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LA SUBORDINAZIONE: un concetto in evoluzione.

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione...4

CAPITOLO 1 EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI SUBORDINAZIONE 1.1 Il codice del 1865 e la distinzione tra locatio operis e locatio operarum...6

1.2 La riconduzione del rapporto di lavoro allo schema del contratto di compravendita(Carnelutti)...9

1.3 Il socialismo giurdico...11

1.4 La concezione Barassiana di subordinazione...14

1.5 Dalla fase corporativa al codice del 1942: l’art 2094...18

1.6 Il dibattito tra istituzionalisti e contrattualisti: il contrattualismo laburista 20 CAPITOLO 2 TEORIE SULLA SUBORDINAZIONE 2.1 La nozione tecnico-giuridica di subordinazione...28

2.2 La nozione socio-economica di subordinazione...30

2.3 Tendenze estensive del concetto di subordinazione...33

2.4 Gli indici qualificatori...35

2.5 Gli indici sussidiari...41

2.6 Metodo tipologico e metodo sussuntivo...45

2.7 La casistica giurisprudenziale...49

2.7.1 I giornalisti...49

2.7.2 Gli insegnanti...51

2.7.3 I medici...52

2.8 I pony-express...55

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2.10 Ultime disposizioni legislative...60

CAPITOLO 3 TEORIE SULLA PARASUBORDINAZIONE 3.1 Il fenomeno del lavoro autonomo economicamente dipendente...62

3.1.2 La continuità...64

3.1.3. Il coordinamento...65

3.1.4 La prevalente personalità della prestazione...66

3.1.5 Considerazioni conclusive sulla parasubordinazione...68

3.2 Eteronomisti e autonomisti...70

3.3 L'estensione selettiva delle tutele...74

3.4 La proposta di Giovanni Alleva...77

3.5 Il disegno di legge Smuraglia...79

3.6 La proposta della cgil...81

3.7 La proposta di Massimo D'antona...83

3.8 La proposta di Tamajo, De luca, Flammia e Persiani...85

3.9 Altre proposte di riforma …...88

3.10 L'introduzione del contratto a progetto...91

3.11 L'indicazione della durata o la determinabilità della stessa...95

3.12 L'indicazione del progetto...97

3.13 Il corrispettivo, le forme di coordinamento e le misure di sicurezza...99

3.14 Le novità introdotte dalla legge n. 92 del 2012. Il nuovo art. 69 bis...101

3.14.2 Il regime delle esclusioni...103

3.15 Flessibilità in entrata e in uscita...106

3.16 L'ampliamento della nozione di subordinazione alla luce delle riforme sul mercato del lavoro...108

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3.17 Le collaborazioni organizzate dal committente...110 Conclusioni...113

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INTRODUZIONE

L'obiettivo che la presente tesi si pone è quello di analizzare i vari problemi con i quali sia il legislatore sia l'interprete del diritto si confrontano nel tentativo di riformulare l'area protetta del lavoro dipendente.

L'affermarsi di nuove forme di lavoro ha palesato ben presto l'inadeguatezza descrittiva del sistema dualistico autonomia-subordinazione, cristallizzato nell'art.2094 c.c. ma ormai reso anacronistico dal radicale mutamento del sistema produttivo. Queste incertezze qualificatorie hanno portato alla diffusione dei c.d. rapporti parasubordinati, ovvero rapporti non inquadrabili né nell'area della subordinazione né in quella del lavoro autonomo.

La difficoltà principale è quella di dar sistemazione a questi rapporti, considerati formalmente autonomi ma che in realtà sono viziati da una condizione di debolezza economica di una delle due parti. Il legislatore si trova stretto tra due esigenze: da una parte deve individuare una soluzione economicamente compatibile con le necessità delle aziende per evitare che una troppo rigida regolamentazione alimenti il ricorso a figure atipiche utilizzate illegittimamente o ancora peggio al lavoro nero; dall'altra questa soluzione deve anche garantire ai lavoratori delle tutele che riequilibrino il loro stato di dipendenza.

Nel seguente studio si è voluto seguire l'evoluzione che il concetto di subordinazione ha avuto in relazione ai grandi cambiamenti politici, sociali ed economici che si sono succeduti negli ultimi 120 anni di storia del nostro paese. Appare evidente come il divario tra norme e realtà si crei quando ad un cambiamento del sistema economico -produttivo non corrisponde un intervento riformatore capace di dar sistemazione alle nuove dinamiche di mercato.

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Negli ultimi anni si è assistito ad un tentativo da parte del legislatore di temperare quelle criticità che si erano create introducendo degli elementi di flessibilità per dare coerenza alle nuove fattispecie emergenti, ma anche questi interventi si sono rivelati inadatti perché ancora improntati a dare una qualificazione delle varie fattispecie e da questa far dipendere la tutela conseguente.

La presente tesi si propone quindi di analizzare l'evoluzione che il concetto subordinazione ha avuto nel tempo ed il dibattito dottrinale che si è sviluppato intorno ad esso, nella convinzione che ciò possa offrire elementi preziosi per capire quale strada il legislatore dovrebbe seguire per ricercare le soluzioni più efficaci a soddisfare l'esigenza di rinnovamento del diritto del lavoro.

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CAPITOLO 1

EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI SUBORDINAZIONE

1 Il codice del 1865 e la distinzione tra locatio operis e locatio operarum

Definire con precisione i confini della fattispecie lavoro subordinato è un obiettivo che dottrina e giurisprudenza non sono ancora riuscite a raggiungere.

L'ambiguità dell'art 2094 cc, l'art riguardante la definizione di lavoro subordinato, ha creato una pluralità di fattispecie intermedie a cui non si riesce a dare un preciso inquadramento in quanto possiedono caratteristiche riconducibili sia al lavoro autonomo che a quello dipendente.

Per cercare di analizzare tale concetto, con tutte le sue sfumature, all'interno dell'ordinamento italiano, non possiamo esimerci dal darne una ricostruzione storica dal momento della sua nascita avvenuta nel diciannovesimo secolo.

Infatti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento il processo di industrializzazione porterà alla nascita del proletariato industriale che, pur emergendo come fenomeno sociale, farà sorgere incertezze sulla qualificazione di questo nuovo rapporto e su gli strumenti giuridici più idonei a regolarizzarlo.

Il diritto di fine Ottocento era il diritto nascente dalle rivoluzioni borghesi, il diritto dei “pari”, incapace di accogliere al proprio interno una nuova fattispecie che prevedesse una disuguaglianza strutturale quale il lavoro subordinato.

Gli strumenti che maggiormente sembravano idonei a descrivere questo nuovo fenomeno erano quelli della locazione e della compravendita, nonostante entrambi prevedessero un contratto e si basassero pertanto sulla manifestazione di due libere

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volontà senza considerare l'inuguaglianza sostanziale tra le parti.

Il codice civile del 1865 all’art 1570 descriveva la locazione delle opere come “quel contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”, una definizione molto generica che non forniva una distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.

L’art 1627 poi precisava, tre tipi di locazione delle opere dei quali solo il primo aveva per oggetto una descrizione approssimativa di lavoratore subordinato: “colui che presta la propria opera all’altrui servizio” mentre le altre due riguardavano il trasporto di cose o persone e quella inerente opere ad appalto o lavori a cottimo.

L’unica altra disposizione riguardante il lavoro subordinato era l’art 1628 secondo il quale “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo e per una determinata impresa” che, sebbene perseguisse lo scopo nobile di evitare l’asservimento del lavoratore, nella pratica dava la possibilità al datore di lavoro di recedere dal contratto liberamente.

