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Valutazione dei rischi di mercato: l' Extreme Value Theory

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Academic year: 2021

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INDICE

Parte Prima

Introduzione...6

Capitolo 1: Introduzione al risk management...9

1.1 Incertezza e rischio...9

1.1.1 Le determinanti causali...11

1.2 Il concetto di rischio...12

1.2.1 Classificazione dei rischi...13

1.2.2 Lo sviluppo delle tecniche di risk management...15

1.3 Il rischio di mercato...17

1.3.1 Definizione e tipologie...17

1.4 Le metodologie di calcolo del requisito patrimoniale secondo Basilea....19

1.4.1 La metodologia standardizzata...19

1.4.2 I modelli interni...21

Parte Seconda

Capitolo 2: I modelli di misurazione dei rischi di mercato...25

Premessa...25

2.1 I modelli Value at Risk...27

2.2 L'approccio parametrico...30

2.2.1 La scelta della variabile aleatoria e i diversi approcci al modello parametrico...30

2.2.2 Il VaR di una singola posizione...31

2.2.3 Il VaR di un portafoglio...32

2.2.4 La scelta del livello di confidenza...35

2.2.5 La scelta dell'orizzonte temporale...37

2.2.6 Limiti e pregi dei modelli parametrici...39

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2.3.1 Le medie mobili semplici...42

2.3.2 Le medie mobili esponenziali...46

2.3.3 I modelli GARCH...49

2.3.4 La stima di covarianze e correlazioni...52

2.4 I modelli di simulazione...53

2.5 Le simulazioni storiche...54

2.5.1 Pregi e limiti delle simulazioni storiche...55

2.6 Le simulazioni Monte Carlo...57

2.6.1 La stima del VaR per una singola posizione...58

2.6.2 La stima del VaR di un portafoglio...59

2.6.3 Pregi e limiti delle simulazioni Monte Carlo...60

2.7 Le prove di stress...61

2.8 Le applicazioni dei modelli VaR...63

2.9 I «falsi» e i veri difetti del VaR...64

2.9.1 I sei «falsi difetti» del VaR...64

2.9.2 Due veri difetti del VaR...67

Parte Terza

Capitolo 3: Una misura alternativa al VaR: l'Expected Shortfall (ES)...69

Premessa...69

3.1 VaR vs ES...69

3.2 Le proprietà dell'ES come misura coerente di rischio...70

3.3 Conclusioni...73

Parte Quarta

Capitolo 4: L'Extreme Value Theory...74

Introduzione...74

(4)

4.1.1 La stima dei parametri...79

4.1.2 Il metodo block maxima per le prove di stress...80

4.2 Il metodo Peaks over Threshold...82

4.2.1 La scelta del parametro u...85

4.3 VaR e ES stimati con la funzione di Pareto...87

4.4 Confronto tra il metodo block maxima e il modello POT...88

Conclusione...89

Elenco grafici e tabelle...93

Bibliografia...93

Sitografia...95

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Introduzione

I concetti di rischio, incertezza, imprevedibilità fanno inevitabilmente parte dell'esperienza umana a tal punto da influenzare le scelte e le azioni di ciascun individuo. La limitata razionalità umana pone al centro della nostra vita il concetto di rischio, in quanto capace di mostrare all'uomo il suo limite invalicabile: la conoscenza del futuro, abbattendo la fiducia delle sue capacità valutative e decisionali. Oggi l'uomo si confronta con il rischio, oltre che con avversione, anche con un atteggiamento di sfida, dando il via ad una continua ricerca di equilibrio tra razionalizzazione degli eventi e utilizzo dell'intuito. Nelle discipline economiche l'importanza del rischio è crescita in modo rilevante negli ultimi anni. I cambiamenti avvenuti nell'ambito dell'economia e della finanza hanno in qualche modo provocato un aumento della volatilità delle variabili finanziarie generata dalla crescente integrazione dei mercati finanziari. Tale accresciuta volatilità dei mercati si è riflessa in modo rilevante in episodi di crisi, e a volte di insolvenza, di istituzioni finanziarie il cui management si è dimostrato incapace di adottare adeguati sistemi di misurazione e controllo dei rischi assunti. È proprio da qui che si cominciano ad elaborare i primi modelli di

risk management per la misurazione appunto dei rischi cui una banca o

istituzione finanziaria è soggetta. Tali modelli verranno poi adottati non solo da banche o istituzioni finanziarie, ma anche dalle imprese finanziarie di grandi dimensioni.

