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Mastiti bovine in asciutta: indagine microbiologica e valutazione dell'utilizzo dei trattamenti.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE VETERINARIE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA VETERINARIA

Mastiti bovine in asciutta: indagine

microbiologica e valutazione dell'utilizzo dei

trattamenti

Candidato: Luca Turini Relatore: Dott. Filippo Fratini

Correlatore: Dott.ssa Francesca Bonelli

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INDICE

PARTE GENERALE

Capitolo 1 – L’asciutta 6

1.1. Definizione e storia dell’asciutta 7

1.2. L’involuzione della ghiandola mammaria durante il periodo di asciutta 8

1.3. Impatto periodo asciutta sulla produzione di latte nelle vacche da latte: ipotesi 10 1.4. Rivalutazioni durata del periodo di asciutta in relazione alla produzione di latte 11 1.5. Rivalutazioni durata periodo asciutta in relazione alla prevenzione delle mastiti 13 1.6. La terapia antibiotica in asciutta per la prevenzione delle mastiti 16

Capitolo 2 – Le mastiti bovine 17

2.1 Introduzione 18

2.2 Mastite e produzione 18

2.2.1 Mastite, produzione e cellule somatiche 18

2.2.2 Mastite, produzione e riproduzione 19

2.2.3 Mastiti cliniche e perdite delle produzioni 19

2.3 Epidemiologia 20

2.3.1 Fattori di rischio 20

2.3.2 Epidemiologia batterica 22

2.4 Eziologia 23

2.4.1 Classificazione eziologica e in base alla modalità di trasmissione 23

2.4.2 Classificazione in base alla capacità di infezione 26

2.5 Patogenesi 27

2.6 Classificazione delle mastiti 28

2.6.1 Classificazione in base alla forma clinica/intensità della risposta infiammatoria 28

2.6.2 Classificazione dal punto di vista patogenetico 31

2.6.3 Classificazione in base alle caratteristiche di trasmissione dell'organismo responsabile 31

2.6.4 Classificazione in base alla gravità della malattia 32

2.7 Diagnosi 33 2.7.1 Diagnosi clinica 34 2.7.2 Diagnosi in campo 34 2.7.3 Diagnosi di laboratorio 37 2.7.4 Diagnosi microbiologica 43 2.8 Terapia 48

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2.8.1 Trattamenti farmacologici 49

2.8.2 Accorgimenti gestionali 50

Capitolo 3 – Stato dell'artesul trattamento alla messa in asciutta della bovina da latte 53

3.1 Lo scopo della terapia alla messa in asciutta nella bovina da latte 54

3.2 Terapia intramammaria antibiotica alla messa in asciutta 54

3.2.1 Efficacia della terapia antibiotica intramammaria sui patogeni causanti mastite 54

3.2.2 Antibiotico e sigillante 57

3.2.3 Trattamento antibiotico selettivo alla messa in asciutta 58

PARTE SPERIMENTALE Capitolo 4 – Scopo della tesi 62

Capitolo 5 - Materiali e metodi 64

3.3 Sede di svolgimento dello studio e descrizione dell’allevamento 65

3.4 Animali 66

3.5 Criteri di inclusione 66

3.6 Esame clinico 67

3.6.1 Esame obiettivo generale e particolare degli apparati cardio-circolatorio, respiratorio e digerente 67

3.6.2 Esame obiettivo particolare della mammella 68

3.7 Campionamento e analisi dei campioni 68

3.7.1 Raccolta del campione 68

3.7.2 Analisi dei campioni 69

3.8 Terapia antibiotica intramammaria 72

3.8.1 Principi attivi utilizzati 72

3.8.2 Modalità di somministrazione 73

3.9 Analisi statistica 73

Capitolo 6 – Risultati 74

Capitolo 7 – Discussioni 78

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5 RIASSUNTO

Le patologie a carico dell'apparato mammario, specialmente di carattere infettivo, rappresentano ancora uno dei principali problemi dell'allevamento bovino da latte e, nonostante decenni di ricerche, continuano ad essere una delle principali cause di perdite economiche, a causa della continua evoluzione delle tecniche di allevamento e della notevole capacità di adattamento alle nuove situazioni epidemiologiche degli agenti patogeni. Il trattamento intramammario antibiotico alla messa in asciutta rappresenta una delle principali tecniche per il controllo delle mastiti a fine e ripresa della lattazione. Gli scopi del presente studio sono stati quelli di valutare la popolazione microbiologica in campioni di latte raccolti da quarti di vacche positivi allo screening con CMT al momento dell’asciutta; valutare le modificazioni del California Mastitis Test (CMT) nel periodo di asciutta (tra asciutta e ripresa della lattazione); valutare l’utilizzo degli antibiotici intramammari nel periodo di asciutta sulla base dello screening con il CMT. Sono state incluse 95 bovine Frisone e 380 quarti. Per ciascun quarto è sono valutato il CMT al momento della messa in asciutta (CMTa). I quarti positivi sono stati campionati per l’esecuzione di un esame batteriologico completo. Tutti i quarti sono stati trattati con 2 formulazioni antibiotiche intramammarie in accordo con il programma di trattamento/prevenzione delle mastiti alla messa in asciutta dell’azienda oggetto dello studio: Cloxacillina (Atb0) e Cefalexina (Atb1). Su tutti i quarti è stato eseguito un CMT di controllo alla ripresa della lattazione (CMTp). I risultati ottenuti sono stati espressi come prevalenze sul totale di animali e quarti inclusi. E’ stato applicato il test di Fisher sui quarti positivi al CMTa per valutare se al variare dell’antibiotico utilizzato (Atb0 vs Atb1) alla messa in asciutta, vi fossero differenze statisticamente significative nel risultato del CMTp. E’ stato applicato il test di Fisher sui quarti negativi al CMTa per valutare se il variare dell’antibiotico utilizzato (Atb0 vs Atb1) alla messa in asciutta, influenzasse il risultato del CMTp. La popolazione batterica maggiormente isolata è stata rappresentata dal genere Staphylococcus, a conferma di quanto riportato in letteratura che le mastiti subcliniche maggiormente diffuse nell’allevamento bovino siano quelle di tipo “ambientale”, causate dai suddetti microrganismi. I risultati ottenuti non hanno evidenziato differenze significative fra Atb0 e Atb1 nel trattamento o nella prevenzione delle mastiti alla messa in asciutta. La letteratura riporta infatti che entrambi gli antibiotici siano efficaci per il trattamento della mastite.

Parole chiave: bovino da latte, mastite, asciutta, terapia all’asciutta

SUMMARY

Diseases of the udder, especially infectious diseases such as mastitis, still represent one of the main dairy industry problems. Despite decades of research, mastitis still remain on of the major causes of economic losses, due to the continuing evolution of breeding techniques and the ability of pathogens to adapt to new epidemiological situations. Drying-off therapy represents one of the most important techniques for the control of mastitis. The aims of this study were: to evaluate the microbiological population in milk samples collected from udder quarters positive to the CMTa at the time of drying-off; to assess the use of intramammary antibiotics as drying-off therapy. Ninty-five Friesian cows and 380 quarters were included. Each udder quart was evaluated with the CMT at the drying-off time (CMTa). The positive quarters were sampled to perform a complete bacteriological examination. All the 380 quarters were treated with 2 different intramammary antibiotic, based on the mastitis control program of the farm: Cloxacillin (Atb0) and Cephalexin (Atb1). All the 380 quarters were evaluated with the CMT at the beginning of lactation (CTMp). The results were expressed as prevalences. A Fisher's exact test has been performed on the quarters positive to CMTa to evaluate differences in the antibiotics used (Atb0 vs Atb 1). A second Fisher's exact test has been performed on the quarters negative to CMTa in order to assess whether the antibiotic used (Atb0 vs Atb1) would influence findings on CMTp. The most commonly isolated bacterial population was the genus Staphylococcus, in agreement with those reported in literature. Staphylococcus still represent that the most common pathogens for subclinical mastitis in dairy cows. The results did not show statistically significant differences between Atb0 and Atb1 concerning the treatment, or prevention, of mastitis. No differences in the effectiveness of Atb0 and Atb1 are showed in literature.