La carenza di attenzione prestata alla figura del lavoratore subordinato nel codice non corrispondeva alla diffusione che tale modello aveva nella società. Dottrina e giurisprudenza dell’epoca non avevano risparmiato critiche a questo ostinato ed anacronistico attaccamento al modello napoleonico, che a sua volta riprendeva le risalenti tradizioni romanistiche rielaborate dalla pandettistica, lasciando privo di specifica disciplina un fenomeno sui generis che stava assumendo sempre maggiore importanza nella nuova società industrializzata.

Guardando esclusivamente al codice civile era possibile considerare il lavoro operaio come una sottospecie di contratto di locazione il cui contenuto veniva determinato dall’autonomia dispositiva delle parti Queste ultime, considerate formalmente su un

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piano di parità, potevano scegliere tra la figura della locatio operis, inquadrabile nella fattispecie del lavoratore autonomo, o la locatio operarum, più simile ad un rapporto di lavoro subordinato.

La distinzione tra queste figure consiste sostanzialmente nella diversa ripartizione dei rischi. Nella locatio operarum l’oggetto del rapporto contrattuale viene individuato nella sola prestazione, nelle “energie lavorative” messe a disposizione del datore considerate passibili di locazione, quindi il rischio di non utilità del lavoro ricadeva unicamente sull’imprenditore, mentre al lavoratore autonomo della locatio operis veniva richiesto l’opus perfectum (opera completa) perciò su di lui ricadeva il rischio. Requisiti della locatio operarum erano la temporaneità, data come già detto dall’art 1628, e la continuità di modo che il tempo non fosse solo la modalità di esecuzione della prestazione ma diventasse “la causa stessa del contratto” 1

La distinzione tra queste forme di locazione, si rivelò però sin da subito troppo generica per fornire una qualificazione precisa di lavoro autonomo e subordinato: in primo luogo perché non può esistere obbligazione che prescinda da un risultato concreto e apprezzabile dal creditore, secondariamente la distinzione dell’oggetto dell’obbligazione non può riscontrarsi nella diversa ripartizione del rischio infatti “il fatto che nella locatio operis il rischio incida sul lavoratore e nella locatio operarum sul datore di lavoro, non costituisce presupposto ma conseguenza della qualificazione del rapporto”2

1 E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci editore, 1979, p.41 e ss.

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2 La riconduzione del rapporto allo schema del contratto di compravendita Al fine del superamento dei suddetti problemi di qualificazione giuridica, Francesco Carnelutti, uno dei più influenti giuristi italiani di inizio secolo, accostò il nascente rapporto tra operai di fabbrica e imprenditori allo schema del contratto di compravendita.

Secondo l’autore, le critiche avanzate dalla dottrina alla poco convincente divisione nelle categorie di locatio operis e locatio operarum potevano essere superate se si consideravano le energie lavorative come oggetto del contratto: energie che vengono poi vendute dal lavoratore al datore il quale ne diventa il “titolare del loro godimento esclusivo”3

Infatti secondo Carnelutti “l’operaio che cede verso il salario le sue energie di lavoro toglie qualcosa dal suo patrimonio, come il mercante che vende le sue merci”4 la

differenza sta solo nella qualità dell’oggetto della prestazione e nella sua origine, derivando dall’impiego delle energie umane, ed è anche per questo che la figura della locatio operarum è illogica: infatti se fosse locazione, si avrebbe “prestazione dell’uso del corpo umano, ma, se ciò cui è tenuto il lavoratore è una prestazione di energia, allora il contratto è di compravendita5. L’effetto del contratto di lavoro è in sostanza quello di “produrre un godimento esclusivo delle energie, una sorta di diritto di proprietà sull’oggetto della prestazione” 6quindi esiste una forte identità strutturale tra

il contratto di lavoro e la vendita e, questo schema, sarebbe maggiormente funzionale nel momento in cui lo si dovesse conciliare con le leggi sociali che si stavano formando.

3 P. Passaniti, Storia del diritto del lavoro I, Giuffrè editore, 2006, pp. 480 e ss 4 Enciclopedia del diritto,diritto del lavoro, p.428

5 Ibidem

6 F.Carnelutti, Studi sulle enegie come oggetto di rapporti giuridici, in “Rivista di diritto commerciale”, XI 1913 p.390 e ss.

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L'autore ricercava nel contratto di compravendita l’essenza vera del rapporto di lavoro spogliandola di qualsiasi elemento decorativo ed in questa prospettiva lo scambio economico della compravendita sembrava più semplice.

In realtà , probabilmente, proprio la povertà delle indicazioni ricavabili dal codice per la figura della locazione favorì la scelta di questo modello, infatti consentiva agli interpreti del diritto di compiere le proprie scelte con maggiore libertà essendo slegati dal dettato normativo.

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3 Il socialismo giuridico

Il codice civile del 1865 aveva preso come modello di riferimento il Code Napoléon di inizio secolo, figlio della rivoluzione francese e dell’egemonia borghese, il cui orientamento ideologico era chiaramente riflesso in una disciplina codicistica che metteva tutti i soggetti del diritto su un piano di parità, a differenza del precedente assetto di Ancien Régime che riservava una posizione privilegiata al clero e all’aristocrazia.

A questa impostazione, che necessariamente metteva le parti del contratto di lavoro su un piano di uguaglianza formale, si opponeva una parte minoritaria della dottrina, convinta sempre più della necessità dell’elaborazione di un diritto “privato-sociale”7 che meglio rispondesse alle esigenze della nuova realtà industriale che andava formandosi.

Questa nuova corrente, che vedeva tra le proprie fila numerosi esponenti del socialismo giuridico, cominciò a sostenere l’esigenza di una normativa ad hoc per il contratto di lavoro, che superasse l’impostazione tradizionale incentrata sul binomio obbligazione di mezzi e obbligazione di risultati e mettesse al centro del dibattito la figura del lavoratore quale contraente debole e perciò meritevole di tutela, nel tentativo di ottenere una parità non più solo formale tra le parti, ma sostanziale.

Il legislatore italiano, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, per contrastare i sempre più diffusi problemi legati alla gestione della manodopera italiana, tra cui scioperi e insurrezioni, accolse alcune delle proposte avanzate dal filone dei socialisti giuridici: tra queste la legge sugli infortuni sul lavoro, che poneva a carico dell’azienda l’obbligo di assicurare i lavoratori, ma anche la legge sul lavoro minorile, sulle lavoratrici madri e la legge sulla Cassa Nazionale di Previdenza.

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Fu così che vide la luce una serie di riforme caratterizzate dalla creazione di norme imperative, non derogabili individualmente dalle parti, accompagnate spesso anche dalla previsione di sanzioni penali in caso di violazione, che superavano il diktat tipico della società borghese della libera autonomia contrattuale.

Queste norme imperative devono un importante contributo anche alla prassi giurisprudenziale consolidatasi nel tempo, infatti, già dal 1893, operavano in Italia i Collegi dei Probiviri, collegi formati da magistrati chiamati a giudicare in materia di controversie di lavoro tra operai e industriali non solo sulla base del codice ma anche secondo equità.

La possibilità di derogare il codice dimostra la sempre maggiore consapevolezza degli operatori del diritto della necessità si superare l’impostazione classica del contratto di lavoro come di un qualunque altro contratto, dove la volontà delle parti la facesse da padrone e che il problema fosse unicamente in quale istituto inquadrarlo.

Il vero obbiettivo da perseguire era quello di disciplinare tale rapporto tenendo conto della mutata realtà storica e sociale che lo accompagnava.

Grazie alla giurisprudenza dei probiviri iniziò un processo di formazione extralegislativa del diritto del lavoro 8 che portò ad un generale miglioramento delle garanzie offerte agli operai, ma la cosa più importante, anche ai fini della nostra ricerca, fu la creazione di una prima nozione di lavoratore subordinato: infatti i collegi probivirali si proponevano di dirimere le controversie che riguardavano esclusivamente i lavoratori subordinati, procedendo perciò ad individuarne i caratteri distintivi.