La presente tesi, nella prima parte, si propone di approfondire il tema del risk

management definendo il concetto di rischio e suddividendolo nei vari significati

che esso può assumere dal punto di vista finanziario. Nello specifico, saranno analizzati i principali caratteri definitori dei rischi di mercato e quelli riguardanti la disciplina dettata dalle Autorità di Vigilanza, concentrando l'attenzione, in modo particolare, sulle due metodologie di calcolo del requisito patrimoniale: standardizzato e basato su modelli interni.

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di mercato, in particolare il Value at Risk (VaR). Tale strumento si basa su un approccio di tipo probabilistico e la sua caratteristica principale consiste nel misurare la massima perdita potenziale che una posizione o un portafoglio può subire con un certo livello di confidenza, e in un determinato orizzonte temporale, a fronte di variazioni sfavorevoli delle variabili di mercato ( tassi di interesse, quotazioni azionarie, tassi di cambio, commodities ). Saranno esaminati i tre diversi approcci di calcolo del Value at Risk, sia per una singola attività che per l’intero portafoglio, specificandone per ognuno di essi ( parametrico, basato sulla simulazione storica e Montecarlo) pregi e difetti. Si farà, inoltre, un breve excursus sui modelli di stima della volatilità da utilizzare nell’implementazione nei modelli di VaR suddetti.

Nella terza parte sarà analizzata una misura alternativa al VaR ovvero l'Exspected

Shortfall mettendo in rilievo le caratteristiche, le finalità e le principali differenze

rispetto al VaR.

Lo scopo della tesi tuttavia è quello di evidenziare come i metodi standard utilizzati per il calcolo del VaR, ovvero il modello parametrico e le tecniche di simulazione, non siano capaci di catturare gli eventi estremi, cioè quelli che dovrebbero essere oggetto di valutazioni più attente da parte del risk

management. Per tale motivo, ai modelli di stima del VaR cosiddetti tradizionali1,

autori come Embrechts, McNeil e Longin hanno cercato di contrapporre un modello ( cosiddetto alternativo ) per spiegare la distribuzione delle perdite attraverso la Teoria dei Valori Estremi ( EVT – Extreme Value Theory ). Questi autori hanno incentrato la propria analisi sull'elaborazione di modelli che possano meglio adattarsi a quegli eventi, definiti estremi, che si riscontrano o si sono riscontrati nel corso degli anni nei mercati finanziari.

Una delle più grandi sfide per il risk management è l’implementazione di modelli per la previsione di eventi gravi e che permettano di ottenere una misura accurata delle possibili conseguenze. Questo si estende per tutte le categorie di rischio, ma in particolare per i rischi di mercato dove quotidianamente è necessario calcolare

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il VaR del trading book soggetto agli avversi cambiamenti del mercato.

Durante quest’ultimo decennio molti studiosi si sono dedicati all’applicazione della teoria dei valori estremi alla finanza, elaborando nuovi strumenti di misurazione che possono essere estesi a tutte le categorie di rischio. Per quanto riguarda i rischi di mercato, lo studio si è concentrato sulla distribuzione dei rendimenti delle variabili di mercato in base alla convinzione che l’interesse di un risk manager si deve concentrare proprio sui valori contenuti nelle code di queste ultime, in modo da poter estrapolare informazioni circa i valori estremi. Il vantaggio di questa teoria risiede proprio nella possibilità di focalizzare l'attenzione sulle code, in particolare di analizzare ciascuna di esse senza fare ricorso all'ipotesi semplificatrice, e spesso irrealistica, di distribuzione normale di rendimenti2.

