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Formazione e Competenze Professionali: una ricerca empirica sui Cassaintegrati in deroga della regione Emilia Romagna

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Academic year: 2021

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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

DOTTORATO DI RICERCA IN Sociologia

Ciclo XXI

Settore concorsuale di afferenza 14/D1

Settore scientifico disciplinare di afferenza SPS/09

FORMAZIONE E COMPETENZE PROFESSIONALI: UNA RICERCA EMPIRICA SUI CASSAINTEGRATI IN DEROGA

DELLA REGIONE EMILIA ROMAGNA

Presentata da: Chiara Ricciardelli

Coordinatore Dottorato Relatore

Prof. Ivo Colozzi Dott. Federico Chicchi

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Indice

Introduzione……….………. 2

PARTE PRIMA: IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO 1. Le trasformazioni del sistema economico-sociale...8

2. La società dei lavori, la società dei saperi...34

3. La formazione come problema, il problema della formazione.………...……….58

4. Il contesto della nostra indagine e le politiche della formazione in Emilia Romagna ………..……….102

PARTE SECONDA: LA RICERCA 1. La metodologia e gli strumenti dell’indagine. Il ruolo del questionario ………...………..135

2. L’universo dei soggetti, la nostra popolazione di riferimento, il questionario utilizzato e le ipotesi ...180

3. Analisi dei dati e risultanze analitiche...206

4. Considerazioni conclusive...264

Bibliografia...277

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PARTE PRIMA:

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Introduzione

Il tema generale della presente indagine concerne il ruolo della formazione e dell’aggiornamento continuo delle conoscenze e competenze professionali, in relazione al concetto di occupabilità e vulnerabilità sociale. L’attività di ricerca empirica ha interessato tutto l’anno solare 2010, precisamente dal 13 febbraio 2010 al 31 dicembre 2010: i dati si riferiscono ad un contesto ben preciso ovvero a quello dei corsi finanziati da parte della regione Emilia Romagna e rivolti ai lavoratori in cassintegrazione in deroga domiciliati nella regione stessa. L’attività di indagine è stata eseguita all’interno di un ente di formazione professionale accreditato presso la Regione Emilia Romagna per l’erogazione di corsi di formazione a finanziamento pubblico. I dati quantitativi raccolti sono circoscritti al territorio regionale e distribuiti in tutte le province della regione Emilia Romagna;

Nei prossimi capitoli verrà affrontato il tema del ruolo della formazione continua lungo tutto l’arco di vita e l’importanza dell’aggiornamento delle conoscenze e delle competenze professionali, quali strumenti privilegiati per far fronte all’instabilità del mercato del lavoro e quale strategia per ridurre il rischio di disoccupazione. Sulla base delle diverse strategie che il lavoratore mette in atto durante la propria carriera professionale, possiamo introdurre due concetti sempre più diffusi nella cosiddetta società della conoscenza, ovvero il concetto di vulnerabilità sociale e di occupabilità.

Nella prima parte della tesi, vengono approfonditi dal punto di vista teorico-sociologico i concetti di capitale sociale, società della conoscenza, formazione, competenza, occupabilità. Che trovano un posto di rilievo per quel che riguarda l’analisi delle trasformazioni del sistema economico-sociale e dei cambiamenti nel mercato del lavoro. In

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particolare nel primo capitolo si ripercorrono le varie fasi che hanno visto la trasformazione del mercato del lavoro: dalla società fordista a quella post-fordista, dalla metafora del cristallo a quella del fumo di Atlan, come sottolinea Revelli. Ecco che iniziamo ad introdurre i concetti di flessibilità, incertezza, capacità di non pianificare pur essendo efficace nel risultato che si spostano dall’ambito economico-produttivo a quello sociale – lavorativo. La fase post-fordista ha aperto la strada al concetto di vulnerabilità sociale, attraverso l’utilizzo della forza lavoro in modo flessibile e coerente coi cicli produttivi e con le esigenze aziendali: è il momento in cui le relazioni sociali e l’aspetto relazionale “entra in fabbrica” e il lavoro diviene più stressante (viene richiesto un coinvolgimento maggiore) perché responsabilizzato. Il secondo capitolo è incentrato sul concetto di capitalismo cognitivo ovvero sulla produzione di valore a mezzo di conoscenza (Rullani,2004). Nelle organizzazioni moderne diventa rilevante la conoscenza di cui sono portatori i lavoratori e le relazioni che si instaurano fra le persone e che permettono di veicolare e diffondere esponenzialmente tale conoscenza e le competenze possedute. La conoscenza diviene così la prima forza produttiva, definita da Davenport e Prusak (1998) come: “combinazione fluida di esperienza, valori, informazioni contestuali e competenza specialistica che ci fornisce un quadro di riferimento per la valutazione e assimilazione di nuova esperienza e di nuove informazioni”. L’apprendimento nel lavoro è un sottoprodotto stabile esplicito e consapevole, fruibile per tutti anche e soprattutto al di fuori di un intervento formativo. Si passa poi ad affrontare il tema specifico della formazione, nell’ambito dell’attuale mercato del lavoro sempre più destrutturato. Resta salva la constatazione che all’aumentare dei titoli di studio corrisponde comunque un minor rischio di precarizzazione e disoccupazione, possiamo intendere

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l’occupazione come opportunità, in caso di un titolo di studio congruente, e tuttavia non è di per sé una garanzia. La formazione e prima ancora l’istruzione ha a che fare con il processo di costruzione dell’identità delle persone che divengono dei lavoratori in un secondo tempo. Attraverso la capacità creativa e l’adattabilità, il soggetto può aspirare a far fronte ai contesti in continua trasformazione. Occorre cioè essere in grado di saper apprendere ad apprendere per ridefinire costantemente le proprie conoscenze e favorire il personale inserimento e reinserimento all’interno dei mutevoli contesti lavorativi.

Nel quarto ed ultimo capitolo si passa ad un livello più politico e tecnico, utilizzando i concetti teorici più sopra esplicitati per dare conto delle azioni e delle politiche prima europee e poi governative, messe in campo nell’ambito dell’indagine analizzata dalla candidata: la crisi economica nell’anno 2010 e le politiche messe in atto a livello nazionale e regionale per far fronte a tale crisi. Si vedrà così come sulla base delle riflessioni sociologiche e del dibattito teorico di riferimento, vengano a cascata, progettate e realizzate le azioni concrete che ricadono in ultimo sui cittadini/lavoratori. Nel capitolo conclusivo di questa parte della tesi si tesse il filo rosso che lega gli aspetti teorici al livello di recepimento politico e tecnico e ad indirizzi politici che ricadono su azioni progettuali concrete, nella realtà di vita e lavorativa delle persone coinvolte. Da un livello di inquadramento generale si passa a valutare un’applicazione concreta di quello che possiamo definire politica governativa e che partendo dalle raccomandazioni europee, proseguendo per le normative di recepimento nazionali, si connota a livello regionale attraverso un accordo tra regioni, province autonome e inps che delinea in concreto le azioni da attivare per far fronte allo stato di crisi economico-sociale.

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In particolare la nostra regione ha recepito tale politica e indirizzo attraverso tre delibere di giunta con le quali ha definito le azioni concrete da attuare da parte di tutti i soggetti coinvolti: aziende in crisi, lavoratori, enti di formazione, centri per l’impiego, inps.

Nell’anno 2010 la crisi economica ha investito piccole e grandi imprese della nostra regione e ha coinvolto più di 69.000 lavoratori che hanno percepito l’indennità di cassa integrazione in deroga. All’interno di questo panorama la presente analisi ha coinvolto 5368 lavoratori in cassintegrazione in deroga distribuiti su tutto il territorio regionale e che si sono rivolti, per svolgere il percorso formativo previsto per legge, ad un ente di formazione specifico.