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1.1 Definizione e storia dell’asciutta

Nell’allevamento della bovina da latte per “asciutta” s’intende il momento in cui un animale che produce latte è indotto “artificialmente” a cessare questa produzione ed è in uso fin dal 1800 (Arnold e Becker, 1936). Idealmente il passaggio dalla fase di lattazione a quella di asciutta si ha intorno ai 305 giorni di mungitura, che, sempre in un allevamento idealmente gestito, corrispondono al 7° mese di gravidanza (Santschi et al., 2011). Questo periodo è considerato “di riposo” per la vacca ed ha una durata di circa 60 giorni negli allevamenti intensivi occidentali (Europa e Stati Uniti) (Capuco et al., 1997; Annen et al., 2004a,b).

Il periodo di asciutta permette l’involuzione del tessuto mammario e la sua rigenerazione preparando le vacche alla successiva lattazione. La lunghezza ottimale del periodo di asciutta è stata, ed è tutt’ora, un argomento controverso tra gli allevatori, i veterinari e gli altri esperti del settore (Annen e Collier, 2005). Agli inizi del 900 si è giunti alla conclusione che la completa cessazione della mungitura al settimo mese di gravidanza fosse la migliore scelta per massimizzare la produzione di latte nella lattazione successiva, bilanciando così i costi di mantenimento di un soggetto non-produttivo, con i benefici di una ripresa vigorosa e duratura della produzione di latte (Arnold e Becker, 1936). A tale conclusione si arrivò grazie all’esperienza degli allevatori che, spinti dalla carenza di cibo durante la Seconda Guerra Mondiale, trovarono un maggior beneficio economico e produttivo nel mantenere una lattazione di 305 giorni e un periodo di asciutta di 60 giorni. Il Regno Unito (Knight, 1998) e successivamente gli Stati Uniti (Annen et al., 2004b), sono stati i pionieri di questa pratica che ben presto ha preso campo in tutto il mondo industrializzato. Bachman e Schairer (2003) riassumono nel loro lavoro i risultati degli studi sulla durata del periodo di asciutta, che sono stati eseguiti tra il 1936 e il 1996. Gli autori riferiscono che la lunghezza della fase di asciutta compresa tra 40-60 giorni, risultasse nella migliore produzione di latte durate la successiva lattazione (Coppock et al.,1974; Dias e Allaire, 1982; Funk et al., 1987; Rémond et al., 1992; Makuza e McDaniel, 1996).

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Ad oggi 60 giorni di asciutta sono il periodo di tempo più utilizzato dagli allevatori di bovini da latte in tutto il Mondo (Capuco et al., 1997; Annen et al., 2004a,b). Non mancano, tuttavia, studi che mirino a valutare una modifica di questi tempi, rispondendo da un lato alla ricerca della migliore fisiologia per la mammella e l’animale nel suo complesso, dall’altro alla pressione economica e produttiva crescente nell’allevamento di bovini da latte (Remond et al., 1997; Bachman, 2002; Annen et al., 2004a, 2007; Andersen et al., 2005; Rastani et al., 2005; Fitzgerald et al., 2007; Pezeshki et al., 2007, 2008).

1.2 L’involuzione della ghiandola mammaria durante il periodo

di asciutta

L’involuzione della ghiandola mammaria può essere indotta in qualsiasi fase della lattazione terminando la mungitura (es. allontanando il vitello o cessando la mungitura). Tale involuzione è più lenta nei ruminanti, rispetto a quanto avviene in altre specie, come ad esempio i roditori. La quantità di caseina e alfa-lattoalbumina mRNA diminuisce nel tessuto mammario bovino 3 giorni dopo la cessazione della mungitura, ma in misura minore rispetto a quanto avviene nei roditori (Goodman e Schanbacher, 1991). Si arriva a una diminuzione dell’85 e 99% di alfaS1-caseina e alfa-lattoalbumina, rispettivamente, dopo 7 giorni dalla cessazione della mungitura. (Wilde et al., 1997).

I cambiamenti morfologici del tessuto mammario nelle vacche da latte durante il periodo di asciutta riflettono più strettamente un cambiamento nello stato di secrezione della ghiandola mammaria, che una perdita di cellule e relativa regressione dei tessuti. La struttura alveolare del tessuto mammario bovino, infatti, rimane generalmente intatta durante un tipico periodo di asciutta (Holst et al., 1987;. Wilde et al., 1997). Nelle vacche da latte l’area luminale del tessuto mammario raggiunge la massima involuzione, in termini di dimensioni, al venticinquesimo giorno di asciutta, mentre l’area stromale si trova nella dimensione massima. (Capuco et al., 1997). E’ stato dimostrato che le cellule

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dell’epitelio mammario dei ruminanti non regrediscono nella stessa misura di altre specie, come ad esempio i roditori, e apparentemente molte attività sintetiche e secretorie di queste cellule sono mantenute per tutto il periodo di asciutta (Holst et al., 1987; Sordillo, 1987; Sordillo e Nickerson, 1988). A conferma di ciò, alcuni studi hanno evidenziato che, mentre durante le prime 2 settimane di involuzione mammaria nel ratto e nel topo si assiste ad una desquamazione delle cellule epiteliali apoptotiche del lume alveolare e il loro conseguente distacco dalla membrana basale, ciò non avviene nelle vacche da latte durante il periodo di asciutta (Sordillo e Nickerson, 1988; Hurley, 1989; Capuco et al., 1997). Nella vacca, si ha un aumento sia degli indici di proliferazione, che di quelli di apoptosi cellulare entro i primi 10 giorni dall’inizio del periodo di asciutta (Capuco et al., 2006). In particolare, l’apoptosi cellulare è indotta dal latte accumulato all’asciugatura (Quarrie et al., 1996; Wilde et al., 1997; Capuco et al., 2006) ed aumenta fino a raggiungere un picco durante le prime 72 ore dopo l’asciugatura (Annen e Collier, 2005). Continua poi per tutta la tarda gestazione e l’iniziale lattazione, raggiungendo un secondo picco durante la prima settimana dopo il parto (Annen et al., 2007). La proliferazione delle cellule dell’epitelio mammario, invece, aumenta in corrispondenza, o subito dopo, il picco iniziale di apoptosi (Annen e Collier, 2005).

Le ricerche condotte hanno evidenziato che nel corso di un periodo standard di asciutta, non si ha un’elevata perdita complessiva di cellule mammarie, mentre risulta abbondante il rimodellamento tissutale, compresi i cambiamenti delle popolazioni cellulari e delle strutture alveolari, e la sintesi della matrice extracellulare si verifica ampiamente (Holst et al., 1987; Hurley, 1989; Capuco et al., 1997). In conclusione, durante il periodo di asciutta avviene un ampio

turnover cellulare e il numero di cellule epiteliali aumenta rapidamente durante

gli ultimi 2 mesi di gestazione (Capuco et al., 1997).

Un altro fattore da tenere in considerazione riguardo l’involuzione della ghiandola mammaria bovina, è che nell’allevamento da latte intensivo avviene una sovrapposizione fra la lattazione e la gravidanza successiva. Le bovine da latte sono generalmente già gravide di 7 mesi alla cessazione della mungitura, ossia alla messa in asciutta. E’ molto probabile che l’aumento del turnover delle cellule mammarie durante il periodo di asciutta sia una conseguenza della

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cessazione della lattazione e della gravidanza concomitante (Capuco et al., 2006). La gravidanza stimola, infatti, lo sviluppo mammario e il processo di formazione del latte e ciò tenderebbe a controbilanciare l’apoptosi indotta dal latte accumulato all’asciugatura, mantenendo così in equilibrio la complessiva proliferazione e apoptosi cellulare (Capuco et al., 2006). La conclusione a cui gli studiosi sono giunti è che la concomitanza della gravidanza al periodo di asciutta, opporrebbe gli stimoli necessari ad evitare un’involuzione mammaria completa durante il periodo di asciutta. A conferma di ciò è stato dimostrato che la ghiandola mammaria di vacche da latte non gravide subisce una più vasta distruzione della struttura lobulare-alveolare dopo l’asciugatura, inficiandone le caratteristiche produttive successive (Leitner et al., 2007). Il processo di contemporaneo rinnovamento cellulare e rimodellamento tissutale che avviene in seguito all’asciugatura con una gravidanza concomitante, è stato di conseguenza definito 'involuzione rigenerativa' (Capuco et al., 2003).

1.3 Impatto del periodo di asciutta sulla produzione di latte

nelle vacche da latte: ipotesi

In letteratura sono state proposte quattro ipotesi per spiegare la necessità di un periodo di asciutta tra lattazioni successive in vacche da latte (Swanson, 1965; Smith et al., 1967; Swanson et al., 1967; Capuco et al., 1997).

