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La femme fatale. Ritratto di un mito femminile

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE p. 2

CAPITOLO 1: TIGRE REALE p. 4

- 1.1 Cenni introduttivi p. 4

- 1.2 Amore e Morte p. 5

CAPITOLO 2: ELENA MUTI p. 19

- 2.1 Andrea Sperelli p. 21

- 2.2 Elena Muti p. 22

- 2.3 Maria Ferres p. 27

- 2.4 Considerazioni Finali p. 33

CAPITOLO 3: FOSCA p. 37

- 3.1 Il contesto storico e culturale p. 37

- 3.2 Clara p. 39

- 3.3 Fosca p. 47

- 3.4 L’isteria e gli studi di Freud p. 55

- 3.5 L’anoressia p. 57

CAPITOLO 4: CARMEN p. 59

- 4.1 La costruzione della storia p. 59

- 4.2 Carmen p. 61

- 4.3 Considerazioni finali p. 74

CAPITOLO 5: IL FILM NOIR E LA DARK LADY p. 76

- 5.1 La definizione di film noir p. 76

- 5.2 I confini cronologici p. 79

- 5.3 Tematiche p. 82

- 5.4 Spazio e tempo p. 85

- 5.5 I personaggi p. 88

- 5.6 Gilda p. 94

- 5.7 Un genere in crisi e la nascita del neo noir p. 101

- 5.8 Basic Instinct p. 103

CONCLUSIONI p. 109

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INTRODUZIONE

Il mito della femme fatale (dal latino femina e fatalis ovvero “donna imposta dal destino” o “artefice del destino, strumento del fato” e quindi per estensione “donna che causa morte e distruzione”, “donna al cui bellezza reca sventura”), ha origini molto antiche: esso nasce in

contemporanea alla letteratura occidentale. nell’Antico Testamento, ad esempio, è Eva a tentare Adamo per fargli mangiare la mela proibita, esiliando così per sempre l'umanità dal giardino dell'Eden.

Altri archetipi leggendari sono Lilith, Salomé, le Sirene, la Maga Circe di Omero, Medea, Fedra, Messalina, Elena di Troia, Cleopatra.

Tuttavia questa figura viene particolarmente celebrata nell'arte e nella letteratura dell’Ottocento quale prodotto di un’epoca che riflette i cambiamenti della società da cui è

venuta. È nella letteratura borghese del XIX secolo che si consacra la dicotomia tra la donna angelicata, portatrice di virtù, conforme alle regole del sistema ideologico e morale maschile e la donna trasgressiva, perversa e seducente, tra la“Madre” e la “prostituta”.

Nel romanzo decadente della seconda metà del secolo la figura della donna angelicata soccombe lasciando campo libero a quello della donna dominatrice e spietata che vuole sottomettere la figura maschile, spesso coniugando in sé il binomio esotismo- erotismo. Quest’ultimo è il caso della Carmen di Mérimée, esponente della passionalità iberica dall’indole passionale che esaspera a tal punto l’amante da condurlo a gesti estremi.

Con l’inizio del ‘900 questa figura subisce un declino repentino nella letteratura per

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3 In questa trattazione, partendo dalla descrizione di quattro donne fatali della letteratura italiana ed europea dell’ottocento, cercherò di delineare un ritratto di questo mito femminile definendone caratteristiche, peculiarità e strategie seduttive:

Nata, donna ricca, elegante, capricciosa e volubile, consumata da attacchi di tisi e convulsioni; Elena Muti, fredda manipolatrice che mette in crisi tutte le certezze del protagonista maschile; Fosca, l’isterica per eccellenza che riesce ad avviluppare l’uomo nella sua rete ispirandogli sentimenti misti di pietà e ribrezzo con la sua estrema bruttezza; e Carmen, la bella gitana che incarna, con la sua bellezza selvaggia, con il suo sguardo a un tempo voluttuoso e ferino, un mondo di pulsioni e d'istinti primigeni,.

Infine, nel capitolo conclusivo, dopo aver offerto una panoramica generale sulle caratteristiche del film noir, cercherò di definire i tratti distintivi della dark lady hollywoodiana analizzando due pellicole cronologicamente molto distanti tra loro: Gilda (1946) e Basic Instinc (1992).

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CAPITOLO 1: TIGRE REALE

1.1 Cenni introduttivi

Tigre reale1 è un romanzo di Giovanni Verga del quale ci sono pervenute due redazioni talmente diverse l’una dall’altra da poter essere considerate due opere distinte. Lo scrittore catanese ha iniziato a lavorare alla prima redazione durante l’estate del ’73, ma a causa di un giudizio fortemente negativo dell’editore Treves e della conseguente interruzione dei rapporti con quest’ultimo, egli decide di riscrivere il romanzo ex novo. In questa

trattazione ho analizzato la seconda redazione del romanzo, scritta tra il giugno del 1874 (data del contratto stipulato con l’editore Brigola) e la metà del 1875 (data della pubblicazione dell’opera). Il romanzo verrà, poi, nuovamente pubblicato sempre da Brigola nel ’78 e nell’83. L’anno successivo, in seguito a problemi finanziari dell’editore,

Tigre Reale (insieme a Eros) sarà ceduta all’editore Treves, presso il quale verrà stampata nel 1884, 1887, 1892, 1908, e 1919 .I due testi condividono la stessa fabula (l’amore tra Giorgio La Ferlita, un giovane “pieno di brio, alquanto sarcastico e motteggevole, un po’ commesso viaggiatore in uniforme d’addetto d’ambasciata” e Nata, una donna aristocratica, dall’atteggiamento altero, malata di tisi), ma l’intreccio presenta alcune

differenze: onomastica e toponomastica diverse, variazioni per quanto riguarda alcune caratteristiche fisiche dei personaggi e diversità di linguaggio utilizzato (più vicino al parlato nella prima redazione, più aulico e letterario con l’aggiunta di un numero

considerevole di francesismi nella seconda). Tuttavia, la discrepanza più rilevante è costituita dall’importanza attribuita alla storia d’amore nelle due versioni: nel caso nella

prima stesura essa è centrale nel romanzo, mentre tutti gli altri elementi romanzeschi le

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5 ruotano attorno. Nella versione definitiva, invece, l’amore tra i due irrompe dal passato e si inserisce nel presente della vita coniugale e familiare di Giorgio. Il matrimonio, la famiglia, rappresentano il punto di partenza e, come si vedrà, quello di arrivo della storia.2 La narrazione presenta un andamento analettico a partire dal momento delle nozze di Giorgio ed Erminia che segnano l’inizio di un “complesso puzzle, in cui il tempo della storia e il tempo della narrazione si intersecano”3 fino a ricongiungersi al momento del

matrimonio.

1.2 Amore e Morte

La vicenda amorosa tra La Ferlita e Nata irrompe nella narrazione come un ricordo -“Io me ne rammento ancora”, dice il narratore in rifermento al biglietto scritto da Nata per

Giorgio4- e grazie alla rievocazione di un ballo a Palazzo Pitti la donna fa il suo ingresso trionfale nel romanzo come una “civetta, orgogliosa, egoista, marmo di Carrara dentro e

fuori; tal quale si vedeva, con quel sorriso glaciale, si diceva avesse spinto al suicidio il solo uomo che avesse mai amato, e amato alla follia, un amore da leonessa”5.

È da sottolineare l’utilizzo di quest’ultimo sostantivo perché già dalla prima presentazione di Nata emerge la tendenza di Verga a delineare il personaggio attraverso l’uso di

sostantivi e aggettivi appartenenti al campo semantico del mondo animale.6 A tal proposito è interessante citare una lettera di Verga datata 21 novembre 1873 e indirizzata all’editore Treves nella quale si legge: “Tigre reale mi fu detto essere un titolo non del tutto nuovo. Vi

2 Per approfondimenti sulla vicenda editoriale e sulle differenze tra le due redazioni del romanzo si vedano:

R. Verdirame, L’avventura di “Tigre reale” e altri saggi verghiani, Catania, Aldo Marino Editore, 1984; G. Verga, Tigre reale I, edizione critica a cura di Margherita Spampinato Beretta, Firenze, Le Monnier, 1988; G. Verga, Tigre reale II, edizione critica a cura di Margherita Spampinato Beretta, Firenze, Le Monnier, 1993.