Nella seconda parte dell’analisi, dedicata alla ricerca sul campo, abbiamo analizzato il ruolo della formazione professionale, all’interno di un contesto lavorativo destabilizzato, quale quello della cassa integrazione in deroga. L’oggetto di analisi è il lavoratore “cassa integrato in deroga” della regione Emilia Romagna. Il lavoratore “cassa integrato in deroga” è un lavoratore che fa parte del personale attivo di un’azienda la quale ha fatto domanda alla regione Emilia Romagna di attivazione della pratica di cassa integrazione in deroga. Previo parere positivo, si avvia un iter fatto di passaggi anche e non solo formali, che prevedono per il lavoratore cassa integrato in deroga l’onere di recarsi presso il centro per l’impiego della propria provincia e dichiararsi disponibile a frequentare un corso di formazione (contributo di politica attiva prevista dalla normativa nazionale) interamente finanziato dalla regione e propedeutico alla possibilità di percepire un’indennità di cassa integrazione in deroga erogata dall’inps (contributo di politica passiva prevista dalla normativa nazionale).

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Gli obiettivi che ci siamo posti sono stati quelli di approfondire il profilo (vale a dire le variabili socio-anagrafiche) del soggetto “cassa integrato in deroga” nonché la propensione alla formazione, anche rispetto alla qualifica professionale posseduta.

Come è noto i cassa integrati in deroga livello regionale (dati osservatorio del mercato del lavoro regionale) nel 2010 risultano essere stati in totale 69.144.

69144 lavoratori cassintegrati in deroga si sono recati quindi – sulla base di quanto previsto da precise normative regionali - presso il centro per l’impiego provinciale della propria provincia (d’ora in avanti CPI). I diversi CPI hanno quindi inviato, sulla base di molteplici criteri, i vari lavoratori, a vari enti di formazione accreditati dalla Regione stessa (tale elenco di enti di formazione è pubblicamente indicato ancora oggi sul sito regionale). Tali enti di formazione erano incaricati di progettare ed erogare il percorso formativo scelto da parte del lavoratore cassintegrato in deroga.

L’ente di formazione coinvolto nella nostra indagine è presente su tutto il territorio regionale presso ogni provincia, con anche più di una sede. Tale presenza capillare sul territorio ha permesso a tale ente di intercettare un numero elevato di lavoratori provenienti da tutti i centri provinciali per l’impiego. A tutti i soggetti assegnati a detto ente (5368 lavoratori dislocati nelle diverse province emiliano romagnole) è stato somministrato il questionario le cui risposte sono state analizzate in termini aggregati. L’universo significativo di riferimento della nostra indagine è dunque rappresentato dal totale dei lavoratori che si sono recati presso questo ente di formazione (5368). Noi abbiamo somministrato il nostro questionario a tutto l’universo che è stato dunque interamente analizzato. Tale universo può essere considerato significativo

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rispetto al numero di lavoratori cassa integrati in deroga di tutta la regione Emilia Romagna e rispetto alla distribuzione spaziale regionale.

Sul totale dei dati raccolti (5368 colloqui effettuati dal 13/2/2010 al 31/12/2010 con relative schede colloquio compilate), abbiamo analizzato le domande aperte che erano presenti nel questionario. Sul totale dei lavoratori intervistati, solo 1.658 lavoratori in CIG in deroga hanno risposto a tali domande.

Le risposte indicano innanzitutto come la variabile “CIG a zero ore e in mobilità” e “in CIG non a zero ore” sia determinante per poter garantire l’effettiva presenza in aula. Nell’analisi è stata fatta la suddetta distinzione in quanto la disponibilità di tempo dovuta al ‘non lavoro’ è risultata determinante nell’atteggiamento del soggetto alla propensione alla formazione e nella effettiva frequenza di un corso di formazione.

Anticipiamo fin da ora che possiamo inoltre ritenere soggetti più ‘deboli’ rispetto all’occupabilità, i lavoratori poco professionalizzati ma soprattutto i soggetti poco aggiornati nel senso odierno che si vuole dare a detto termine (come maggiore potenziale di occupabilità); infatti risultano più colpiti coloro che non hanno frequentato alcun corso di formazione.

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1.

Le trasformazioni del sistema economico-sociale

1. Economia di mercato, forme economiche alternative e legame sociale: una premessa

Il noto sociologo Peter Ducker, per spiegare il cambiamento delle grandi aziende, fece ricorso ad una metafora che molto bene lo rappresenta: in passato, infatti, la grande azienda poteva paragonarsi ad una imponente piramide caratterizzata da un lato, da una gerarchia interna che la vedeva strutturata verticalmente, con un vertice verso cui convergevano potere economico, autorità e responsabilità e, dall'altro lato, da una base di uomini attraverso i quali la stessa azienda era legata saldamente al territorio circostante e ai suoi residenti. Dunque, all'interno dell'impresa, occupavano un ruolo preponderante coloro che in essa avevano investito le loro risorse economiche, ma anche tutti quanti erano interessati alla sua continuazione e al suo sviluppo, a partire dal singolo dipendente, per continuare con le organizzazioni del personale, le banche consuete, le istituzioni locali per arrivare, infine, ai clienti; in sostanza, nell'impresa ricoprivano una posizione di primo piano, oltre agli investitori, anche quelli che dalla stessa azienda non traevano un diretto beneficio economico (stakeholders). Nell'epoca attuale, al contrario, si può equiparare l'impresa ad una tenda leggera piantata nel deserto e passibile di essere spostata a piacimento e in tempi assai veloci, senza preoccuparsi dell'eventuale danno che tale cambiamento potrebbe procurare a coloro che vivono nel territorio continguo che sono appunto gli stakeholders. Non bisogna, tuttavia, incorrere nell'errore di pensare che le differenze tra l'impresa di ieri e quella di oggi si esauriscano nella diversa

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configurazione strutturale. In Italia, in particolare, dove l'economia è caratterizzata perlopiù da imprese medio-piccole, sono importantissimi i così detti 'fattori immateriali', costituiti da quell'insieme di relazioni interpersonali e tra unità produttive, che vanno a creare una fondamentale rete di rapporti, imprescindibili anche dal punto di vista economico. Tali reti favoriscono, infatti, un significativo scambio di conoscenze, innovazione e sviluppo e, soprattutto, un ambiente permeato da una fiducia diffusa nel mercato. Queste sono le componenti che, mischiandosi, danno vita ad un mix generalmente indicato oggi come 'capitale sociale' su cui torneremo più oltre e che è alla base, tra l'altro, della fioritura dei così detti 'distretti industriali italiani'1

In tale contesto, e non approfondendo, al momento, il clima di sfiducia e di pessimismo che oggi si registra nell'economia di mercato, occorre avere ben presente, evitando di trarre conclusioni affrettate, che la storia dell'economia capitalista che si fonda su 'regole' e 'fiducia', ci ricorda che oltre ai numerosi errori in cui è incorsa, ha sempre dimostrato di sapersi correggere superando le patologie ed evitando che queste divenissero fisiologiche. La società a capitalismo maturo, oscillando tra la centralità attribuita allo Stato e quella riconosciuta al mercato sono state, in altri termini, capaci di produrre di volta in volta soluzioni efficaci che hanno assunto la forma di norme e comportamenti più corretti e adeguati ai mutati periodi storici.

Va inoltre osservato che la globalizzazione non ha prodotto, come erroneamente si sarebbe portati a pensare, l'omologazione delle economie,

1) 1 Becattini G. (2000), Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un'idea, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 35 ss; Maria Golinelli, Michele La Rosa e Giuseppe Scidà (a cura di), (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p.17.

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quanto piuttosto l'esasperazione delle differenze. Da una parte, infatti, l'economia fa pressioni in direzione dell'unificazione materiale, dall'altro lato forze immateriali come ad esempio le consolidate tradizioni locali, agiscono da contraltare, essendo improntate alla irriducibilità culturale del pianeta. Perciò la globalizzazione nelle sue varie dimensioni (economica, politica, sociale, culturale) si mostra come un processo non lineare né omogeneo e presenta tratti di rottura se non addirittura di conflitto2.