La prima ipotesi è basata sulla nutrizione e suggerisce che il periodo di asciutta sia necessario al fine di accumulare le riserve corporee sufficienti prima del parto per sostenere la lattazione successiva. Alla luce di ciò, già nel 1926 Woodward e Dawson (citati da Arnold e Becker, 1936) avanzarono le prime ipotesi sulla lunghezza ideale che un periodo di asciutta avrebbe dovuto avere in relazione alla produttività e condizione fisica dell’animale. In seguito, Dickerson e Chapman (1939) dimostrarono che vacche denutrite e con un breve periodo di asciutta presentavano una riduzione marcata della produzione di latte rispetto alla lattazione precedente. L’ipotesi di una correlazione fra periodo di asciutta, nutrizione e condizione corporea, è stata successivamente

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smentita poiché vacche con un miglioramento del peso corporeo, presentavano comunque una minore produzione di latte con un periodo di asciutta pari a 0 e 30 giorni, rispetto a quelle con un normale periodo di asciutta di 60 giorni (Swanson, 1965; Lotan e Alder, 1976).

La seconda ipotesi si riferisce alla sfera ormonale. La riduzione della produzione di latte nelle vacche con un periodo di asciutta ridotto, o assente, sarebbe causato da una continua influenza degli ormoni galattopoietici. Questa ipotesi è stata smentita da Smith et al. (1967) che hanno dimostrato una ridotta produzione di latte nei quarti in mungitura continua, rispetto ai quarti di controllo, nonostante l’esposizione all’ambiente endocrino fosse la stessa per tutti i quarti in esame.

La terza ipotesi suggerisce che un ridotto numero di cellule epiteliali mammarie sia la causa dell’abbattimento della produzione di latte in vacche periodi di asciutta con lunghezza modificata (Pezeshki et al., 2008). Anche questa ipotesi è stata confutata (Capuco et al., 1997).

La quarta ipotesi è quella su cui è stato basato fino ad oggi l’allevamento della vacca da latte e prevede che un periodo di asciutta di lunghezza appropriata sia necessario per promuovere un turnover cellulare e la sostituzione delle cellule epiteliali senescenti della mammella durante la tarda gestazione (Capuco et al., 1997).

1.4 Rivalutazioni sulla durata del periodo di asciutta in

relazione alla produzione di latte

Negli ultimi anni si è ritenuto importante rivalutare la lunghezza del periodo di asciutta principalmente per i seguenti motivi:

(1) la maggior parte degli studi coinvolgono analisi retrospettive dei dati aziendali in cui la produzione di latte appare diminuita in relazione ai giorni di asciutta effettuati, anziché utilizzare esperimenti progettati sugli animali

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(Bachman e Schairer, 2003; Grummer e Rastani, 2004, 2005; Kuhn e Hutchison, 2005).

(2) La lunghezza del periodo di asciutta nei vecchi studi è stato alterato da problemi di riproduzione e di gestione. Le vacche sottoposte a brevi periodi di asciutta, infatti, non rientravano in questa categoria per una scelta investigativa scientifica, ma poiché erano andate incontro a parti prematuri. I motivi della diminuita durata della gestazione erano vari, ad esempio parto gemellare, aborti spontanei, mancata osservazione della monta, o mancato ricordo del giorno di asciugatura, e nessuno di questi ha un impatto positivo sulla produzione di latte nella seguente lattazione (Bachman e Schairer, 2003). Ecco come i dati potrebbero dunque apparire falsati.

(3) Il numero di vacche utilizzate negli studi sperimentali era spesso insufficiente per rilevare piccoli cambiamenti nella produzione di latte (Grummer e Rastani, 2004).

(4) Le informazioni riguardo l'impatto della lunghezza del periodo di asciutta sulle vacche ad alta produzione di latte di oggi, sono limitate, in quanto sono cambiati gli indici di produzione rispetto alle vacche di 30 anni fa. Le moderne linee genetiche, infatti, producono molto più latte e in maniera più costante durante la lattazione, rispetto alle loro antenate (Grummer e Rastani, 2004). (5) L'impiego diffuso di nuove tecnologie e pratiche di gestione, come ad esempio la somatotropina bovina (ST), l’aumento della frequenza di mungitura, le nuove razioni, e la gestione del fotoperiodo possono avere un impatto sull'efficacia dell’accorciamento, o sulla mancanza dei periodi di asciutta, che non sono stati ancora indagati (Grummer e Rastani, 2004).

L’involuzione mammaria della bovina è lenta e parzialmente reversibile dopo 11 giorni di stasi del latte (Noble e Hurley, 1999). Poiché l’involuzione mammaria nelle vacche da latte è completa dal 25° giorno del periodo di asciutta e una proliferazione cellulare significativa si verifica in questo periodo (Capuco et al., 1997), un periodo di asciutta di 30 giorni potrebbe essere un tempo adeguato per l'involuzione e la rigenerazione dei tessuti in circostanze appropriate.

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Da questa premessa si è sviluppata un'attiva area di ricerca sulla durata del periodo di asciutta ed in particolare sono stati proposti degli accorciamenti rispetto al tradizionale periodo di 60 giorni, o addirittura l’eliminazione totale (Remond et al., 1997; Bachman, 2002; Annen et al., 2004a, 2007; Andersen et al., 2005; Rastani et al., 2005; Fitzgerald et al., 2007; Pezeshki et al., 2007, 2008). Anche se inizialmente poteva sembrare che la diminuzione della durata del periodo di asciutta causasse solo insignificanti perdite di produzione del latte (Gulay et al., 2003; Schairer, 2001; Bachman, 2002; Annen et al., 2004a), la maggior parte dei recenti studi sono in linea con le ricerche del passato e hanno dimostrato che la produzione di latte è in realtà fortemente ridotta in vacche con periodi di asciutta troppo brevi (Madsen et al., 2004; Gulay et al., 2005; Kuhn et al., 2005, 2006, 2007; Rastani et al., 2005; Pezeshki et al., 2007, 2008; Church et al., 2008; Gallo et al., 2008; Watters et al., 2008).

Gli studi eseguiti sulla completa eliminazione del periodo di asciutta hanno evidenziato anch’essi una significativa riduzione della produzione di latte alla successiva lattazione (Annen et al., 2004b, 2007; Andersen et al., 2005; Rastani et al., 2005; Fitzgerald et al., 2007).

1.5 Rivalutazioni sulla durata del periodo di asciutta in

relazione alla prevenzione delle mastiti

L'importanza del periodo di asciutta nelle dinamiche delle infezioni intramammarie (Intra-Mammary Infections: IMI) nelle bovine da latte è stato studiato per molti anni. Il periodo di asciutta gioca un ruolo importante per le strategie di controllo delle mastiti negli allevamenti da latte (Neave et al., 1950; Smith et al., 1985a,b; Oliver e Sordillo, 1988; Burvenich et al., 2003), perché molte IMI si sviluppano durante il periodo di asciutta e si presentano quindi durante la lattazione successiva causando spesso mastiti cliniche (Hogan e Smith, 2003; Sordillo, 2005).

Il tasso di IMI non è costante in tutto il periodo di asciutta (Smith et al., 1985a; Bradley e Green, 2004). I dati clinici e sperimentali supportano il concetto che la

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ghiandola mammaria della bovina sia più sensibile alla nuova IMI durante l’inizio (asciugatura) e la fine (colostrogenesi) del periodo di asciutta (Kehrli e Shuster, 1994; Burvenich et al., 2000, 2007; Sordillo e Streicher, 2002). L'aumento dei tassi di IMI in questi due periodi di transizione potrebbero essere attribuibili ai cambiamenti dei fattori protettivi naturali e dei fattori antibatterici, all'anatomia e alla fisiologia della punta del capezzolo, e al grado di esposizione agli agenti patogeni responsabili della mastite (Comalli et al., 1984; Oliver e Sordillo, 1989). Insieme ai cambiamenti istologici, avverrebbero significativi cambiamenti anche nella composizione chimica e cellulare delle secrezioni mammarie (Breau e Oliver, 1985; Bushe e Oliver, 1987; Sordillo e Nickerson, 1988; Athie et al., 1996). Subito dopo la cessazione della lattazione si ha, infatti, l’inizio della secrezione di importanti componenti del sistema immunitario innato e acquisito (Clarkson et al., 2004; Stein et al., 2004). Le concentrazioni di queste molecole nel latte aumentano per le prime 2 settimane dopo la cessazione della lattazione, per poi diminuire a rimanere stabili durante gran parte del periodo successivo, fino al parto e alla ripresa della lattazione (Jensen e Eberhart, 1981; McDonald e Anderson, 1981; Miller et al., 1990). Le concentrazioni di grassi, citrato, caseine e lattosio, invece, diminuiscono, ma questi cambiamenti si verificano sempre nelle prime settimane di messa in asciutta. Dopo questo momento non si assiste a grosse modificazioni nella ghiandola mammaria fino al parto (Oliver e Bushe, 1987; Sordillo, 1987; Sordillo e Nickerson, 1988). La riduzione del volume della ghiandola mammaria e la stabilizzazione delle variazioni della sua secrezione, rende la mammella particolarmente resistente alle nuove IMI durante la parte centrale del periodo di asciutta (Burvenich et al., 2007), in particolare per i batteri gram negativi (Oliver e Mitchell, 1983; Breau e Oliver, 1986). La lattoferrina, la principale proteina presente nelle secrezioni mammarie durante questo periodo, è un’importante componente inibitoria contro i coliformi (Oliver e Bushe, 1987; Rejman et al., 1989; Goff e Horst, 1997; Burvenich et al., 2007).

