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Effetti di stress da basse temperature e di trattamenti con luce ultravioletta in genotipi sudamericani di fagiolo (Phaseolus vulgaris L.)

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INDICE

Capitolo 1: introduzione

1.1 Il fagiolo ………3

1.2 Stress abiotici……….………16

1.3 “Chilling”………...………24

1.4 Stress da radiazione ultravioletta…….35

1.5 Acido abscissico……….59

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Capitolo 3: Materiali e metodi……....75

Capitolo 4: Risultati e discussione….81

Capitolo 5: Conclusioni………..96

Capitolo 6: Bibliografia………...99

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CAPITOLO 1

CAPITOLO 1

CAPITOLO 1

CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

: INTRODUZIONE

: INTRODUZIONE

: INTRODUZIONE

1.1

1.1

1.1

1.1 IL FAGIOLO

IL FAGIOLO

IL FAGIOLO

IL FAGIOLO

Con il nome di fagioli si intende un gruppo di leguminose da granella appartenenti al genere Phaseolus. Il fagiolo comune (Phaseolus vulgaris L.) è originariamente una cultura del nuovo mondo, ma attualmente è coltivata estensivamente in tutte le aree continentali. Il genere Phaseolus è coltivato sugli altopiani dell’America Latina da più di 7000 anni. Nel mondo è il legume più importante, con una produzione annuale, che supera i 10 miliardi di dollari. L’America Latina produce quasi la metà (5,1 milioni di tonnellate) dell’approvvigionamento mondiale di fagioli secchi (11,6 milioni di tonnellate in 14,3 milioni di ettari). Il fagiolo cresce in ambienti diversi che vanno da terreni situati sul livello del mare fino ad altri situati a più di 3000 metri di altitudine. La coltivazione di questa pianta è spesso relegata ad aree marginali, caratterizzate da ripidi pendii, erosione, terreni poco fertili e siccità stagionali. Nei paesi dell’America Latina tropicale e dell’Africa, quasi l’80% della produzione di fagioli secchi si ha in piccole aziende a conduzione familiare.

Nei paesi in via di sviluppo il fagiolo è considerato come la carne dell’uomo povero, il raccolto, infatti, offre una buona fonte di proteine a basso costo. Dal punto di vista nutrizionale, il fagiolo comune, (Phaseolus vulgaris), è nel mondo, il legume più importante. Ha, infatti, un buon valore energetico, (90-144 Kcal/100g), un contenuto medio in vitamine ed elevato in sali minerali (P,Ca,Fe). E’ apprezzato,

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oltre che per l'elevato contenuto proteico e per la qualità delle sue proteine povere in aminoacidi solforati e ricche in lisina, anche per essere una buona fonte di fibre dietetiche e di carboidrati complessi. Il maggior consumo di fagioli si ha in Africa orientale e meridionale, dove questo legume è la seconda più importante fonte di proteine dopo il mais e la terza più importante fonte calorica dopo manioca e mais. E’ nutrizionalmente importante anche in America Centrale, Messico e Brasile.

Il sistema colturale usato può essere sia intensivo, e quindi estremamente meccanizzato, sia a conduzione familiare e quindi a file alternate di fagioli a sviluppo indeterminato e mais o altri cereali o canna da zucchero o caffè. Questi diversi sistemi di coltivazione rendono difficile la gestione del suolo e della coltura e come conseguenza di ciò si ha una variazione della produzione di seme che va da meno di 500 Kg/ha in alcune parti dell’America Latina e dell’Africa, fino a 5000 Kg/ha in condizioni sperimentali. L'Italia si colloca al quinto posto in Europa nella classifica dei paesi produttori. Le regioni italiane maggiormente interessate alla coltura del fagiolo sono: Campania, Piemonte, Lazio, Veneto ed Emilia Romagna. Le cause principali della riduzione della coltivazione del fagiolo in Italia sono:

 l'attuale minor tendenza delle aziende contadine all'autosufficienza alimentare

 il cattivo stato fitosanitario delle coltivazioni, conseguenza della scarsa resistenza delle varietà e della cattiva qualità del seme che spesso è infetto

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 la concorrenza internazionale che vende i fagioli ad un prezzo molto più basso, o per minor costo della mano d’opera o per un più alto grado di tecnologia.

Tutti paesi della CEE sono forti importatori di fagioli.

Biologia

Il fagiolo comune è il Phaseolus vulgaris L., con corredo cromosomico diploide pari a 22, è originario dell’America meridionale (Perù, Colombia). E’ una pianta annuale a rapido sviluppo, con apparato radicale molto ramificato e piuttosto superficiale, steli angolosi, di altezza e portamento variabilissimi, da nani a rampicanti. I fagioli nani sono i più adatti alla coltura da pieno campo, infatti avendo la fioritura e quindi la maturazione molto concentrata nel tempo, si prestano alla raccolta meccanizzata. Quelli rampicanti si prestano bene alla coltura ortense dove la raccolta è scalare e manuale. Le prime foglie sono semplici, le altre trifogliate con foglioline cuoriformi.

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I fiori sono riuniti a grappoli in numero che va da 4 a 10 all’ascella delle foglie e sono di colore per lo più bianco, ma anche rosa, o violetto, tinta unita o bicolore. La fioritura è cleistogama, il che determina una stretta autogamia per cui la varietà si identifica con la linea pura.

Fig. 2- fiore di fagiolo

Il frutto è un legume pendulo, pluriseminato, di forma, colore e dimensioni assai variabili; possono essere infatti: compressi o cilindrici, verdi o gialli, lunghi da 6 a 22 cm, diritti od incurvati. Un carattere anatomico importante è la presenza o l'assenza nel baccello di tessuti fibrosi che ne determinano il tipo di utilizzo, si hanno quindi:

 baccelli le cui valve si separano con facilità per la presenza di un cordone fibroso lungo le linee di saldatura (“filo”) e con strati di tessuto fibroso (“pergamena”) entro ciascuna valva vengono, che vengono usati per il seme

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 baccelli senza filo e senza pergamena, quindi teneri e carnosi, che vengono denominati “fagioli mangiatutto” o più comunemente fagiolini.

Anche le dimensioni, la forma ed il colore dei semi sono incredibilmente variabili. Il peso di un singolo seme, nella maggior parte delle varietà, va da 300 a 700 mg; una varietà italiana molto apprezzata per il peso del suo seme, che talora supera gli 800 mg, è il Borlotto. La forma del seme varia dalla sfera al parallelepipedo, al reniforme, all’ovale, all’appiattito, al cilindrico. I colori sono diversissimi e possono variare dal bianco, al nero, passando per il giallo, il bruno, il rosa, il violetto; il colore può essere uniforme o variamente screziato.

Fig. 3- baccello di fagiolo.

Il fagiolo comune è originario dell'America tropicale, è una tipica pianta brevidiurna, sono stati selezionati tipi fotoperiodo-indifferenti che fioriscono rapidamente anche in estate alle medie latitudini

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quando i giorni sono lunghi. In conseguenza di ciò il ciclo emergenza-maturazione è estremamente variabile e può andare da 85-90 giorni nelle cultivar precocissime fino a 130-140 giorni in quelle più tardive. La germinazione è epigea e quindi la fase di emergenza dei cotiledoni dal terreno è delicatissima in quanto le plantule sono molto fragili e hanno uno scarsissimo potere perforante. Originariamente il fagiolo è una pianta rampicante che ha bisogno di trovare sostegni sui quali avvolgere i suoi steli volubili in senso destrogiro ovvero antiorario. Siccome tale pianta è a sviluppo indeterminato e quindi gli apici degli steli restano sempre allo stato vegetativo ed i fiori compaiono su infiorescenze laterali, la fioritura e la maturazione sono molto protratte nel tempo. Esistono anche varietà di fagiolo in cui lo stelo principale termina con un’infiorescenza, tali piante a sviluppo determinato sono dette “nane”. Queste piante sono cespugliose, non necessitano di tutori e la loro fioritura è concentrata nel tempo. Alla fecondazione segue la rapida formazione del baccello. La maturazione tecnica, nel caso di fagioli da sgranare, corrisponde al momento in cui i semi sono completamente formati, ma il baccello non ha ancora cominciato a disseccarsi. Questa fase in cui i semi hanno un contenuto d’acqua del 55%, si raggiunge dopo 40-50 giorni dalla fecondazione. Nel caso di coltura da granella, la maturazione tecnica si ha quando la pianta ed i baccelli sono completamente secchi. Questa è una fase molto delicata perché i baccelli secchi si aprono con facilità e si possono avere delle forti perdite di prodotto durante la raccolta.