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Capitolo 1: Introduzione al Risk Management

1.1 Incertezza e rischio

Nello studio del concetto del rischio, uno dei primi ostacoli che si incontra è la presenza in letteratura di una molteplicità di significati e definizioni; è per questo motivo principalmente che gli autori non sono ancora giunti a dare una definizione univoca al termine poiché si rischierebbe di considerare alcuni elementi e di tralasciarne altri.

Ogni attività e ogni realtà infatti, può essere soggetta a rischio: il rischio negli investimenti in titoli, il rischio assicurativo, il rischio di inquinamento sono solo alcuni esempi.

Rischio è uno di quei termini sentiti una miriade di volte con significati ed interpretazioni differenti tra loro.

Il concetto di rischio sta alla base della teoria economica e della pratica finanziaria ed è strettamente collegato, anche se talvolta contrapposto, a quello di incertezza. Questa è intesa come una situazione in cui non si è in grado di descrivere con sicurezza ciò che accadrà in futuro, o (per mancanza di informazioni) ciò che è accaduto in passato. Vi sono delle ambiguità nascoste nella nozione di rischio e di incertezza. Questi due termini sono spesso utilizzati in maniera intercambiabile, ma, negli studi economici, hanno significati sostanzialmente diversi.

Keynes, con grande lungimiranza, un giorno ipotizzò che ad certo punto della loro storia gli uomini non avrebbero più scambiato denaro o merci ma le loro reciproche incertezze.

L'incertezza è quella condizione in cui si ignora ciò che esattamente avverrà nel futuro. Si parla in questi casi di informazione incompleta: non si ignora ciò che potrebbe avvenire ma si ignora ciò che avverrà3.

Per analizzare il concetto di rischio è importante partire dalla definizione di incertezza data da Knight, economista statunitense. La maggior parte degli

3 Betti F.,Value at Risk. La gestione dei rischi finanziari e la creazione di valore, Milano, Il Sole 24 Ore, 2001

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studiosi è concorde nel considerare le limitate capacità conoscitive ed intellettive dell'uomo alla base sia del rischio che dell'incertezza. La posizione più radicale però è stata assunta da Knight. Nel suo libro del 1921, egli afferma che incertezza e rischio sono sinonimi perché entrambi sono legati al fatto che il futuro sia incerto. In particolare, egli afferma che “quello in cui viviamo è un mondo di mutamenti e un mondo di incertezza. Noi viviamo solo perché conosciamo qualche cosa del futuro; mentre i problemi della vita o almeno della condotta derivano dal fatto che noi ne conosciamo troppo poco. Questo è altrettanto vero negli affari come nelle altre sfere di attività. L'essenza della situazione sta nell'azione derivante dall'opinione, più o meno fondata e valida, che non vi è né ignoranza assoluta, né completa e perfetta informazione, ma conoscenza parziale”4. Incertezza e rischio possono essere considerarti come due aspetti differenti di una stessa realtà: “i due fenomeni, del resto, sono inscindibili: si ha infatti, l'incertezza in quanto ogni manifestazione fenomenica è portatrice di rischi”5.

Lo studio condotto da Knight porta ad affermare che il concetto di incertezza deve essere inteso in senso radicalmente opposto rispetto al concetto di rischio, dal quale però non è mai stato separato. Secondo l'economista statunitense, la differenza sostanziale tra le due categorie, rischio e incertezza, è la seguente: nella prima le singole probabilità sono note, mentre nella seconda non è cosi. In particolare, per Knight, il rischio indica “una quantità suscettibile di misurazione” infatti la definisce come “incertezza misurabile”6;

conseguentemente restringe l'uso del termine incertezza ai casi di tipo non quantitativo.