Molto opportunamente al riguardo Michele Salvati ha osservato: “La realtà è che il capitalismo ipercompetitivo di questi ultimi due decenni oppone l'uno all'altro due esigenze sociali che andrebbero contemperate: l'esigenza dell'individuo come consumatore e azionista, e la sua esigenza come cittadino che ha a cuore la sicurezza del lavoro e una maggiore eguaglianza3.”

Sulla base di quanto affermato possiamo osservare che, ai termini tradizionali della disciplina economica ovvero: economia di mercato, capitale, finanza, banca, credito, impresa, commercio, se ne sono aggiunti altri come capitale sociale, responsabilità sociale d'impresa, economia di comunione, commercio equo e solidale. Questi 'nuovi' termini, nella loro pressoché totalità, stanno ad indicare forme di economia alternativa rispetto alle forme economiche tradizionalmente riconosciute e sono orientate da valori etici e di giustizia sociale, nonostante non si perda mai di vista, nel praticarle, un sano equilibrio economico. Sono questi ultimi dei modelli operativi che vanno oltre al canonico intendimento dell'agire

2) 2 Maria Golinelli, Michele La Rosa e Giuseppe Scidà (a cura di), (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p.18.

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economico inteso quale atto meccanico. Al contrario, queste innovative pratiche economiche rappresentano il frutto di scelte improntate a ' civilizzare' l'economia, che vogliono porre l'accento sulla centralità delle relazioni sociali che devono coesistere con il modello economico dominante, dove la dimensione relazionale che occupava un ruolo importante, è marginale.

Scrive Ivo Colozzi che lo scopo è quello di “dimostrare nei fatti che non solo non esiste incompatibilità fra etica ed agire economico razionale, ma che l'agire economico ispirato ad un'etica della solidarietà e del rafforzamento dei legami sociali riesce a creare maggiori esternalità positive di quanto non sappia fare la concorrenza darwiniana.4

La nozione di capitale sociale invece che verrà trattata di seguito, riferendosi alla risorsa immateriale dei legami sociali, non rinvia ad una pratica economica alternativa, ma è volta a rivalutare e ridare centralità ad una precisa concezione dell'agire economico e sociale; e sarà proprio in tale prospettiva che sarà in questa sede ripresa e approfondita.

2. La società salariale del xx secolo

La partecipazione di massa al lavoro industriale, che ha caratterizzato il secolo scorso, ha rappresentato il cardine di quella che Michel Aglietta, tra gli altri, ha definito società salariale.

Il concetto di società salariale introdotto, tra gli altri, in letteratura, da Aglietta e Bender5 interpreta la natura del rapporto tra economia e

4) 4 Donati P., Colozzi I., (a cura di) (2005), Capitale sociale e analisi dei reticoli, FrancoAngeli, Milano, p. 426.

5) 5 Aglietta M., Bender A., (1984), Les métamorphoses de la question salariale, Calmann-Lévy, Paris.

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società nell'ambito del regime di accumulazione fordista, in una fase in cui la fabbrica vive la sua epoca di egemonia produttiva e sociale.

Il termine 'salariale' descrive, innanzitutto, il rapporto di lavoro che si fondava (ma si fonda ancora) sullo scambio tra forza lavoro e salario, cioè sull'alienazione da parte del lavoratore della possibilità di disporre della propria capacità lavorativa.

Ma sarebbe riduttivo limitarsi a leggere in questi termini la società salariale. Robert Castel6 ha ne ha ampliato la portata interpretativa, mostrando come essa comprenda anche quella configurazione sociale che ha reso possibile l'accumulazione e la diffusione di nuove ricchezze, aperto nuove possibilità di emancipazione e, soprattutto, consentito lo sviluppo di quel complesso di diritti, garanzie e tutele sociali riconducibili alla nozione di proprietà sociale, prima di allora nemmeno immaginabili. In sostanza, il concetto di società salariale si riferisce all'articolazione di equilibri e mediazioni sociali che ha reso possibile lo sviluppo e la riproduzione del regime di accumulazione fordista e dell'organizzazione industriale della produzione ad esso riconducibile. Ed è dunque ricollegabile all'incorporazione del rapporto salariale e del modello industriale fordista, nell'ambito di uno specifico complesso sociale che ha coinvolto l'America e l'Europa a partire dall'inizio del ventesimo secolo.

La società salariale ha così posto le condizioni anche per il successivo sviluppo del sistema capitalistico. Comprenderne le peculiarità è dunque necessario per cogliere gli elementi che hanno caratterizzato la

6 Castel R. (1995), Les Métamorphose de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris.

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transizione alla società post-industriale e il mutamento della natura del rapporto salariale.7

A questo proposito è utile l'analisi delle cinque particolari componenti della succitata conformazione sociale, suggerite da Robert Castel:

a) la formazione di una netta dicotomia tra chi ha un'occupazione regolare e chi si trova in una condizione di esclusione dal mercato del lavoro;

b) l'affermazione dell'occupazione fissa come ambito di sviluppo della carriera lavorativa e una gestione razionale dei modi e dei tempi d'esecuzione delle mansioni;

c) l'assunzione del ruolo di consumatori da parte dei salariati che consente di sostenere la produzione di massa;

d) l'accesso ai servizi pubblici e alla proprietà sociale da parte della popolazione attivazione;

e) l'acquisizione di uno status collettivo e sociale del lavoratore salariato attraverso il diritto del lavoro.

In conclusione, possiamo affermare che la società salariale rappresenta da un lato il risultato del conflittuale compromesso tra i differenti attori della società capitalistica, dall'altro essa stessa costituisce lo spazio nel quale è stato legittimato uno specifico metodo produttivo, che ha ridisegnato le pratiche del lavoro in fabbrica, ovvero il modo di produzione fordista.

7 Castel R. (1995), Les Métamorphose de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris, pp. 525-547; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 21.

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3. La crisi del regime fordista

Abbiamo fin qui delineato gli elementi che hanno garantito la sopravvivenza e lo sviluppo del fordismo. Occorre però allo stesso tempo mettere in luce le criticità di tale sistema, ovvero ciò che ha contribuito a determinare la crisi dello stesso e, in particolare, della sua logica di crescita economica illimitata, a partire dalla metà degli anni Settanta. I principali fattori di crisi sono stati indubbiamente la progressiva saturazione del mercato dei beni di consumo di massa con le sue ripercussioni in termini di stagnazione della produzione; l'emergere di problematiche ambientali derivanti dallo sfruttamento intensivo delle materie prime necessarie alla produzione industriale; lo sviluppo di una forte critica sociale verso le modalità di sfruttamento della forza lavoro.

Da una siffatta crisi finisce per emergere un nuovo modello, definito post-fordista, che cerca di ridefinire le logiche della produzione introducendo forti dosi di flessibilità per poter reggere la competizione economica su scala globale. Così, ad un apparato produttivo capace di produrre nel lungo periodo grandi volumi di beni di consumo standardizzati, la fabbrica post-fordista sostituisce un modello di produzione in grado di far fronte alla crescente instabilità della domanda e reagire tempestivamente all'instabilità delle condizioni del mercato. Parallelamente, inizia un processo di terziarizzazione e di compenetrazione tra produzione industriale e produzione di servizi8.

L'impresa post-fordista deve dunque cambiare la propria conformazione organizzativa per far fronte a queste nuove sfide. Il

6) 8 Borghi V. (a cura di) (2002), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, Angeli, Milano; Veltz P., (2002), Le nouveau monde industriel, Gallimard, Paris, pp. 113 ss; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 34.

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reticolo globale flessibile di imprese sostituisce la pesantezza della struttura gerarchico piramidale, integrata verticalmente, dell'impresa fordista. L'impresa post-fordista deve, in sintesi: snellirsi, accorciarsi e sincronizzarsi con le esigenze del mercato9.