I caratteri più importanti presi in considerazione furono quello della dipendenza, del

8 Pino, Il contesto di inizio secolo e la discussione sul contratto di lavoro, in Pedrazzoli, Lavoro subordinato e dintorni p.28 e ss.

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tempo che il lavoratore doveva mettere a disposizione del datore seguendo un preciso orario prestabilito e l’inserimento del lavoratore nel luogo ovvero nell’azienda del datore, superando perciò il vecchio criterio della diversa ripartizione dei rischi.

Ebbe quindi inizio, con l’operato dei collegi di magistrati, ciò che la giurisprudenza ordinaria portò avanti nei successivi decenni : la ricerca degli “indici” della fattispecie lavoro subordinato.

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4 La concezione barassiana di subordinazione

Nel saggio “ Sui limiti di una codificazione del contratto di lavoro”9 uno dei più

autorevoli giuristi di inizio secolo scorso Lodovico Barassi scriveva che “ il contratto di lavoro è sorto fin dai tempi in cui l’uomo non bastò più a se stesso per il soddisfacimento dei suoi bisogni, e dovette quindi ricorrere all’opera del suo simile per procurarsi ciò che poteva soddisfare i bisogni nuovi”.

La Giurisprudenza contemporanea invece mette in evidenza il conflitto tra leggi sociali e dettato del codice, sostenendo l'esigenza della necessità di una ricodificazione. Con questa affermazione Barassi cercava di porre un freno alle dinamiche sociali e giuridiche che si erano attivate con l’industrialismo.

Dicendo che il contratto di lavoro “è lo stesso di ieri e di duemila anni orsono”10 tentava di evidenziare una continuità storica che rendesse assurda la volontà di qualche giurista a lui contemporaneo di sostenere che il contratto di lavoro sarebbe nato proprio dall’avvenuta rivoluzione industriale.

Il suo intento era quello di evitare che le suggestioni socialistiche stravolgessero l’impianto del codice e di assorbire le nuove dinamiche economiche e sociali all’interno di esso.

Il problema principale che si pone di fronte a lui non è solo come legittimare, dal punto di vista giuridico, il potere direttivo degli imprenditori sugli operai nell’organizzazione produttiva in un ordinamento dove i soggetti sono considerati tutti liberi e uguali, ma anche come giustificare l’intervento del legislatore che, come dimostra la legge sull’assicurazione obbligatoria del 1898, arriva a determinare alcuni aspetti del contratto sottraendoli all’incontro delle volontà delle parti.

9 L.Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, introduzione 10 Ibidem

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Barassi interpreta questa ingerenza statale sostenendo che il rapporto di lavoro viaggia su un doppio binario, dove la parte civilistica rimane legata ai principi dell’autonomia contrattuale mentre invece la parte economica ammette un limitato intervento dello Stato per riequilibrare il rapporto.

La legislazione speciale viene vista come un male necessario, utilizzata per evitare che le rivendicazioni socialiste stravolgano le articolazioni del codice. Per questo motivo l’applicazione di queste norme incontrano due limiti: intanto le norme speciali, rifacendosi direttamente ai rapporti sociali presenti al momento della loro nascita, non possono essere durature o immutabili, come sono quelle del diritto civile, inoltre, non essendo durature, non possono essere viste in chiave di trasformazione dell’esistente giuridico ma devono rappresentare semplicemente una soluzione pratica nel momento in cui essa sia necessaria.

Le leggi sociali rappresentavano per il Barassi una gamma di doveri in capo all’imprenditore che però non potevano identificarsi con l’obbligazione principale del rapporto.

Il nodo giuridico del problema si racchiudeva nell’art 1570 del codice civile del 1865, infatti sulla base di quel dettato normativo “il contratto di locazione d’opera non induce nel conduttore altro obbligo che quello di pagare la mercede” 11.

Secondo Barassi con questa norma il legislatore si è limitato a dare una definizione generale di rapporto di lavoro e che questo rapporto “mira ad un fare e non ad un dare”12.

Barassi accetta quindi le leggi sociali ma sostiene che il rapporto di lavoro, anche quello nuovo che vede come protagonista l’operaio di fabbrica, sia già disciplinato dal

11 P.Passaniti, Storia del diritto del lavoro I, Giuffrè editore, 2006, p. 169 e ss 12 Ibidem

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codice ed esclude quindi la necessità di una ricodificazione.

La dicotomia locatio operis e locatio operarum è perfettamente funzionale a descrivere le varie realtà lavorative se si supera la vecchia interpretazione che le vedeva differenziate solo per il criterio della ripartizione del rischio.

Per Barassi “ quando il creditore del lavoro è a contatto col lavoro, lo dirige, lo sorveglia, lo indirizza a quei risultati che egli, mercé le prestazioni del debitore, intenda arrivare, vi ha locazione di opere. In tal caso il lavoratore è un istrumento, e un istrumento in un certo senso passivo, nel senso che presta le proprie attitudini fisiche ed intellettive perché l’altra parte le abbia a plasmare e indirizzare come egli intende”13

Questa concezione altro non è che una prima interpretazione della nozione di subordinazione, l’elemento della dipendenza come criterio qualificativo del rapporto di lavoro subordinato entra nel codice e pertanto non necessita di un ulteriore legittimazione legislativa.

In questa prospettiva si osserva la decisione del locator operarum di promettere dei mezzi anziché dei risultati e la locatio operarum costituisce una copertura giuridica all’elemento sociale della subordinazione.

Con questo criterio Barassi supera le concezioni che interpretavano il rapporto di lavoro come un semplice scambio di utilità, come una vendita o un affitto di energie: egli si pone come mediatore tra sostenitori dello schema locatizio tradizionale e la corrente dei socialisti giuridici che,insofferenti alla inadeguatezza del codice, proponevano di disciplinare questo rapporto ex-novo.

Da una parte, infatti, pur criticando le teorie estremiste dei socialisti, con

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l’elaborazione del concetto di subordinazione, trasportava sotto il profilo giuridico la posizione di debolezza del lavoratore di fabbrica e a questa caratteristica collegava la legittimazione della legislazione sociale.

Dall’altra parte rivitalizzava l’istituto della locatio operarum della tradizione civilistica, senza però stravolgerne i principi e consegnando ai datori di lavoro un istituto giuridico capace di motivare il loro potere direttivo sui dipendenti.

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5 Dalla fase corporativa al codice del 1942: l’art 2094

Durante il ventennio fascista la discussione intorno alla nozione di subordinazione venne di fatto abbandonata per lasciar posto al corporativismo, ovvero un modello di società organica e coesa nella quale l’interesse dei singoli individui, lavoratori o datori, doveva essere messo in secondo piano rispetto all’interesse superiore della nazione14

L’ideologia corporativa si proponeva come alternativa al liberismo, considerato troppo individualista, e secondo questa teoria il contratto di lavoro era solo funzionale all’inserimento nell’impresa cambiandone perciò la natura da contratto di scambio a contratto associativo15

L’inserimento nell’impresa, formata e diretta dall’imprenditore, bastava da sola a giustificare il suo potere direttivo sulle prestazioni del lavoratore, essa, infatti, veniva vista come un soggetto giuridico che aveva interessi distinti da quelli del datore e che coincidevano con gli interessi della nazione.

Si creava quindi una struttura gerarchica dove l’imprenditore rispondeva dell’andamento dell’azienda allo Stato e per questo imponeva direttive ai dipendenti. In questa prospettiva lavoratori e datori di lavoro dovevano collaborare superando quelle dinamiche conflittuali presenti nel liberismo, sminuendo così l’importanza del momento contrattuale e del concetto di subordinazione nella qualificazione del rapporto. Questo aspetto lo si nota anche nella scelta del codice del 1942 di dedicare un libro apposito al lavoro, il V, distaccandolo dal libro IV dei contratti e delle obbligazioni.