Al momento del parto, invece, si hanno basse concentrazioni di componenti antibatterici (fagociti e lattoferrina), cellule somatiche e albumina sierica, ma alte concentrazioni di caseina, lattosio, e citrato (Nonnecke e Smith, 1984; Breau e Oliver, 1986; Oliver e Sordillo, 1988). Sempre in questa fase la

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concentrazione di immunoglobuline raggiunge il suo massimo livello (Sordillo e Streicher, 2002). La maggior parte delle IgG nelle secrezioni mammarie è di origine umorale, considerando che le IgA e le IgM sono prodotte localmente (Lascelles, 1979). Approssimativamente, il 90% di tutte le immunoglobuline del colostro che sono trasferite ai vitelli è di tipo IgG1 e IgG2. Anche se la concentrazione di IgG1 (924.3 mg/dl) e IgG2 (1330.4 mg/dl) nel sangue bovino sono equivalenti (Burton et al., 1991), le IgG1 nel colostro sono in concentrazioni molto più elevate rispetto alle IgG2: 50-90 g/l vs 1.5-2 g/l, rispettivamente (Elfstrand et al, 2002) e l'alta concentrazione di IgG1 è una proprietà unica del colostro. Le IgG2 potrebbero giocare un importante ruolo nella opsonizzazione e fagocitosi batterica dei PMN e dei PMN citotossici anticorpo-dipendenti (Butler, 1983; Detilleux et al., 1994). L’aumento delle concentrazioni di immunoglobuline in prossimità del parto cesserebbe con l'insorgenza di un’abbondante secrezione mammaria e con l'accumulo di secrezioni nella ghiandola stessa. Ciò diminuirebbe l’attività opsonizzante delle componenti immunitarie durante l'ultima settimana di gestazione e potrebbe essere motivo della ridotta capacità fagocitaria dei macrofagi e dei PMN durante questa fase (Craven e Williams, 1985; Smith et al., 1985b). Inoltre, in seguito ad un’ingestione indiscriminata di grassi e caseina, la fagocitosi e la batteriolisi intracellulare dei PMN è inibita durante il periodo della colostrogenesi (Russell e Reiter, 1975;. Russell et al., 1976; Paape e Guidry, 1977).

Viste queste premesse, diversi autori hanno indagato l’influenza che un accorciamento del periodo dell’asciutta potrebbe avere sull’incidenza di IMI. In favore di una diminuzione della durata della fase di asciutta, alcuni studi hanno dimostrato che i fattori protettivi naturali della mammella fossero presenti in basse concentrazioni nelle secrezioni mammarie di ghiandole che producevano grandi quantità di latte durante la tarda lattazione (Smith et al., 1985b; Breau e Oliver, 1986). Accorciando la durata classica dell’asciutta, si potrebbe ottenere un volume di latte inferiore all’asciugatura. Pertanto, le concentrazioni di grassi, caseina, lattosio, e citrato, che sono alte in questo momento e che interferiscono con le difese naturali della mammella (Craven e Williams, 1985; Breau e Oliver, 1986; Hurley e Rejman, 1986), potrebbero a loro volta ridursi. Un volume di latte troppo elevato al momento dell’asciugatura rappresenta un

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terreno eccellente per la crescita dei batteri e può causare, inoltre, un aumento della pressione intramammaria con perdite di latte dai capezzoli e penetrazione batterica nel canale (Cousins et al., 1980; Smith et al., 1985b; Breau e Oliver, 1986; Burvenich et al., 2007).

Oltre alla riduzione della durata del periodo di asciutta, è stato anche proposto di mungere le vacche fino al parto per rimuove l'immunodeficienza causata dall’accumulo di latte all’asciugatura. La letteratura che tratta l'effetto della mungitura continua sul contenuto di IgG e di proteine nel colostro ha risultati controversi. Alcuni autori sostengono che la mungitura continua abbia un impatto negativo sul contenuto delle IgG e delle proteine nel colostro (Brandon e Lascelles, 1975; Remond et al., 1997; Rastani et al., 2005), altri smentiscono questo concetto (Annen et al., 2004a). La discussione scientifica sul tema della durata del periodo di asciutta e sulla sua eliminazione, è ancora in atto.

1.6 La terapia antibiotica in asciutta per la prevenzione delle

mastiti

La somministrazione di una terapia antibiotica all’asciugatura della vacca per curare le IMI esistenti e per prevenire nuove infezioni è stata ben documentata e fa parte del piano di controllo della mastite (Berry et al., 2004). La somministrazione al momento dell’asciutta di antibiotici a lunga durata in quarti non infetti, riduce, per esempio, l'incidenza complessiva delle nuove infezioni da

S. uberis (Williamson et al., 1995).

L'uso di un sigillante all’interno del capezzolo, che fornisca una barriera fisica alle infezioni del canale, è stato allo stesso modo documentato, da solo o in combinazione con una terapia antibiotica per l’asciutta della vacca (Woolford et al., 1998; Berry e Hillerton, 2002; Berry et al., 2004; Laven e Lawrence, 2008; Newton et al., 2008). Si rimanda al capitolo 3 per la dissertazione più approfondita sull’argomento e per una panoramica sulla letteratura più recente.

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2.1 Introduzione

Per mastite si intende qualsiasi infiammazione della mammella (incluse le infiammazioni causate da lesioni), dovuta quasi sempre ad agenti patogeni batterici, ma anche a funghi, lieviti e alghe (Hogan et al., 1999).

La mastite è tutt’oggi uno dei principali problemi sanitari dell’allevamento della vacca da latte. Nonostante siano stati compiuti enormi passi avanti nella gestione di questa patologia, la mastite resta ancora una delle fonti principali di perdite economiche nell’allevamento della vacca da latte, sia in termini di prevenzione (igiene ambientale, gestione della mungitura, trattamenti in asciutta), che di gestione dei casi clinici (terapia farmacologica, perdita di produzione nei soggetti colpiti ed eliminazione degli animali cronici) (Bascom e Young, 1998). La mastite è perciò considerata una delle principali patologie, insieme a quelle dell’apparato riproduttore, nell’allevamento della bovina da latte e il suo trattamento è uno delle principali cause della somministrazione di antibiotici in questi animali (Pol e Ruegg, 2007).

2.2 Mastite e produzione

2.2.1 Mastite, produzione e cellule somatiche

Sono stati condotti alcuni studi per valutare le perdite della produzione dovute alle mastiti, in relazione alla conta delle cellule somatiche (CCS) (Erskine et al., 1988, Schepers et al., 1997, Schwarz et al., 2010). Le mastiti, infatti, determinano un aumento delle cellule somatiche che sembrerebbe fornirci una stima diretta delle perdite produttive. Un’indagine condotta in alcuni allevamenti italiani ha dimostrato che un valore di CCS superiore a 400.000 cellule/ml, comporterebbe una riduzione delle produzioni del 12% (Zecconi et al., 2010, Zecconi, 2013).