Revelli descrive queste trasformazioni facendo riferimento alla metafora del cristallo e del fumo di Atlan: il primo rappresenta il fordismo in cui tutto sembra perfettamente ordinato e organizzato, il secondo si riferisce al post-fordismo, mutevole e sfuggente.

L'impresa post-fordista deve essere dunque in grado di operare in un contesto di costante incertezza, cercando di volta in volta di cogliere le opportunità che le si offrono, di ridefinire la propria strategia in base ai mutamenti delle condizioni di mercato, di adattarsi insomma in maniera costantemente innovativa all'ambiente.

La cultura del post-fordismo diventa rappresentativa di quella del rischio, che valorizza e legittima i comportamenti di chi non pianifica in maniera rigida la propria strategia, ma è in grado di 'navigare a vista', aggredendo ogni volta il mercato.

Questa norma di comportamento travalica i confini del mondo della produzione e diventa uno dei criteri di legittimazione dei comportamenti sociali. In conseguenza di ciò, anche l'occupazione comincia a divenire più flessibile, distanziandosi progressivamente dal tipico rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, che era il modello standard durante il periodo di massima espansione del fordismo.

4. I sentimenti messi al lavoro

9 Revelli M. (1995), Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Ingrao P., Rossanda R., Appuntamenti di fine secolo, manifestolibri, Roma, pp. 161 ss; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 35.

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Le capacità relazionali, che il fordismo aveva fatto in modo di espellere dai processi di produzione, arrivano ad assumere un valore di primaria importanza, invece, nella produzione dell'epoca post-fordista.

Per usare le parole del sociologo Aldo Bonomi, possiamo dire che il lavoro post-fordista è quello dei 'sentimenti messi al lavoro'10, definizione quest'ultima che pone l'accento sulle caratteristiche richieste alla forza lavoro sempre più sociali e relazionali, le quali contribuiscono a renderla maggiormente spendibile sul mercato del lavoro. Di conseguenza, assumono sempre più rilievo tutti quegli aspetti così detti 'immateriali' della produzione, ovvero i processi simbolici e comunicativi ad essa connessa. Il marketing, in definitiva, assume sempre più importanza nell'impresa post-fordista, poiché mira alla “selezione di porzioni di cultura popolare per trasformarle in prodotti che stimolino una reazione emotiva nei consumatori appartenenti ad una particolare categoria culturale.11

Lo sviluppo della componente simbolica è indubbio che eserciti importanti conseguenze sia sulle capacità richieste dall'impresa alla forza lavoro, sia rispetto alla riorganizzazione delle relazioni sociali di produzione. La riorganizzazione dell'impresa va letta quindi in termini di flessibilità sia nella ristrutturazione del capitale fisso con tecnologie flessibili e comunicative, sia nella richiesta di una manodopera che risponda all'esigenza di flessibilità dell'impresa e che possa essere organizzata seguendo logiche funzionali nuove rispetto a quelle tradizionali.

10 Bonomi A. (1996), Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringheri, Torino, p.31. 11 Rifkin J. (2000), L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, p. 231; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 51.

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Il mercato odierno, sempre più incerto, richiede alle imprese snellezza nell'organizzazione e flessibilità nella manodopera.

Le imprese, dunque, usufruiscono di forza lavoro la cui occupabilità risulta estremamente variabile a seconda delle fasi economiche, e dispongono inoltre della possibilità di rendere differenziato il costo del lavoro di ogni singolo occupato sulla base della sua funzione nella partecipazione all'attività produttiva.

La trasformazione dell'organizzazione del lavoro in senso post-fordista ha causato forti conseguenze anche sul piano sociale attraverso la diffusione della condizione di vulnerabilità sociale.

Cercheremo di analizzare il disagio sociale causato dalla ristrutturazione del sistema capitalistico attraverso il concetto durkeimiano di anomia.

Secondo quanto affermano Boltanski e Chiappello12 possiamo interpretare l'anomia come l'erosione del rapporto che gli individui instaurano con il loro ambiente sociale, verificandosi così il progressivo distacco dagli aspetti individuali della propria vita da quelli sociali.

La vulnerabilità, nella sua accezione sopra descritta, può essere letta nelle sue variabili, una oggettiva e l'altra soggettiva.

La vulnerabilità oggettiva è strettamente collegata alla flessibilità delle condizioni occupazionali della forza lavoro, situazione lavorativa strumentale allo sviluppo del modello di (de) regolazione post-fordista.

Nella sua variabile soggettiva spiega la difficoltà del singolo individuo di gestire la precarietà esistenziale, intesa come incertezza

12 Boltansky L., Chiappello E. (1999), Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris, p. 504; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, pp.51-53.

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economica dalla quale ne deriva l'incapacità di possedere una progettualità negli ambiti costituenti la vita del singolo13.

5. La fabbrica quale punto di vista privilegiato d'osservazione

Seguendo l'approccio utilizzato fino ad ora, la fabbrica diventa il campo di osservazione privilegiato per comprendere da un lato la crisi del lavoro industriale fordista e, dall'altro, le principali specificità del nuovo regime di accumulazione e della corrispondente organizzazione del lavoro. A questo proposito, occorre tenere presente che il post-fordismo non va inteso come il periodo in cui la fabbrica perde completamente il suo ruolo sociale e produttivo, ma occorre piuttosto metterne in luce le trasformazioni. La fabbrica, infatti, nonostante si presenti più leggera e abbia perduto in parte la sua egemonia sociale, continua ad essere il luogo in cui tantissime persone si procurano le risorse per la sopravvivenza. Quello che cambia è principalmente il modo di stare in fabbrica. Durante il fordismo, infatti, la classe operaia attraverso la sua azione organizzata, è riuscita ad imporre al capitale un terreno di mediazione sociale. Ciò è stato possibile anche grazie alla logica della catena di montaggio che, se da un lato ha perfezionato il controllo tecnico sulla forza lavoro impiegata in fabbrica, dall'altro ha rafforzato la solidarietà operaia, consentendo ai lavoratori di percepirsi come parte di una comunità politica e dunque come soggetto collettivo.

Nel post-fordismo si assiste, invece, ad una destrutturazione di questa capacità di azione collettiva, resa evidente dalla progressiva erosione degli istituti di organizzazione e rappresentanza degli interessi come ad esempio il sindacato. La popolazione operaia che attraversa le

13 Ranci C. (2002), Fenomenologia della vulnerabilità sociale, in Rassegna Italiana di Sociologia, n°4, p. 538; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 60.

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fabbriche post-fordiste è fatta di individui che faticano a riconoscersi come parti di uno stesso corpo collettivo e ad esercitare un'opposizione di classe alle logiche di produzione e accumulazione capitalistiche.

In altre parole, come sostiene Federico Chicchi, il post-fordismo impone la sua egemonia produttiva e sociale attraverso un processo di progressiva erosione del capitale simbolico della classe lavoratrice14.

L'esercizio di questa egemonia passa anche attraverso la disponibilità all'interiorizzazione degli obiettivi dell'impresa da parte della manodopera che dunque perde la capacità di contrapporre i propri interessi in maniera conflittuale. La forza lavoro, insomma, diviene parte integrante dell'impresa ed esercitare il proprio ruolo in maniera flessibile, svolgendo diverse mansioni sulla base delle esigenze della produzione e l'impresa si pone a sua volta come obiettivo preponderante quello di trovare sul mercato un tipo di siffatta manodopera.

La fase di selezione del personale assume dunque una certa importanza nella costruzione della fabbrica post-fordista come comunità simbolica del capitale. Si tende a privilegiare l'assunzione di lavoratori coinvolti, dal punto di vista emotivo, rispetto agli obiettivi e l'oggetto del proprio lavoro. Si assumono così degli operai spogliati della loro identità di classe ai quali viene fornita in sostituzione del previo sentimento di appartenenza ad un gruppo omogeneo e contrapposto a quello dirigenziale, una così detta corporate identity.