La legislazione fascista culminò con il codice civile del 1942, questo si portava dietro i segni lasciati dall’eredità della dottrina corporativa, infatti: “sembra recepire questa

14 R. Del Punta, Lezioni di diritto del lavoro, Giuffrè editore,2006, p.43 e ss. 15 E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci editore,1979, p.45

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concezione del rapporto di lavoro subordinato come mero effetto dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale. Il tipo legale del “contratto di lavoro subordinato” non vi è neppure nominato, limitandosi l’art 2094 a definire il lavoratore subordinato 16

L’art 2094 cc descrive il lavoratore subordinato come colui che “ si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

La nozione di lavoratore subordinato sostituisce la definizione, ormai inadeguata, di locator operarum sviluppata da Barassi, ma non gli viene più riconosciuta quella funzione di qualificare il rapporto come sosteneva il nostro autore: la legge sindacale del 1926 e quella della Carta del Lavoro del 1927 avevano dato al lavoro una connotazione pubblicistica tale che il contratto non aveva più quella funzione, ma solo quella di permettere l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.

Il codice del 1942 garantisce copertura alla dottrina corporativa sotto il profilo tecnico ma, con il crollo del regime, il capo II, attinente gli atti normativi emanati dalle corporazioni ed il capo III, dedicato al contratto collettivo, vennero aboliti e il semplice riferimento nell’art 2094 alla collaborazione non basta a trasformare la causa del contratto in associativa

Per questo motivo nel dopoguerra il dibattito dottrinale sul diritto del lavoro vedrà una componente contrattualistica opposta ad una istituzionalistica

16 P.Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in Riv. it. Dir. Lav. 2012 . p.10

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6 Il dibattito tra istituzionalisti e contrattualisti: il contrattualismo laburista

Nel dopoguerra il dibattito intorno al diritto del lavoro riprese e si concentrò sopratutto intorno a due riviste nate sul finire degli anni '40, la prima(Rivista di diritto del lavoro) ispirata alle posizioni sindacali della Cisl, che vedeva tra le sue file esponenti come Barassi e Passerelli orientati su posizioni contrattualiste, che sostenevano l'appartenenza del diritto del lavoro, nonostante le sue specificità, al diritto civile e la seconda(Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale) animata da posizioni più progressiste e che si ispiravano alle rivendicazioni sindacali volute dalla Cigl. Queste posizioni, sostenute da autori del calibro di Calamandrei, auspicavano un diritto del lavoro che si fondasse direttamente sui principi costituzionali come ad esempio l'art 4, in contrapposizione alla libertà dei datori di recedere dal contratto, e l'art 36 contenente il principio dell'equa retribuzione.

In un contesto storico come quello italiano dei primi anni '50, dove la supremazia delle tesi contrattualiste unita alla presenza di un enorme manodopera disoccupata aveva favorito spesso abusi ai danni dei lavoratori, il dibattito intorno al porre un limite ai poteri datoriali che non derivasse unicamente dall'autonomia delle parti prese nuovo vigore: “la corrente istituzionalista si risveglia dal letargo proprio quando, per reazione agli abusi gravi a cui si assiste nelle aziende, incomincia a porsi con urgenza la questione della limitazione dei poteri del datore di lavoro e in particolare della sua facoltà di recesso”17

Gli istituzionalisti rispondono agli spunti dati dai costituzionalisti sostenendo che il codice “offra con gli articoli 2086,2103, 2104 e alcuni altri, solido fondamento alla limitazione del potere dell'imprenditore funzionalizzandolo all'interesse oggettivo

17 P.Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in Riv. it. Dir. Lav. 2012, p.12, cit p 14

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dell'impresa”18.

La corrente costituzionalista non resta inerme di fronte ad una rilettura in chiave antiliberista della concezione dell'azienda come di un'istituzione, valorizzandone l'elemento dell'interesse oggettivo proprio, slegato da quello dell'imprenditore: Ugo Natoli, esponente della RGL, arriva a teorizzare l'azienda come una “formazione sociale” ex art 2 Cost., elaborando un interesse legittimo del lavoratore inserito nell'impresa al mantenimento del posto in contrapposizione al potere di recesso dell'imprenditore.

La volontà di emancipare il diritto del lavoro dal diritto civile, la svalutazione dell'autonomia contrattuale in favore di garanzie più solide per i lavoratori e la qualificazione del rapporto di lavoro come di un contratto associativo sono tutti elementi che porteranno ad una convergenza di interessi tra costituzionalisti e neo-istituzionalisti, caratterizzata da politiche del lavoro più vicine alle tutele dei lavoratori che non agli interessi delle organizzazioni datoriali.

A scongiurare un dualismo tra la corrente contrattualistica, che sosteneva politiche del lavoro liberiste vicino alla confindustria, e le tesi sostenute invece da costituzionalisti e neo-istituzionalisti, intervennero due giuristi appartenenti al primo filone, Federico Mancini e Gino Giugni, che si proposero di dare un nuovo volto al diritto del lavoro aperto anche allo studio dell'economia e della sociologia senza cedere però ad un riconoscimento extracontrattuale del rapporto di lavoro e di una visione comunitaria dell'impresa.

Mancini in particolare sostiene che il contratto non sia lo strumento tipico della concezione liberale classica a difesa dell'autonomia dispositiva delle parti, ma deve essere considerato come il limite certo all'assetto del rapporto tra datore e lavoratore,

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con particolare attenzione alle tutele dei dipendenti la dove una legislazione statale non derogabile sarebbe stata troppo rigida per definire un rapporto dinamico come quello di lavoro che necessita di una componente più elastica lasciata all'autonomia negoziale.

Sempre su questa linea Mattia Persiani, nella sua opera sul contratto di lavoro19, elaborerà l'idea del contratto come dello strumento più idoneo a modellarsi alle esigenze del funzionamento interno dell'azienda e alle sue strutture organizzative. Gino Giugni invece si concentra sull'emancipare il diritto sindacale dal diritto pubblico e utilizza la teoria della pluralità degli ordinamenti di Santi Romano per legittimare il sistema delle relazioni sindacali italiane come ordinamento a se stante, capace di darsi spontaneamente un diritto perché nulla può essere più dannoso per l'equilibrio economico di un paese, che un sistema di relazioni sindacali irrigidito in uno schema legale, comunque formatosi, sul quale già cominci a operare il tarlo di una tradizione consolidata”20.

Questa nuova corrente sviluppatasi in seno al contrattualismo classico prese il nome di contrattualismo laburista e si propose come punto d'incontro tra le esigenze di riforma del diritto del lavoro e il rigorismo giuridico del primo contrattualismo.

La legge sui licenziamenti del 1966 dimostra come “rispetto alle grandi alternative concettuali contrattualismo/istituzionalismo....il diritto vigente sia venuto sviluppandosi lungo una via intermedia, che attinge in qualche misura a entrambi i prototipi normativi contrapposti”21. In merito alla definizione legislativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Gino Giugni, componente della commissione a cui viene affidata la redazione del disegno di legge scriverà “ ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare

19 M.Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam,1966

20 G.Giugni, Introduzione allo studio dell'economia colletiva, Giuffrè, 1960. 21 P.Ichino, Il diritto del lavoro nell'Italia Repubblicana, p 69

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funzionamento di essa”22. Anni dopo, per giustificare questa scelta egli spiegherà di aver utilizzato questa dicitura per impedire che si utilizzasse la nozione di “interesse di impresa”, ma nei fatti questa legge ha imposto la distinzione tra interesse oggettivo dell'impresa e soggettivo dell'imprenditore quindi non è altro che una riproposizione della concezione di impresa organica che avevano i sostenitori delle teorie istituzionaliste.