Esigenze ambientali

Data la sua origine tropicale il fagiolo è una pianta esigente per quanto riguarda la temperatura. La temperatura minima di germinazione è di

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10°C, ma a queste condizioni la germinazione è lenta e stentata ed espone le plantule al marciume, per cui è meglio considerare come temperatura minima per avere una germinazione pronta e plantule regolari 13-14°C. La temperatura ottimale di crescita è compresa tra 16 e 24°C, 10°C è lo zero di vegetazione. Il fagiolo soffre moltissimo gli abbassamenti termici: muore a 1-2°C, così come va incontro a stress, specialmente durante la fecondazione, se sottoposto ad innalzamenti termici eccessivi (oltre 32°C). Per questi motivi, nelle zone temperate, il fagiolo può coltivarsi solamente nei periodi primaverile-estivo o estivo. E’ molto sensibile alla siccità ed in caso di alte temperature appassisce durante le ore più calde, i baccelli abortiscono o contengono pochi semi ed i semi non raggiungono il pieno sviluppo. Tenuto conto di questi fatti e della limitata profondità raggiungibile dalle radici, nel clima italiano è necessaria l’irrigazione per realizzare produzioni soddisfacenti e costanti. La maturazione è favorita dal tempo secco.

Il terreno più adatto è quello sciolto, fresco, fertile; non deve essere troppo calcareo, altrimenti i semi prodotti possono essere duri e di difficile cottura a causa dell’ispessimento del tegumento. Si adatta anche a terreni pesanti, purchè non siano soggetti a formare crosta che sarebbe un ostacolo alla nascita delle piantine, la cui germinazione, come si è detto, è epigea ed i cui cotiledoni sono soggetti a rompersi al minimo impedimento meccanico nella fase di emergenza.

Il fagiolo ha una spiccata intolleranza alla salinità, la relazione tra salinità (in mmho/cm dell’estratto di saturazione) e produzione potenziale è la seguente: 1,0/100% - 1,5/90% - 2,3/75% - 3,6/50%.

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Avversità

Gli attacchi parassitari sono una delle principali cause delle fluttuazioni di produzione, così come sono anche causa di scadimento qualitativo del prodotto. Le malattie più importanti che colpiscono il fagiolo sono:

 il MOSAICO COMUNE (BCMV o virus 1 del fagiolo), questa virosi è trasmessa attraverso il seme e può provocare abbassamenti di resa enormi (fino al 70%). La difesa si realizza con l’impiego di varietà meno sensibili e di seme indenne.

 la ANTRACNOSI (Colletotrichum lindemuthianum), questa malattia può compromettere gravemente la produzione provocando la distruzione del fogliame, dei giovani baccelli e la maculatura dei semi rendendoli non commerciabili. Per il contenimento della malattia l'unica prevenzione possibile è quella di usare varietà resistenti.

 la BATTERIOSI AD ALONE (Pseudomonas phaseolicola).E’ una malattia assai grave in Italia, può essere trasmessa per seme. Questo batterio può penetrare nell’ospite in seguito a pioggia o rugiada abbondante. Non può essere combattuta facilmente né con mezzi agronomici né chimici, ma potrebbe essere contenuta con varietà resistenti.

Inoltre, in fase di germinazione e di emergenza le plantule di fagiolo possono andare incontro al marciume provocato da Fusarium solani,

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Pythium spp. e, soprattutto, Rhizoctonia solani. La concia del seme e la semina su terreno né freddo né umido sono i rimedi migliori.

Per quanto riguarda i parassiti animali, afidi, tripidi e acari di diverse specie possono attaccare il fagiolo e richiedere trattamenti specifici. I semi possono essere attaccati dal tonchio del fagiolo (Acanthoscelides obsoletus): la femmina depone le uova dentro i giovani baccelli, le larve crescono dentro al seme, dal quale gli adulti fuoriescono praticando un foro nel tegumento. Il seme secco va quindi trattato in magazzino con prodotti fumiganti.

Miglioramento genetico

La grande diffusione che il fagiolo ha avuto come coltura da orto in tutto il mondo dopo la scoperta dell'America, l'enorme variabilità genetica della specie e la stretta autogamia che caratterizza la sua biologia fiorale hanno fatto sì che nei secoli passati siano state isolate innumerevoli varietà, dotate di adattamento alle condizioni locali ma soprattutto con caratteristiche morfologiche e organolettiche gradite ai consumatori (dimensione dei semi, colore, forma). In Italia, ad esempio, il mercato esige fagioli a semi grossi o grossissimi. La ricerca per il miglioramento genetico del fagiolo comune è complicata dalla diversità delle condizioni edafiche e climatiche in cui questa leguminosa viene coltivata, combinate alle preferenze locali estremamente specifiche per il tipo di grana e per il colore. Comunque, grandi progressi si sono avuti con lo sviluppo di genotipi resistenti a stress biotici. Mentre il successo nel miglioramento dell’adattamento agli stress abiotici è stato sostanziale, i progressi nel miglioramento della produzione potenziale sono limitati. Solo in

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tempi molto recenti il miglioramento genetico ha iniziato programmi di selezione volti al conseguimento di importanti obiettivi come:

 l'aumento della produttività e della regolarità di produzione  l'adattamento della pianta alle tecniche di coltivazione e di

trasformazione

Il primo obiettivo è perseguito soprattutto attraverso l'aumento della resistenza a quelle avversità che attualmente falcidiano i raccolti (mosaico, antracnosi, batteriosi). Il secondo attraverso la modifica del portamento delle piante (nane e a sviluppo determinato) per rendere contemporanea la maturazione e possibile la raccolta meccanica.

Tecnica colturale

Per quanto riguarda l'avvicendamento, il fagiolo trova la sua migliore collocazione tra due frumenti. È bene che la paglia del frumento precedente non sia interrata ed è altresì consigliabile che il fagiolo torni sullo stesso terreno a intervalli non inferiori a tre anni per evitare lo sviluppo di certi funghi terricoli come Fusarium solani, Rhizoctonia solani, Sclerotinia. Data la brevità del suo ciclo colturale, il fagiolo s'inserisce bene in certi ordinamenti colturali come coltura intercalare. Nei sistemi agricoli di sussistenza dei paesi in via di sviluppo il fagiolo da granella nelle sue forme nane si presta razionalmente ad essere consociato con colture estive rade ed a portamento eretto, come il mais. La preparazione del terreno nel caso di semina primaverile in coltura principale viene eseguita secondo l'itinerario tecnico tradizionale: lavorazione principale a media profondità in estate e

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ripassature in autunno e/o inverno per affinare il terreno. La sistemazione idraulica dei campi deve essere accurata in quanto il fagiolo stenta molto a nascere e a crescere su terreni freddi ed umidi. Nel caso di coltura intercalare la cosa più importante non è l’accurata preparazione del terreno, ma la rapidità di semina per guadagnare tempo. Infatti, risultati ottimi si ottengono con la lavorazione minima o, addirittura, con la non lavorazione; nel primo caso si tratta di seminare dopo un rapido passaggio di erpice o di zappatrice, nel secondo di seminare su terreno sodo (su stoppie di cereali per esempio) con una seminatrice speciale. Può essere seminato in un lungo periodo che va da aprile alla fine di luglio, primi di agosto. Le semine primaverili vanno bene per tutte le varietà e per tutti i tipi di coltura, mentre le semine ritardate presentano vincoli tanto più stretti quanto più avanzata è la data di semina. Per la granella secca le ultime semine possibili con le varietà più precoci sono quelle di metà giugno. Per la granella fresca le varietà più precoci oggi disponibili possono essere seminate fino alla metà di luglio. Nella piccola coltura a conduzione di tipo familiare, quindi senza esigenze di meccanizzazione, notevole diffusione hanno le varietà rampicanti per la loro maggior produttività. Queste richiedono semina a “postarella” o a file binate che rendono più facile l’applicazione dei sostegni, in genere costituiti da canne. Nella grande coltura, dove la meccanizzazione della raccolta si impone sia nei casi di prodotto secco che fresco le varietà sono nane e si seminano a file.