3 R. Verdirame, Op. cit., p. 47 4 Tigre reale, ed. cit., p. 178. 5 Ibidem, p. 179

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6 piace Felis mulier? Se non vi sa un po’ troppo di latino io lo crederei opportuno a fermare il pensiero in certa specie di felini che non sono nei trattati di Storia naturale”7

Ma torniamo alla descrizione di Nata: già da queste prime parole si evince chiaramente che sarà lei a condurre il gioco seduttivo, lei, “leonessa” che con “tutti i dispotismi” attira nella sua trappola Giorgio, uomo “effeminato, (…) nel senso moderno ed elegante” , lui che con le sue “debolezze muliebri” non può resistere al fascino esotico della contessa, una donna che viene da lontano, precisamente dalla Russia, che

“aveva tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata – era boema, cosacca e parigina – e nella felina pupilla corruscavano delle bramosie indefinite ed ardenti”. (p. 181)

Nata è presentata fin da subito come una “donna glaciale”8 che si muove con disinvoltura negli ambienti sociali dei quali lei stessa fa parte, ella ha uno status sociale ben definito che i suoi atteggiamenti e dal modo di vestire rispecchiano alla perfezione. È diventata “esperta nell’arte del travestimento”9 poiché con abiti e trucco alla moda prova a mascherare il

progressivo degrado fisico dovuto alla sua malattia. Si destreggia tra balli, serate a teatro, passeggiate in carrozza rifiutando o accettando con fare civettuolo le avances dei suoi spasimanti. Ma, sotto quella corazza marmorea di donna impenetrabile, ella nascondeva “febbri da leonessa, ruggiti di spasimo” che la portano a iniziare un gioco fatale di

seduzione/repulsione con Giorgio. Quest’ultimo prova un sentimento contrastante nei suoi confronti: da una parte egli ne è attratto, ma dall’altra è spaventato dal rischio della passione tanto che, come si vedrà meglio in seguito, deciderà di abbandonare la pericolosità dell’avventura e di rifugiarsi nel porto sicuro degli affetti tradizionali, quali la

7 La lettera si trova in R. Verdirame, Op. cit. p. 9

8 A. Neiger, Liturgia della seduzionein tigre reale di Verga, in AA.VV. All’insegna della femme

fatale,Trento, New magazine editori, 1994, p. 44

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7 famiglia e il matrimonio. Era inevitabile, dunque, “che dall'incontro di questi due prodotti malsani di una delle esuberanze patologiche della civiltà, il dramma doveva scaturire naturalmente, dramma o farsa, come dall'urto di due correnti elettriche.”( p. 182)

Quindi, il lettore già da questi primi due capitoli del romanzo riesce a delineare le caratteristiche principali del personaggio femminile: è ricca, elegante, esotica capricciosa, volubile, ama essere al centro dell’attenzione e condurre il gioco amoroso dall’alto del suo piedistallo. Poi, all’inizio del capitolo terzo, emerge un’altra importate peculiarità che

costituirà il fulcro della narrazione: la malattia.

Infatti, “nell’universo diseroicizzato dell’alta borghesia cittadina, dove << la donna è un oggetto di lusso>>, argomento di conversazione mondana (…) o è degradata a gioco mondato, o costretta nei limiti della digressione narrativa, o consegnata ai meccanismi trasfiguranti della memoria o, infine, tenuta a distanza perché malata, corrosiva, terrificante”.10

Ed è proprio quest’ultimo il caso di Nata: ogni volta che qualcuno, sia esso il narratore,

Giorgio o un altro personaggio, descrive la donna utilizza immagini di decadenza e di patologia. La malattia è diventata una caratteristica intrinseca del personaggio, essa è un “attributo narrativo, un simbolo della revisione e degradazione delle forme storiche e

sociali del sentimento (…)”.11 Ad esempio, Giorgio durante un’uscita in carrozza vede la

contessa “tremante di freddo sotto un mucchio di pellicce, pallida, dimagrata”; e ancora, il visconte de Rancy si riferisce a lei come a “una donna andata” e addirittura lo stesso narratore parla di lei come una donna “pallida, dimagrata con gli occhi stanchi, arsi di febbre”.

Quindi la malattia è il filtro attraverso il quale Nata viene osservata e la sua morte non è altro che l’esito naturale di un destino già scritto, poiché nella società ottocentesca,

10 M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul primo Verga, Napoli, Liguori editore, 1989, pp.

143-144

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8 dominata dal mito del progresso, in cui gli ideali sono relegati, subordinati ai dettami delle convenzioni sociali, la “donna fatale” si presenta come una “figura dell’eccesso romantico”12, non c’è posto per lei in un tale contesto.

Tuttavia, è interessante notare che in Verga la fatalità non dipende da una sorta di deus ex machina che gestisce le vicende amorose, ma, al contrario, si trova nelle azioni e nelle scelte quotidiane degli uomini o meglio, della donna, la quale compie le sue scelte, giuste o sbagliate che siano, ne accetta le conseguenze e ne porta il peso. Il rapporto tra uomo e donna, come in questo caso, spesso si risolve in un’opposizione, ma “che l’incontro diventi scontro (…) non è fatale, è soltanto naturale”.13

Per quanto riguarda il comportamento della contessa nei confronti della relazione con Giorgio è necessario sottolineare il fatto che ella si mostra consapevole della sua condizione di donna sposata, apparentemente il suo unico scopo sembra quello di essere solamente “un’amica impareggiabile”. Dice, infatti: “Che peccato non ci sia neppur un briciolo di colpa in quel che stiamo facendo!” (…) Coloro che ci incontreranno ci

prenderanno per due amanti, non è vero, Giorgio?”. (p. 194)

Nata cercherà per tutto il romanzo di mantenere un certo equilibrio, di non cedere alla passione amorosa e persino nei momenti in cui sembra che questo equilibrio stia per spezzarsi i due non arriveranno mai fino in fondo: un primo esempio è rappresentato dall’episodio in cui i due si scambiano il primo bacio al teatro la Pergola e Nata dice a

Giorgio “Non vi amo, sapete” disse “no!” E lo inchiodò sul marciapiede con quello sguardo, con quelle parole, allontanandosi senza dire altro”.(206)

E ancora, quando Giorgio trova il coraggio di svelarle il suo amore lei risponde: “Vi domando se potete dirmi, sulla vostra parola d'onore, che mi amerete sempre così, anche quando sarete stato il mio amante; vorrei sapere che cosa fareste se una donna più bella di

12 G. Scaraffia, La donna fatale, Roma, edizioni Nuova cultura, 2010, p. 92

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9 me, o che vi piacesse dippiù, che avesse soltanto il vantaggio di non essere io stessa, una duchessa, una cameriera, vi stringesse la mano in un ballo, o entrasse sfrontatamente in camera vostra: cosa fareste, La Ferlita?” (p. 202)

A questo punto il lettore si aspetterebbe una scena sentimentale con il personaggio maschile che si inginocchia piangendo per dichiarare il suo amore eterno e invece Giorgio non riesce a dire una parola. È sempre Nata a condurre la conversazione che prende una piega del tutto inaspettata: ella inizia a raccontare di un suo vecchio amore finito in tragedia. E anche quando La Ferlita tenta di baciarla, Nata lo inchioda con una risposta lapidaria “buon viaggio, La Ferlita”.

La vicenda di Dolski, l’uomo che la contessa aveva amato e che si è ucciso, alla quale si fa riferimento rappresenta un residuo stereotipato di un rapporto d’amore-morte che male può essere adattato alla società borghese coeva, mossa dalla logica dell’utile e del guadagno. A

tal proposito, come suggerisce Marina Muscariello, è interessante citare alcune parti delle differenti versioni delle due descrizioni di questo rapporto amoroso finito in tragedia che offrono Nata e il visconte de Rancy.