In riferimento alla natura del rapporto di lavoro invece possiamo vedere come sul piano pratico il rapporto fosse costituito da un insieme di elementi appartenenti ad entrambe le concezioni: il contratto rimaneva il momento fondamentale per la nascita e la disciplina del rapporto lavorativo a discapito dell'inserimento nell'azienda, anche se l'autonomia contrattuale delle parti rimaneva fortemente limitata dalle ingerenze della contrattazione collettiva e delle disposizioni legislative.

Sul fronte del diritto sindacale la costruzione privatistica delineata da Giugni aveva fatto sì che le categorie in cui si dividevano i vari contratti collettivi nazionali fosse lasciata all'autonomia dei consociati, ma la validità erga omnes dei singoli contratti a prescindere dall'appartenenza o meno all'associazione sindacale lascia pensare ad una funzione sostanzialmente pubblicistica o che comunque superi i limiti privatistici della rappresentanza.

Come presidente della Commissione composta per l'emanazione della legge 20 Maggio 1970 n.300, la principale legge italiana che disciplina il diritto del lavoro meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori, Gino Giugni riuscirà a conciliare le istanze dei sostenitori della linea costituzionalista e dei contrattualisti liberisti.23

I primi chiedevano l'effettività di alcuni diritti dei lavoratori quali la libertà di opinione, di affiliazione politica e sindacale direttamente nei luoghi di lavoro come del

22 L.604/66

(24)

resto già previsto dalla Carta Costituzionale.

Il secondo orientamento mirava invece ad una tutela collettiva che fungesse da contraltare al potere gerarchico dell'imprenditore.

Con l'emanazione dello Statuto dei lavoratori entrambe le istanze venivano soddisfatte ed erano su un piano di interdipendenza l'una con l'altra, infatti da una parte le norme che limitavano i poteri dell'imprenditore, messe a tutela dei diritti dei lavoratori, contribuivano allo svolgimento dell'attività sindacale da parte dei singoli e, allo stesso tempo, le formazioni sindacali organizzate presenti nell'impresa potevano rendere effettivi i diritti garantistici di natura individuale. 24

La riduzione dei poteri datoriali portati avanti dallo Statuto anche senza mettere in discussione il rapporto di subordinazione lo ridimensionano.

L'azienda da tipico luogo di doveri e obblighi verso il datore si trasforma in un centro di diritti e prerogative dei lavoratori ed è su questi che deve rimodellarsi l'organizzazione aziendale.

Successivamente all'approvazione dello Statuto, nel 1973, venne approvata la legge che regolava la “disciplina in materia di controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie.25”

In sostanza questa norma istituiva un rito “speciale” che riguardava queste controversie con l'obbiettivo di rendere più veloce la tutela processuale per i lavoratori, rendendola allo stesso tempo effettiva, in quanto spesso i lunghi tempi di risoluzione delle controversie e le spese processuali portavano il lavoratore dipendente a rinunciare alla tutela cercando al limite un accordo extreagiudiziale.

Questa nuova magistratura interpretò il ruolo che le era stato affidato in maniera ampiamente garantista, cercando di rimuovere le disuguaglianze sociali in tema di

24 P.Ichino, Il diritto del lavoro nell'Italia repubblicana, p 85. 25 Legge 11 Agosto 1973, n. 533.

(25)

lavoro e introducendo una nuova attenzione ai diritti civili e costituzionali all'interno delle fabbriche.

Le differenze tra le varie forze politiche e sindacali degli anni 50 insieme al crescente boom economico del dopoguerra avevano privato il diritto del lavoro del suo ruolo centrale nella realtà politico-sociale del Paese e solo nel decennio successivo, con i governi di centrosinistra, venne posta l'attenzione sulla redistribuzione della ricchezza prodotta e sulla protezione forte dei lavoratori subordinati sottolineando anche la natura “pubblica” del diritto del lavoro.

Gli anni 70 invece, furono protagonisti di un inversione di tendenza.

La crisi petrolifera del 1973, unita ad un tasso d'inflazione annuo molto elevato, si fecero sentire sul sistema economico italiano che ben presto entrò in crisi: il garantismo rigido appena conquistato cominciò ad essere visto come insostenibile rispetto agli obbiettivi di rilancio economico necessari al Paese.

Per questo motivo nel 1977 vennero emanate una serie di leggi dette “dell'emergenza”, in quanto inizialmente previste come misure temporanee, che riguardavano la mobilità della forza lavoro26, il contratto a termine27 e l'occupazione giovanile28.

Queste leggi avevano l'obbiettivo di ridurre i costi della manodopera in chiave antinflazionistica e a limitare il drastico calo dei posti di lavoro causato dalla crisi economica.

Si scelse di allentare il modello della norma inderogabile in favore di un controllo sindacale diretto con la possibilità, in caso di crisi aziendale, di derogare anche in peius, per periodi temporanei, la disciplina prevista dalla legge.

Le garanzie ottenute per quanto riguarda il rapporto di lavoro in sé non potevano essere sostenute in un sistema economico in forte crisi, per questo i sindacati

26 Legge 12 Agosto 1977, n. 675 27 Legge 23 Maggio 1977, n. 266 28 Legge 1 Giugno 1977, n. 285

(26)

spostarono la loro attività sulle scelte economiche delle imprese, essi chiedevano di intervenire a priori per difendere non solo i diritti dei lavoratori ma anche i livelli di occupazione di questi lavoratori.

Queste rivendicazioni a livello aziendale si tradussero nei poteri di informazione e controllo, mentre a livello confederale i sindacati cominciarono ad essere coinvolti sempre più dal Governo nelle scelte economiche del Paese dando inizio a quel fenomeno definito “legislazione contrattata”.

Questo fenomeno legislativo diede vita nel 1983 al cd “ accordo Scotti”, un accordo raggiunto dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori, Confindustria ed il Governo su temi fiscali, assistenziali e di rinnovi contrattuali volti ad attenuare il tasso inflazionistico.

Il modello della contrattazione tripartita tra sindacati dei lavoratori, dell'industria e Governo si consoliderà durante gli anni 80 e, con l'intento di una maggiore flessibilità, saranno approvate una serie di riforme come quella sui lavoratori part time e i contratti di formazione e lavoro del 198429 o quella del 1987 per i lavoratori a tempo

determinato.30

In questa fase inoltre vennero previsti degli strumenti per ridurre la pressione fiscale a carico delle imprese per l'assunzione di lavoratori, mentre una serie di risorse pubbliche vennero destinate al salvataggio delle imprese o all'ampliamento dei fondi nelle aziende a partecipazione statale.

Tutti questi interventi erano volti a dare nuovo vigore ad un sistema produttivo gravato da elevati costi e che necessitava di una profonda ristrutturazione, nella pratica però questa ristrutturazione non è mai avvenuta e tutte le iniziative legislative intraprese non si sono mai discostate da una logica assistenziale più che riformatrice.

29 Legge 19 Dicembre 1984, n.863. 30 Legge 28 Febbraio 1987, n. 56.

(27)

Tutto ciò provocò un ulteriore aumento dei costi per mantenere elevati i livelli occupazionali con importanti ripercussioni sul debito pubblico, sulle imposte e sulla possibilità di riorganizzare il mondo del lavoro.

Questi problemi segneranno profondamente lo sviluppo della materia come avremo modo di vedere anche nei successivi capitoli.

(28)

CAPITOLO 2

TEORIE SULLA SUBORDINAZIONE

2.1 La nozione tecnico-giuridica di subordinazione

Il problema esposto all'inizio del precedente capitolo, ovvero la definizione precisa dei confini del lavoro subordinato, può essere considerato come nient'altro che un riflesso del fatto che non solo non c'è accordo sui confini della fattispecie lavoro subordinato, ma ci sono diverse scuole di pensiero relative al concetto di subordinazione in sé. La dottrina più classica, e anche la più seguita, nella ricostruzione del concetto di subordinazione, si affida completamente al dettato dell'art 2094 depurandolo da ogni tentativo di interpretazione in chiave sociale o economica.