L'esperienza ha mostrato che le distanze tra le file più indicate sono 0,50-0,60 m; le densità di coltivazione da realizzare vanno da 25 a 30 piante a m2 nel caso di fagiolo da granella, sia secca che fresca.

Le quantità di seme variano molto a seconda della densità desiderata, della dimensione dei semi e dello stato di preparazione del letto di

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semina: in genere si va da 100 a 200 Kg di seme per ettaro. La semina a righe si può fare con normali seminatrici da cereali a distribuzione pneumatica centrifuga (quelle a distribuzione forzata possono spezzare i semi), o con seminatrici di precisione. La profondità di semina ottimale è di 4-6 cm in terreni a grana media, fino a 6-8 cm in terreni sciolti. Il seme deve sempre essere conciato.

La concimazione del fagiolo deve basarsi sul fosforo e, se scarseggia, sul potassio; 80-100 Kg/ha di P2O5 ed eventualmente 50-100 Kg/ha di

K2O sono le dosi consigliabili. L'azoto è meno importante, anche se

una modesta somministrazione di concimi azotati alla semina o, presto, in copertura con 20-30 Kg/ha di azoto, si rivela spesso utile. Subito dopo la semina, una rullatura per far aderire il terreno al seme e permettere così una buona percentuale di germinazione, è molto utile. Il controllo delle malerbe è indispensabile e può essere effettuato in due modi:

 con la sarchiatura  con il diserbo.

Data la brevità del ciclo colturale del fagiolo, va tenuto in considerazione il possibile effetto residuo del diserbante sulla coltura successiva. In semine primaverili in ambienti a clima piovoso e su terreni freschi, varietà di fagiolo molto precoci possono maturare la granella senza irrigazione, ma generalmente per le varietà a ciclo lungo o con semine ritardate l’irrigazione è indispensabile. Sono quasi sempre necessari trattamenti contro gli afidi, i tripidi e contro le crittogame. Nella grande coltura la raccolta può essere completamente meccanizzata, purchè le piante siano nane e a maturazione

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contemporanea. I fagioli da granella fresca si raccolgono con macchine pettinatrici-sgranatrici semoventi; i fagioli da seme secco con le normali mietitrebbiatrici, curandone la regolazione per evitare danni al prodotto. Nella piccola coltura, quando i baccelli cominciano a disseccarsi, le piante si estirpano manualmente, si lasciano in campo per completare l’essiccamento e poi vengono sgranate. E’ considerata buona una produzione di 2-2,5 t/ha di fagioli secchi. Nel caso di fagioli freschi, sono considerate buone, produzioni di 12 t di baccelli da sgranare. Lo svantaggio è, però, la sensibilità agli stress biotici ed abiotici che limitano seriamente il rendimento della coltura nei paesi dell'America meridionale.

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1.2

1.2

1.2

1.2 STRESS ABIOTICI

STRESS ABIOTICI

STRESS ABIOTICI

STRESS ABIOTICI

Le piante coltivate crescono e producono in maniera ottimale solo in un ristretto intervallo di condizioni ambientali.

Quando i valori di temperatura, intensità luminosa, disponibilità di acqua si allontanano dai valori ottimali la coltura può essere fortemente danneggiata. Infatti, condizioni sfavorevoli, possono rallentare la crescita, impedire o posticipare il passaggio dalla fase vegetativa a quella riproduttiva, compromettere l’allegagione dei frutti e quando diventano estreme, possono condurre la pianta a morte.

In biologia si definisce stress “una pressione di alcune forze avverse che tende ad inibire il normale funzionamento di un sistema biologico” (Short Oxford English Dictionary, 1983).Con particolare riferimento alle colture agrarie,"una qualunque pressione ambientale in grado di ridurre la produttività potenziale di una coltura" è definita stress abiotico.

Gli stress abiotici sono il principale fattore limitante per la produttività agricola. In molti casi si considera il ruolo degli stress in relazione alla crescita (accumulo di biomassa) o ai processi di assimilazione primaria (CO2 ed assorbimento degli elementi minerali), anch’essi

correlati generalmente alla crescita.

La diminuzione della resa di varie colture, a causa degli stress ambientali, è stata stimata intorno al 70%.

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PERDITE DOVUTE A FATTORI BIOTICI ED ABIOTICI

Coltura potenziale* Produzione Produzione effettiva

Malattie (patogeni fungini) Parassiti (Insetti) Piante

infestanti ABIOTICI STRESS

Mais 19.300 4.600 750 691 511 12.700 Frumento 14.500 1.880 336 134 256 11.900 Soia 7.390 1.610 269 67 330 5.120 Sorgo 20.000 2.830 314 314 423 16.200 Avena 10.600 1.720 465 107 352 7.960 Orzo 11.400 2.050 377 108 280 8.590 Patata 94.100 28.300 8.000 5.900 875 50.900 Barbabietola da zucchero 121.000 42.600 6.700 6.700 3.700 61.300 % (valori medi) 21,6% 4,1% 2,6% 2,6% 69,1%

Fig.4 – Stima delle perdite di produzione (J.S. Boyer Science 218:

443-448, 1982)

L’unità di misura dei valori riportati per la produzione registrata e per la produzione media è Kg/ ha.

Poiché lo stress è definito esclusivamente in termini di risposta delle piante, il concetto di stress è strettamente associato a quello di resistenza allo stress, che è il modo per la pianta di adattarsi all'ambiente sfavorevole.

Un ambiente che è stressante per una pianta può non esserlo per un'altra. Consideriamo, per esempio, il pisello (Pisum sativum) e la soia (Glicine max), che rispettivamente hanno una crescita ottimale a circa 20°C e 30°C. Man mano che la temperatura aumenta il pisello mostra segni di stress da calore molto più velocemente di quanto non lo faccia la soia; quest'ultima mostra così una superiore resistenza a

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questo tipo di stress. Se la resistenza aumenta come risultato dell'esposizione ad uno stress precedente, la pianta viene detta

acclimatata o (temprata). L’acclimatazione deve essere distinta

dall'adattamento, che è un determinato livello di resistenza acquisita geneticamente durante la selezione, attraverso le generazioni. Le piante sono in grado di percepire gli stimoli ambientali e di adattarsi ai vari ambienti, tuttavia il grado di adattabilità e di tolleranza ai vari stress ambientali varia da specie a specie. Il processo di adattamento agli stress coinvolge gran parte dei processi metabolici delle piante, ma generalmente si considera che un ruolo di rilievo sia giocato dagli ormoni vegetali e, tra questi, il più importante è sicuramente l’acido abscissico (ABA). I livelli di questo ormone aumentano notevolmente in condizioni di stress e le variazioni nei livelli endogeni di ABA stimolano una serie di eventi metabolici e fisiologici che portano all’acquisizione della tolleranza (Xiong et al., 2002).

Sia in condizioni naturali che agricolturali le piante sono costantemente esposte agli stress. Alcuni fattori ambientali (come la temperatura dell'aria) possono diventare stressanti nell'arco di pochi minuti, mentre altri possono impiegare giorni o settimane (l'acqua del suolo) o anche mesi (alcuni elementi nutritivi minerali).

È stato stimato che negli Stati Uniti, a causa di stress fisico-chimici, la resa delle colture da campo sia solo il 22% della resa potenziale genetica (Boyer, 1982).

Molto spesso l’azione di uno stress è combinata a quella di altri stress (Mittler, 2006), esistono infatti stress definiti primari, secondari o, addirittura terziari. Ad esempio, nel caso dello stress da freddo, la causa primaria è sì la bassa temperatura, ma uno dei primi sintomi è lo squilibrio idrico, che quindi si instaura come stress secondario. Nel caso delle alte temperature (stress primario), lo stress idrico compare

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come secondario, ma spesso si ha anche un deficit nutrizionale che, in questo caso, può essere definito stress terziario. Talvolta, si hanno anche interazioni importanti tra fattori di stress di origine biotica ed abiotica. Per rimanere nel campo delle colture in serra, gli attacchi di botrite sugli steli o di patogeni agenti di tracheomicosi possono, ad esempio, provocare una situazione di stress idrico (causato dal blocco del trasporto idrico xilematico) che, in ultima analisi, provoca la morte della pianta. D’altra parte, valori molto al di sopra o al contrario al di sotto delle temperature ottimali a livello di terreno o substrato di crescita possono aumentare la suscettibilità delle piante a patogeni responsabili di gravi marciumi delle radici e del colletto (Pardossi et al., 1992a).