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2.2.2 Mastite, produzione e riproduzione

Alcuni studi effettuati in Italia e negli Stati Uniti hanno evidenziato il legame tra mastite e ipofertilità (Barker et al., 1998; Rahman et al., 2011). Uno studio effettuato in Israele su 200 bovine in lattazione ha dimostrato che il periodo tra parto e prima fecondazione è significativamente maggiore nei soggetti che hanno avuto un episodio di mastite clinica rispetto agli animali sani, rilevando un tasso di concepimento pari al 23% (Lavon et al., 2011a,b). Analogamente uno studio condotto in Ungheria ha dimostrato che le bovine con mastite hanno un rischio più elevato di ipofertilità e mortalità fetale, così come il ritardo della prima ovulazione (Huszenicza et al., 2005). Infine uno studio effettuato negli Stati Uniti ha evidenziato che la quota di rimonta attribuibile alle mastiti sia almeno del 10% (Bar et al., 2008).

2.2.3 Mastiti cliniche e perdite delle produzioni (Zecconi, 2016a)

Secondo alcuni studi effettuati in varie regioni italiane il costo delle mastiti lievi, caratterizzate solo da alterazioni del latte e non da modificazioni cliniche dell’animale, si aggirerebbe intorno a 96 euro/caso. Tale costo tende a raddoppiare in caso di forme moderate di mastiti, mentre triplica in caso di mastiti gravi. Da questo studio si evince un costo medio per mastite pari a 177 euro/capo, superiore a quello indicato nella letteratura internazionale. Il maggior prezzo che gli allevatori italiani sono costretti a pagare per i casi di mastiti sarebbe dovuto ai protocolli terapeutici applicati, protocolli che per la loro complessità e razionalità sono più costosi nel nostro Paese rispetto ad altri Paesi europei ed agli USA. Le perdite medie, dovute soprattutto all’eliminazione precoce degli animali sono state calcolate intorno ai 318 euro/capi allevato.

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2.3 Epidemiologia

Le mastiti cliniche sono un problema importante in molti degli allevamenti italiani. Uno studio effettuato su 125 allevamenti dislocati sul nostro territorio ha mostrato che la frequenza mensile dichiarata di mastiti cliniche è superiore al 2% in oltre il 60% di questi allevamenti (Zecconi e Bella, 2013). La soglia del 2% è stata definita come massima accettabile in un allevamento di vacche da latte (Zecconi et al., 2010). Oltre il 30% dei suddetti allevamenti presentava una frequenza doppia rispetto a quella soglia.

2.3.1 Fattori di rischio

I fattori di rischio possono essere molteplici, tra questi quelli legati all’aspetto gestionale giocano un ruolo molto importante nella prevenzione delle mastiti (Zecconi, 2016b).

2.3.1.1 Lattazione

La maggior parte delle mastiti cliniche si verificano nei primi 60 giorni di lattazione perché l’animale, producendo elevate quantità di latte, va più facilmente incontro a dismetabolismi che possono ridurre le capacità di controllare le infezioni mammarie (Fantini e Zecconi, 2012).

Altro momento di elevata incidenza delle mastiti cliniche sono le fasi tardive della lattazione. Oltre ai cambiamenti trattati nel capitolo 1, si ha una diminuzione fisiologica della produzione di latte, con un aumento di problemi di sovramungitura che, se non individuati e gestiti, favoriscono l’insorgenza di mastiti cliniche (Zecconi, 2016b).

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2.3.1.2 Stagione

Le mastiti cliniche hanno una maggiore frequenza nei mesi estivi, mentre le mastiti subcliniche si manifestano ugualmente in tutte le stagioni (Zecconi, 2016b). Uno studio effettuato dall’Università di Milano ha dimostrato che la frequenza di mastiti subclinche è costante durante l’anno e si attesta intorno al 15%, mentre si osservano picchi estivi per infezioni latenti e mastiti cliniche (Zecconi e Piccinini, 2009). E’ stato inoltre possibile osservare che l’aumento delle forme latenti precede le forme cliniche, dimostrando che l’aumento progressivo dei quarti con patogeni in mammella determina la forma grave di mastite clinica. Per prevenire lo sviluppo di mastiti è opportuno mantenere una condizione igienica ottimale, soprattutto durante i periodi estivi (Zecconi, 2016b).

2.3.1.3 Stabulazione e lettiera

La tipologia di stabulazione è molto importante per ridurre l’insorgenza delle mastiti ambientali e, quindi, delle mastiti cliniche. Uno studio effettuato in 125 allevamenti italiani mostra che nelle aziende con cuccette la frequenza delle mastiti è del 3,7% casi/mese, mentre in quelle su lettiera permanente la frequenza è del 3,2%. Questi risultati stridono con il pensiero comune in cui l’allevamento su lettiera permanente determina maggiori casi di mastiti, dimostrando che una gestione non corretta di una stabulazione altrimenti adeguata, è ugualmente pericolosa (Zecconi e Bella, 2013).

La stabulazione può avere quindi effetti positivi o negativi in base al tipo di lettiera e alle modalità di gestione. I materiali più comunemente utilizzati sono: paglia (lunga o trinciata), segatura, trucioli, deiezioni disidratate, sabbia, materassi in gomma o imbottiti. Nelle lettiere tradizionali (paglia, segatura o trucioli), vi è una correlazione tra la quantità di batteri in lettiera ed il livello di contaminazione del capezzolo. Più il posteriore degli animali è sporco e maggiore è la possibilità della contaminazione dei capezzoli. Le lettiere a base

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di legno (segatura o truciolo) favoriscono i batteri Gram negativi mentre la paglia favorisce gli Streptococchi ambientali. La lettiera costituita da deiezioni essiccate (contenuto di sostanza secca tra il 30 e il 40%) inizialmente ha una carica batterica uguale a quella delle lettiere tradizionali ma, in caso di un buon livello di umidità, può subire un incremento notevole e raggiunge livelli molto elevati. La sabbia è il materiale ideale per la lettiera perché essendo inorganica non favorisce la crescita batterica, ha una buona capacità drenante ed è associata ad una minore lesione agli arti. Il suo poco utilizzo è dovuto a problemi di costo e di gestione. I materassi in gomma aumentano il comfort e riducono la quantità di materiale utilizzato per la lettiera, ma possono determinare abrasioni e lesioni a livello degli arti posteriori (Zecconi, 2016b).

2.3.2 Epidemiologia batterica

Non sono molti gli studi che riportano l’epidemiologia corrente delle mastiti sul territorio italiano. Alcune delle più recenti sono state eseguite su un numero elevatissimo di quarti mammari di bovine provenienti da aziende del Nord Italia e hanno evidenziato la seguente distribuzione (Zecconi e Piccinini, 2009; Zecconi, 2013):

• mastiti subcliniche

- Streptococchi ambientali: 36%;

- Stafilococchi coagulasi negativi (CNS): 31%; - S. aureus: 18%; - Coliformi: 9%; - Streptococcus agalactiae: 3%; - Corynebacterium bovis: 2%; - altro 1%. • mastiti cliniche: - Streptococchi ambientali: 25%; - Coliformi: 23%; - Stafilococchi CNS: 8%;

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aureus, Mycoplasma spp.): 6%

- altro: 8%.

2.4 Eziologia (Pisoni, 2007)

Come in parte visto le mastiti possono essere causate da molteplici e differenti agenti eziologici, i quali fanno parte di oltre 150 specie differenti (Bradley et al., 2012). I principali agenti eziologici coinvolti nelle mastiti sembrano essere quelli di natura batterica (Ruegg e Erskine, 2015).

2.4.1 Classificazione eziologica e in base alla modalità di trasmissione

I microrganismi responsabili delle mastiti possono essere classificati in base all’eziologia e alla modalità di trasmissione in:

• batteri contagiosi; • batteri ambientali; • batteri opportunisti;

• patogeni mammari non comuni.

2.4.1.1 Batteri contagiosi

Nella categoria dei batteri contagiosi sono inseriti tutti quei microrganismi che non vivono normalmente sulle superfici o sull’epidermide, ma sono batteri obbligati, e presentano un elevato tropismo per il tessuto mammario. Questi batteri presentano un’elevata resistenza e un’alta prolificità quando si trovano a contatto con la ghiandola mammaria mentre sono particolarmente sensibili e delicati nell’ambiente esterno. La trasmissione avviene a causa del contatto tra animali infetti e sani durante la mungitura, poiché essendo localizzati principalmente nel latte, possono trasmettersi attraverso le mani dei mungitori, le guaine della macchina mungitrice e attraverso stracci e spugne usate per la pulizia dei capezzoli.