Le premesse per la realizzazione della fabbrica organica sono, dunque, l'attivazione della flessibilità produttiva15 e il contemporaneo indebolimento dell'identità operaia all'interno dell'impresa. Bisogna

14 Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 59

15 Regini M., Sabel C., (a cura di) (1989), Strategie di riaggiustamento industriale, Bologna, Il Mulino, pp. 11ss; Chicchi F. (2003), Lavoro e capitale simbolico, FrancoAngeli, Milano, p. 83.

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sottolineare, a tale riguardo, che l’indebolimento dell’identità di classe passa attraverso l’introduzione di forme di segmentazione produttiva e sociale all'interno della fabbrica. Il primo asse o, come dir si voglia, processo di segmentazione riguarda la terziarizzazione e l’esternalizzazione di alcune importanti fasi della produzione e questo contribuisce a differenziare le condizioni degli operai 'interni' da quelle degli 'esternalizzati'. Un seconda linea di segmentazione riguarda la differenziazione contrattuale e occupazionale all’interno dello stesso luogo di lavoro. Così, più il contratto è precario, maggiormente risulta inferiore la disponibilità a mettere in campo azioni conflittuali e maggiore, soprattutto, è la disponibilità ad eseguire i compiti assegnati dall’impresa nella speranza, per esempio, di essere assunti a tempo indeterminato. Altro asse di segmentazione è quello generazionale, che fa in modo che gli operai più giovani facciano fatica a riconoscersi nei valori e nella tradizione rivendicativa e conflittuale di chi è in fabbrica da più tempo.

Un quarto e più recente asse di segmentazione, infine, è quello etnico che fa riferimento al sempre più forte ingresso di forza lavoro straniera nel mercato.

Tutte queste dinamiche che abbiamo appena elencato, contribuiscono a determinare la natura delle relazioni sociali all’interno della fabbrica. Forme di solidarietà e socialità non si sviluppano prioritariamente sulla base della percezione di appartenere ad un’unica comunità sociale e politica e quindi sulla base della necessità di agire collettivamente per promuovere i propri interessi di classe. Il riconoscimento reciproco e i rapporti personali che si sviluppano sono, al contrario, sempre più segnati dalla partecipazione ad attività comuni durante il tempo libero o dall’affinità caratteriale.

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Inoltre, il mutamento dell’organizzazione del lavoro operaio rispetto alla rigidità della parcellizzazione taylorista, richiede alla manodopera di esprimere forme di auto-attivazione della produzione e di assumere un ruolo dinamico nell’esecuzione delle proprie mansioni, anziché una loro esecuzione passiva e meccanica come accadeva in epoca fordista. Ciò contribuisce ad interiorizzare una certa responsabilità nei confronti del proprio ruolo produttivo e uno dei primi effetti di questo maggior coinvolgimento è che il lavoro diviene più stressante16, in quanto, appunto, responsabilizzato.

6. La nozione di capitale sociale e i legami da cui deriva

Nel contesto di trasformazione economica e sociale, descritta nei paragrafi precedenti, assume grande rilevanza il concetto di capitale sociale. L'utilizzo di questo concetto è particolarmente legato ai lavori di due sociologi: Pierre Bourdieu e James Coleman.

Il primo dei due autori si servì della nozione di capitale sociale agli inizi degli anni Ottanta per evidenziare le opportunità che derivano dall'appartenenza a specifiche comunità; il secondo, a sua volta, non descrisse in maniera approfondita il concetto in questione, ma si limitò a definirlo come una risorsa individuale, che nasce dai legami sociali che i singoli sono in grado di instaurare.

Il capitale sociale, in questa accezione, consiste in un patrimonio individuale che può assumere forma di relazioni parentali oppure relazioni provenienti da una specifica appartenenza etnica, religiosa, di

16 Bourdieu P. (1998), Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, p. 212; Linhart D., Linhart R., L'évolution de l'organisation du travail, in Kergoat J. (e altri)., Le monde du Travail, La Découverte, Paris, 1998, pp. 301-309.

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ceto sociale, oppure, infine, relazioni che si sono andate maturando nel tempo grazie a relazioni amicali e conoscenze personali.

Il capitale sociale, dunque, stando alle definizioni sopra illustrate, può essere utilizzato da tutti coloro che costituiscono la rete relazionale, pur non in modo egualitario17.

In altre parole, il capitale sociale ha natura di bene collettivo, e in virtù di questa sua natura può avere vita fragile, perché si pensa che i singoli attori siano poco inclini ad investire volontariamente tempo ed emozioni in una risorsa la cui potenziale utilità non è divisibile e ancor meno passibile di appropriazione individuale.

Tuttavia, oggi, il capitale sociale può intendersi come una forma di capitale, affiancabile a quello fisico (beni materiali) e a quello umano (proprio di ciascun individuo che lo ha incorporato), potenzialmente in grado di produrre valore materiale e simbolico. Molti sociologi si sono, anche recentemente, dedicati ad approfondire il concetto18. Ai fini della nostra analisi ricordiamo qui le differenze di funzionamento tra queste tre forme di capitale, indicate tra gli altri, dal sociologo Scidà:

1) il capitale fisico si consuma e tende a diminuire con il suo uso, difformemente dagli altri due;

2) il capitale fisico è osservabile e misurabile mentre è molto difficile che ciò possa avvenire per gli altri due;

3) è facile accrescere il capitale umano e fisico attraverso appropriati interventi esterni. È invece difficile fare lo stesso con il capitale sociale;

4) il capitale fisico e quello umano molto difficilmente possono

17 Lin N. (2000), Inequality in social capital, in “Contemporary Sociology”, 6, pp. 795-94.

18 Come scrivono, tra gli altri, anche P. Donati (2001); P. Donati (2003); A. Bagnasco (2001, 2002, 2003); E. Rullani (2004).

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ostacolare l'efficienza nel conseguimento dei risultati programmati. Il capitale sociale, nonostante la sua flessibilità che gli consente spesso di essere usato per scopi diversi da quelli programmati, può in alcuni casi far decrescere l'efficienza.

La letteratura sociologica, in tal quadro, distingue altresì, tre tipi di legami da cui deriva il capitale sociale19:

a) il capitale sociale fondato su relazioni di tipo bonding: date dall'appartenenza a reti esclusive come una famiglia o una squadra sportiva;

b) il capitale sociale fondato su relazioni di tipo bridging che connettono attori appartenenti a reti diverse e attivano risorse relazionali disparate e lontane come gruppi di ecologisti di diversi Paesi e i loro sponsor per la realizzazione di una campagna a dimensione continentale;

c) il capitale sociale fondato su relazioni di tipo linking che consentono cioè di connettersi, tramite legami di tipo verticale, ad istituzioni politiche o pubbliche

Il capitale sociale, nell'ambito dell'incipiente nuovo modello economico-sociale, fa fronte a due significative funzioni cognitive: permette l'accesso a conoscenze condivise che trovano immediata applicazione economica e mette a disposizione delle eccedenze di sapere che permeano la società e si legittimano su di un piano differente da quello economico. Così, il capitale sociale va a costituire un ambito a sé in

19 Bourdieu P. (1980), Le capital social: notes provisories, in “Actes de la techerche en sciences sociales”, 31, pp. 2-3; Bourdieu P. (1983),The forms of Capital, in Halsey A.H et al. (eds), Education: Culture, Economy, Society, Oxford University Press, Oxford, pp. 46-58; Coleman J.S. (1988), Social Capital in the Creation of Human Development, in “American Journal of Sociology”, vol. 94 (sup.), pp. 95-120; Maria Golinelli, Michele La Rosa e Giuseppe Scidà (a cura di), (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p. 30.

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cui le persone e le loro associazioni sono in grado di sopravvivere alle regole dettate dalla razionalità strumentale che pretenderebbe di attribuire un'efficienza misurabile a lavori e comportamenti nel breve periodo. In definitiva, il capitale sociale permette con un costo contenuto a persone e comunità di riprodurre la loro irripetibilità, che diviene risorsa chiave per lo sviluppo economico e sociale di lungo periodo.