Spesso le piante mostrano una resistenza incrociata, o resistenza ad uno stress indotta dall'acclimatazione ad un altro. Questo comportamento implica che i meccanismi di resistenza a numerosi stress abbiano molte caratteristiche in comune.

Da tempo si conoscono piante selvatiche con una tolleranza innata agli stress ambientali, nonostante ciò l’introduzione di queste piante in agricoltura affronta barriere economiche, politiche e culturali insormontabili. Il numero delle piante coltivate va diminuendo e non espandendosi. Oggi, incredibilmente, il 50% della produzione mondiale di cibo è ottenuta da solamente quattro specie vegetali e circa il 95% proviene da una trentina di piante diverse, ma tutte suscettibili a stress ambientali. Una meta importante per la ricerca agraria moderna è quella di modificare geneticamente alcune specie rendendole tolleranti agli stress. L’uso del miglioramento genetico classico per aumentare la tolleranza agli stress ha avuto finora un successo molto limitato. Questo perché la tolleranza alla siccità, alle alte e basse temperature, alla salinità ed ad altri stress abiotici è

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geneticamente complessa e difficile da manipolare con metodi tradizionali e perché le piante selvatiche, oltre ai geni per la tolleranza posseggono anche altri geni indesiderabili, come quelli che controllano l’aspetto, l’appetibilità, l’accumulo di elementi nutrizionali e quelli che codificano per la produzione di tossine pericolose. Con l’ingegneria genetica sarebbe possibile mantenere l’aspetto e l’appetibilità del prodotto utilizzando un numero di geni limitato e controllato. Fino ad oggi il vero problema non sono state le biotecnologie, ma la non conoscenza dei processi fisiologici che portano la pianta a tollerare lo stress.

Un traguardo importante, vista la sempre crescente carenza d’acqua dolce, sarebbe quello di ottenere piante resistenti alla salinità, che consentirebbero ai coltivatori di irrigare con soluzioni di acqua di mare mescolata ad acqua dolce.

La meta dei biotecnologi è quella di aumentare la produttività rendendo le piante più tolleranti, in questo modo non sarà necessario espandere l’agricoltura in zone vergini distruggendo altri ecosistemi (R. A. Bressan, 1999).

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Gli stress in natura possono essere biotici, o abiotici, in questa tesi ci occuperemo solo di quelli abiotici e nella fattispecie del chilling e dello stress da eccesso di radiazione ultravioletta.

Per semplificazione gli stress abiotici possono essere distinti nelle seguenti tipologie principali:

 livelli subottimali o sovraottimali della temperatura, in particolare per quanto riguarda le basse temperature possiamo fare un’ulteriore suddivisione in “freezing”, provocato da temperature che scendono al di sotto del punto di congelamento dei tessuti vegetali e in “chilling” che riguarda le basse temperature che non raggiungono il punto di congelamento. Lo stress da alte temperature, invece è solitamente definito come la permanenza di temperature abbastanza calde, per un tempo sufficiente da causare danni irreversibili allo sviluppo ed alle funzioni delle piante. Inoltre, le alte temperature anticipano lo sviluppo riproduttivo e quindi accorciano il ciclo biologico non permettendo alla pianta di effettuare una fotosintesi adeguata

che contribuisca alla produzione di frutti e

semi.(www.plantstress.com)

 stress idrico, che può riguardare sia la carenza di acqua (Drought in inglese), che l’eccesso (Flooding). Lo stress idrico inizia quando la domanda d’acqua da parte della pianta supera la disponibilità nel suolo. La disponibilità di acqua dipende dalla forza con cui questa è trattenuta nel terreno. Alcune proprietà fisiche dell’acqua, principalmente la sua capacità di interferire con il libero scambio di gas possono interferire ed uccidere le piante quando vengono sommerse totalmente

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(Jackson and Ram, 2003) o quando il suolo è semplicemente impregnato d'acqua (Vartapetian e Jackson, 1997) Il suolo impregnato d'acqua, inibisce fortemente la diffusione dei gas attraverso i pori del suolo e non riesce a soddisfare il bisogno di ossigeno delle radici crescenti. Un basso flusso di ossigeno è la causa principale di danni radicali. (Vartapetian e Jackson, 1997

 stress minerale, salino, provocato da un eccesso di sali nel terreno. In natura le piante superiori terrestri che si trovano in prossimità del mare possono essere esposte ad alte concentrazioni di sali, perché a causa delle maree l’acqua salata si mescola con quella dolce. Un problema molto più grande per l’agricoltura è l’accumulo di sali nell’acqua di irrigazione. L’evaporazione e la traspirazione rimuovono dal terreno l’acqua pura sotto forma di vapore, concentrando così i soluti nel suolo. Quando l’acqua di irrigazione contiene un alta concentrazione di soluti e non vi è la possibilità di utilizzare un eccesso di acqua per dilavare i sali, questi possono raggiungere concentrazioni tali da provocare danni alle piante sensibili. Si stima che circa un terzo delle terre irrigate sia affetto dalla presenza di sali.

 stress meccanico, Gli stress meccanici possono essere causati dall’azione di eventi meteorici particolarmente intensi come vento pioggia e grandine e quindi riguardare la parte epigea, ma anche dal tipo di tessitura, dallo scheletro del terreno, dalla riduzione del volume del substrato a disposizione delle radici e quindi interessare la parte ipogea (“root restriction”). In casi particolari, come nei vivai, dove spesso si ha carenza di luce

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all’interno delle serre e le piantine tendono a filare viene appositamente usato un tipo di stress meccanico che è il “brushing”.

 stress da radiazione solare, (elevati livelli di radiazione ultravioletta, eccesso o carenza della banda del visibile). In seguito alla parziale distruzione dello strato di ozono stratosferico, dovuta a fattori naturali e all’opera dell’uomo, la quantità di radiazione UV-B incidente sulla terra è aumentata. Questo fattore incide negativamente sulla crescita delle piante e ne riduce la produttività. Una carenza di luce e quindi un ombreggiamento o un’elevata densità di popolazione che normalmente caratterizza le colture agrarie possono provocare una crescita anormale della pianta che allunga il fusto per essere colpita dai raggi del sole. Questo fenomeno viene definito come: “shade avoidance sindrome” o “fuga dall’ombra”.

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1.3

1.3

1.3

1.3 “CHILLING”

“CHILLING”

“CHILLING”

“CHILLING”

Ci sono sostanzialmente due tipi di danno che una pianta può subire a causa dell’esposizione a basse temperature (Stushnoff et al. 1984). II primo tipo è detto chilling injury e si verifica approssimativamente fra i 10 e gli 0°C. Le basse temperature no-freezing possono causare interruzioni a livello fisiologico della germinazione, della fioritura, della fruttificazione con una riduzione della produzione e della durata post-raccolta. Gli effetti del chilling a temperature non letali e per un periodo di tempo non prolungato sono in genere reversibili. La tecnica di esporre le piante a basse temperature al di sopra del punto critico (hardening) viene utilizzata prima del trapianto in campo per ridurre o eliminare i danni da freddo. II secondo e più grave tipo di danno è quello da congelamento (freezing injury). Questo tipo di avversità si presenta quando la temperatura esterna si avvicina al punto di congelamento dell’acqua (Levitt 1980).

Molte piante di origine tropicale o subtropicale sono sensibili al chilling e questo porta a limitarne le aree di coltivazione, spesso riduce i tempi di immagazzinamento e quindi la commercializzazione dei prodotti. Le temperature a cui si presentano i danni variano a seconda della zona di origine delle varietà, in generale i sintomi si verificano fra gli 0 e i 4°C per piante da frutto delle regioni temperate, intorno agli 8°C per frutti subtropicali e già a 12°C per frutti tropicali come la banana (Lyons 1973). Fra le più importanti produzioni mondiali, il mais (Zea mays) e il riso (Oryza sativa) sono sensibili a temperature intorno ai 10°C che possono causare grosse perdite nella produzione e a volte addirittura il fallimento della coltura. Christiansen e St. John (1981) hanno stimato che ogni anno

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1’industria del cotone perde qualcosa come 60 milioni di dollari a causa delle basse temperature prima della raccolta. II Chilling nel cotone può ridurre 1'altezza delle piante, ritardare la fioritura, diminuire la qualità della fibra di cotone. Altre coltivazioni che hanno grosse riduzioni nella produzione a causa del chilling sono: la soia (Glycine max L.), fagiolo di lima (Phaseolus lunatus L.), melone (Cucurbita sp.), pomodoro (Lycopersicon esculentum Mill.) peperoncino (Capsicum annuum L.), melanzana (Solanum melongena L.), okra (Abelmoschus esculentus L.), e diverse colture cerealicole. Lo stadio fisiologico, lo sviluppo durante la germinazione, il clima prima della raccolta condizionano la sensibilità. I frutti che maturano ad alte temperature sono chiaramente molto più suscettibili di quelli che maturano a temperature più basse, per questo utilizzare nei magazzini un sistema di refrigerazione per prolungare la durata dei prodotti dopo la raccolta non può sempre essere utilizzato per la frutta tropicale e sub tropicale.