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I principali microrganismi che rientrano in questa categoria sono: - Streptococcus agalactiae; - Staphylococcus aureus; - Mycoplasma spp. 2.4.1.2 Batteri ambientali

Fanno parte dei batteri ambientali quei microrganismi che sono solitamente presenti sulla lettiera e, in caso di scarse condizioni igieniche, possono venire a contatto con il capezzolo, contaminandolo. Le fonti principali sono rappresentate dalla lettiera e da materassini per le cuccette. L’infezione delle mammelle di animali sani con questi batteri avviene non durante la mungitura, ma piuttosto subito dopo, periodo nel quale il capezzolo si presenta più esposto e suscettibile alla colonizzazione da parte di germi ambientali, trovandosi a diretto contatto con le deiezioni o la lettiera.

Appartengono a questo gruppo:

- Streptococcus uberis; - Streptococcus bovis; - Streptococcus faecalis - Streptococcus dysgalactiae; - Streptococcus canis; - Escherichia coli; - Coliformi. 2.4.1.3 Batteri opportunisti

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della mammella e del capezzolo. L’immunosoppressione del sistema immunitario, dovuto per esempio a fattori stressanti, consente a questi batteri di moltiplicarsi e di causare l’infezione, penetrando all’interno del capezzolo e della mammella. A questa categoria di batteri appartengono diverse specie di Stafilococchi, accomunati dalla caratteristica di produrre colonie coagulasi-negative (vengono anche denominati Stafilococchi Coagulasi-Negativi CNS).

I più rappresentati sono:

- Staphylococcus simulans; - Staphylococcus xylosus; - Staphylococcus epidermidis; - Staphylococcus chromogenes; - Staphylococcus warnerii.

2.4.1.4 Patogeni non comuni

Tra i patogeni mammari non comuni si trovano vari agenti eziologici, di diversa natura, che solo in determinati casi possono causare gravi mastiti. Di solito, questi eventi interessano solo pochi animali della mandria e risultano ben manifesti e prontamente individuabili. Le mastiti causate da questo gruppo di patogeni rispondono scarsamente alla somministrazione di antibiotici e, spesso, l’alternativa terapeutica più valida risulta essere la progressiva identificazione e riforma dei soggetti interessati.

Questi patogeni sono:

- Pseudomonas aeruginosa; - Actinomyces piogenes; - Nocardia spp.;

- Micoplasma spp.;

- Lieviti, miceti e alghe (Candida spp, Trichosporon beigelii, Prototheca

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2.4.2 Classificazione in base alla capacità di infezione

Una seconda tipologia di classificazione prende in considerazione la capacità dei microrganismi di infettare primariamente la ghiandola mammaria indipendentemente dall’influenza di fattori esterni. In base a quest’ultima, possono essere suddivisi in:

• patogeni maggiori; • patogeni minori.

2.4.2.1 Patogeni maggiori

Tra i patogeni maggiori rientrano quei microrganismi che colonizzano primariamente la mammella e che sono in grado di dare origine ad un’infezione in questa sede a prescindere dall’influenza di fattori esterni.

Le principali specie coinvolte sono:

- tutti i patogeni contagiosi; - coliformi;

- Actinomyces piogenes.

2.4.2.2 Patogeni minori

La categoria dei patogeni minori comprende, invece, tutti quei patogeni che non sono in grado di dare origine ad un’infezione mammaria in maniera autonoma, ma che hanno la necessità dell’ausilio di alcuni fattori predisponenti e condizionanti.

Fanno parte di questi patogeni:

- gli Stafilococchi Coagulasi-Negativi (CNS); - gli Streptococchi ambientali.

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2.5 Patogenesi (Ruegg e Erskine, 2015)

La patogenesi degli eventi mastitici risulta principalmente legata ad un calo, o ad un’alterazione, delle difese immunitarie dell’organismo ospite nei confronti degli agenti patogeni esterni.

I microrganismi possono raggiungere la sede mammaria attraverso due vie: una via discendente, attraverso il torrente ematico; oppure una via ascendente, penetrando attraverso il capezzolo.

Nelle mastiti discendenti, la sede primaria dell’infezione non è il tessuto mammario, ma altri distretti dell’organismo; da queste sedi, i microrganismi, a seguito di un calo delle resistenze generali dell’ospite, possono essere trasportati fino in sede mammaria attraverso la circolazione ematica, dove possono generare un’infezione secondaria. Il manifestarsi di questo tipo di mastiti avviene sempre a seguito di una marcata, e spesso irreversibile, compromissione del distretto anatomico sede del processo infiammatorio primario e di un marcato decadimento delle condizioni generali del soggetto, inserendosi pienamente nel quadro dei segni di una grave infezione sistemica; proprio per questi motivi, gli esiti di questi eventi risultano quasi sempre nell’abbattimento dell’animale coinvolto, piuttosto che nella formulazione di un piano terapeutico.

Le mastiti ascendenti, invece, sono determinate dalla capacità dei microrganismi patogeni di superare le barriere anatomiche della mammella, colonizzare il parenchima mammario e generare una risposta immunitaria. Questi eventi possono essere influenzati da una molteplicità di fattori differenti, quali, ad esempio: stato immunitario dell’ospite; integrità anatomica della ghiandola mammaria della bovina e, soprattutto, del capezzolo; patogenicità e tropismo del microrganismo infettante; igiene generale dell’allevamento, delle strutture e del personale dell’azienda; gestione dell’azienda e delle operazioni correlate alla mungitura. Questo tipo di mastiti rappresenta la casistica maggiore, per quanto riguarda la patogenesi di queste infezioni.

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2.6 Classificazione delle mastiti

Con il termine mastite è indicato il processo infiammatorio a carico del parenchima ghiandolare mammario, con o senza la compartecipazione della cute della mammella; sempre a carico della ghiandola mammaria possiamo riscontrare anche altri tipi di flogosi: la telite, infiammazione che interessa tutta la stratigrafia del capezzolo; la cisternite, flogosi che si limita alla mucosa del capezzolo; e la galattoforite, infiammazione dei dotti galattofori della mammella (Rosemberger, 1993).

La patologia può manifestarsi attraverso una moltitudine di quadri clinici, che possono differire per molteplici aspetti, quali, ad esempio, durata della malattia, presenza o assenza di segni clinici, intensità dei segni clinici, presenza ed intensità delle modificazioni della composizione del latte, momento di insorgenza della mastite e molti altri ancora.

Per una maggiore accuratezza nella definizione delle diverse forme di mastite, si possono utilizzare diversi criteri di classificazione, basate su differenti aspetti della patologia, quali:

- classificazioni in base alla forma clinica/intensità della risposta

infiammatoria;

- classificazione in base alla patogenesi;

- classificazione in base alla modalità di trasmissione dell’organismo

responsabile;

- classificazione in base alla gravità della malattia;

- classificazione in base al momento di insorgenza della malattia.

2.6.1 Classificazione in base alla forma clinica/intensità della risposta infiammatoria

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Nelle mastiti subcliniche il processo infiammatorio non causa modificazioni macroscopicamente osservabili né a livello sistemico, né a livello della mammella, né a carico del latte. Il latte ottenuto dalla mammella, o dal capezzolo nel caso in cui solo uno fosse coinvolto, si presenta normale, ma contiene al suo interno un numero alterato di cellule somatiche, con o senza la presenza di batteri (Dohoo e Leslie, 1991). Queste modificazioni a carico del latte sono svelabili solo tramite esami di laboratorio ed incidono principalmente sulle caratteristiche tecnologiche del latte, sulle sue qualità organolettiche e sanitarie e sulla shelf-life del latte stesso e dei prodotti da esso derivati.

Le principali metodiche di laboratorio per l’individuazione di mastiti subcliniche a partire da campioni di latte sono (Schultze, 1985; Ruegg e Erskine, 2015):

- test citologici (conta delle cellule somatiche - SCC; California Mastitis

Test - CMT);

- test batteriologici (colture batteriche su terreni più o meno selettivi); - test biochimici (misurazione della conducibilità elettrica).

Le mastiti subcliniche costituiscono una realtà particolarmente dannosa per l’allevamento della bovina da latte, proprio a causa dell’assenza di manifestazioni cliniche nell’animale e di modificazioni macroscopiche a carico del latte, caratteristiche che ne rendono particolarmente difficile la diagnosi e l’eradicazione all’interno delle mandrie. Il lungo tempo che intercorre tra l’insorgenza della patologia e la sua diagnosi, permette, da un lato, una massiccia diffusione di questa tra gli individui della mandria e, dall’altro, causa ingenti perdite economiche alle aziende, dovute principalmente alla diminuzione della produzione di latte e alle modificazioni, più o meno marcate, della sua composizione.