Se oggi si può parlare in maniera sempre più frequente di capitale sociale come caratteristica fondante dello sviluppo economico in atto, è perché la scoperta dei 'sistemi territoriali', nazionali e locali, ha evidenziato l'impossibilità che vi sia netta separazione tra economia e società. Si torna ai territori in cui lo sviluppo economico dipende non più soltanto dai così detti 'fattori classici di produzione', ma da un qualcosa che unisce gli stessi all'ambiente in cui operano, ossia all'insieme delle circostanze fattuali e di significato di cui il processo produttivo si serve. Ciascun fattore produttivo considerato, infatti, è efficace solo se valutato nel proprio contesto di riferimento, che varia di volta in volta e che dunque fa sì che il legame connettivo acquisti importanza forse maggiore di ciascun fattore considerato singolarmente.

In quest'ottica il territorio diventa esso stesso risorsa produttiva che fornisce un capitale sociale che a sua volta influenza la produttività dei fattori.

Alla luce di quanto espresso sopra, possiamo così affermare, forse, in accordo con Enzo Rullani20 che lo sviluppo territoriale di un certo territorio è esclusivo, ovvero non riproducibile in territori diversi da quello in cui spontaneamente si è prodotto e, inoltre, che non sappiamo come trasformare i sistemi territoriali attuali al fine di dotarli di un

20 Maria Golinelli, Michele La Rosa e Giuseppe Scidà (a cura di), (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p. 42.

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capitale sociale adeguato alle nuove 'facce' dell'economia (globalizzazione e smaterializzazione).

Per far fronte a queste ultime considerazioni, bisogna perciò cercare di chiarire, per quanto possibile, se il capitale sociale di cui abbisognamo oggi, si differenzia da quello di ieri e, in caso affermativo, domandarci come possiamo produrlo in tempi e con costi contenuti o meglio, economicamente sostenibili e affrontabili.

E' anche utile precisare che si ricorre spesso a nozioni che rientrano nella più generica etichetta di capitale sociale per il fatto che è assai diffusa ormai la percezione secondo la quale le imprese operanti su un dato territorio, utilizzano nell'esercizio della propria attività non solo le proprie capacità imprenditoriali e i fattori produttivi acquistati sul mercato, ma anche qualche forma di 'local collective competition good', ossia qualche forma di capitale sociale che sembra possedere le seguenti caratteristiche:

- è specifico di ogni territorio;

- non ha natura privata, poiché è accessibile a tutti gli attori sociali che svolgono la loro attività sul territorio con preclusione, invece, per chi opera esternamente;

- rileva ai fini competitivi, interessando variabili critiche da cui derivano produttività, valore generato per il cliente o l'immagine del prodotto.

Non dobbiamo però farci ingannare dalla descrizione appena fatta del capitale sociale che potrebbe indurci a pensarlo erroneamente come mera risorsa economica. La realtà è che economia da una parte e società dall'altra, si incontrano in un punto (capitale sociale) definibile, per usare

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sempre le parole di Enzo Rullani, come “una prestazione che l'economia richiede alla società, sotto forma di ordine sociale o di propensione alla cooperazione e alla condivisione. Ma è difficile dire – da un punto di vista soltanto economico -come questa prestazione possa essere prodotta e mantenuta nel tempo”.

E' il legame tra economia e società che dà dunque origine, nelle diverse epoche, alle differenti forme del capitale sociale. Nello specifico, a differenza di quanto avveniva nelle società pre-moderne, dove economia e società si confondevano (nel senso che il lavoro concreto veniva svolto da uomini inseriti nel contesto sociale del luogo di produzione), il capitale sociale oggi modifica la propria natura in rapporto all'evolversi della modernità che divide la sfera economica dal resto del corpo sociale21

Ciò sta a significare che i macchinari funzionano in ogni luogo e non abbisognano di competenze specifiche di determinati lavoratori né di determinati luoghi, così come, allo stesso modo, i prodotti, la cui qualità prescinde dal posto dove sono stati realizzati (si tratta della così detta 'versione splendente di modernità ricordata da Enzo Rullani).

Tuttavia, l'omologazione dei contesti, ha messo in luce, ad un certo punto, il fallimento di un siffatto punto di vista e, negli ultimi decenni, si è cercato di recuperare il 'capitale sociale' che era stato accantonato a vantaggio dell'adozione della astratta razionalità e dei mercati universali, sinonimi di una semplificazione del mondo che riduce la complessità e restringe le diversificazioni (standardizzazione).

Il 'capitale sociale', nascosto nei meandri di una artificiale costruzione della vita scandita da schemi rigidi e formalità, grazie anche alla mediazione dei processi cognitivi, ha reso possibile e ha condotto alla riscoperta della complessità caratterizzante il lavoro, la produzione e

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tutto il vivere moderno, assumendo “un orizzonte che va oltre la 'ricostruzione razionale del mondo', per inglobare la corporeità delle esperienze, la materialità dei contesti generati dall'evoluzione biologica e storica, la pregnanza degli artefatti culturali (linguaggi, valori, modelli estetici, regole sociali) con cui gli attori sociali hanno da sempre – anche durante l'epopea della modernità – tessuto la trama del loro rapporto complesso col mondo22.”

Ci si discosta così dalla prima modernizzazione, caratterizzata dalla ossessione di liberazione da tutti i legami sottratti alla razionalità. Questo è possibile anche grazie alle seguenti due caratteristiche del nostro tempo: la maggiore disponibilità ad accettare condizionamenti ereditati dalla storia e dalla cultura, intesi come utili a gestire la complessità del mondo e, inoltre, le nuove sperimentazioni che trovano un ottimo humus nella complessità in cui siamo immersi. Proprio questa complessità, interpretata come spazio da esplorare, vede la riscoperta del capitale sociale, perché la sua funzione non consiste nel rimediare alle pecche della prima modernità, ma nel fornire anzi una base cognitiva che permetta ad ognuno di esplorare da sé, attraverso un proprio percorso individuale caratterizzato dal valore di una identità e unicità da cui non si può prescindere. Scrive Bonomi: “Il capitale sociale non è altro che la società messa al lavoro23.”

A conti fatti, la crisi del fordismo ha accelerato quel processo di 'liberazione' degli individui che si trovano così ad essere portatori di una parte di rischio distribuito nella società, che costituisce il presupposto per quella autonomia decisionale a cui ogni attore del sistema può ricorrere proprio tramite la risorsa 'capitale sociale', l'unica attraverso cui è

22 Maria Golinelli, Michele La Rosa e Giuseppe Scidà (a cura di), (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p. 51.

23 Bonomi A. (1997), Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino, pp. 16 ss.

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possibile ottenere una significativa quota di conoscenza. Ai fini del contenimento del rischio e del governo della complessità, gli attori economici si appoggiano così al capitale sociale permettendo la partecipazione ai processi di interazione sociale e la condivisione delle esperienze che dagli stessi scaturiscono. Infatti, proprio perché i sistemi aperti sono caratterizzati da molti rischi di vario tipo che vanno contenuti, gli individui e i gruppi sociali si servono di quelle risorse di relazione che nascono dall'esperienza e sono condivise con gli altri24.

7. La metafora del capitale sociale

Proprio per il nuovo ruolo che nell'emergente sistema post-fordista assume il capitale sociale, si ritiene opportuno in questa sede approfondire alcune specificità. Il capitale sociale è una 'metafora'25 attraverso cui si intende indicare qualcosa di cui esattamente non si può precisare cosa sia; è una metafora tuttavia utile poiché consente di rinviare ad una pluralità di elementi che vanno a formare, assai spesso, quelli della teoria sociologica nonché della struttura sociale. Essendo il contenuto della metafora vago, la stessa appare caratterizzata da tutta una serie di componenti che vengono indagati da un'ottica ben determinata: quella dell'attore individuale o collettivo che li considera come risorse da utilizzare per l'ottenimento di un vantaggio o il raggiungimento di uno scopo. Stiamo parlando di: rete sociale, fiducia, norme, legalità, reciprocità, autorità, cultura, associazionismo civico, ecc. In estrema sintesi, questa metafora del capitale sociale, più che da un

24 Sulla società del rischio e il governo della complessità si sono espressi, tra gli altri, J. S. Coleman, R.D. Putnam, F. Fukuyama, R. Cartocci.