La sensibilità al chilling è una caratteristica propria di alcune piante che crescono in climi tropicali o subtropicali. (Mc William, 1983) Le differenze varietali nella sensibilità ai danni causati dal chilling sono state riportate in bibliografia per molte specie (Lyons et al., 1979). Tutte le piante che sono in grado di sopravvivere e crescere a temperature comprese tra -1,5°C e 15°C sono chilling tolleranti. E’ importante notare che non c’è una grande distinzione tra piante chilling intolleranti e tolleranti, principalmente perché lo stadio fenologico della pianta al momento dell’esposizione può avere un grande effetto sulla sensibilità della pianta. Si può ragionevolmente pensare che i processi attraverso i quali le cellule vengono danneggiate dalle basse temperature tipiche del chilling possano essere accomunati per tutte le specie.

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Specie considerate generalmente sensibili al freddo mostrano variazioni apprezzabili nella resistenza. La resistenza al chilling è aumentata da adattamenti genetici a temperature più fredde associate alle alte quote.

Fig. 6 - sopravvivenza di diverse varietà di piantine di pomodoro

raccolte nel sud America a diverse altitudini. Le piantine sono state raffreddate per sette giorni a zero °C e poi tenute per sette giorni in una camera di crescita calda, dopo di che è stato valutato il numero degli esemplari sopravvissuti. Le plantule raccolte alle quote più alte mostrano una maggiore resistenza al raffreddamento (shock dal freddo) di quelle raccolte ad altitudini di più basse. (Patterson et al., 1978).

Il chilling cambia 1'intero sistema metabolico delle cellule a partire dalla conformazione delle molecole, alle reazioni enzimatiche, alla consistenza dei succhi cellulari e alle proprietà di selezione del trasporto delle molecole transmembrana. L'intero danno alla pianta è probabilmente una diretta conseguenza dei danni a livello cellulare (Kratsch and Wise 2000).

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II sintomo più frequente osservabile in piantine esposte a basse temperature è la perdita d'acqua, che può evolvere in un marcato appassimento se perdurano le condizioni che hanno determinato il danno. Se la temperatura non è scesa oltre un certo limite o se risale entro breve tempo le piantine si reidratano e non appariranno altre manifestazioni patologiche in conseguenza allo stress subito, a parte un rallentamento più o meno marcato nello sviluppo.

L'appassimento che si manifesta nelle piante esposte al chilling è stato attribuito a cambiamenti della permeabilità della membrana che causano il passaggio di acqua e soluti negli spazi intercellulari, da dove poi 1'acqua viene perduta per evaporazione (Wrigth e Simon 1973, Wrigth 1974)

Fig. 7 -Effetto del chilling sullo stato idrico di piantine di fagiolo

allevate in idroponica. Il “chilling-induced water stress” si manifesta anche in presenza di illimitata disponibilità idrica

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Questo sembra confermato dall’osservazione che quando porzioni di piante sottoposte a chilling vengono immerse in acqua, ad esempio dischetti, si ha un notevole aumento del rilascio di elettroliti, che appunto indica un danneggiamento delle strutture della membrana. (Rikin e Richmond, 1979; Murata e Tatsumi 1979).

Per spiegare 1’appassimento che si manifesta in seguito al chilling, è stato ipotizzato anche che le piante perdano acqua attraverso gli stomi che rimangono aperti o non hanno più la capacita di chiudersi (locking-open) (Wilson 1976) o che 1'assorbimento di acqua da parte delle radici ed il trasporto verso le parti apicali della pianta diminuiscano durante 1'esposizione al freddo (Markhart et al. 1979).

Fig. 8- Apertura degli stomi a basse temperature nonostante il ridotto

apporto idrico

Mancato Controllo stomatico

Ridotto assorbimento radicale

C H IL L IN G

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Un altro sintomo che si manifesta e che si evidenzia quando le piante ritornano a temperature normali, è la comparsa di aree decolorate sui margini e sui lembi fogliari. Generalmente questi danni sono molto più evidenti nelle foglie basali che in quelle apicali. Queste aree spesso tendono a necrotizzare, mentre il resto della foglia, superato il periodo di chilling, riprende a crescere. Ciò causa accartocciamenti e malformazioni della lamina. In caso di danno grave questi sintomi interessano 1'intera lamina.

Numerosi studi evidenziano come il chilling causi uno sbilancio nei processi fisiologici. Chilling colpisce, infatti, la respirazione, gli acidi organici, gli zuccheri, i polifenoli, i fosfolipidi, le proteine e 1'ATP. Le ricerche indicano che lo stress da freddo cambia molte delle strutture chimiche nelle piante sensibili. E’ provato l’accumulo di tossine come 1'etanolo e l’acetaldeide. Sebbene molte alterazioni dei processi coinvolgano metaboliti chiave; è difficile separare i processi metabolici sensibili al chilling da quelli che sono frutto di una distruzione metabolica o di un danno ultrastrutturale. La perdita di ioni attraverso le membrane dovuta ad una perdita di selettività di queste è stata spesso verificata in piante sensibili al freddo. II passaggio di fase della porzione lipidica delle membrane cellulari può essere considerate come la risposta primaria alle basse temperature (Lyons 1973).

Cambio ultrastrutturale

A livello ultrastrutturale, parecchi cambi sono stati associati con il chilling. Sebbene ci sono diverse ripercussioni dovute al freddo, quelle a carico delle membrane accomunano la maggior parte delle varietà. Questi sintomi includono modificazioni dei cloroplasti, dei

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mitocondri, delle loro membrane e dei vacuoli (Christiansen and St. John 1981). I mitocondri e i cloroplasti risultano disorganizzati, con meno e più piccoli granuli di amido, con tilacoidi rigonfi e grana distaccati, inoltre la cromatina nel nucleo si presenta condensata (Kratsch and Wise 2000). I primi e più colpiti organelli cellulari sono i cloroplasti. Se il freddo è associato ad un'alta irradianza i danni alla fotosintesi sono notevolmente più gravi. Le piante tenute al buio durante il chilling rimangono verdi e eccetto la mancanza di amido, i cloroplasti sembrano normali. In presenza di luce, comunque, la clorofilla si ossida, si accumulano gocce lipidiche e i tilacoidi degenerano. I mitocondri sembrano fisicamente più resistenti alle basse temperature ma in risposta allo stress la loro attività viene precocemente interrotta.

Fig. 9 - Andamento dell’efficienza fotosintetica in Arachis hypogaea

dopo esposizione al chilling (Bell, 1993, PhD Thesis)

Il cambiamento di stato delle membrane cellulari modifica anche l’attività degli enzimi associati alle membrane stesse. Si ha una marcata riduzione dell’attività degli enzimi dei sistemi respiratorio e fotosintetico

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Permeabilità cambiamento di fase delle membrane

La misura della perdita di soluti o di ioni è una prova evidente dell'incremento della permeabilità delle membrane in risposta al chilling. Le varietà originarie di climi caldi hanno più acidi grassi saturi nelle loro membrane plasmatiche. Più recentemente studi sulle membrane mitocondriali hanno dimostrato come da una fase liquido-cristallina si passi a una struttura solido-gel a 10-12°C, range di temperatura che coincide con la comparsa dei sintomi nelle specie tropicali. La correlazione fra la composizione degli acidi grassi e la temperatura non è comunque ancora del tutto chiara, altri componenti delle membrane, come gli steroli, potrebbero essere coinvolti. E’ possibile che il cambiamento di fase delle membrane cellulari sia la causa dell’intera gamma di squilibri fisiologici e metabolici associati al danno. L’incremento della permeabilità delle membrane condurrebbe ad un alterato equilibrio ionico oltre ad una perdita di soluti dai tessuti danneggiati. II passaggio di fase dei lipidi potrebbe portare ad un cambio conformazionale degli enzimi legati alle membrane ed essere la causa della discontinuità dei sistemi ad essi legati. Questo creerebbe un'alterazione degli equilibri fra i sistemi legati alle membrane e quelli liberi, con un conseguente accumulo di metaboliti tossici che possono portare la cellula alla morte La capacità delle cellule di resistere all’incremento della concentrazione dei metaboliti sarebbe la causa dell’entità del danno. II differente grado di tolleranza a questi metaboliti potrebbe spiegare anche perchè alcune cultivar sono più resistenti sebbene le membrane siano ancora nella fase di gel. Lo squilibrio del metabolismo, 1’accumulo di sostanze tossiche e l’incremento di permeabilità dipenderebbero tutte dal cambiamento di fase della membrana (Lyons 1973)

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Fig .10 - Modello proposto da Lyons e Raison per evidenziare gli

effetti del cambiamento di fase della membrana lipidica.