La prima ne parla in questi termini:

“Io ho amato... una volta... ho amato quell'uomo di cui mi rinfacciate la morte... l'ho amato come voi altri non sapete amare, io, donna senza cuore, e non sono morta come un personaggio di tragedia... almeno allora. Era un ribelle condannato all'esilio, credo anche un ebreo, senza altra ricchezza che la sua carabina di cacciatore. Mi odiava perché io ero della razza dei suoi padroni, di coloro che aveano gettato lui in Siberia e avevano bastonato le sue donne - l'amai perché mi odiava, perché mi fuggiva; c'era un abisso fra di noi, e la vertigine mi gettò nelle sue braccia (…)Mio marito non mi ama, non è geloso, ma è perfetto gentiluomo, e non potendo battersi col suo rivale, avrebbe saputo che il suo dovere era di bruciare le cervella a lui e a me; allora trovavasi al Caucaso: dopo sei mesi fui costretta a raggiungerlo a Pietroburgo per passarvi l'inverno. Mi parve di morire, Dolski mi scriveva delle lettere che mi davano delle notti insonni e febbrili. Finalmente perdetti interamente la testa, e in un breve intervallo che il conte era assente mi misi in viaggio, feci il lungo viaggio nel cuor dell'inverno, a cavallo, in carrozza, in slitta, come potei, per andare a raggiungere il mio amante, io che avevo sdegnato veder ai miei piedi dei principi... quell'uomo ai piedi del quale mi sarei inginocchiata... e arrivando all'improvviso seppi che durante la mia lontananza egli aveva avuto 'una distrazione', e che un'altra…non so chi sia, non volli saperlo, avea profanato la mia memoria e il mio amore. Ripartii senza vederlo, senza fargli un rimprovero: mi ammalai lungo il viaggio, e quando giunsi a Pietroburgo, dissero ch'ero etica. Quell'uomo pure mi amava alla sua maniera, alla maniera di voi altri; ruppe il bando, a rischio della vita, e mi corse dietro come un forsennato. Io ero in letto con la febbre, e l'udii piangere, e implorare, e picchiare

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10 della testa sul limitare del mio uscio. In quel momento non seppi più perdonare a quell'uomo che mi uccideva di non avere almeno la dignità della colpa” (pp. 201-202)

Il secondo, invece, ne parla così:

“Quella è una donna pericolosa, per bacco!, bella, bellissima, seducentissima; ma da far paura al Baiardo degli innamorati; io ho conosciuto quel polacco a Varsavia, era un giovane bello e distinto, ma era anche un po' esaltato, tanto da compromettersi ed esser mandato in Siberia, e da far poi quel che ha fatto... Infine perché? lo saprete anche voi - per la miseria di un amoretto che s'era permesso mentre lei era a Pietroburgo, e pensate che doveva starci sei mesi! La contessa deve avere delle idee singolari sulla fedeltà mascolina, e punto comode! Egli ruppe il bando, a rischio di tutto, corse a buttarlesi ai piedi; ella non volle vederlo, e gli fece dare quattromila rubli per mezzo del domestico. (…)Gli diceva: 'Vi ho comperato, ma non vi ho amato, ora vi pago, l'amore è salvo e senza macchia' - l'amore è la sola divinità di costei; egli le scrisse colla febbrile concisione della disperazione, che se non gli avesse perdonato sarebbesi ucciso sotto i suoi occhi. 'È il solo mezzo di riabilitarci entrambi' gli fece rispondere”. (p. 208)

È evidente lo scarto esistente tra le due logiche, tra “il linguaggio del cuore e il linguaggio della borsa”14: dal confronto si evince che un personaggio come quello di Nata è estraneo

alla logica razionalistica dell’utilità della società borghese e che la passione amorosa viene

inglobata completamente nella sfera degli affari e degli interessi economici:

“so cosa vuol dire amare una di queste donne, (…) si può perderci la testa, ma ecco dove sta appunto il pericolo, amico mio; noi abbiamo la testa sulle spalle per fare i nostri affari e il nostro interesse, lo sapete meglio di me, e non esser ridotti a tirarci su delle pistolettate come quel povero diavolo di Dolski” (p. 207)

spiega il Visconte de Rancy a Giorgio.

È, dunque, necessario che Giorgio parta per Lisbona, che si allontani dall’oggetto del suo desiderio perché, continua il visconte,

“quando mi accorgo di essere sul punto di fare una corbelleria, ci metto di mezzo una bella distanza; il meglio sarebbe di metterci un'altra donna - chiodo scaccia chiodo; (…), la ritirata ad ogni costo, a costo della nostalgia, a costo dello spleen, se non potete metterci un'altra donna”.

Ed è proprio l’entrata in scena di un’altra donna che accentua ancora di più l’appartenenza

di Giorgio alla società borghese, alla logica del guadagno: Erminia, la moglie, fa la sua comparsa insieme alla dote che ha portato a La Ferlita, il quale “ora cotesto farfallino

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11 aveva buttato la sua uniforme in mezzo ai ventimila filari della stupenda vigna che gli portava in dote la signorina Ruscaglia, e s'era convertito al matrimonio, un bel matrimonio che gli dava 600.000 lire, ed una magnifica bruna” (p. 177)

Giorgio ha scelto il matrimonio. Egli ha preferito il noto all’ignoto, il familiare all’esotico.

La famiglia e la casa offrono un elemento di sicurezza e di possibile felicità di fronte alle incertezze e crisi spirituali vissute dai diversi protagonisti.

Quando fa la sua prima apparizione nella narrazione, La Ferlita è presentato come un “uomo di lusso” perfettamente inserito nella società alto-borghese. Anche lui, come la

contessa, è ricco, ozioso, cresciuto nel lusso:

“era sempre stato uno di quei fortunati che attraversano la vita in carrozza, come soleva venire a scuola quando faceva troppo freddo, o quando faceva troppo caldo, ciò che per caso accadeva tutti i giorni. (…) era arrivato alla maturità della giovinezza senza un ostacolo, senza una contrarietà, senza avere l'occasione d'impiegare una sola delle sue facoltà virili nelle lotte della vita. (…) non aveva dovuto occuparsi, per 365 giorni dell'anno, che della cera dell'usciere di Sua Eccellenza e del sorriso delle donne”. (pp. 176-177)

Egli è un uomo abituato alla mondanità, non si è mai dovuto preoccupare della lotta per la sopravvivenza, l’unica sua occupazione è l’oziosa ricerca del piacere. E se da giovane aveva composto versi da poeta dilettante, ora “che era un uomo serio, un tantino

materialista come conviensi a un diplomatico, non faceva più versi, anzi si vergognava di averne fatti” (p. 177)

In realtà Giorgio è l’uomo borghese per eccellenza tant’è vero che l’immagine del dandy dedito alla mondanità e alla ricerca del piacere perde credibilità fin dall’incipit in medias

res del romanzo con il racconto del matrimonio, istituzione che è considerata in grado di “unificare il profitto con la moralità”.15

15 Muscariello, op cit, p. 154

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12 Dunque, alla fine La Ferlita abbandona il dandy e sceglie “l’uomo di lusso”, sceglie Erminia, la donna piena di “virtù casalinghe e umili” che si presenta come l’esatto opposto

di Nata.

Il contrasto tra le due figure femminili emerge chiaramente non solo dai diversi attributi che vengono più volte ripetuti con chiaro intento contrastivo all’interno del testo, ma anche

dalla diversa descrizione dei luoghi dove le due donne erano solite trascorrere la loro vita. Infatti, “ la descrizione del villino in cui abita Nata ripropone (…) il singolare rapporto della donna fatale con la natura, arrestata sulla soglia di una dimora senza tempo per esserne, all’interno, riprodotta, ma soprattutto metaforizza gli attributi di fantasma, di illusorietà e di malattia”16E se la facciata dell’abitazione si presenta tutta “lisciata e

imbellettata”, circondata da “aiuole verdi e alberi nani che facevano un bel vedere”, all’interno “avea un altro aspetto”:

“Nella stanza più lontana dalla via, nell'angolo più remoto, stava di solito Nata, vicino al camino, illividita dagli azzurri bagliori della fiamma, cogli occhi semichiusi, come enormi macchie nere sul viso smorto, allungando i piedi sul tappeto, abbandonando il capo sulla poltrona, sfogliando le pagine di un libro o trastullandosi macchinalmente colla ventola. Tutte le altre stanze erano vuote, mute, fredde; il domestico passeggiava silenzioso nell'anticamera, e in mezzo a quel silenzio lo scoppiettare dei tizzi, il tic-tac dell'orologio, o il rumore delle carrozze che passavano nella via avea qualcosa di triste.”(pp. 186-187)

La femme fatale è ormai una reliquia all’interno della sua dimora priva di qualsiasi vitalità, di qualsiasi partecipazione alla realtà sociale borghese. La belle dame sans merci insieme ai grandi balli, alle feste, al teatro lascia la scena alla donna riservata, dall’ “attitudine

pudica e modesta”, dagli “occhi limpidi”. Ai ricevimenti, ai balli Giorgio ha preferito la quiete del salotto della propria casa dalla “fisionomia onesta e sorridente” che gli infonde “una gran serenità dell’anima”.

