunga 2001):

(36)

30 2. attuazione del cash flows mapping2 e calcolo della volatilità dei tassi di interesse e

della relativa correlazione; 3. calcolo delle risk position;

4. realizzazione della matrice di correlazione; 5. calcolo del VaR.

La prima fase ha come obiettivo quello di determinare per ogni titolo obbligazionario che compone il portafoglio i suoi flussi di cassa alla data in cui tali flussi si verificheranno. Per quanto concerne la determinazione dei flussi di cassa associati ai diversi strumenti diventa fondamentale capire le caratteristiche del bond stesso. In presenza infatti di un titolo zero coupon bond si avrà un unico flusso in entrata a scadenza del titolo pari al suo valore nominale.

Per obbligazioni a tasso fisso con cedola, oltre al flusso in entrata alla scadenza del titolo (come per le zero coupon) si avranno tanti altri flussi in entrata quante saranno le cedole che il possessore del titolo avrà diritto ad incassare dal momento dell’acquisto fino a scadenza.

Nel caso di titoli obbligazionari a tasso variabile i flussi cedolari non sono noti. L’unica cedola nota è la prima che il possessore del titolo avrà diritto ad incassare dalla data di calcolo del VaR. Ecco dunque che come conseguenza di tutto ciò un bond a tasso variabile viene trasformato in uno a tasso fisso con scadenza pari al prossimo stacco della cedola. In questo modo il cash flow connesso a tale titolo sarà pari alla somma tra la cedola (a sua volta pari al prodotto tra il tasso cedolare relativo a quella cedola ed il nominale) ed il valore nominale di rimborso.

La seconda fase è quella inerente al cash flow mapping. Questa fase prevede di assegnare i flussi di cassa associati a ciascuna obbligazione costituente il portafoglio a dei precisi intervalli temporali, detti bande o vertici. In questo modo la somma di tutti i cash flow assegnati all’interno di una ben precisa banda temporale rappresenta il flusso di cassa totale di quel specifico vertice. É importante precisare però come, mentre i flussi di cassa

2 Il cash flow mapping è quella procedura che consente di ripartire i flussi di cassa di uno strumento

(37)

31 che il possessore del bond avrà diritto ad incassare ad una data coincidente con quella di una specifica banda temporale saranno assegnati direttamente alla banda, un procedimento diverso dovrà essere effettuato per quei cash flow compresi tra due vertici. In tal caso è infatti necessario ricorrere ad una procedura di mapping (Betti 2001). In altre parole ad esempio il vertice ad 1 anno sarà dato dalla somma tra tutti i flussi di cassa con scadenza pari a 1 anno ed i cash flow con scadenza compresa tra 1 anno ed il vertice successivo e che sono stati “mappati” all’interno di tale vertice. Quindi se i vertici sono pari ad 1 e 2 anni ed un flusso di cassa pari a 150 € presenta scadenza pari ad 1 anno e 3 mesi esso verrà “mappato” tra la banda ad 1 anno e quella a 2 anni in questo modo (Saita 2000):

cash flow “mappato” nella banda ad 1 anno sarà pari a 150 € ×

α

cash flow “mappato”nella banda a 2 anni sarà pari a 150 € × (1-

α

) La determinazione del parametro

α

avviene nel seguante modo:

2

+ bα + c = 0

(2.1)

e quindi:

α

=

-b± b

2

-4ac

2a

(2.2) essendo:

a = σ

21

+ σ

2 2

- 2ρ

1,2

σ

1

σ

2 (2.3)

b = 2ρ

1,2

σ

1

σ

2

- 2σ

2 2 (2.4)

c = σ

22

- σ

2 1,3

(2.5)

con:

σ

21

=

varianza del tasso di interesse ad 1 anno;

σ

22

=

varianza del tasso di interesse a 2 anni;

ρ

1,2

=

coefficiente di correlazione lineare tra il tasso di interesse ad 1 anno e quello a 2 anni;

(38)

32 La soluzione di questa equazione darà due risultati. Ai fini di una corretta procedura di

mapping occorrerà utilizzare il parametro

α

compreso tra zero ed uno. Al momento J. P.

Morgan utilizza per RiskMetrics™ 14 bande temporali pari a 1, 3, 6 mesi; 1, 2, 3, 4, 5, 7,

9, 10, 15, 20, 30 anni (RiskMetricsTM Technical Document 1996).

Ovviamente per effettuare la procedura di mapping sulla base di quanto sopra descritto diventa fondamentale disporre delle volatilità dei tassi di interesse e dei relativi coefficienti di correlazione. Tali volatilità e coefficienti vengono ad essere calcolati da

RiskMetricsTM tramite l’exponential weighted moving avarage model (EWMA). Secondo il modello della media mobile esponenziale con pesi la deviazione standard all’istante temporale t è pari a (Saita 2000):

σ

t

=

1-λ 1-λn

∑ λ

i

r

t-1-i

-r

t

!

2 n-1 i=0

(2.6)

dove:

λ

= decay factor il quale risulta essere compreso tra zero ed uno;

r

t-1-i = valore del tasso di interesse alla data t-1-i;

r

t = media dei valori assunti dal tasso di interesse nell’arco del periodo che va da zero ad n-1.