Nishida e Murata (1996) hanno dimostrato che il danno da chilling può essere mitigato regolando il livello di insaturazione degli acidi grassi utilizzando degli enzimi denaturanti come 1'acil-lipidi desaturasi e il glicerolo-3-fosfato aciltransferasi. Lyons (1973) propose che il passaggio di fase indotto dalla temperatura dei lipidi di membrana giochi un ruolo primario nella sensibilità alla risposta a tale stress. Una correlazione positiva è stata trovata fra la sensibilità al freddo delle piante erbacee e i livelli di saturazione e trans-monoinsaturazione delle molecole di fosfatidilglicerolo (anche chiamate high-melting-point molecular species) nelle membrane dei tilacoidi. Comunque, non è ancora chiaro come direttamente queste high-melting-point molecular species collegate alla sensibilità della pianta al chilling. La crescita a basse temperature generalmente aumenta il grado di insaturazione dei lipidi di membrana, che compensa la perdita di fluidità devota a temperature ancora più basse. Questo aumento d'insaturazione è anche correlato con il mantenimento dell'attività degli enzimi legati alla membrana. Comunque, le basse

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temperature inducono o alterano anche 1'espressione di un largo numero di geni e non è ancora chiaro se questo sia la causa o l’effetto della relazione fra i livelli di saturazione e la resistenza allo stress. Recentemente il ruolo dei livelli di insaturazione dei lipidi di membrana è stato riesaminato utilizzando mutanti e linee transgeniche (Nishida and Murata 1996). In questo modo gli acidi grassi insaturi possono essere manipolati indipendentemente dalla temperatura così che possono essere studiati i loro effetti individuali. II tabacco è stato trasformato con geni che codificano per il fosfatidilglicerolo (PG) delle membrane dei tilacoidi rispettivamente della zucca e di Arabidopsis. La zucca ha livelli più bassi di PG cis-insaturato che Arabidopsis. II risultato è stato che il tabacco transformato con il gene della zucca PG era più sensibile al chilling di quello transformato con il gene di Arabidopsis, l’attivita fotosintetica sotto forte illuminazione e ad 1°C era notevolmente maggiore. Questi e altri esperimenti hanno dimostrato come il livello di insaturazione dei lipidi nei tilacoidi in qualche modo protegga il complesso del fotosistema II dalla fotoinibizione a basse temperature e ne faciliti il recupero. Comunque, è probabile che anche altri fattori come l'accumulo di polifenoli e amminoacidi, o di loro derivati, contribuiscano alla sensibilità al chilling nelle piante. Alcune proteine specifiche potrebbero essere coinvolte nei meccanismi di tolleranza.

Alterazione dei livelli di pH ultracellulari

Yoshida et al. (1999) hanno notato che il pH intracellulare era, in parte, attivamente regolato dal trasporto di H+ dal citoplasma al vacuolo catalizzato dall'H+-ATPase, enzima localizzato sulla membrana del vacuolo in fagiolo verde (Vigna radiata L.), che è una

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specie molto sensibile al chilling. L'H+-ATPase vacuolare è estremamente sensibile alle basse temperature da cui è inattivata. La soppressione del trasporto protonico disturba 1'omeostasi citoplasmica e causa un cambio nel pH. L'inattivazione dell'H+-ATPase era strettamente connessa all'acidificazione del citoplasma e la relativa alcalizzazione del vacuolo suggerendo un passivo rilascio di ioni H+ attraverso la membrana vacuolare. La suscettibilità dell'H+-ATPase vacuolare alle basse temperature in vivo è molto diversa in specie chilling-sensibili e chilling-resistenti. A differenza di quello che succede in specie sensibili come il fagiolo verde e il fagiolo comune (Phaseolus vulgaris), l'H+-ATPase delle specie tolleranti come il pisello (Pisum sativum) e la fava (Vicea faba) è molto stabile anche dopo lunghi periodi di esposizione al freddo. La riduzione del pH del citoplasma causata dall'inattivazione dell' H+-ATPase vacuolare può pertanto essere la causa dell'alta sensibilità al freddo.

Stress ossidativi ed enzimatici

Gli effetti ad una esposizione a prolungati periodi di chilling possono provocare stress ossidativi (ROS) che provocano perossidazione dei lipidi e danni al DNA, oltre che l’ossidazione delle proteine, l’inattivazione delle proteasi e la formazione di livelli tossici di proteine ossidate che non verranno degradate (Shewfelt & Erickson, 1991; Prasad, 2001; Fucci et al., 1983), ridotta attività enzimatica alle basse temperature con conseguente peggioramento della fotosintesi e della respirazione (Wolk & Herner, 1982; Van Heerden & Kruger, 2000), soppressione degli enzimi antiossidanti e quindi eccesso di radicali liberi e ROS (specie di ossigeno reattivo) (Lyons, 1973; Pastori et al., 2000; Prasad, 2001)

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1.4

1.4

1.4

1.4 STRESS DA RADIAZIONE

STRESS DA RADIAZIONE

STRESS DA RADIAZIONE

STRESS DA RADIAZIONE

ULTRAVIOLETTA

ULTRAVIOLETTA

ULTRAVIOLETTA

ULTRAVIOLETTA

La radiazione solare

Qualsiasi forma di vita presente sulla terra dipende dal flusso energetico, che viene irradiato dal sole e penetra nella biosfera. Per la formazione della biomassa e per il mantenimento dei processi vitali di tutti gli anelli vitali della catena alimentare, viene usata solo una quota molto ridotta della radiazione totale in arrivo (circa l’1%). Questa percentuale è quella che sarà trasformata dalla fotosintesi clorofilliana in energia chimica latente. Una quantità di gran lunga maggiore viene assorbita dall’ecosistema terra e trasformata in calore, che a sua volta è utilizzato in parte per l’evaporazione dell’acqua ed in parte per l’incremento o per il mantenimento della temperatura nel sistema terreno-atmosfera-biomassa. L’irraggiamento, oltre ad essere una fonte energetica fondamentale per le esigenze vitali degli organismi viventi, è quindi indispensabile anche per l’economia termica, per l’economia idrica e per l’economia della sostanza organica degli ecosistemi.

Il fenomeno della radiazione consiste nella trasmissione di energia mediante onde elettromagnetiche. Per definizione un onda elettromagnetica consiste nella variazione di intensità di un campo elettrico e di un campo magnetico perpendicolari tra loro. Le varie forme di radiazione vengono classificate in base a:

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 -la frequenza, f, che si esprime in hertz (1 hz=1 s-1)

 -la velocità di propagazione della luce nel vuoto, c, pari a 3 x 108 km/s

Questi tre parametri sono legati tra loro dalla relazione seguente:

c=f x λ (1)

L’intero campo di frequenza, o di lunghezza d’onda, della radiazione prende il nome di spettro, mentre prendono il nome di regioni o di bande spettrali le zone circoscritte all’interno dell’intero spettro. L’energia della radiazione viene trasferita sotto forma di fotoni. L’energia, E, posseduta da un fotone è definita dalla relazione di Planck secondo la seguente formula:

E=h x c/λ (2)

Dove:

h, rappresenta la costante di Planck (6,6256 x 10-27 erg x sec-1); c, è la

velocità della luce che vale 3 x 10 km x sec-1 e λ, è la lunghezza d’onda espressa in µm.

Sostituendo la (1) nella (2), si ottiene:

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Dove f è la frequenza misurata in hertz.