16 Muscariello, op. cit, p. 155

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13 E mentre l’abitazione di Nata è una torre d’avorio isolata in cui gli unici rumori che si

sentono sono il tic-tac dell’orologio e lo scoppiettare del fuoco, dalla casa di Erminia si

“sentono i rumori di una città che si addormenta; il trotto rapido delle carrozze che ritornavano alla rimessa, il chiudersi delle ultime finestre e delle ultime porte, il passo affrettato di coloro che ritornavano dal caffè o dal teatro, i discorsi spezzati, e in mezzo a tutti cotesti rumori il respiro della donna un po' irregolare sembrava unirsi al respiro appena sensibile del piccolo essere che le dormiva vicino” (p. 216)

Dunque, all’immobilità mortifera della casa della contessa si contrappongono la vitalità del focolare domestico e la “fisionomia onesta” della camera da letto di Eminia dove “l’aria

sembrava circolarvi pura e libera e dove Giorgio si sentiva un gran bene, sembravagli che il sangue gli si rinfrescasse nelle vene, e l’immagine fosca e fatale della moribonda, di quell’amore spaventoso, non osava inseguirlo là”. (p. 246)

La Ferlita, ormai stanco, annoiato e addirittura spaventato da tutti quegli “artifici

donneschi” abbandona la passione e l’avventura e sceglie di farsi trascinare “dall’attrattiva delle qualità assolutamente opposte, da quelle virtù umili e casalinghe alle quali allora solamente sentiva come si fossero appoggiati inconsciamente il riposo, la tranquillità, la felicità della sua vita”. (p. 247)

Tuttavia, prima di maturare una tale decisione Giorgio ha una breve ricaduta: quando dall’amico Rendona apprende che Nata si trova ricoverata all’ Albergo dei Bagni

abbandona la moglie e il figlio Giannino gravemente malato, in bilico tra la vita e la morte per recarsi da lei.

In questa scena si ha quasi un capovolgimento dei ruoli: Nata in preda a una gelosia delirante si scaglia su Giorgio “colle braccia tese e gli occhi ardenti e l’avvinse in un

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14 ami un’altra donna e con voce “fosca e fatale” gli confessa il suo amore o meglio il suo

desiderio di possesso17.

Ma Giorgio si accorge che ormai il desiderio è svanito e che

“l'ebbrezza del suo amore era mostruosa, quasi la dividesse con un cadavere; l'immagine di sua moglie, di suo figlio infermo, della sua dimora tranquilla, della sua felicità domestica, mischiavasi a quel fantasma della donna che avea tanto amato in un orribile e doloroso incubo” (p. 233)

Pertanto, nonostante la richiesta di Nata di tornarla a trovare, egli non si presenterà più al cospetto di quella donna che ormai ai suoi occhi è soltanto un cadavere.

La malattia ha preso il sopravvento, perché, come ho già detto, essa è un elemento fondamentale all’interno di questo romanzo: è una caratteristica strettamente legata alla

protagonista femminile ed è anche il fil rouge che la collega direttamente all’altro personaggio femminile del romanzo. Anche Erminia, infatti, trascorrerà qualche giorno in preda ai deliri della febbre, ma nel caso di Nata la patologia sta ad indicare un progressivo decadimento che la porterà alla morte, mentre per Erminia essa ha una funzione catartica che la porterà a una rinascita e all’inizio di una nuova vita insieme a Giorgio. È infatti

interessante evidenziare il fatto che nel romanzo è presente un’altra storia d’amore e di adulterio: quella tra Erminia e il cugino Carlo a causa della quale ella prova un grandissimo senso di colpa che si manifesta attraverso il malessere fisico. Grazie ad esso, però, Erminia riesce a liberarsi da quel tormento, e l’autore a ristabilire l’ordine: dopo le tentazioni, dopo la momentanea rottura dell’andamento naturale della vita coniugale, i due ritrovano l’equilibrio relegando le due avventure in una dimensione temporale lontana,

passata. Soprattutto la passione tra Erminia e Carlo è descritta quasi come un sogno, come una rievocazione del passato, di quella “cameretta tappezzata di carta e di grandi fiori

azzurri” di quel “volume del Prati” dal quale aveva “invano cercato di far scomparire i

17 “ti voglio, intendi? A dispetto di tua moglie, a dispetto di tuo figlio, a dispetto di tutti!”, afferma

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15 segni impercettibili fatti coll’unghia”, dell’orologio a cui rivolgeva “occhiate furtive nell’ora in cui egli soleva venire”. E, nonostante non vi sia alcun dubbio del fatto che la

passione amorosa tra Giorgio e Nata sia stata molto più concreta, ormai anch’essa non è altro che una “follia passata, lontana, molto lontana”.

Tuttavia, alla fine del racconto, quando ormai sembrava chiaro che Nata avesse fatto la sua uscita di scena, che finalmente l’ordine fosse stato ristabilito e che i due sposi avessero l’occasione di ricominciare una vita insieme, durante il viaggio in treno verso la campagna

di Giarre, la femme fatale fa di nuovo la sua comparsa e, anche se ormai defunta, si intromette di nuovo nella coppia e come un “fantasma implacabile mettevasi fatalmente

un'ultima volta sul loro cammino, e sembrava sorgere dalla tomba per attraversare tutti i loro sogni di pace, di amore e di felicità”. (p. 259)

La donna fatale ricompare nuovamente per il suo ultimo abbraccio, la passione non può essere estinta del tutto perché essa è radicata irrimediabilmente dentro di lui, indipendentemente dalla presenza o meno della donna:

“il rapporto stregato non termina con la scomparsa (…) della seduttrice. Il fumo che si leva dalla locomotiva parata a lutto è quello di un sacrifico e di un rogo. Nel rapporto con l’ammaliatrice l’uomo ha riconosciuto il sapore di morte che la permeava e assaporato il gusto dolceamaro della coincidenza dell’istinto di morte con lo slancio verso il piacere”.18

Giorgio alla vista dell’altro treno che trasporta il corpo della donna che una volta aveva amato impallidisce e come un “cadavere” abbraccia la moglie e il figlio. Una volta arrivati a destinazione, poi, egli trova un biglietto sul quale vi era scritta solo la parola “Addio”.

Dunque, alla fine il cerchio si chiude: la storia si apre e si chiude con un biglietto19 grazie al quale, alla fine, Nata può dare l’ultimo saluto a Giorgio imprimendo il suo ricordo

eterno nella sua mente. Giorgio pensava di aver sconfitto e allontanato per sempre la

18 G. Scaraffia, la donna fatale, Roma, edizioni Nuova Cultura, 2010, p. 38

19 All’inizio del romanzo si dice che Giorgio aveva ricevuto un biglietto da visita anonimo (ma che il lettore

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16 minaccia della donna fatale nel momento in cui aveva chiuso la porta dell’albergo in cui

era ricoverata, ma ella si prende la sua rivincita condannando La Ferlita al perpetuo ricordo di lei.

Con la morte della bella contessa russa Verga vuole assimilare il ritmo narrativo a quello della vita, pertanto, decide di terminare il racconto nel momento in cui si conclude la storia “romanzesca”, e di conseguenza “non rimaneva più altro del passato”. (p. 259)

Infine, è interessante notare anche il cambio di ambientazione che Verga propone: fino a questo momento lo sfondo è sempre stato il paesaggio cittadino di Firenze e Napoli, qui, invece, l’autore propone uno scorcio panoramico della campagna siciliana, un paesaggio

che sarà il protagonista delle opere successive di Verga. Infatti Tigre reale, pur essendo un romanzo ancora lontano dal voler dare una rappresentazione verista della realtà, presenta alcune caratteristiche che poi lo scrittore svilupperà anche nelle opere successive: “resa

minuziosa del dato effettuale e della realtà fenomenica; convergenza, naturalmente metaforica, tra paesaggio-pittura ambientale e ritratto psicologico (…) e il tentativo di allontanare la presenza della voce commentativa onniscente (…) è il primo passo verso la

poetica dell’impersonalità”. 20

Il paesaggio non è mai una mera decorazione, un semplice sfondo sul quale si alternano le varie peripezie dei protagonisti, “le riproduzioni di paesaggi e di ambienti presentano delle caratteristiche che le immettono (…) nello sviluppo diegetico della narrazione, escludendo quindi ogni tendenza al decorativismo esteriore e gratuito”.21

20 R. Verdirame, op. cit., pp. 36-37. Si tenga presente, a tal proposito, che mentre nella prima redazione il

narratore possedeva un nome (Roberto), nella seconda non se ne fa mai cenno.