Questa parte della dottrina sostiene che pur essendosi trasformata, col progressivo ridimensionamento dei poteri di controllo dell'imprenditore sui lavoratori, la subordinazione costituisce una “necessità tecnico organizzativa”31 e per quanto ai lavoratori possano venire riconosciute maggiori tutele, l'azienda deve essere gestita in modo gerarchico.

La subordinazione si configurerebbe quindi come un effetto giuridico che, ai fini di una migliore efficienza produttiva, concede al datore di lavoro il potere di dirigere la prestazione lavorativa in cambio di una retribuzione.

Ai sostenitori della natura socio-economica della subordinazione viene risposto che la descrizione della subordinazione viene fornita dalle indicazioni testuali del codice, il quale si riferisce unicamente alla prestazione di lavoro ed a questa è funzionalmente ricollegata, escludendo che tale potere direttivo possa estendersi anche nell'ambito sociale.32 Infatti pur essendo la subordinazione necessariamente personale, nel senso

31 F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Dott. Eugenio Jovene,1991 p 86 e ss

32 L. Gaeta, P. Tesauro, Il rapporto di lavoro:subordinazione e costituzione, La subordinazione, Utet, p 47 e ss

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che è il lavoratore ad essere assoggettato alle direttive del datore, tale controllo è limitato ai locali aziendali o comunque alle prestazioni eseguite, non potendosi estendersi ulteriormente.

La subordinazione costituisce quindi una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa che, anche se empiricamente spesso corrisponde ad una situazione di soggezione economica, tale soggezione non contraddistingue necessariamente la posizione del lavoratore fuori dal rapporto: infatti prestatore di lavoro subordinato può essere anche un manager di una grande società o un libero professionista che esercita le sue prestazioni in un ambito aziendale o comunque figure lavorative che godono di una disponibilità economica spesso molto maggiore di alcune figure di lavoratori autonomi.

(30)

2.2 La nozione socio-economica di subordinazione

Per quanto la tesi maggiormente affermata di subordinazione sia quella che guarda unicamente al suo aspetto giuridico direttamente ricavabile dal codice, una parte minoritaria della dottrina, continua ad integrare ed ampliare la nozione di subordinazione ritenendola insufficiente a qualificare i rapporti di lavoro dipendente. I sostenitori della nozione socio-economica di subordinazione sostengono che essa non sia un effetto prodotto dal contratto, come per i sostenitori della nozione tecnico-giuridica, bensì una condizione sociale che prescinde dall'instaurazione del rapporto e la caratterizza.33

Questa condizione di soggezione sarebbe automatica per gli individui che, non avendo la proprietà dei mezzi di produzione, si trovano costretti a vendere la propria forza lavoro a chi invece questi mezzi di produzione li possiede34.

Secondo questa impostazione la subordinazione sarebbe una condizione aprioristica rispetto alla stipulazione del contratto, infatti, chi non possiede mezzi di produzione non può fare altrimenti, per provvedere al suo sostentamento, dell'impiegare le proprie energie lavorative dietro compenso per il perseguimento di un risultato dal quale resteranno comunque esclusi.

In questa posizione di dipendenza si può leggere il vero significato della subordinazione, una situazione non più costruita attraverso un contratto bensì una situazione di necessità in cui si trovano tutti gli individui estranei all'organizzazione produttiva.

Secondo questo criterio rientrerebbero nella fattispecie lavoro subordinato una serie di

33 E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci editore 1979, p 44 34 Ibidem

(31)

ipotesi fino ad ora escluse e che con la fattispecie legale tipica poco hanno in comune. Un esempio potrebbero essere vari tipi di rapporti agrari, come ad esempio la mezzadria dove il bracciante si impegna a coltivare la terra del proprietario trattenendo in cambio la metà del raccolto.

In questo caso quei fattori che tipicamente facevano pensare ad un rapporto di lavoro subordinato, come la sottoposizione del prestatore alle direttive del datore, l'inserimento nell'organizzazione produttiva aziendale o l'osservanza di un orario di lavoro vengono a mancare, ma restando la condizione di debolezza contrattuale si potrebbe arrivare a dire che ci troviamo di fronte ugualmente ad un rapporto di lavoro subordinato.

Questo non sembra poter essere accettabile, ed infatti la critica maggiormente mossa alla teoria della subordinazione socio-economica è quella di aver allargato eccessivamente i confini della fattispecie, senza tener conto di quelle che sono le disposizioni del codice.

Questa impostazione pare essere viziata da un certo “apriorismo ideologico” in quanto considererebbe “ogni prestazione di puro lavoro caratterizzata dal connotato della subordinazione socio-economica del lavoratore, necessitato ad offrire il proprio lavoro”35.

Questa analogia tra lavoro puro e lavoro subordinato però non può essere accettata, in primo luogo perché esistono varie forme di lavoro, come quello effettuato dai liberi professionisti, dove i mezzi di produzione non sono contemplati nel rapporto ed esso può assumere sia la forma autonoma che subordinata.

Inoltre l'art 2222 cc, riguardante il contratto con cui una parte si obbliga, verso un corrispettivo, a compiere un opera o un servizio in favore di un'altra, esclude

(32)

automaticamente che si debba parlare di lavoro subordinato ogni volta che ci si trovi di fronte ad un lavoro il cui risultato finale non appartiene al prestatore di lavoro.

Nonostante la nozione socio-economica di subordinazione sia sempre rimasta minoritaria in dottrina essa può far luce su alcune posizioni di sotto-protezione reale nascoste dall'autonomia tecnico-funzionale del lavoratore.

Il diritto del lavoro nasce per garantire un riequilibrio tra posizioni forti e deboli nei rapporti economici, non per per difendere solo i soggetti dotati di quella particolare specificità che l'art 2094 definisce. Specificità che, tra l'altro, non corrisponde necessariamente ad un posizione di debolezza economica, se pensiamo ai manager di grandi aziende, ad esempio, essi, pur avendo un certo margine di autonomia decisionale figurano, ai sensi della disciplina qualificatoria, come lavoratori dipendenti nonostante spesso percepiscano lauti stipendi o importanti bonus legati ad obbiettivi produttivi, i quali non sarebbero nemmeno previsti se i manager si limitassero a seguire le indicazioni del datore alla lettera poiché non potrebbero di certo prendersene il merito.

Se, come abbiamo visto, la posizione di debolezza del contraente non condiziona sempre l'autonomia contrattuale del lavoratore, o almeno non nella stessa misura, essa non può essere eretta a criterio qualificante della fattispecie subordinazione in quanto non omogenea all'intera classe dei lavoratori.

(33)

2.3 Tendenze estensive del concetto di subordinazione

L'obbiettivo di recuperare alla disciplina protettiva quelle posizioni di lavoro che, anche se effettivamente sottoprotette, non ricadono nella fattispecie lavoro subordinato a causa della loro formale autonomia, è ciò che si pone la tendenza espansiva del concetto di subordinazione.

La ricostruzione dataci dall'art 2094 di lavoratore subordinato è imperniata sul modello tipico del tempo in cui è stato formulato, ovvero quello dell'operaio di fabbrica.

Lo sviluppo tecnologico ed economico ha però dato alla luce numerose nuove figure lavorative che si allontano da quel modello ma che mantengono ugualmente la posizione di debolezza tipica dei lavoratori dipendenti.