La loro eradicazione non sempre è possibile, ma il loro contenimento può essere raggiunto con delle efficaci misure profilattiche e con l’uso razionale di antibiotici appropriati.

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Per mastite clinica si intende una produzione anormale di latte con o senza sintomi secondari. Nelle mastiti definite cliniche, abbiamo un’evidente risposta infiammatoria del quarto, o dei quarti, colpiti, pertanto la patologia è strettamente accompagnata da evidenti modificazioni a carico della composizione macroscopica e microscopica del secreto latteo e da un’ampia gamma di segni clinici a carico sia della ghiandola mammaria, sia della bovina stessa. Queste caratteristiche rendono questo tipo di mastiti rapidamente diagnosticabili all’interno della mandria, consentendo di poter formulare delle scelte terapeutiche e programmare dei piani di controllo ed eradicazione in una tempistica relativamente breve.

L’incidenza delle mastiti cliniche all’interno di una mandria può variare molto; indicativamente può raggiungere valori che possono andare da meno del 10%, fino a più del 50% delle bovine in lattazione.

I segni sistemici che accompagnano le mastiti cliniche comprendono soprattutto manifestazioni, più o meno aspecifiche, riconducibili a segni di interessamento generale, quali: letargia e decubito prolungato, depressione e apatia, calo della produzione lattea, calo dell’ingestione di sostanza secca, tachipnea, febbre e tachicardia, diminuzione della ruminazione e/o delle cascate ruminali, aumento del tempo di riempimento capillare (TRC) e ipotermia marcata, in quei casi a decorso fulminante.

È bene tenere a mente che la risoluzione dei segni clinici in corso di mastite non è sempre accompagnata dalla risoluzione dell’infezione intramammaria, come nel caso delle infezioni sostenute da S. aureus; così come l’eliminazione dell’agente eziologico non è sempre accompagnata da una rapida scomparsa dei segni clinici, come per le mastiti causate da E. coli.

Una metodologia di classificazione, basata sulla gravità delle manifestazioni cliniche associate all’evento mastitico considerato, suddivide ulteriormente le mastiti cliniche in:

- subacuta: si evidenziano soltanto alterazioni reologiche del latte (colore,

viscosità, consistenza);

- acuta: oltre alle alterazioni sul latte, l’esame obiettivo particolare della

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- iperacuta: le alterazioni reologiche del latte e l’interessamento del

tessuto mammario sono accompagnati da sintomi sistemici, quali febbre, disoressia-anoressia, decubito prolungato, diarrea, disidratazione.

2.6.2 Classificazione dal punto di vista patogenetico

Per quanto riguarda la classificazione secondo il punto di vista dei meccanismi patogenetici, le mastiti vengono comunemente suddivise in:

- mastiti ascendenti, - mastiti discendenti.

2.6.3 Classificazione in base alle caratteristiche di trasmissione dell'organismo responsabile

Questa è una classificazione di tipo tradizionale, che si basa sul comportamento e le attitudini dei microrganismi coinvolti nell’infezione. Mediante questo criterio di classificazione, le mastiti sono suddivise in (Bradley et al, 2012; Ruegg e Erskine, 2015):

- mastiti contagiose; - mastiti ambientali.

2.6.3.1 Mastiti contagiose

Sono definite mastiti contagiose quei processi infiammatori che derivano dall’azione di microrganismi che presentano un’alta affinità per il tessuto ghiandolare mammario e una discreta predisposizione alla determinazione di infezioni di tipo persistente.

Gli agenti eziologici più largamente coinvolti sono (Bradley et al., 2012):

Streptococcus agalactiae, Streptococcus dysgalactiae, Staphylococcus aureus, Mycoplasma spp., Corynebacterium spp. e gli stafilococchi Coagulasi-Negativi

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2.6.3.2 Mastiti ambientali

Tra le mastiti ambientali rientrano quelle patologie causate da agenti eziologici che infettano in maniera opportunistica la ghiandola mammaria. Questi microrganismi, non presentano uno spiccato tropismo per il tessuto mammario, ma, piuttosto, ritrovano il loro reservoir naturale nell’ambiente esterno. Le principali specie appartenenti a questa categoria di patogeni sono (Bradley et al., 2012): Escherichia coli, Streptococcus uberis, Klebsiella Spp. e altre Enterobacteriaceae. In assenza di determinati fattori condizionanti, questi agenti presentano una scarsa resistenza all’interno del tessuto mammario e, negli organismi sani, vengono prontamente identificati ed eliminati dalla risposta immunitaria del soggetto, esitando in processi infiammatori tendenzialmente di breve durata e lieve intensità (Ruegg, 2011).

Nonostante la loro scarsa patogenicità primaria nei confronti della mammella, in mandrie dove le mastiti contagiose risultano sotto controllo, i patogeni ambientali possono essere la causa di un numero significativo di patologie cliniche ricorrenti (Bradley e Green, 2001a).

2.6.4 Classificazione in base alla gravità della malattia

Questo tipo di classificazione suddivide le mastiti in base all’intensità dei segni clinici associati ad esse e alle modificazioni del secreto latteo. Secondo questo criterio, possiamo suddividere le infiammazioni della ghiandola mammaria in:

- mastiti lievi: si evidenziano alterazioni solo a livello di secrezione, ma il

quarto si presenta normale;

- mastiti moderate: il quarto colpito si presenta caldo e dolente ed è

possibile la presenza di edema. Sono evidenti alterazioni sul latte del quarto interessato;

- mastiti gravi: quando insieme ai sintomi precedenti compaiono sintomi

sistemici come febbre, anoressia e caduta della produzione (Zecconi et al., 2016b).

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Nella pratica della diagnosi in campo delle mastiti, risulta molto utile riuscire a collocare correttamente l‘episodio mastitico che si sta affrontando nella categoria di gravità adeguata; a questo fine può risultare comodo l’utilizzo di scale di conversione, metodologie di valutazione che, mediante l’assegnazione di punteggi a determinati parametri, permettono la conversione di questi risultati in altri dati utili ai fini diagnostici e/o terapeutici.

2.7 Diagnosi

Sebbene sia stata ampiamente documentata l’importanza che assume l’identificazione dell’agente patogeno nell’indirizzamento e nel successo delle strategie terapeutiche e di controllo in corso di mastiti, non esiste un criterio universalmente accettato per la determinazione di infezione intramammaria (Bradley et al, 2012).

Anche se attualmente il gold standard diagnostico nella definizione di mastite è rappresentato dall’esame batteriologico di campioni di latte e l’identificazione dell’eventuale colonia predominante, molti possono essere i fattori che possono influenzare la scelta del protocollo diagnostico più conforme agli obiettivi che si desidera perseguire; la scelta definitiva dovrebbe ricadere sul protocollo, o sui protocolli, che rappresentano il miglior compromesso tra: costo di esecuzione, rapidità nell’ottenimento dei risultati e accuratezza diagnostica. Le strategie a disposizione dei veterinari e del personale di stalla per smascherare i fenomeni mastitici sono attualmente numerose; una metodologia di classificazione funzionale al successo diagnostico e terapeutico le distingue in:

- diagnosi cliniche; - diagnosi in campo; - diagnosi di laboratorio; - diagnosi microbiologica.

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2.7.1 Diagnosi clinica

Un approccio diagnostico alle mastiti esclusivamente di tipo clinico può risultare sufficientemente accurato solo nel corso di processi mastitici clinici, fenomeni che, per definizione, sono accompagnati da numerose e variegate manifestazioni cliniche sia di natura sistemica, che specifiche della ghiandola mammaria.

Per ottenere una diagnosi esclusivamente di natura clinica di mastite si deve procedere all’esame dei seguenti aspetti:

1. Esame Obiettivo Generale della bovina: per le alterazioni dello stato di

salute generale che è possibile riscontrare nella bovina in corso di mastite.

2. Esame Obiettivo Particolare della ghiandola mammaria: all’ispezione si

possono principalmente osservare: asimmetrie dei quarti, ingrossamento dei capezzoli e arrossamento della cute. Alla palpazione è possibile apprezzare zone di parenchima mammario ingrossate, più dure, più calde e in alcuni casi anche dolenti. La secrezione risulta alterata.

3. Esame dei primi getti di latte prima della mungitura: si effettua una valutazione generale di tipo sensoriale del rispetto dei principali parametri organolettici e reologici del latte bovino.