Il lavoro di Knight rappresenta uno dei primi contributi dedicati al rischio e all'incertezza e contiene anche un'analisi delle metodologie che possono essere adottate per misurare, anche solo da un punto di vista logico, rischio e incertezza. Le differenti teorie economiche sono finalizzate, da un lato, alla individuazione 4 Knight F.H., Risk, Uncertainty and Profit,, pag. 18, New York, Harper and Row, 1965

5 Bertini U., Introduzione allo studio dei rischi nell'economia aziendale, Torino, Giappichelli, 1987

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delle determinanti causali che danno origine al rischio e all'incertezza, dall'altro lato, alla ricerca delle componenti e delle dimensioni che caratterizzano tale concetto.

1.1.1 Le determinanti causali

I primi studi di carattere sistemico riguardanti il rischio si occupavano principalmente di individuare le cause e le caratteristiche principali del rischio e dell'incertezza.

Il tempo rappresenta uno dei fattori determinanti dell'incertezza. Questa posizione nasce dalla constatazione empirica di come vi sia sempre un intervallo tra il momento in cui un soggetto elabora delle aspettative e il momento in cui queste ultime si manifestano. L'importanza del concetto di tempo nasce dal fatto che, da un lato, non esiste alcun evento economico che manifesti i propri risultati in maniera istantanea e, dall'altro, che tali risultati non possono essere definiti a priori come assolutamente certi. Il concetto di incertezza acquista dunque una doppia peculiarità in relazione al se un evento si verifica e al quando si verifica. La presenza di questa discrepanza temporale tra il momento di accadimento di un evento e la manifestazione dei suoi effetti non è però condizione necessaria e sufficiente affinché si possa parlare di rischio e di incertezza. Si deve considerare anche un altro fattore, ugualmente rilevante, ovvero la mancanza di informazioni in relazione all'accadimento di un determinato evento (la cosiddetta informazione imperfetta o incompleta: non tutti sanno tutto).

I mercati sono normalmente in disequilibrio e gli agenti operano in condizione di informazione imperfetta lungo un intervallo temporale nel quale si modificano continuamente le decisioni originarie. Queste ultime infatti tendono a svilupparsi in maniera parallela sia in riferimento ai risultati conseguiti con le decisioni precedenti, sia rispetto alle attese riguardo gli effetti delle conseguenze future delle possibili azioni7. Questo significa che se conosciamo il momento

dell'accadimento di un evento, le cause che lo hanno determinato e gli effetti che

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produce, non si è più in presenza di incertezza. È dunque l'esistenza dell'incertezza che rende un evento futuro non perfettamente prevedibile provocando conseguenze favorevoli o sfavorevoli.

Anche Knight individua nell'inadeguatezza della conoscenza dei soggetti la determinate fondamentale dell'incertezza. Egli osserva che se tutti i cambiamenti avvenissero seguendo delle leggi immutate ed universalmente conosciute e condivise allora sarebbe possibile riuscire a prevedere i fatti futuri molto prima del loro effettivo accadimento.

Appare dunque evidente come un miglioramento nella capacità di previsione dei soggetti possa determinare una significativa riduzione del livello di incertezza e quindi del rischio associato ad una specifica decisione.

1.2 Il concetto di rischio

Per spiegare il concetto di rischio facciamo riferimento al lavoro di M. Giorgino e F. Travaglini (2008), i quali affermano che “Il termine rischio è stato spesso impiegato per esprimere in termini generali l'esposizione all'incertezza propria delle realtà imprenditoriali. I principali contributi presenti in letteratura fanno generalmente riferimento ai concetti di incertezza e variabilità dei risultati. Tradizionalmente tali fonti distinguono tra eventualità favorevole e rischio, associando a quest'ultimo una connotazione di scenario sfavorevole. In questa interpretazione il rischio d'impresa riguarda esclusivamente la possibilità di subire uno scostamento negativo rispetto ai risultati attesi8. In altri termini, c'è un

esplicito riferimento al concetto di danno, ovvero ad un avvenimento futuro portatore di perdite o minori utili rispetto alle ipotesi formulate inizialmente9”.

Seguendo tale approccio, possiamo definire il rischio come “la distribuzione dei possibili scostamenti dai risultati attesi per effetto di eventi di incerta manifestazione, interni o esterni al sistema aziendale”.