È bene precisare però come al momento RiskMetrics™ ipotizzi, per il calcolo della deviazione standard sulla base dell’EWMA, che il rendimento medio sia nullo e quindi la deviazione standard all’istante t sarà:

σ

t

=

1-λ 1-λn

∑ λ

i

r

2t-i-1 n-1 i=0

(2.7)

e nel caso in cui il numero delle n osservazioni risulti essere molto elevato (n tenda a +∞), considerando che

λ

n tende a zero al tendere di n all’infinito, l’espressione sopra descritta può essere semplificata in questo modo:

σ

t

= 1 − # ∑ λ

i

r

2t-i-1

n-1

(39)

33 Da ciò sulla base di alcuni passaggi algebrici è possibile calcolare la media mobile esponenziale basandosi sia sull’ultimo rendimento che sulla volatilità del giorno precedente.

Esprimendo, infatti, la volatilità dei tassi di interesse in termini di varianza e non sotto forma di deviazione standard essa sarà pari a:

σ

2t

= (1-λ) r

2

t-1

+ λ σ

2

t-1

(2.9)

Allo stesso modo potrà essere calcolata la covarianza:

Cov(r

1

,r

2

) =

(1-λ)

∑ λ

i

r

1,t-1-i

r

2,t-1-i

n-1

i=0

(2.10)

la quale allo stesso modo della volatilità può essere trasformata in:

Cov(r

1

,r

2

) =

(1-λ)

r

1,t

r

2,t

+

λ

Cov(r

1

,r

2

)

t-1

(2.11)

Data la covarianza il coefficiente di correlazione lineare sarà pari a:

ρ

12,t =

Cov r

1

,r

2 t

σ

1,t

σ

2,t

(2.12)

Attualmente RiskMetrics™ utilizza un valore di

λ

pari a 0,94 per la stima della volatilità giornaliera dei tassi di interesse, e di 0,97 per la stima della volatilità mensile (RiskMetricsTM Technical Document 1996).

L’obiettivo della terza fase è quello di calcolare per ogni specifica banda temporale la risk

position. Per la banda temporale s:

risk positions = cash flows ×

σ

s ×

√t

×

n

(2.13) dove:

cash flows = la somma di tutti i flussi di cassa relativi alla banda temporale s;

σ

s

=

la deviazione standard del tasso di interesse relativo alla banda temporale s;

t

= l’holding period;

n

= numero di volte per il quale bisogna moltiplicare la deviazione standard per ottenere l’intervallo di confidenza desiderato.

(40)

34 In sostanza le risk position rappresentano un aggregato che fornisce una prima indicazione del rischio presente nel portafoglio per banda temporale considerata.

La quarta fase è finalizzata alla determinazione di un elemento fondamentale per il calcolo del VaR del portafoglio obbligazionario ovvero la matrice delle correlazioni tra i tassi di interesse inerenti le diverse bande temporali. Tale matrice risulta essere costituita dalle correlazioni

(ρ)

esistenti tra i tassi di interesse relativi alle diverse bande temporali. Una volta determinate le correlazioni esistenti, tramite l’utilizzo delle formule descritte nella seconda fase, per tutte la bande temporali è possibile determinare la matrice delle correlazioni:

1

ρ

1

,

2

… ρ

1,w

ρ

2,1

1

… ρ

2,w

… … …

… … …

ρ

w,1

ρ

w,2

… 1

(2.14)

Una volta determinata la matrice delle correlazioni si può procedere al calcolo del Value

at Risk. Il Valore a Rischio per un portafoglio obbligazionario sarà dunque pari alla radice

quadrata del prodotto tra il vettore delle risk position, la matrice di correlazione e il vettore trasposto delle risk position.

VaR = $ %% %% %% %% %&

risk position1, risk position2, … , risk positionw)

1 ρ1,2 … ρ1,w ρ2,1 1 … ρ2,w … … … … … … … … ρw,1 ρw,2 1 risk position1 risk position2 … … risk positionw (2.15)

(41)

35

Capitolo 3

IL CALCOLO DEL VALUE AT RISK DEL

PORTAFOGLIO DI TESORERIA DELLA BANCA DI

CREDITO COOPERATIVO

3.1 – Il portafoglio di tesoreria della banca di credito cooperativo

Prima di descrivere i passaggi da me effettuati per il calcolo del Value at Risk sulla base del portafoglio di tesoreria fornitomi dalla banca, ritengo necessario procedere ad una breve descrizione del portafoglio della banca stessa. Solitamente i portafogli obbligazionari possono essere raggruppati all’interno di tre grandi categorie:

portafogli held to maturity (HTM) nei quali i titoli vengono detenuti fino a scadenza e quindi non rivenduti nel mercato secondario;

portafogli hold for trading (HFT) ovvero portafogli adibiti alla negoziazione intra-day e quindi caratterizzati da un’elevata attività di compravendita. La composizione di tali portafogli subirà dunque una costante modifica;

portafogli available for sales (AFS) ovvero portafogli nei quali è consentita la vendita dei titoli nel mercato secondario ma con una frequenza chiaramente inferiore rispetto a quella presente in quelli HFT.

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