2.7.2 Diagnosi in campo (Rosemberg, 1993; Ruegg e Erskine, 2015)

Per i veterinari che esercitano la professione nel settore zootecnico, risulta di particolare utilità l’adozione e/o la formulazione di protocolli diagnostici che consentano di ottenere risultati, o parte di essi, già in sede aziendale; l’eccessiva e/o errata manipolazione dei campioni, le diverse metodologie impiegate per la loro conservazione e le pratiche di trasporto, infatti, possono incidere negativamente sull’accuratezza dei risultati ottenuti da tali campioni. Per ottenere il maggior numero di informazioni possibili in campo si può procede come segue:

(35)

1. Visita clinica della bovina: esame obiettivo generale (EOG) dell’animale ed esame obiettivo particolare (EOP) della ghiandola mammaria;

2. Esame macroscopico preliminare del latte: in questa sede vengono esaminate le eventuali modificazioni presenti a carico della secrezione lattea; in una bacinella a fondo preferibilmente scuro viene esaminato separatamente il primo getto di ogni quarto relativamente a colore, odore, consistenza e presenza di materiale estraneo;

3. Misurazione del pH del latte: questa analisi può essere effettuata in maniera rapida ed economica direttamente in fase di mungitura mediante l’utilizzo di apposite cartine tornasole, oppure eseguita in laboratorio, principalmente in associazione ad altre determinazioni di routine. Il valore del pH risulta influenzato principalmente dalla componente proteica del latte; è riportata una relazione di proporzione inversa fra il pH e la quantità di proteine presenti nel latte, quindi quando il contenuto totale di proteine scende, il pH aumenta. Il range di valori considerati fisiologici per il pH del latte spaziano tra 6.5 e 6.7; valori di pH superiori al 6.8 sono associati alla maggior parte dei casi di mastite, fatta eccezione per quella di tipo gangrenoso, che sembra accompagnata da valori inferiori al 6.0 (Rosemberg, 1993; Ruegg e Erskine, 2015);

4. California Mastitis Test (CMT): Il CMT è un test di screening semplice, poco costoso e rapido per la valutazione del contenuto cellulare del latte. Il test si basa sulla valutazione della quantità di materiale nucleare cellulare presente nel campione di latte. Questa tecnica può essere eseguita direttamente durante la fase di mungitura: dalla postazione del mungitore si procede all’eiezione forzata di 2-3 ml di latte dai capezzoli dei quarti da valutare; ogni getto dovrebbe essere raccolto in un distinto pozzetto della paletta per campioni mammari evitando qualsiasi contatto tra quest’ultima e l’animale; il campione ottenuto viene mescolato con 2 ml di tensioattivo (soluzione costituita da 96 g di Na-Lauril-Solfato /5 lt) che provoca la lisi delle cellule presenti e il rilascio del DNA contenuto all’interno dei loro nuclei. I filamenti di DNA formano un reticolo che andrà ad intrappolare i globuli di grasso formando flocculazioni. L’aggiunta di un indicatore di pH colorato (rosso di bromocresolo) al tensioattivo facilita la lettura della reazione. In base al tipo di reazione che si verifica possiamo avere (Tabella

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2.1.):

• Test negativo: il latte non vira di colore e rimane invariata la sua consistenza. Il test negativo corrisponde a un numero di cellule somatiche inferiore a 200.000 cellule/ml, che viene considerato il valore fisiologico di un latte di un quarto non infetto

• Positività lieve: il latte presenta tracce di consistenza gelatinosa e aderisce al fondo del pozzetto, inoltre il colore vira leggermente verso il viola. Questo risultato corrisponde ad un numero di cellule somatiche compreso tra 200.000 e 400.000 cellule/ml.

• Positività evidente: grandi quantità di latte gelatinoso scivola lentamente sul fondo del pozzetto. Questo risultato corrisponde a un numero di cellule somatiche compreso tra 400.000 e 1.200.000 cellule/ml.

• Positività conclamata: si forma un unico coagulo gelatinoso di colore viola più scuro. Questo risultato corrisponde a un numero di cellule somatiche compreso tra 1.200.000 e 5.000.000 cellule/ml.

Reazione CMT Cell/ml Negativo (-) < 200.000 Tracce (+/-) 200.000 – 400.000 Punteggio 1 (+) 400.000 – 1.200.000 Punteggio 2 (++) 1.200.000 – 5.000.000 Punteggio 3 (+++) > 5.000.000

Tabella 2.1.: Correlazione tra punteggio del CMT e conta cellule somatiche nel latte (Pisoni,

2007, modificato).

5. Conducibilità elettrica del latte: tramite il monitoraggio di questo parametro è possibile avere un’informazione relativa alla componente elettrolitica del latte, in quanto, durante gli eventi mastitici si verifica una

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modificazione della permeabilità di membrana delle cellule secernenti della mammella, che risulta in una maggiore concentrazione di ioni sodio e cloro nel latte e in una minore concentrazione di potassio. Questa alterazione nella componente elettrolitica del latte mastitico, ne comporta un valore di conducibilità elettrica maggiore rispetto a quello del latte normale, che dovrebbe presentare valori compresi tra 4.0 e 5.0 ms/cm2 a 25°C. È stato

osservato che il valore relativo alla conducibilità elettrica tende ad aumentare durante il tempo della mungitura, pertanto devono essere considerati attendibili solo quei valori misurati a metà mungitura. Sebbene sia stata dimostrata una correlazione minima tra l’innalzamento della conducibilità elettrica e la conta delle cellule somatiche (SCC) di un campione di latte, l’alterazione di questo parametro non può costituire, di per sé, un metodo diagnostico opportuno per il fenomeno mastitico. Piuttosto, monitorare questo parametro può risultare utile nel caso di sospetto di mastite subclinica all’interno di una mandria, ottenendo, tramite questo, un prospetto delle bovine verso le quali sarebbe opportuno eseguire degli approfondimenti diagnostici. Attualmente, i moderni impianti di mungitura presentano tutti, al loro interno, un sensore in grado di misurare questo parametro in tempo reale, offrendo così l’opportunità di sfruttare in campo anche questa informazione.

2.7.3 Diagnosi di laboratorio

Sebbene sia stata ampiamente argomentata l’importanza della raccolta e dell’utilizzo del massimo numero di informazioni direttamente in campo, l’approccio migliore, in termini di risultato, al problema mastite risulta comunque essere la diagnosi di laboratorio. La corretta identificazione dell’agente eziologico coinvolto, infatti, è di fatto l’unico punto di partenza valido nella formulazione di una terapia e di piani di controllo che siano realmente efficaci verso il problema.

Le analisi che possono essere effettuate in laboratorio a partire da campioni di latte sono molteplici e altrettanto variegate sono le informazioni che possiamo

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ricavarne; tra tutte, la metodologia gold standard per la determinazione dello stato di mastite è rappresentata dalle colture batteriche e il conseguente isolamento del microrganismo responsabile.

2.7.3.1 Conta delle Cellule Somatiche (CCS) (Ruegg e Erskine, 2015)

L’analisi di questo parametro consente di ricavare diverse tipologie di informazioni, a seconda della provenienza del latte esaminato. I risultati ottenuti dall’analisi di campioni prelevati dal latte di massa di un’azienda forniscono ottime indicazioni sulla qualità del latte prodotto dalla mandria esaminata; risultati relativi a campioni di natura individuale, invece, danno informazioni sullo stato sanitario della mammella dell’animale esaminato. La quantificazione di questo parametro in laboratorio può essere effettuata o mediante l’osservazione microscopica diretta e la conta delle cellule presenti nel campione, oppure mediante l’utilizzo di macchinari in grado di eseguire automaticamente questo conteggio; attualmente le tecniche in uso nei laboratori prevedono tutte l’analisi strumentale di questo parametro.

All’interno del parametro “cellule somatiche” rientra tutta la componente cellulare presente nel campione di latte; essa è rappresentata da due gruppi cellulari: cellule infiammatorie e cellule epiteliali, in diversa percentuale in base allo stato sanitario della mammella.

Le cellule infiammatorie, principalmente neutrofili, macrofagi e linfociti, sono presenti normalmente nel latte sano in concentrazioni inferiori a 200.000 cellule/ml e aumentano notevolmente la loro concentrazione durante gli episodi mastitici; le cellule di sfaldamento epiteliali sono un reperto normale e non rivestono importanza patologica, né subiscono variazioni così massive come quelle delle cellule infiammatorie.

Sebbene la variazione di questo valore sia determinata in modo primario dalla linea cellulare infiammatoria, non sempre un valore di CCS maggiore di 200.000 cell/ml è sinonimo di mastite; altri fattori che possono determinare una

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