25 Burt R. S. (2002), Il capitale sociale dei buchi strutturali (trad. it. In Sociologia e politiche sociali, VIII, 1, pp. 49-90).

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contenuto dato, è caratterizzata da una modalità26 tramite cui i diversi contenuti vengono usati dall'attore nell'esplicazione della sua azione sociale, che supera gli aspetti meramente economici. L'attributo sociale, quindi, indica tutto quanto non può definirsi come economico, tenendo però presente che forse anche la dimensione economica è sociale. Al di là delle distinzioni terminologiche date dagli studiosi, possiamo intendere il capitale sociale come un insieme di risorse, calate in una struttura sociale e utilizzate dall'attore nell'esplicazione della sua azione mirante al raggiungimento di un obiettivo specifico e/o all'ottenimento di vantaggi di vario tipo. Per dirla con Lin, il capitale sociale è “un investimento nelle relazioni sociali con aspettative di guadagni27.”

Di conseguenza a questa visione, si potrebbe dire che la società può essere intesa come un mercato dove avvengono scambi di beni e idee per perseguire dei fini28.

Se poi si vuole andare oltre a questa prospettiva, si possono indagare quanti, tra cui Coleman e Putnam, parlano di dimensione collettiva delle risorse o della dimensione di bene pubblico ma anche in tal modo si andrebbe a creare un'ulteriore indeterminatezza concettuale, confondendo il problema del tipo di attore con quello della natura della risorsa (individuale/collettiva).

Anche in questo caso, comunque, l'azione procura vantaggi all'individuo che svolge una data azione29 considerando anche i vantaggi emozionali.

26 Bagnasco A., (1999), Tracce di comunità, Il Mulino, Bologna, p. 67.

27 Lin N. (1999), Verso una teoria reticolare del capitale sociale, in “Sociologia e politiche sociali”, VIII, 1, pp.23-48.

28 Burt R. S. (2002), Il capitale sociale dei buchi strutturali (trad. it. In Sociologia e politiche sociali, VIII, 1, pp. 49-90).

29 Coleman J.S. (1990), Foundations of Social Theory, Harvard University Press, Cambrige, MA and London, p. 302.

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Questo paragrafo che segue, in grassetto, non sono riuscita a rielaborarlo diversamente ma sarebbe necessaria rielaborazione perché, a occhio, vedendo il linguaggio complesso, potrebbe essere stato ricopiato pari pari.

Ciò che è sociale nel capitale sociale è la solidarietà della comunità che si esprime attraverso la 'comune appartenenza'30 e ciò che è 'capitale' nel capitale sociale è l'influenza perché essa, in quanto mezzo di persuasione, favorisce il consenso nella comunità sulla base istituzionale del prestigio e a partire dalla base di sicurezza della informazione intesa come persuasore intrinseco. Si può quindi stabilire che il concetto di influenza sia quello che meglio di ogni altro rappresenta analiticamente la nozione di capitale comunitario e non tanto la metafora del capitale sociale.

Per concludere l'esplicazione del concetto di capitale sociale, vediamo come esso si possa porre in relazione alla realtà italiana.

Una mappa della dotazione del capitale sociale nelle diverse province italiane è stata tracciata da R. Cartocci e V. Vanelli31, sulla base di alcuni indicatori rilevati tra il 1999 e il 2003.

L'obiettivo dei due autori è consistita nella rilevazione della distribuzione del capitale sociale, inteso come civicness, nel nostro Paese.

Cartocci e Vannelli hanno posto in relazione la situazione italiana degli ultimi anni, caratterizzata da orientamenti particolaristici, di cui la riforma federalista ne rappresenta un esempio, con la globalizzazione economica e il rapporto con l'Unione Europea.

30 Ne hanno parlato, tra gli altri, Gubert (2000) e Pollini (2005).

31 Cartocci R., Vanelli V. (2006), Il capitale sociale tra economia e sociologia, FrancoAngeli, Milano, p. 169.

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Il capitale sociale è inteso come una risorsa collettiva di natura culturale, dalla quale dipende il grado di coesione sociale, ma se mutiamo la prospettiva di osservazione di tale concetto, guardando il fenomeno dal punto di vista dei singoli individui, il capitale sociale è percepito come una costrizione morale, che è appunto vincolante in virtù della sua stessa natura obbligatoria.

Di seguito, gli indicatori utilizzati per rilevare lo stock del capitale sociale nelle province italiane:

- diffusione della stampa quotidiana - livello di partecipazione alle elezioni

- diffusione delle associazioni dello sport di base - diffusione delle associazioni di volontariato - diffusione delle donazioni di sangue

Per quanto riguarda l'aspetto metodologico, dopo aver messo a punto gli indici parziali, si è proseguito individuando la coerenza interna attraverso la disamina delle componenti primarie.

L'esito dello studio mostra l'esistenza di una marcata congruenza tra i cinque indicatori considerati, ovvero nel Paese la geografia del capitale sociale segnala un forte squilibrio tra il Nord e il Sud Italia, dove il primo è ricco, il secondo molto meno. È stata individuata una linea di demarcazione che si estende tra Flora e Tronto e separa Toscana, Umbria da Lazio e Abruzzo. La linea individua due zone, a nord di essa si trovano le prime quaranta province della classifica nazionale, con in più la sola Sassari; a sud della linea sono invece concentrate le altre 36 province con i valori più bassi dello stock di capitale sociale.

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8. Brevi note conclusive

La crisi d'identità che caratterizza la società contemporanea trova il suo fondamento anche nella difficoltà di attribuire una direzione precisa agli eventi che si susseguono e si sovrappongono in maniera troppo veloce. Il nuovo scenario emergente, le cui interpretazioni socio-economiche sono appunto molteplici, può essere, tuttavia, spiegato attraverso la crisi del modello di produzione fordista, proprio del secolo scorso e caratterizzato dalla catena di montaggio che presuppone e porta alle massime conseguenze l'oggettività e la rigidità di processi produttivi. Nel corso della trattazione, abbiamo poi sottolineato quali siano state le cause determinanti la crisi del regime fordista, a partire dalla progressiva saturazione di un mercato dei prodotti di massa con la conseguente necessaria ridefinizione, attraverso il modello post-fordista, delle logiche di produzione capitalistiche, a cui si è andata via via associando la flessibilità, intesa come capacità funzionale alla quale le imprese non possono più sottrarsi se vogliono resistere alle nuove sfide della competizione globale. In questo nuovo contesto produttivo è stato conseguentemente evidenziato come abbiano acquisito sempre più rilevanza, accanto agli aspetti 'materiali' del lavoro, quelli 'immateriali', ovvero, in larga sintesi, quell'insieme di caratteristiche che devono fare capo ai lavoratori la cui flessibilità dovrebbe riguardare sia le abilità professionali, sia le forme dei rapporti. Ci siamo dunque soffermati su di un concetto che, nell'ambito delle trasformazioni sociali e produttive descritte, non si può ignorare, a causa anche dell'attenzione allo stesso dedicata da larga parte della sociologia, trattandosi di un patrimonio intangibile posseduto dagli individui, bene collettivo e forma di capitale in grado di produrre valore. Un capitale, quello 'sociale' che, nell'ottica

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del nuovo modello economico-sociale, svolge funzioni cognitive importanti mettendo a disposizione un sapere che circola nella società e si legittima su un piano che va oltre a quello strettamente economico. Nel prossimo capitolo, a tale riguardo, affronteremo il tema del 'capitalismo cognitivo', essendo divenuta la “produzione di mezzi a mezzo merci” una “produzione di valore a mezzo di conoscenza”. Possiamo quindi affermare, che a differenza del secolo scorso, che ha visto la rivoluzione industriale e la produzione di massa, oggi stiamo assistendo ad un’ulteriore e altrettanto importante rivoluzione, quella che vede la conoscenza come merce di scambio e come ‘plusvalore’ per eccellenza, che gli attori dei sistemi socio-economici si scambiano, propongono e consumano.