Da ciò deriva che tanto più elevata è la frequenza di una radiazione (quindi tanto minore è la sua lunghezza d’onda) tanto maggiore è il suo apporto energetico. L’apporto energetico della radiazione, in altre parole è, quindi, direttamente proporzionale alla sua frequenza e indirettamente proporzionale alla sua lunghezza d’onda. Lo spettro elettromagnetico è suddivisibile in funzione della lunghezza d’onda e della frequenza in bande convenzionali, come riportato nella seguente tabella. Radiazioni Lunghezza d’onda Cosmiche Gamma e raggi x UV corti UV lunghi Viola Blu Verde Giallo Arancione Rosso IR corto IR lungo Onde radio elettriche > 0,5 0,5-3 3-200 200-400 400-430 430-490 490-560 560-590 590-650 650-700 700-3000 3000-350000 >500000

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Lo spettro della radiazione solare in arrivo sulla terra ha un estensione che va da 170 nm a 4000 nm, con un massimo compreso tra 400 e 600nm. Lo spettro elettromagnetico della radiazione solare può essere quindi diviso in tre regioni principali, che sono quelle che interessano maggiormente la fotomorfogenesi:

 l’ultravioletto (UV) con un intervallo di lunghezza d’onda che va da290 nm a 400 nm;

 il visibile o PAR (photosynthecally Active Radiation), compreso tra 400 nm e 700 nm;

 l’infrarosso con lunghezze d’onda maggiori di 700 nm.

La regione dell’ultravioletto lungo (200nm-400 nm) è invisibile all’occhio umano. La maggior parte della radiazione UV emessa dal sole è schermata dallo strato di ozono dell’alta atmosfera, per cui sulla superficie terrestre ne arriva solo il 2% circa della quantità totale emessa dal sole (Bonari et al.1995). Questo tipo di radiazione fornisce alla terra un apporto energetico molto ridotto. Le radiazioni ultraviolette si dividono in tre tipi:

 UV-A,  UV-B,  UV-C.

Gli UV-A, con lunghezze d’onda comprese tra 320 e 400 nm arrivano sulla terra, ma sono i meno pericolosi, in quanto hanno minore energia. Gli UV-B, hanno lunghezza d’onda compresa tra 280 nm e

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320 nm, riescono ad arrivare sulla terra attraverso l’atmosfera e influiscono sul metabolismo e sulla morfologia delle piante. Gli UV-C con lunghezza d’onda minore di 280 nm, sono quelli ad energia molto alta, tanto che potrebbero essere molto dannosi per tutti gli organismi viventi, se non fossero assorbiti dallo strato di ozono presente nella stratosfera, non riuscendo così ad arrivare a contatto della superficie terrestre. In laboratorio vengono usati come agenti mutageni grazie alla loro capacità di creare mutazioni nel DNA.

L’ozono ha la proprietà di assorbire la radiazione solare, specialmente quella a corta lunghezza d’onda (UV), e di riemetterla nell’atmosfera come energia termica, in forma di raggi infrarossi, provocando così l’aumento di temperatura in questo strato (Bonari et al.1995). L’uso incontrollato dei clorofluorocarburi (CFC) utilizzati come propellenti nelle bombolette spray e nei frigoriferi, porta alla riduzione dello strato di ozono permettendo l’entrata nella troposfera degli UV-B corti ad alta energia. La riduzione dello strato di ozono porta all’interazione di queste radiazioni con gli esseri viventi e alla possibile formazione di mutazioni nel DNA.

La fotomorfogenesi

La luce è la fonte di energia principale per tutti gli esseri viventi, sia animali che vegetali. I processi caratteristici delle piante su cui la luce gioca un ruolo fondamentale sono:

 la FOTOMORFOGENESI, cioè lo sviluppo della pianta, influenzato dalla presenza della luce, ma indipendentemente dalla fotosintesi,

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 il FOTOTROPISMO, cioè l’accrescimento ineguale di organi della pianta in direzione della luce,

 la FOTOTASSI, il movimento di organismi o di specifici organelli cellulari regolato dalla luce,

 il FOTOPERIODO, la misura della durata dell’ illuminazione. Sulle piante agisce in due modi completamente diversi. Nella fotosintesi l’energia dei fotoni è trasformata in energia chimica e la luce in questo caso è una sorgente di energia per l’anabolismo. I prodotti della fotosintesi sono carboidrati che sono traslocati sotto forma di saccarosio dalla sorgente (source) della fotosintesi agli organi non fotosintetici (sink). Nella fotomorfogenesi la luce è, invece, un segnale usato per il controllo dello sviluppo: questo significa che i fotoni determinano il “pattern” di sviluppo, ma non ne soddisfano il fabbisogno energetico, che è, invece, alimentato dal catabolismo. Nel ciclo biologico delle piante la luce gioca un ruolo fondamentale influendo su tutti gli aspetti riguardanti crescita e sviluppo come ad esempio la germinazione, la crescita dello stelo, l’espansione fogliare, la riproduzione, l’iniziazione fiorale, i ritmi circadiani, l’espressione dei geni ed il fototropismo. L’energia necessaria per indurre una risposta fotomorfogenetica, è molto spesso di vari ordini di grandezza inferiore all’energia necessaria per la manifestazione della risposta stessa (es. fotoregolazione della germinazione, risposte fotoperiodiche quali la fioritura etc.).

Con il termine fotomorfogenesi si indica il controllo esercitato dalla luce sulla crescita e sul differenziamento, perciò sullo sviluppo delle piante indipendentemente dalla fotosintesi. La fotomorfogenesi è una caratteristica essenziale di tutti gli stadi ontogenetici delle piante

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superiori, tanto che numerosi aspetti morfologici di una normale pianta verde, che siamo soliti considerare costitutivi, cioè determinati geneticamente, in realtà sono adattamenti epigenetici al parametro ambientale luce e sono prodotti per mezzo della fotomorfogenesi. L’influenza della luce sulla morfologia della pianta è chiamata fotomorfogenesi ed include anche i processi della germinazione dei semi, di de-eziolamento, il fenomeno della fuga dall’ombra e l’induzione a fiore. (Kendrick e Kronemberg, 1994). Per de-eziolamento si intendono tutti i processi che caratterizzano la transizione da un fenotipo proprio della crescita e quindi dell’adattamento al buio delle piante, fino al fenotipo proprio delle piante verdi fotosintetizzanti. La fuga dall’ombra si manifesta nelle piante cresciute all’interno di una fitta vegetazione, queste rispondono a cambi di qualità dello spettro luminoso presente nell’ambiente assumendo un fenotipo allungato , che consente loro di arrivare più velocemente alla luce solare diretta. I fenomeni fotomorfogenetici sono indotti in pratica da ogni lunghezza d’onda nel campo del visibile. Variando la quantità, la qualità spettrale, la direzione, la durata e la distribuzione temporale della luce, si possono indurre profondi cambiamenti nel tipo di sviluppo delle piante. (B. Lercari,1989)

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CONDIZIONI LUMINOSE

RISPOSTE

Qualità spettrale Fotomorfogenesi,

fotoperidismo, fototropismo

Intensità luminosa Fotomorfogenesi

Direzione della luce Fototropismo

Duratadell’illuminazione Fotomorfogenesi Distribuzione temporale

della

luce nelle 24 h

Fotoperiodismo

Fig. 11- Risposte morfogenetiche indotte dalla luce (B. Lercari, 1989)

Per percepire la qualità, la quantità, la durata e la direzione della luce, le piante possiedono vari tipi di fotorecettori. I fotorecettori implicati nella fotomorfogesi differiscono dai fotorecettori della fotosintesi sotto quasi tutti i punti di vista. I pigmenti fotosintetici sono, generalmente, presenti in grande quantità nelle cellule e sono concentrati in membrane specializzate nel convertire l’energia luminosa in energia chimica. I fotorecettori fotomorfogenetici devono invece essere considerati come dei pigmenti sensori, sono presenti in concentrazioni molto basse e la funzione biologica non dipende necessariamente dalle membrane. (B. Lercari, 1989).