La speciale disciplina protettiva ha forse perso di vista quello che è il soggetto verso cui tale protezione deve ricadere: “ un soggetto che, per sbarcare il lunario, può fare affidamento soltanto sulla sua voglia o possibilità di sgobbare in favore di altri.... il lavoratore insomma che si pone all'altrui servizio in esecuzione di un contratto la cui qualificazione giuridico-formale non cambia la sostanza delle cose”36

La funzione economico sociale del diritto del lavoro è entrata in contraddizione con il criterio formale con il quale si attiva tale specialità: la nozione di contraente debole non coincide più con quella di lavoratore subordinato essendoci esempi di contraente debole anche al di fuori di essa e contraenti forti al suo interno.

La tendenza espansiva è già presente nel codice civile37. Essa si muove su un doppio binario atto da una parte ad allargare la fattispecie legale e dall'altra ad estendere anche

36 G. Ghezzi e U. Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Zanichelli seconda edizione,1987, p 28 37 M. Grandi, La subordinazione tra esperienza e sistema dei rapporti di lavoro, p83

(34)

ad altre figure le stesse tutele previste per la figura tipica.

L'art 2095 cc, ad esempio, estende la qualifica di lavoratori subordinati anche ad impiegati, quadri e dirigenti mentre l'art 409 cpc estende le garanzie proprie del lavoro subordinato ad una serie di fattispecie che non rientrano nel modello tipico previsto dall'art 2094.

L'art 3 dell'art 409 cpc estende l'area della tutela alle collaborazioni coordinate e continuative. Questi rapporti a cui viene estesa la tutela, definiti rapporti di lavoro parasubordinato, sono una tipologia di rapporti a cui vengono estesi alcuni elementi di garantismo, in ragione della loro somiglianza sia dal punto di vista della necessità di una tutela protettiva, che dalla modalità di svolgimento della prestazione( continuità, coordinazione e personalità della prestazione)

Il modello socialmente tipico ed egemone di lavoro subordinato, il classico operaio di fabbrica, non rispecchia più gli standard che i mutamenti economici hanno imposto al mercato del lavoro.

In quest'ottica la tendenza espansiva non è altro che un tentativo di allargare le tutele o almeno parte di esse anche a nuovi rapporti.

Ma per allargare le tutele bisogna necessariamente allargare i confini della fattispecie lavoro subordinato in quanto essa costituisce la “giustificazione politica del discrimine tra lavori protetti e lavori in regime di mercato”38.

38 D'Antona, La subordinazione e oltre: una teoria giuridica per il lavoro che cambia, p 44 in Pedrazzoli Lavoro subordinato e dintorni, Il Mulino

(35)

2.4 Gli indici qualificatori

Come già detto nel corso della trattazione, la qualificazione di un rapporto come subordinato attiva tutti gli effetti della disciplina garantistica prevista dalla normativa giuslavoristica. Questa tutela non viene graduata a seconda delle esigenze reali dei destinatari ma si applica in blocco una volta riconosciuta la sua appartenenza al modello legale.

Se, come abbiamo visto, una serie di queste tutele viene estesa anche ad altri rapporti (art 409 cpc), la qualificazione di un rapporto come subordinato resta fondamentale a consentire l'applicazione del sistema di tutele.

Ma come si fa a qualificare un rapporto di lavoro come subordinato? Il legislatore in questo non ci è di grande aiuto, infatti, la definizione dataci dal codice, lascia ampio margine alle varie interpretazioni che possono essere più o meno restrittive o estensive a seconda del valore che si dà alla parola dipendenza, intesa da parte della dottrina come dipendenza tecnico-funzionale da altra parte socio-economica.

L'indeterminatezza di tale assunto ha spinto dottrina e giurisprudenza a mettersi alla ricerca di indici empirici che caratterizzino il lavoro dipendente39.

Il ricorso agli indici di qualificazione ovviamente non serve quando ci troviamo di fronte alle ipotesi classiche di ciascun tipo, come ad esempio la subordinazione dell'operaio di fabbrica o l'autonomia del libero professionista che ha un suo studio privato, ma è necessaria in tutte quelle situazioni incerte che si collocano sul confine della fattispecie.

(36)

Il primo e più importante indice della subordinazione è riconosciuto con consenso unanime nel vincolo di assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore.40

La Corte di Cassazione ha infatti più volte ribadito che l'elemento essenziale per poter parlare di rapporto subordinato è proprio il vincolo di subordinazione.

Naturalmente questo vincolo si atteggerà differentemente in base al tipo di prestazione effettuata, lasciando al manager un'autonomia sicuramente più marcata rispetto alle stringenti direttive fornite all'operaio, ma ciò non preclude che tale indice sia fondamentale nonostante spesso la differenza con le istruzioni impartite al committente d'opera sia di difficile lettura.

Il primo termine per risalire al vincolo è dunque la situazione di soggezione gerarchica riconducibile al dettato dell'art 2094 “alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”, questo vincolo però, come abbiamo già detto, non è sempre facilmente riconoscibile e lascia dei dubbi sulle qualificazioni di tutti quei casi limite situati nella cosi detta “zona grigia”.

In effetti, pure nelle prestazioni d'opera il committente darà delle direttive sui lavori, ma l'art 2222 ci dice chiaramente che il lavoro viene svolto senza vincolo di subordinazione.

Risulta difficile a questo punto stabilire un rigido discrimine su quando queste direttive comportino o meno la presenza della subordinazione.

Per superare questo problema la giurisprudenza ha elaborato ulteriori indici che possano compensare un'attenuazione dell'indice principale41, questi sono continuità, inserimento e collaborazione.

Questi indici vengono chiamati indici essenziali esterni; esterni perché non fanno parte

40 A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, p8, CEDAM terza edizione

(37)

del contenuto dell'obbligazione dedotta in contratto ma essenziali perché possono compensare la mancanza o l'attenuazione dell'indice principale.

Questi parametri si caratterizzano per essere tutti reciprocamente interscambiabili, nel senso che non è necessaria la loro simultanea presenza, per non essere facilmente riconoscibili in quanto spesso questi possono mescolarsi o confluire uno nell'altro, per essere distinti dall'obbligazione principale dedotta in contratto ed infine per essere sostitutivi e non semplicemente rafforzativi del carattere principale che risulta attenuato, ovvero il vincolo di subordinazione.

La continuità può essere intesa in due sensi diversi: si può parlare di continuità materiale, che riguarda il concreto svolgimento della prestazione o di continuità giuridica, attinente al vincolo contrattuale.

La continuità materiale viene comunemente ritenuta non necessaria per il riconoscimento del vincolo di subordinazione, ma la continuità giuridica, intesa come persistenza nel tempo dell'obbligo giuridico42, entrerebbe a far parte della causa del contratto e quindi lo sarebbe.

Infatti, quando l'azienda non pretende che il dipendente segua un orario prestabilito o comunque lo lascia libero di scegliere il se e il quando delle proprie prestazioni, non si può parlare di quella continuità in senso tecnico che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato come vedremo anche più avanti analizzando i motivi della sentenza del caso Foodora.

Il criterio della continuità sembra esser un valido sostituto qualora si presenti attenuato il vincolo di subordinazione, infatti la continua messa a disposizione della prestazione di lavoro43è una modalità di esecuzione che si presta maggiormente al lavoro dipendente che non a quello autonomo, più alla locuzione di operae che non a quella

42 F.Lunardon, P. Tosi, Subordinazione, in Digesto, IV ed, disc. Priv. Sez. commerciale, vol XV,1998 p265 43 Ibidem

(38)

della singola opus.

Nonostante ciò, esistono forme di lavoro non subordinato in cui l'esecuzione della prestazione avviene in maniera continuativa: le collaborazioni coordinate e continuative ad esempio. Infatti è ancora predominante in dottrina l'orientamento che ritiene che la continuità da sola non sia sufficiente ai fini dell'accertamento della natura del rapporto ma solo che si deve escludere la presenza di lavoro subordinato quando essa viene a mancare.