8 Vaughan, J., Risk Management, Londra, John Wiley & Sons, 1997

9 Giorgino M., Travaglini F., Il risk management nelle imprese italiane, pagg. 3-36, Milano, Il Sole 24 Ore, 2008

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Come vedremo nelle prossime pagine, parlando dei processi, un primo obiettivo del risk management è quello di stimare la rischiosità delle attività, che una banca o azienda pone in essere, in termini quantitativi e affinché ciò avvenga è importante definire delle misure adatte.

1.2.1 Classificazione dei rischi

In letteratura esistono diverse categorie di rischio; ciascuna di esse ha la finalità di metterne in evidenza determinate proprietà ed aspetti caratteristici. Considerando il fatto che in alcuni contesti le deviazioni dal risultato atteso possono essere solo sfavorevoli, mentre in altri contesti possono essere sia favorevoli che sfavorevoli, si è consolidata ad esempio la tendenza a distinguere i rischi in puri e speculativi. Alla prima categoria appartengono i rischi ritenuti assicurabili, ossia quei rischi che possono essere gestiti mediante il processo assicurativo. Alla seconda categoria,invece, appartengono sia i rischi finanziari, derivanti dall'incertezza dei prezzi sui mercati finanziari, sia i rischi industriali o non finanziari.

Le realtà aziendali fanno generalmente ricorso a classificazioni di rischio più operative ed intuitive, come ad esempio quelle che distinguono i rischi in

strategici, finanziari ed operativi.

Nel Financial Risk Management delle banche assumono particolare importanza i seguenti rischi finanziari10:

rischio di credito (credit risk), è il rischio che la controparte non rispetti in tutto o in parte i propri impegni di rimborso del debito o che, deteriorando la propria posizione patrimoniale, aumenti la probabilità che questo avvenga;

rischio di mercato (market risk) o “rischio prezzo”, è il rischio di variazioni del valore di mercato di uno strumento o di un portafoglio di

10 Betti F.,Value at Risk. La gestione dei rischi finanziari e la creazione di valore, pagg. 12-13, Milano, Il Sole 24 Ore, 2001

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strumenti finanziari collegate a variazioni inattese dei fattori di mercato (prezzi azionari, tassi di interesse, tassi di cambio e volatilità di tali variabili);

rischio di liquidità (liquidity risk) è legato all'esistenza di una discrepanza temporale tra passività (prevalentemente a breve) e attività (maggiormente orientate al lungo termine) che può provocare l'incapacità da parte della banca di onorare tempestivamente un volume di richieste di rimborso inaspettatamente elevato delle proprie passività. Il rischio di liquidità fa quindi riferimento a quelle situazioni in cui il possessore di uno strumento finanziario incontra difficoltà a trasferire tale strumento immediatamente e a prezzi convenienti;

rischio operativo (operational risk) è il rischio di perdita legato ad errori o inadeguatezza dei processi, delle persone o del sistema11. È quel rischio

che operazioni improprie di elaborazione o gestione del sistema si traducano in perdite operative. Esso comprende le perdite che possono verificarsi in caso di fallimento del sistema dei controlli, di frode da parte delle funzioni di front office e back office, di trading non autorizzato, di inesperienze del personale, di sistemi informatici carenti, inadeguati o instabili. Solitamente, una società con elevati rischi operativi è anche una società ad elevato rischio di credito, in quanto la probabilità di fallimento è maggiore in presenza di sistemi informativi inadeguati;

rischio di regolamento (settlement risk) è il rischio che deriva dal mancato funzionamento dei sistemi di pagamento (settlement). Esso è un rischio misto, nel senso che l'origine del mancato pagamento può derivare sia dall'incapacità della controparte di adempiere ai propri debiti (rischio di credito) sia da difficoltà di natura tecnica (rischio operativo).