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17 Vi è una stretta correlazione tra il paesaggio e lo stato d’animo dei personaggi, si ha quasi una “convergenza (ovviamente metaforica) fra il ritratto paesistico-naturale e il ritratto psicologico”22

Si veda, ad esempio, la descrizione della laboriosità di questo scorcio di vita cittadina:

“Il largo viale inondato di sole sembrava in festa. Passavano dei contadini coi loro carri, dei commessi che avevano preso da porta San Gallo per andare a porta San Niccolò, e delle sartine che avevano dimenticato la loro scatola dalla portinaia, a coppie, rasentando i muri o serpeggiando per la via, tenendosi per mano, dondolando le braccia o tirando in su il vestitino nuovo sugli stivalini polverosi; passava qualche fiacre aperto, lesto, chiassone, scoppiettando la frusta, oppure colle tendine calate che lasciavano passare una mano o un occhio curioso; e in mezzo a tutto questo va e vieni, dei passeri vispi e petulanti che saltellavano sul marciapiede” (p. 189)

Questa descrizione è posta in antitesi con la condizione di Nata, la quale afferma poco dopo:

“‹‹mi sento molto stanca,» soggiunse Nata, «come se avessi camminato tanto quanto tutta quella gente lì. Costoro si danno bel tempo, come se non avessero altro da fare!...» (p. 190)

Come si vede, alla vitalità della precedente descrizione si contrappone la stanchezza mortifera della contessa. E se in questo caso il suo atteggiamento è, in qualche misura, polemico nei confronti di tutto quel via vai, in un episodio successivo, quando si troverà, morente, nella sua camera d’albergo, quel continuo movimento di impiegati della stazione

che

“andavano e venivano fra le rotaie colle lanterne accese: un gallo ritto e pettoruto su di una catasta di regoli, (…) il cielo e di un azzurro cupo, striato di vapori lattiginosi, e leggermente rosato verso l'oriente; sul mare ancora grigio e fosco si vedeva per l'ampia distesa la lunga fila delle vele dei pescatori”(p. 234)

gli provocherà un momento di malinconia dovuto alla consapevolezza della propria condizione di donna giunta al tramonto della vita, mentre il mondo al di fuori delle mura

22 Ibidem, p. 9

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18 mortifere dell’albergo continua a muoversi. L’unica cosa che le resta da fare, ormai, è

osservare da lontano la serenità della vita che continua ad andare avanti all’esterno e affermare con aria rassegnata: “ Quanta gente felice ci sarà a quest’ora”.

In conclusione è possibile affermare che queste parole, che si trovano al termine dell’ultima notte che Nata e Giorgio trascorrono insieme, fanno emergere tutta la tristezza

e la malinconia di lei accompagnate, poco dopo, dal rimorso di lui per aver abbandonato sua moglie proprio nel momento in cui aveva più bisogno. E di fronte alla richiesta di Nata di tornare a farle visita per farle compagnia e farla sentire amata e padrona esclusiva del suo cuore nei suoi ultimi giorni di vita, Giorgio non può far altro che tacere e, dopo averla baciata, uscire dalla stanza barcollando per non farvi mai più ritorno.

Vedremo, infine, che questa notte d’amore ha molte caratteristiche in comune con quella

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19

CAPITOLO II: ELENA MUTI

In questo capitolo analizzerò i due personaggi femminili protagonisti de Il Piacere23, Elena Muti e Maria Ferres, e il rapporto che le due donne instaurano con il protagonista maschile, Andrea Sperelli. Ma prima di passare allo studio vero e proprio dei suddetti soggetti mi sembra opportuno fare una breve introduzione all’opera.

Il Piacere è il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio e appartiene al ciclo dei “romanzi della Rosa” insieme a L’Innocente (1892) e Il Trionfo della morte (1894). Il romanzo

venne portato a termine nel 1888 durante un soggiorno a Francavilla presso l’amico pittore Francesco Paolo Michetti a cui il romanzo è dedicato e uscì per la prima volta il 13 maggio 1889 presso la casa editrice Treves di Milano riscuotendo, fin da subito, un notevole successo.

L’opera è suddivisa in quattro libri: il primo comprende cinque capitoli e si apre con l’incontro di Andrea Sperelli e Elena Muti il 31 dicembre 1886 e si conclude con il duello

di Andrea e Rùtolo, durante il quale il protagonista rimane gravemente ferito. Il secondo, contiene quattro capitoli: parte dalla convalescenza di Andrea a Schifanoja fino all’inizio della relazione fra lui e l’altra protagonista femminile, Maria Ferres per terminare con la

scena in cui lei confida a un diario i suoi sentimenti. Il terzo, costituito da quattro capitoli, racconta del ritorno di Andrea a Roma, del ritorno di Elena, della seduzione di Maria, del conflitto del protagonista esitante tra le due donne e si chiude con il primo bacio tra Andrea e Maria. Il quarto, composto di tre capitoli, parla della relazione con quest’ultima, della sua fallimentare conclusione e del finale di solitudine del protagonista.

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20 La narrazione, non segue l’ordine cronologico dei fatti: il romanzo si apre il 31 dicembre 1886 quando Andrea, solo nel suo appartamento, nell’attesa dell’arrivo di Elena, inizia a rievocare i momenti trascorsi in quella stanza con l’amante fino al 25 marzo 1885, giorno

in cui lei gli aveva comunicato la sua partenza e di conseguenza la fine della loro relazione. Poi un flashfoward riporta bruscamente il lettore al presente, al momento dell’arrivo della Muti, quando si apprende che ella non ha alcuna intenzione di riprendere la relazione. E, di nuovo, è presente un flashback che occuperà gran parte del romanzo e che narra gli eventi anteriori alla decisione di Elena di chiudere la loro relazione fino al 31 dicembre 1886. Da questo momento in poi il racconto continua in modo lineare fino alla fine del romanzo nel maggio del 1887.

Questo testo nasce in risposta ideologica ai processi sociali in atto nell’Italia postunitaria: a seguito del progresso economico capitalistico in senso moderno, l’intellettuale si ritrova a ricoprire un ruolo marginale all’interno della società. È sufficiente citare le prime righe del secondo capitolo del primo libro per capire la profonda insofferenza che affliggeva il poeta nei confronti di quest’epoca:

“Sotto il grigio diluvio democratico odierno che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte”. (p. 38)

Egli si preoccupa di produrre libri di successo, sfrutta la pubblicità che gli deriva dagli scandali della sua vita “inimitabile”, propone un’immagine nuova di intellettuale che si

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21 2.1 Andrea Sperelli

Prima di introdurre le due figure femminili, è necessario presentare il protagonista maschile del romanzo: il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, eroe decadente e perfetto esteta alla costante ricerca del piacere che egli antepone ai doveri e alla morale, profondamente affascinato da Roma, ma “non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fóri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l‘Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe” (p. 41). Il suo desiderio è rivolto a possedere palazzi, opere d’arte,

oggetti preziosi e soprattutto donne, il suo vero amore sono l’aristocrazia e il lusso romani, la sua stanza a Palazzo Zuccari è un vero e proprio teatro di oggetti ricercati che danno al protagonista un estremo appagamento. Ogni oggetto è il testimone dei suoi amori, “tutte le cose rivelavano una special cura d’amore”.

Andrea proviene da un’antica famiglia nobile e fin da piccolo viene educato alla cultura e al culto della bellezza. La sua formazione è fortemente influenzata dalla figura paterna, a tal punto che nel testo si trovano disseminati gli insegnamenti che il padre era solito impartirgli. Il primo a essere citato è il seguente:

“Bisognava fare la propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo di intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui”. (p. 40)

Ecco allora che si delinea fin dalle prime pagine la figura dell’esteta che si estranea dalla realtà borghese dominata dalla logica del guadagno e dal capitalismo, che relega l’artista ai margini della società. L’esteta è nato proprio come segno di riscatto della posizione dell’intellettuale; egli è dedito all’arte, alla bellezza e in questa sua estraneità dal mondo

rivendica la propria superiorità. Tuttavia questa superiorità che egli tanto sdegnosamente accampa in realtà è un segno di “decadenza”, di sterilità che si manifesta sia nella società contro la quale non ha i mezzi per opporsi, sia nella creazione di opere d’arte.