Danni e meccanismi di difesa

Le piante sono organismi sessili che richiedono la luce del sole per effettuare la fotosintesi e, proprio per questo motivo, sono

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costantemente esposte ai potenziali danni indotti dalla radiazione ultravioletta presente nella luce del sole. L'evoluzione delle piante terrestri è stata resa possibile grazie alla formazione di uno strato di ozono (O3) nella stratosfera terrestre, dovuto all’incremento di

ossigeno prodotto con la fotosintesi; Questo strato assorbe tutta la radiazione UV-C e parte di quella UV-B. (Rozema et al., 1997)

La banda spettrale degli UV-C (λ<280nm) è quella con la più alta energia ed è quella che crea i maggiori danni al DNA ed alle proteine, la lunghezza d'onda degli UV-B è compresa tra 280 e 320 nm, ma solo i raggi con lunghezza d'onda maggiore di 290 nm riescono a raggiungere la superficie terrestre. Le lunghezze d'onda più corte, quindi la totalità degli UV-C ed una parte degli UV-B, sono completamente assorbite dallo strato di ozono stratosferico.

Gli UV-B hanno effetti sullo sviluppo, sulla morfologia e sulla fisiologia delle piante. Come risultato della diminuzione dello strato di ozono, dovuto principalmente all’inquinamento da clorofluorocarburi, gli UV-B che arrivano sulla superficie della terra sono attualmente in aumento. I livelli degli UV-B sulla terra variano marcatamente con la latitudine, l’altitudine, la stagione e l'ora del giorno, perciò le condizioni ambientali riguardanti gli UV-B delle piante terrestri variano completamente nel tempo e nello spazio. (Rozema et al,. 1997) Molte relazioni indicano che i livelli ambientali di UV-B solare rappresentano uno stress ambientale per le piante, riducendone la crescita. Le varie ricerche ecofisiologiche riguardanti gli effetti dei raggi ultravioletti sulle piante hanno focalizzato l'attenzione sui danni causati ed hanno messo in evidenza come il DNA, le membrane e l'apparato fotosintetico siano l'obiettivo chiave della radiazione UV-B. Tra tutti i possibili obiettivi metabolici, i danni procurati al DNA sono considerati i più importanti. Gli effetti degli UV-B sui livelli di

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fitoormone possono essere relazionati a cambiamenti morfogenetici della pianta. Un elevata radiazione UV-B ha effetti pleiotropici sullo sviluppo, sulla morfologia e sulla fisiologia delle piante. Le conseguenze morfologiche di trattamenti con UV-B associati a luce bianca includono un ridotto accrescimento, un ispessimento delle foglie e degli strati di cere cuticolari. Inoltre si ha anche una più bassa capacità fotosintetica dovuta alla degradazione della proteina D1 del fotosistema II e una riduzione della fertilità del polline, descritta per varie specie. (Jansen et al., 1998; Caldwell et al., 2003)

E’ ben documentato che le risposte alle basse fluenze di UV-B sono in parte dovute a cambiamenti nella trascrizione. Il DNA è particolarmente sensibile alla radiazione UV-B, perché l’assorbimento degli UV-B causa fototrasformazioni,che portano alla produzione di dimeri di pirimidina ciclobutano (CPDs) e dimeri di pirimidina (6-4) piramidone (6-4 PPs). I danni provocati dalla radiazione UV-B alle piante sono riassumibili in quattro tipologie e possono riguardare:

 il DNA, causando mutazioni ereditabili,  le membrane,

 il sistema fotosintetico,

 alcuni cambiamenti nei livelli dei fitoormoni.

I tipi di danno più importanti e più significativi indotti dalla radiazione UV sul DNA sono i dimeri di pirimidina. I dimeri di pirimidina ciclobutano (CPDs) costituiscono la maggior parte del danno (circa il

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75% dei danni alle basi), i dimeri di pirimidina(6-4)piramidone costituiscono la parte rimanente.

Fig. 11 – due comuni fotoprodotti indotti dalla radiazione UV: un

CPD (timina-timina) e un dimero di pirimidina (6-4) piramidone (timina-citosina). I dimeri si formano tra basi adiacenti (5’ e 3’) dello stesso tratto di DNA (si possono formare dei dimeri trans, ma sono relativamente rari)

Entrambi i tipi di dimeri agiscono bloccando la trascrizione e la replicazione del DNA e producono lesioni mutageniche. Visto che, in presenza di questi fotoprodotti, sia la DNA polimerasi, che la RNA polimerasi non sono in grado di continuare la lettura, si rende necessaria la loro eliminazione affinché avvengano replicazione e trascrizione. E’ necessario, quindi, per la sopravvivenza dell’organismo. Anche se le normali polimerasi replicative non procederanno oltre queste lesioni, tutti gli organismi possiedono polimerasi specializzate che possono, con precisione molto ridotta, polimerizzare gli ultimi dimeri. Queste lesioni polimerizzate “bypassate” sono richieste per completare la replicazione di uno stampo danneggiato, ma riducono la precisione dei risultati con la

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UV devono essere riparati per due ragioni e, cioè, per ripristinare la trascrizione e la replicazione di DNA privo di errori. Benché la mutagenesi sia certamente un’importante conseguenza dei danni indotti, gli effetti sulla trascrizione sono probabilmente più critici per la sopravvivenza dell’organismo. Il DNA assorbe fotoni di UV-B che stimolano la formazione di dimeri di ciclobutano (single strand-breaks) e dimeri pirimidine (6-4) pirimidone [(6-4) fotoprodotti]. La formazione di radicali liberi tramite l’assorbimento di fotoni (fotoossidazione), causa indirettamente danni al DNA. Il fotoassorbimento nelle membrane provoca perossidazione di acidi grassi insaturi e cambiamenti nella composizione lipidica delle membrane.

Gli UV-B arrecano anche danni al fotosistema II (PS II α e PS II β), distruggono le membrane tilacoidali, provocano una riduzione del contenuto di clorofilla, tramite l’espressione ridotta di geni che codificano per le proteine che legano la clorofilla. Disturbano la permeabilità delle membrane nelle cellule di guardia (flusso di K+) e causano danni all’enzima RuBPcarbossilasi, che lega l’anidride carbonica (CO2).

Riducono, inoltre, i livelli di acido indolacetico (IAA) inibendo l’espansione cellulare. Gli UV-B provocano anche effetti sulla crescita; per esempio le cultivar di fagiolo comune Hilds Maja, Primel e Cannellino cresciute sotto una radiazione ultravioletta più alta dell’8-10% mostrano una riduzione nell’altezza del fusto non correlata con una riduzione del peso fresco o del peso secco. (Saile-Mark M. e Tevini M., 1997) Le cultivar dell’Europa centrale, così come quelle dell’Europa meridionale mostrano una riduzione nella taglia della pianta quando crescono sotto una radiazione ultravioletta relativamente maggiore (8-10%). Questo può derivare da una

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distruzione fotoossidativa del fitoormone acido indolacetico, come dimostrato in piantine di girasole sottoposte a condizioni di alto UV e bassa luce bianca. (Ros e Tevini, 1995)

In generale, le piante rispondono in due diversi modi alle irradiazioni con alte dosi di UV-B:

 mettendo in atto meccanismi di protezione  attivando meccanismi di riparo

Il più comune meccanismo di difesa contro i potenziali danni da alta irradiazione è la biosintesi di composti che assorbono gli UV. (Hahlbrock e Scheel, 1998). Questi metaboliti secondari, principalmente composti fenolici, flavonoidi e esteri di idrossicinnamato, vengono accumulati nei vacuoli delle cellule epidermiche in risposta alla radiazioneUV-B e ne attenuano la penetrazione negli strati più profondi della cellula con piccoli effetti sulla regione del visibile. Per difendersi dai possibili danni causati dalla radiazione UV-B le piante superiori disperdono e riflettono la radiazione tramite strutture epidermiche e cuticolari,oltre che tramite lo strato di cera e i peli fogliari. Alcuni pigmenti come gli antociani ed i flavonoidi presenti nelle cellule epidermiche costituiscono un’altra forma di difesa.

Le fotoliasi sono enzimi che fotoriattivati monomerizzano i dimeri formati dall’assorbimento di fotoni di UV-B da parte del DNA (FOTORIPARO), questo è un processo rapido, ma necessita di una quantità di radiazione fotosinteticamente attiva sufficiente.

Non esistono ambienti naturali in cui le piante sono esposte alla radiazione ultravioletta senza essere esposte anche alla luce visibile. È

Figura

Fig. 1-  foglie di fagiolo.
Fig. 2-  fiore di fagiolo
Fig. 3-  baccello di fagiolo.
Fig 5 -   Pianta di fagiolo sottoposta a stress abiotici in campo
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