11 Chapman R. J., Simple tools and techniques for Enterprise Risk Manage-ment, John Wiley & Sons, 2006

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1.2.2 Lo sviluppo delle tecniche di Risk Management

Il Risk Management può essere definito come il complesso delle metodologie e dei processi volti alla misurazione e al controllo integrato dei rischi di una banca o impresa e finalizzati all’efficiente allocazione dinamica del capitale proprio a disposizione, ponendo particolare enfasi anche sui processi gestionali che su tali tecniche si fondano. La capacità di individuare, valutare e gestire i rischi è sempre più percepita dalle imprese, industriali, finanziarie o di altra natura, come uno dei principali fattori che concorre a preservare il valore dell’azienda e la sua capacità di operare in maniera profittevole. Questa capacità è considerata particolarmente rilevante per le imprese finanziarie la cui principale funzione è l’assunzione di rischi, propri e della clientela. Le banche, soprattutto quelle di maggiore dimensione e più attive a livello internazionale, sono state in effetti tra i primi operatori a dotarsi di sistemi strutturati di misurazione, gestione e controllo della rischiosità, anche per rispondere alle sfide poste dalla complessità organizzativa e dalla dinamicità degli scenari di riferimento che rendono particolarmente importanti i rapporti con tutti gli stakeholders (tra i quali azionisti e finanziatori), interessati a una rappresentazione corretta e trasparente delle situazioni aziendali.

Il tema del risk management è tornato alla ribalta del dibattito internazionale con la crisi che ha posto in luce diffuse carenze nel processo di assunzione, governo e controllo dei rischi di molti intermediari, carenze che hanno acuito le situazioni di instabilità. Le banche che hanno meglio resistito durante la crisi sono risultate quelle che hanno saputo correttamente interpretare e utilizzare i risultati dei modelli.

L'obiettivo principale del risk management è quello di minimizzare le perdite e massimizzare l’efficacia e l’efficienza dei processi produttivi. In realtà si tratta, più che di un singolo processo, di un insieme articolato di processi attraverso cui le aziende valutano dapprima la probabilità che si verifichi una determinata situazione e successivamente valutano il modo di evitarla, ridurne gli effetti, trasferirla a terzi o infine in molti casi accettarne in parte o totalmente le

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conseguenze minimizzando gli impatti sull'attività di impresa. La corretta misurazione del rischio rappresenta un aspetto fondamentale in un sistema di risk management. Il problema centrale non è tanto quello di misurare in astratto il rischio di un portafoglio, quanto piuttosto quello di fornire uno strumento gestionale utile per la conduzione efficiente di una complessa organizzazione quale è una banca. In questo senso la misurazione del rischio rappresenta soltanto il primo passo di un lungo processo. Gli stadi evolutivi di un processo di risk management sono illustrati nella seguente figura.

Figura 1: Stadi evolutivi del risk management.

Fonte: Saita F., Il risk management in banca, pag, 37, Milano, Egea, 2000.

Stadio 1:Misurazione del rischio

“Quanto capitale è a rischio nella banca nel suo complesso?” Obiettivo: monitorare il livello di rischio assunto dall'intermediario e

verificare costantemente la sua sostenibilità

Stadio 2: Controllo del rischio

“Ognuna delle unità sta rispettando i limiti di rischio che le sono stati assegnati?”

Obiettivi: prevenire l'assunzione di rischi eccessivi Creare un sistema equo di limiti per le singole unità

Stadio 3: Misurazione delle risk-adjusted performance

“Quale rendimento è stato generato per gli azionisti in rapporto al capitale a rischio?” Obiettivo: valutare le performance in termini rischio-rendimento

Stadio 4: Allocazione dinamica del capitale a rischio “Quanto capitale a rischio dovrebbe essere attribuito a ogni unità?”

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1.3 Il rischio di mercato

1.3.1 Definizione e tipologie

Nel paragrafo precedente abbiamo fatto un breve cenno sui rischi di mercato. Quest'ultimi vengono normalmente identificati (anche dall'Autorità di vigilanza) con i rischi inerenti il solo portafoglio di negoziazione (trading), inteso come l'insieme di posizioni assunte per un periodo di tempo breve o brevissimo, allo scopo di usufruire delle variazioni dei prezzi di mercato; in realtà, essi riguardano tutte le attività e passività finanziarie detenute dalla banca, comprese quelle acquistate per finalità di investimento e destinate ad essere convertite in bilancio per un lungo periodo di tempo.