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22 Il secondo precetto ci offre lo spunto per introdurre la prima delle due protagoniste femminili del romanzo: Elena.

“Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo di intelletto eccola: - Habere, non haberi”. (p.40)

2.2 Elena Muti

Elena Muti è una donna più grande di circa tre anni di Andrea (cosa che gli farà pesare più in quanto si sente più matura, più esperta) e in nome di questa sua maggiore maturità instaura sul protagonista un dominio che mette in crisi il motto “Habere, non haberi”. Vedremo, infatti, che sarà lei a tenere in mano le redini del gioco seduttivo per tutta la durata del romanzo.

Inizialmente è descritta come una donna dolce, capace di provare sentimenti amorosi: “aveva lacrime più dolci dei baci. E nei baci, che dolcezza profonda!”, ed è solo più avanti

che emergeranno gli aspetti più manipolatori e egoistici del suo carattere, tant’è vero che pur tornando da Andrea per dichiaragli che il suo amore non si è spento, immediatamente dissipa la speranza che si era riaccesa in lui, rivelandogli che non potrà più essere sua perché ormai il suo corpo appartiene ad un altro.

Non a caso la Marchesa d’Ateleta, invitando lo Sperelli ad uno dei suoi banchetti del mercoledì sera, l’aveva scherzosamente avvertito:

“- Bada di non mancare, Andrea, domani. Abbiamo tra gli invitati una persona interessante, anzi fatale. Premunisciti però contro la malia…Tu sei in un momento di debolezza.

Egli le aveva risposto ridendo:

-Verrò inerme, se non ti dispiace, cugina; anzi in abito da vittima. È un abito di richiamo che porto da molte sere; inutilmente, ahimè!

- Il Sacrificio è prossimo, cugino mio. - La vittima è pronta”. (p. 44)

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23 Parole come “fatale”, “vittima” “sacrificio” lasciano presagire quale sarà il destino dello Sperelli, il quale vivrà una perpetua lotta interiore tra l’immagine della donna carnale e quella della donna spirituale, e non rinuncerà mai a crearsi un’immagine sublimata dell’amante.

Esemplare, a tal proposito, è il primo incontro avvenuto a casa della marchesa d’Ateleta tra i due amanti: Elena viene presentata dal punto di vista del protagonista mentre sale “lentamente, mollemente” la scala del palazzo con le spalle che “emergevano come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti

del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali”. (p. 45)

Come nota giustamente Guido Baldi24,la percezione soggettiva di Andrea trasforma la donna prima in un oggetto d’arte scolpito di una materia preziosa (l’avorio polito), poi in

una creatura alata, divina. La salita diviene così un’“armoniosa ascensione” dove “l’aggettivo mette l’accento sull’aspetto estetico mentre il sostantivo, con i suoi echi religiosi, trasfigura un gesto comune in un rito o in una teofania”.25 Dunque, l’atto di salire

le scale si carica di un significato simbolico, alludendo a un’elevazione spirituale.

Ma al contempo Andrea fa emergere anche l’essenza carnale della donna, la quale

“aveva la voce così insinuante che quasi dava la sensazione di una carezza carnale; e aveva quello sguardo involontariamente amoroso e voluttuoso che turba gli uomini e ne accende all’improvviso la brama”. (p. 46)

E ancora:

“Ella aveva la voce così ricca di suono che anche le parole più volgari e le frasi più comuni parevano prendere su la sua bocca non so qual significato occulto, non so qual misterioso accento e qual grazia nuova. Alla guisa medesima il re frigio faceva d'oro quantunque cose ei toccasse con la mano (…)La dama vestiva un tessuto d'un color ceruleo assai pallido, sparso di punti d'argento, che brillava di sotto ai merletti antichi di Burano bianchi d'un bianco indefinibile, pendente un poco nel fulvo ma tanto poco che appena pareva. Il fiore, quasi innaturale, come generato da un malefizio, ondeggiava in sul gambo, fuor di quel

24 G. Baldi, Le ambiguità della decadenza. D’annunzio Romanzieri, Liguori Editore, Napoli, 2008 25 Ivi p. 21

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24 fragile tubo che certo l'artefice avea foggiato con un soffio in una gemma liquefatta.”. (p.49)

Ma poco dopo:

“D'innanzi a quella volubilità incomprensibile, Andrea rimaneva ancor titubante. Quelle cose frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra che allora allora, pronunziando una frase semplicissima, l'avevan turbato fin nel profondo; uscivano dalle stesse labbra che allora allora, tacendo, eragli parsa la bocca della Medusa di Leonardo, umano fiore dell'anima divinizzato dalla fiamma della passione e dall'angoscia della morte. « Qual era dunque la vera essenza di quella creatura? Aveva ella percezione e conscienza della sua metamorfosi costante o era ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo fuori dal proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava d'artificio e quanto di spontaneità? » “ (p.50)

Il gioco di commistione di sublimazione estetizzante e desublimazione erotica caratterizza tutta la scena del ricevimento a casa della marchesa, tuttavia l’autore “non viene meno al

suo intento di presentare in una prospettiva critica le mascherature estetiche dell’eroe, in quanto (…) la contrapposizione sull’asse sintagmatico dei due poi tra cui oscilla la sensibilità di Andrea, le ‹‹fiamme eteree›› della sublimazione artistica e i ‹‹ bisogni erotici della carne››, ha il compito di produrre un effetto di distanziamento e di staniamento”.26

Inoltre, dalla porzione di testo appena citata si evince un’importante caratteristica della donna fatale, ovvero la tendenza a non offrire mai all’amante risposte definitive, in quanto “il gigantesco edificio della passione può poggiare solo su una base fragile ed oscillante, pena lo sprofondamento nel magma della banalità e dell’abitudine”27. Tutto è incerto,

sfuggente e mai definito.

Pertanto, il romanzo si configura come una “lunga storia di un appuntamento mancato, di un ritorno che diventa impossibile. Il possesso di Elena si perde a tal punto nel tempo da sfociare quasi nel mito, “nel territorio di tutto ciò che è inafferrabile, se non nel ricordo o

26 Ivi, p. 23

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25 nella speranza”.28 Per tutta la durata della narrazione si assiste a un’alternanza di slanci e di

rifiuti che mirano a scardinare la pretesa di dominare il mondo.

Ma ritorniamo al racconto: a partire dal momento del primo incontro con Elena, per il protagonista inizia un periodo felice, di appagamento sia personale che artistico, infatti inizia a scrivere, a comporre e si dedica anche all’incisione su rame. Durante questo tempo lo Sperelli si sofferma sui particolari erotici e sensuali dei loro incontri nonché sulla descrizione particolareggiata dei luoghi nei quali questi avvengono.

L’ idillio viene però stroncato inaspettatamente dalla stessa Elena, la quale comunica ad

Andrea di dover partire, senza fornirgli una reale spiegazione (egli apprenderà la motivazione solo in seguito, quando un amico gli rivelerà le difficoltà economiche che hanno spinto l’amante a sposare un altro uomo, Lord Heathfield). Questo provoca in lui

uno sgomento e un’angoscia che lo spingono a gettarsi in avventure amorose sconsiderate, che non hanno alcuno scopo se non quello di scacciarla dalla sua mente. Ad accentuare questo suo comportamento contribuisce anche il ricordo che gli sovviene alla mente delle parole del padre:

“Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni”. (p. 40)

Andrea si getta in relazioni con donne delle quali non sa niente e, dal momento che egli si considera un raffinato esteta, spesso le paragona a opere d’arte come se, in tal modo, quelle diventassero più interessanti, più nobili, più raffinate e quindi degne di essere conquistate. È sufficiente che qualcosa gli ricordi un particolare di Elena che subito prova un desiderio irrefrenabile di possederle,

28 Ibidem, p. 74

(26)

26 “talvolta (e fu, in specie, quando la notizia delle seconde nozze di Elena Muti gli riaprì per qualche tempo la ferita) piacevasi di sovrapporre alla nudità presente la evocata nudità di Elena e di servirsi della forma reale come d’un appoggio sul qual godere la forma ideale”. (p.106)

Ogni amante non è altro che la controfigura del corpo di Elena.

A titolo puramente esemplificativo e non esaustivo cito l’episodio che vede coinvolta Donna Ippolita Albonico prima di una corsa di cavalli, la quale, sebbene venga presentata come un’amante del lusso e degli abiti sontuosi e quindi in linea con gli interessi del

protagonista, tuttavia l’attenzione per lei è scatenata da un oggetto legato alla Muti: un orologio che Elena gli aveva fatto acquistare e che recava la dedica “Tibi Hippolyta”.