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2.

La società dei lavori, la società dei saperi

1. Il capitalismo cognitivo: una introduzione

Come abbiamo esplicitato nella parte introduttiva, in una prima parte la presente riflessione sarà incentrata ad approfondire le caratteristiche dell'odierna società produttiva.

Quel che fino ad oggi viene infatti riletto, in maniera sempre più concorde, come un capitalismo legato alla conoscenza, costruito sul lavoro dell'intelletto, a differenza di quanto accaduto fino al secolo scorso, è in grado di generare valore fondendo i suoi interessi di produzione non più sulla sola trasformazione delle condizioni materiali, bensì su quella delle emozioni e dei pensieri.

“L'era del lavoro e della proprietà sta finendo e con essa la società industriale, creata dalla rivoluzione delle macchine e del capitale, ad uscire progressivamente dall'orizzonte della contemporaneità. Le forze tradizionali non son più il motore della crescita economica e delle attività che generano valore.32

Se non le forze tradizionali, occorre allora domandarsi quali siano ad oggi le nuove forze rilevanti in ambito lavorativo. La risposta è presto data: si tratta del sapere inteso in senso lato, che viene impiegato ad ogni livello della filiera produttiva, nonché utilizzato per trasferire la conoscenza stessa diretta al raggiungimento dei fini più diversificati. A tal proposito, ci si chiede costantemente da parte di coloro che studiano e anche governano i meccanismi cognitivi, quale possa essere l'apporto

32 Stehr N. (2002), Knowledge and Economic Conduct. The social Foundations of the Modern Economy, University of Toronto Press, Toronto, pp 61 ss; Rullani E. (2004), Economia della conoscenza, Carocci, Roma, p. 434.

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valoriale di ogni soggetto facente parte della filiera e, inoltre, la quantità di valore che ciascuno dalla stessa può trattenere.

“La 'produzione di mezzi a mezzo merci' che Piero Sraffa descriveva mezzo secolo fa, è diventata 'produzione di valore a mezzo di conoscenza' e, in certi casi, 'produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza' con la mediazione di qualche passaggio economico intermedio33.”

Cambia di conseguenza l'ottica con cui si guarda al lavoratore, considerato sempre più come risorsa cognitiva che, inserito in un sistema, va valutato e retribuito per il valore complessivo apportato, costituito soprattutto dal suo sapere intrinseco e dalle molteplici sfaccettature di cui è portatore. Lo stesso possiamo affermare per i distretti industriali, in cui circola conoscenza anche grazie a quell'insieme di relazioni spontanee che sorgono all'interno e fanno in modo che vi siano delle pratiche uniformemente accettate e socialmente condivise pur senza esplicitazione delle stesse.

Le imprese, che ad oggi perseguono il primario obiettivo dell'innovazione, sfruttano economicamente la conoscenza che si trova al loro interno, acquisita non sul mercato, ma presente in forma gratuita perché derivante da processi cognitivi esterni confluiti tuttavia nel circuito. Basti porre mente alla conoscenza che scaturisce da centri di ricerca, università, imprese leader, inventori, progettisti e ricercatori. Le cessioni di conoscenza, in questi casi, sono gratuite, dal momento che scaturiscono da apprendimenti indiretti, anche imitativi, delle esperienze altrui, di coloro che hanno fatto da apripista. Questa nuova conoscenza di cui è permeato il tessuto sociale e che contribuisce costantemente alla generazione di ulteriore nuova conoscenza, circola non attraverso il

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mercato ma tramite l'ambiente, dunque non può condividersi in forme mercantili. Occorre sottolineare che una parte del capitale intellettuale scaturito dalle diverse forme di apprendimento, pur non passando per il mercato e non essendo di conseguenza sottoposto al vincolo proprietario, alimenta tuttavia le attività che i suoi utilizzatori, imprese ed individui, svolgono per il mercato. In pratica, pur rimanendo lavoro e capitale protagonisti indiscussi anche nell'economia della conoscenza, essi cambiano natura, comportamento e significato a causa dell'assorbimento di conoscenza. E allora tutto il sistema produttivo dovrà essere interpretato in qualità di sistema cognitivo. Da ciò deriva che l'organizzazione dell'impresa non si basa più su quell'insieme di forme, poteri e procedure proprie della vecchia dottrina strutturalistica della organization science, ma diventa sempre di più learning organization34

basata cioè sulle conoscenze delle persone che compongono l'impresa stessa e che fanno leva ed affidamento anche su tutta quella rete di relazioni fiduciarie che consentono l'impiego su largo raggio delle competenze possedute35.

Anche le dinamiche della concorrenza subiscono degli inevitabili aggiustamenti. Ogni attore sul mercato, infatti, si caratterizzerà grazie alle informazioni a cui ha accesso. La differenza, per essere più espliciti, non la fa più soltanto la struttura o il prodotto, ma assume un più significativo grado di importanza non ciò che l'impresa ha, ma ciò che “sa fare” e, a maggior ragione, sempre in un'ottica concorrenziale, per il fatto che i settori dinamici appaiono tra loro intrecciati e le imprese, inoltre, tendono a formare reti tra loro e sono proprio le reti ad essere diventate le unità operative effettive. Manuel Castells definisce l'impresa a rete come

34 Senge P.M (1990), The Fifth Discipline. The Art and Practice of Learning Organization, Doubleday, New York.

35 Costabile M. (2001), Il capitale relazionale. La gestione delle relazioni e della costomer loyalty, McGraw-Hill, Milano.

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“quella forma particolare di impresa il cui sistema di mezzi è costituito dall'intersezione di segmenti di sistemi autonomi di obiettivi”36. Dunque le componenti della rete sono sia autonome che dipendenti rispetto alla stessa e possono fare parte di altre reti. Il risultato ottenuto da una data rete dipenderà perciò da due sue caratteristiche essenziali: la connettività, cioè la capacità strutturale di agevolare la comunicazione interna alla rete senza interferenze e la consistenza, cioè il grado di condivisione degli interessi tra gli obiettivi della rete e quelli delle sue componenti. Castells si domanda poi per quale motivo l'impresa a rete è la forma organizzativa dell'economia globale e informazionale e questa è la risposta che ci fornisce: “Una risposta semplice si basa sull'approccio empiristico: è quanto emerso dal periodo formativo della nuova economia ed è ciò che sembra funzionare. Ma è più appagante intellettualmente rilevare che tale performance è in armonia con le caratteristiche dell'economia informazionale: le organizzazioni di successo sono quelle capaci di generare conoscenza; di elaborare informazione in modo efficiente; di adattarsi alla geometria variabile dell'economia globale; di essere sufficientemente flessibili da cambiare i propri mezzi con la stessa rapidità con cui mutano gli obiettivi, sotto l'impatto del rapido cambiamento culturale, tecnologico e istituzionale; nonché di innovare nel momento in cui l'innovazione diventa la principale arma concorrenziale. (…). In tal senso l'impresa a rete rende materiale la cultura dell'economia informazionale e globale: trasforma i segnali in merci elaborando conoscenza”37.

L'impresa in definitiva, cessa di essere intesa come un'organizzazione dalla struttura pesante, caratteristica peraltro non più compatibile con l'evolversi veloce dell'articolata società contemporanea.

36 Castells M. (2008), La nascita della società in rete, Ube Paperback, p. 203. 37 Castells M. (2008), La nascita della società in rete, Ube Paperback, pp. 203-204.

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