Il secondo parametro esterno è l'inserimento nell'organizzazione dell'impresa.

L'inserimento del lavoratore trova un riscontro diretto nel disposto dell'art 2094: è lavoratore subordinato colui che “ si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa”. Tale impostazione è l'ennesima dimostrazione dell'intenzione del legislatore di modellare la figura del lavoratore subordinato sulla figura del lavoratore socialmente tipico, ovvero l'operaio di fabbrica.

Sul dato dell'inserimento nell'organizzazione aziendale esistono due interpretazioni, una considera tale dato come un imprescindibile elemento della fattispecie lavoro subordinato44, mentre l'altra considera superabile45 tale dato.

L'inserimento nell'azienda ha comunque ridimensionato la sua importanza sopratutto a seguito della L. 1 Dicembre del 1973 sulla tutela del lavoro a domicilio, la quale definisce “ lavoratore a domicilio chiunque,con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in un locale di cui abbia disponibilità.. lavoro retribuito per uno o più imprenditori.

La subordinazione, agli effetti della presente legge e in deroga a quanto stabilito dall'art 2094 del codice civile, ricorre quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell'imprenditore circa le modalità di esecuzione, le

44 F.Lunardon, P. Tosi, Subordinazione, in Digesto, IV ed, disc. Priv. Sez. commerciale, vol XV,1998 p264 45 ibidem

(39)

caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell'intera lavorazione di prodotti oggetto dell'attività dell'imprenditore committente 46”.

Il dettato di questa legge suggerisce che l'inserimento del dipendente nell'organizzazione aziendale rappresentava un elemento piuttosto importante, infatti quando ci dice che la subordinazione ricorre quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell'imprenditore in deroga a quanto stabilisce l'art 2094, vediamo che per inquadrare questi rapporti, anch'essi come subordinati, bisognava derogare all'articolo di riferimento del lavoro subordinato (2094).

La ratio di questa legge è quella di concedere fondamentale importanza al vincolo di subordinazione che resta l'unico vero requisito necessario per qualificare il rapporto come subordinato, mentre il requisito dell'inserimento può essere superato quando risulta soltanto un espediente per permettere al datore di formare rapporti di lavoro svincolati dalla tutela garantistica associata la lavoratore subordinato.

A seguito di questa analisi possiamo affermare che l'inserimento nella organizzazione dell'impresa resta un requisito che la giurisprudenza può utilizzare per dimostrare l'assoggettamento del dipendente alle direttive datoriali ma che nel momento in cui esso venga a mancare non si può escludere automaticamente la presenza del vincolo di subordinazione.

L'ultimo degli indici essenziali esterni è la collaborazione.

Risulta complicato definire il rilievo da attribuire al requisito della collaborazione, infatti, varie sono le ricostruzioni datene dalla dottrina.

Ci sono interpretazioni che vedono la collaborazione come un requisito residuo delle ideologie corporativistiche e quindi ne sminuiscono l'importanza, altre che ne svuotano

(40)

completamente il senso riducendolo ad una semplice descrizione del rapporto subordinato e quindi privo di valore a sé, mentre altre interpretazioni ne danno una maggiore importanza, ad esempio c'è chi sostiene che la collaborazione possa rappresentare la causa stessa del contratto intendendo con essa l'aspettativa del creditore di coordinare le prestazioni del debitore al fine di un risultato utile.

Il termine collaborazione in questo senso non rappresenterebbe quindi la semplice esecuzione delle direttive imposte dal datore in maniera meccanica, ma raffigurerebbe una partecipazione attiva del debitore ad eseguire le sue mansioni con la diligenza necessaria a raggiungere il fine perseguito dal datore.

Parte minoritaria della dottrina riconduce il termine collaborazione all'art 46 Cost. “ la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”

Questo ambiguo criterio comunque finisce spesso col confondersi con gli altri indici sopraelencati infatti da una parte “ l'inserimento del prestatore nella organizzazione aziendale è un ottimo indice presuntivo della sussistenza della collaborazione 47” e dall'altra “la collaborazione, come causa tipica del contratto di lavoro subordinato, si concretizza essenzialmente nella continuità ideale della disponibilità delle energie lavorative messe al servizio dell'imprenditore e rese in modo tale da inserire la relativa prestazione nell'organizzazione aziendale ed in questo senso la continuità si configura come un attributo essenziale della collaborazione stessa48”.

Il vincolo di subordinazione quindi è presente quando c'è l'assoggettamento del dipendente alle direttive del datore, ma questo assoggettamento di per sé non significa molto poiché, come abbiamo già visto, un minimo di direttive impartite dai committenti esistono anche nei rapporti di lavoro autonomo, quindi per essere sicuri di

47 E.Ghera, Diritto del lavoro, p.48 48 ibidem

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trovarci in presenza di un vincolo di subordinazione dovranno essere presenti quegli indici definiti essenziali esterni che solitamente si presentano tutti insieme in maniera più o meno evidente.

2.5 Gli indici sussidiari

Gli indici sussidiari sono ulteriori indici privi di valore decisivo autonomo, che la giurisprudenza ha elaborato e che vengono utilizzati come semplici elementi indiziari per la decisione del caso concreto.

La presenza di questi serve soltanto per accertare la sussistenza o meno di quelli essenziali qualora questi risultino assenti o attenuati.

Uno dei più controversi indici residuali risulta essere il nomem iuris, ovvero la qualificazione che ne danno le parti nel contratto. Infatti, sebbene ai fini della qualificazione del rapporto rilevi l'effettivo atteggiarsi del rapporto, in dottrina si sono chiesti se la volontà delle parti al momento della stipulazione dell'accordo sia da considerarsi completamente irrilevante o se mantenga un seppur residuale valore indiziario.

La giurisprudenza per lungo tempo aveva escluso che tale indice potesse avere alcun peso sul dato che il giudice doveva avere riguardo esclusivamente alle effettive modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.49

Successivamente, alcune pronunce, hanno cominciato a discostarsi da questo criterio sostenendo che nei casi in cui sono presenti elementi che richiamino sia il modello autonomo che quello subordinato non sia possibile prescindere completamente dalla volontà delle parti.

“"Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato,

(42)

non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti, giacché il principio secondo cui ai fini della destinazione in questione è necessario avere riguardo all'effettivo contenuto del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen iuris usato dalle parti, non implica che la dichiarazione di volontà di queste in ordine alla fissazione di tale contenuto o di un elemento di esso qualificante ai fini della distinzione medesima debba essere stralciata nell'interpretazione del precetto contrattuale che non debba tenersi conto del relativo reciproco affidamento delle parti stesse e della concreta disciplina giuridica del rapporto quale voluta dalle medesime nell'esercizio della loro autonomia contrattuale. Pertanto, quando le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere l'elemento della subordinazione, non è possibile specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l'uno e con l'altro tipo di rapporto- pervenire ad una diversa qualificazione se non si dimostra che in concreto il detto elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo."50 La sentenza in questione, lungi dal voler attribuire alle parti una disponibilità del tipo legale51, dà una legittimazione alla utilizzazione del nomen iuris come criterio residuale quando l'ambiguità del caso concreto sia tale da non riuscire ad arrivare con certezza ad una qualificazione empirica. La tendenza fino agli inizi degli anni 80 in questi casi era di considerare come subordinati quei rapporti che possedevano qualità sia dell'uno che dell'altro tipo di rapporto anche in contrasto con la volontà delle parti rappresentata nel contratto.

Un altro criterio utilizzato dalla giurisprudenza è quello dell'oggetto della prestazione spesso considerato unitariamente a quello della ripartizione del rischio.

Il primo richiamerebbe la vecchia distinzione tra locatio operis e locatio operarum e

50 Cassazione civile, sez. lav., 13 Marzo 1990 n.2024

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