Vedremo, quindi, che Elena sarà una costante per tutto il romanzo, anche in absentia riuscirà a far sentire l’estrema influenza che esercita su Andrea, il quale non sarà mai in

grado di liberarsi completamente di lei, pur trovando un conforto temporaneo in un’altra donna, conosciuta proprio in seguito all’episodio appena citato. Infatti, il “corteggiamento”

di Ippolita provoca una profonda gelosia in Rùtolo che decide di sfidare lo Sperelli a duello il giorno seguente: la ferita che riporterà Andrea avrà per lui una funzione catartica tant’è vero che il secondo libro si apre con la frase: “La convalescenza è una purificazione e un rinascimento”. (p.129)

(27)

27 2.3 Maria Ferres

Come ho appena detto, questo episodio apre le porte all’altra figura femminile che rivestirà un ruolo fondamentale nella vita del protagonista, Maria Ferres, che Andrea incontrerà proprio durante il suo soggiorno a Schifanoja presso la cugina, la marchesa d’Ateleta.

Egli all’inizio del secondo libro viene presentato come un uomo in rinascita sia nel corpo che nello spirito, come se fosse appena uscito dalle acque del fiume Lete, il fiume della dimenticanza. Durante la sua convalescenza si avvicina molto alla natura che lo aiuta nella ricerca di se stesso e nell’abbandono delle cose materiali, spingendolo a fare una critica ai

suoi comportamenti dissoluti e portandolo alla conclusione che l’unica cosa che non lo ha mai tradito e che vale la pena perseguire è l’arte e, in particolare, trova a tal punto

ispirazione nella poesia che arriva a dichiarare: “Il Verso è tutto.”

Maria è una donna acculturata della quale Andrea non vuole possedere il corpo, ma l’anima. Se Elena gli ricorda la Danae del Correggio, Maria è assimilata “alle Vergini ne’

tondi fiorentini al tempo di Cosimo” . Dalla descrizione che egli ne fa emerge una figura monacale nell’aspetto come nell’atteggiamento:

“Aveva un volto ovale, forse un poco troppo allungato, ma appena appena un poco, di quell'aristocratico allungamento che nel XV secolo gli artisti ricercatori d'eleganza esageravano. Ne' lineamenti delicati era quell'espressione tenue di sofferenza e di stanchezza, che forma l'umano incanto delle Vergini ne' tondi fiorentini del tempo di Cosimo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla fusione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un azzurro ideali, le circondava gli occhi che volgevan l'iride lionata degli angeli bruni. I capelli le ingombravano la fronte e le tempie, come una corona pesante; si accumulavano e si attortigliavano su la nuca. Le ciocche, d'innanzi, avevan la densità e la forma di quelle che coprono a guisa d'un casco la testa dell'Antinoo Farnese. Nulla superava la grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda massa, come da un divino castigo”. (pp. 156-157)

(28)

28 Maria rappresenta i valori positivi, di purezza, di qualità morali che attirano il protagonista. Ella è una donna dotata di una grande sensibilità e una vasta cultura che alimentano l’illusione di un amore puro. Si intende di musica, sa tenere conversazioni a

proposito di arte cosa che, Elena, sebbene avesse un raffinato gusto estetico, non faceva mai. Insomma, Maria Ferres si presenta realmente come una nuova Beatrice, una “donna angelo” incaricata di una missione salvifica.

Nei quattro sonetti scritti sulle facce dell’erma si delinea chiaramente l’opposizione tra le due:

“(…)Non più sfinge con unghie auree l'abbranca, non górgone la fa pietra restare,

non sirena per lunga ode l'incanta.

Alta, in sommo del cerchio, un'assai bianca donna, con atto di comunicare,

tien fra le pure dita l'Ostia santa.” (p. 146)

La donna ideale assume il volto della “pura madonna senese”, colei che può portarlo alla purificazione morale, nonché la sua musa ispiratrice, “colei che può dargli la forza di

proseguire quella sublimazione artistica che gli era proposta come meta ideale al termine dei travagli interiori della convalescenza e che, attraverso la disciplina rigorosa del lavoro creativo, dovrebbe garantire la reintegrazione della stabile unità dell’Io, vincendo le

tendenze alla disgregazione camaleontica della personalità”.29

Come il narratore stesso spiega, a questa altezza, Andrea è sincero, crede davvero di poter riuscire a purificare la sua anima. La sublimazione operata su Maria è veritiera, ma ben presto il lettore si avvedrà che non sono altro che le solite “allucinazioni sentimentali”. Infatti, gli atteggiamenti del protagonista nei confronti di Maria cambiano

29 G. Baldi, op. cit., p. 27

(29)

29 progressivamente nel corso della narrazione: “il primo sentimento (…) è di <<adorazione sommessa, umile, pura>>”30, ma ,quando le rivela il suo desiderio, non fa altro che mettere di nuovo in gioco i soliti “autoinganni”, credendo di poter trovare la salvezza e il riscatto in

un amore casto e puro, che in realtà è solo un’avventura come tante altre, con la sola differenza che in questo caso è la donna ad essere diversa, ovvero non è più l’avvenente femme fatale (o almeno così sembra a questa altezza del romanzo), ma una “donna angelo” dotata di qualità totalmente positive.

In realtà già dal primo incontro, non appena Andrea sente la voce di Maria, “Elena Muti gli entrò nei pensieri, si avvicinò all’altra, si confuse con l’altra, evocata da quella voce; e a poco a poco gli volse i pensieri ad immagini di voluttà”.31

Da questo momento il romanzo procede avviluppando e sovrapponendo le figure delle due donne, che scopriremo diverse, ma ugualmente fatali.

Anche la cugina accosta spesso le due figure femminili e, per assolvere il suo compito di distruzione dell’immagine di donna angelicata che Andrea ha costruito afferma: “ quell’assai bianca donna con l’Ostia in mano m’è sospetta. M’ha tutta l’aria d’una donna fittizia, d’una stola senza corpo”.

Il seduttore, che sembrava aver lasciato il posto all’uomo spirituale, infatti, riappare ben presto sulla scena “per un istinto di vanità risvegliatosi in lui d’un tratto”.

In aggiunta è un particolare del corpo di Maria che smentisce la sua identificazione in una donna salvifica: la lunghissima chioma nera. È risputo che il nero, in questo caso un nero cupo che tende al violetto, è un attributo tipico della donna fatale, mentre la donna angelo ha i capelli biondi dorati. Inoltre le ciocche dei suoi capelli sono paragonate a quelle “che coprono a guisa d’un casco la testa dell’Antinoo Farnese”, ovvero sono paragonate a un

30 Paolo Mario Sipala in AA.VV, All’insegna della femme fatale, Trento, New magazine editori, 1994 31 Si ricordi che anche al primo incontro con Elena, Andrea era stato colpito dalla sua voce.

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30 “ambiguo eros androginico (che sembra confermato dalla sua voce bisessuale, duplice, adroginìnica; di due timbri) di lascivia morbosa e perversa”.32

E ancora: la capigliatura ricorda ad Andrea una selva “vasta” e “tenebrosa”, mentre Francesca Ateleta la definisce “bel serpente nero”, che le riporta alla mente il ricordo dei litigi delle compagne per pettinarle i capelli come un “appassionato feticismo erotico di

natura lesbica”.

Insomma, pur credendo di essere sincero, Andrea sta mentendo a se stesso: questa non niente di più che un’altra delle sue avventure mascherata in modo diverso.

Dunque, dopo essersi confessati il loro reciproco amore e in seguito alle resistenze molto sofferte di Maria per non venire meno al patto coniugale, i due si separano e Andrea è pronto a ritornare a Roma illudendosi di poter dominare i suoi istinti. Di lì a poco anche questa illusione verrà smentita: ristabilitosi nella sua abitazione a palazzo Zuccari sente la nostalgia del passato e inizia a sovrapporre nuovamente le immagini di Elena con le fantasie di possedere Maria in quello stesso luogo, tra quegli oggetti sacri che tanto gli sono cari.

Andrea si rigetta nella mondanità romana, riprende a frequentare i salotti, e, in questo scenario, incontra di nuovo Elena, la vorrebbe ancora far sua, ma lei pronuncia l’implacabile sentenza: lei non potrà mai più essere sua, ormai il suo corpo appartiene a un

altro.

Lo Sperelli allora vorrebbe avere vicino Maria e, quando quest’ultima giunge a Roma, cerca di riallacciare il rapporto iniziato a Schifanoja. Tuttavia la presenza di Elena è ancora molto ingombrante: Andrea è affascinato da entrambe e trova appagamento sia negli incontri con Maria che negli incontri con Elena. Seduce la prima con argomenti spirituali

32 G. Baldi, op. cit., p. 30

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31 legati a un amore puro, mentre si comporta da amico fraterno con la seconda nella speranza che questa si conceda di nuovo a lui.

L’ambivalenza è una costante: mentre Andrea sta aspettando Elena in carrozza, l’immagine di Roma sotto la coltre di neve bianca gli rievoca l’immagine della donna angelo, di Maria.

Il monologo che segue è tutto impregnato di una terminologia che appartiene al campo semantico del rito sacrificale con l’aggiunta di formule liturgiche (“tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande immolazione”; “ave”; “ amen”, “e così sia”), ma che

termina con queste parole:

“(…) Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come un gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit (…)” (pp. 290-291)

Ecco dunque che ricompare il carattere erotico delle chiome di Maria a conferma della percezione ambigua che il protagonista ha di lei.

La carrozza è scenario anche di un’altra sovrapposizione: dopo il concerto al quale Andrea

era andato con Maria e dove aveva incontrato Elena, i due rimangono soli nella carrozza e quest’ultima, dopo essersi tolta il boa dal collo, lo tira a sé e lo bacia lasciandolo senza

fiato. Sembrerebbe che si fosse finalmente decisa a concedersi di nuovo a lui, ma proprio quando Andrea le chiede quando si potranno rivedere, lei, da vera donna fatale, lo lascerà in sospeso dicendogli: “Chi sa!”.

L’immagine del boa ricorda ad Andrea quella della treccia di Donna Maria, “di nuovo, egli mescolò i due desideri: vagheggiò la duplicità del godimento, travide la terza Amante ideale” quella derivante dalla sintesi delle due donne fatali., fusione che però non avverrà davvero mai del tutto.

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32 La narrazione è un continuo susseguirsi e sovrapporsi di incontri di queste due donne:

Il protagonista, visto il mancato arrivo di Elena, si dirige verso la piazza del Quirinale, davanti l’abitazione di Maria. Quest’ultima è inquieta, non riesce a dormire e dalla finestra scorge l’amato che le lascia il fascio di rose davanti alla porta.

Di nuovo però il egli ricade nel desiderio di possedere Elena e mentre si trova a palazzo Barberini a parlare con il marito di lei, quando ella fa capolino nella sala e Lord Heathfield si assenta, esclama: “Ho bisogno di te Elena…Ti voglio…” e con una freddezza agghiacciante ella risponde: “ vi farò dare da mio marito venti franchi. Uscendo da qui potrete soddisfarvi”. Questa affermazione suscita lo sdegno del protagonista che se ne va e,

mentre si dirige a palazzo Zuccari, per strada incontra Maria con la quale aveva un appuntamento alle cinque e alla quale mente ancora una volta: infatti quando gli domanda dove fosse stato egli dice di provenire dalla scuderia.

Siamo ormai in conclusione del romanzo: subito dopo viene divulgata la notizia della rovina del marito della Ferres sorpreso a barare e, dopo aver appreso che Elena era diventata l’amante di un amico, Galeazzo Secìnaro , Andrea scappa sconvolto a casa ad

aspettare Maria. Quella sarebbe stata la loro prima (e ultima) notte insieme, ma anche questa volta Elena irrompe sulla scena: Lo Sperelli, durante l’amplesso, pronuncia

malauguratamente il nome di Elena e Maria, sconvolta, fugge via. Alla poveretta ormai non resta che ritirarsi per cercare di ritrovare quei valori che Andrea con il suo comportamento aveva distrutto.

Alla fine il cerchio si chiude: il romanzo termina la mattina del 20 giugno quando si svolge l’asta degli oggetti appartenuti al marito di Maria, episodio che non può non richiamare il confronto con l’asta in Via Sistina all’inizio del romanzo, tuttavia con la differenza che

mentre là erano presenti oggetti preziosi e personaggi dell’aristocrazia romana, qui Andrea si sente soffocare in mezzo a questa “gente bassa”, rigattieri, venditori d’usato.

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33 A questo punto l’ambivalenza sembra scomparire: nell’ultima scena tutto è volgare, trascurato e la mobilia, simbolo di bellezza e raffinatezza proprie di un’anima di grande elevatezza spirituale, sono venute “a prezzo vile”. La logica del guadagno ha avuto il suo

trionfo e seppur non esplicitato da nessun giudizio critico né del narratore né del protagonista, Andrea nella volgarità dell’ambiente che lo circonda riconosce la sua: la

bassezza di ciò che ha fatto a Maria non può che suscitare in lui orrore e disgusto.

Nel Piacere non c’è spazio per nessun tipo di riscatto o svolta edificante: a questo punto, quando lo Sperelli vede entrare nella sala Elena con il Secìnaro , la contessa di Lùcoli, Gino Bommìnaco e Giovannella Daddi, decide di fuggire fuori per il timore di essere scoperto e si dirige a palazzo Zuccari, ma verso sera decide di rivedere ancora una volta la casa dell’amata con la scusa di vedere se i mobili acquistati all’asta erano stati consegnati.

2.4 Considerazioni finali

Per concludere si può dire che questo romanzo è all’insegna di una costante ambivalenza sulla quale vale la pena soffersi ancora un attimo: il dualismo Elena/Maria si rispecchia, infatti, anche nell’opposizione Roma/Schifanoja. La prima, è il principale teatro delle

vicende del Piacere nonché capitale dello sfarzo e della ricchezza con i suoi eleganti palazzi e chiese ai quali fanno riscontro la corruzione dei protagonisti che la popolano. Lo Sperelli è affascinato da questo mondo, soprattutto dalle zone di palazzo Zuccari, Trinità dei Monti, Piazza di Spagna...che vengono più volte nominate nel romanzo. I luoghi che fanno da sfondo agli amori di Andrea e Elena vengono descritti come un vero e proprio palcoscenico (non è un caso che Il Piacere si apra con la descrizione di palazzo Zuccari, il “buen retiro” del protagonista, dove egli raduna una miriade di oggetti preziosi, testimoni

delle sue avventure amorose nei quali rivede se stesso e la sua vita). Agli spazi chiusi di Roma si contrappongono quelli aperti di Schifanoja dove egli si sente completamente a

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34 contatto con la natura e riscopre una vita semplice, quasi monacale lontana dalle tentazioni di Roma.

Andrea è affascinato da questo luogo e in particolar modo dal cielo e dal mare:

“Il mare non soltanto era per lui una delizia degli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri, una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la salute e il suo spirito la nobiltà” (p. 133 )

Schifanoja rappresenta un’occasione di riscatto, di praticare quella vita in perfetta comunione con la natura e completamente dedita all’esercizio dell’arte.

Tuttavia, dopo questa breve parentesi, egli tornerà a Roma e lì verrà riassorbito completamente dalla sua vita dissoluta e volta alla sola ricerca del piacere. Il motto che lo guida, “fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”, lo porta al fallimento. Dopo aver trascorso una vita dissoluta alla costante ricerca di un appagamento effimero consistente in belle donne, oggetti preziosi e una vita “inimitabile”, egli si ritrova solo con il suo fallimento e l’avvilimento che ne consegue. Il protagonista non ha avuto il coraggio di

cambiare, ha preferito continuare per la sua strada fino a raggiungere la totale perdizione.

Per concludere si potrebbe dire che Roma con il suo “paesaggio sonoro della vita urbana è

sempre <<rumore sordo>>, scandito da canzoni impudiche, prodotto da gente volgare, da cani da greggi”33 rappresenta Elena, anzi è Elena, mentre nel paesaggio ameno di

Schifanoja nasce “l’idillio con Maria Ferres (…) in un prezioso giardino, lungo un viale di cento fontane”34.

Tuttavia, non è possibile parlare di una contrapposizione perfettamente definita, in quanto abbiamo visto che le due figure femminili vengono continuamente intrecciate e alla fine sovrapposte a tal punto che il lettore è spinto a dire che entrambe possono essere

33 Paolo Mario Sipala, op. cit, 34 ibidem

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