Nello specifico, possiamo distinguere cinque categorie di rischi di mercato, secondo il fattore di rischio cui è sensibile lo strumento finanziario o il portafoglio di strumenti finanziari12:

 rischio di cambio: quando il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei tassi di cambio; è questo il caso delle attività e passività finanziarie denominate in valuta estera e dei contratti derivati il cui valore dipende dal tasso di cambio (currrency swap, currency future, ecc.);

 rischio di interesse: quando il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei tassi di interesse (come accade per i titoli obbligazionari e per svariati contratti derivati, come i forward rate agreeement, interest rate

future, interest rate swap, cap, floor, ecc.);

r

 ischio azionario: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile all’andamento dei mercati azionari (titoli azionari, stock-index future, stock

option ecc.);

 rischio merci: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei prezzi delle commodities ( acquisti/vendite a pronti e a termine di merci,

commodity swap, commodity future, commodity option ecc.);

12 Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione, gestione, Milano, Egea, 2008

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 rischio di volatilità: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile a variazioni delle volatilità di una delle variabili considerate sopra.

I rischi di mercato hanno assunto una rilevanza maggiore a partire dai primi anni Ottanta in seguito a tre fenomeni particolari:

1) Il primo è collegato al processo di cartolarizzazione (securitization). Tale processo consiste in una specie di alchimia finanziaria che tramuta attività finanziarie illiquide, per esempio prestiti e mutui, in attività dotate di un mercato secondario liquido e quindi di un prezzo. Tale processo ha favorito la diffusione dei criteri di misurazione al valore di mercato delle attività detenute dagli intermediari finanziari.

2) Il secondo fenomeno è rappresentato dalla progressiva crescita del mercato degli strumenti derivati, il cui principale profilo di rischio per gli intermediari che li negoziano è rappresentato dalla variazione del relativo valore di mercato determinata da variazioni dei prezzi delle attività sottostanti e/o dalle condizioni di volatilità degli stessi.

3) Infine, il terzo e ultimo fenomeno riguarda l'aumento della volatilità dei mercati finanziari scaturita dalla progressiva integrazione internazionale degli stessi. È proprio a questo aumento della volatilità, e dunque di rischio, che sono infatti limitatamente imputabili i numerosi episodi di perdite anche abbastanza rilevanti, e in alcuni casi di crisi di intere istituzioni, registrate dalle cronache internazionali a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.

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1.4 Le metodologie di calcolo del requisito patrimoniale

secondo Basilea

La crescente attenzione ai rischi di mercato non ha riguardato solamente gli intermediari finanziari e il mondo accademico, ma si è estesa anche alle autorità di vigilanza. Nell’aprile del 1993 il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria ha infatti presentato, a fini di consultazione13, una proposta per estendere

l’applicazione dei requisiti patrimoniali anche ai rischi di mercato, successivamente rivista nel 1995. Tale normativa è stata poi recepita dalla direttiva CEE 93/6/CEE, e dall’ordinamento italiano il 1° gennaio 1995 attraverso la Circolare Banca Italia del settembre 1994.

Le metodologia utilizzate per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio di mercato sono due:

Metodologia Standardizzata (Building block approach) ➢ Metodologia interna, basata sul concetto di VaR.

1.4.1 La metodologia standardizzata

La metodologia standardizzata permette di calcolare il requisito patrimoniale complessivo mediante l'applicazione di un approccio a blocchi (Building block

approach). Tale requisito deriva dalla somma dei seguenti elementi14:

a) con riferimento al portafoglio di negoziazione di vigilanza15:  Rischio di posizione

13Comitato di Basilea,, Requisiti patrimoniali individuali a fronte dei rischi di mercato, Aprile 1993

14Al riguardo si veda il documento di Bankitalia, Recepimento della nuova regolamentazione

prudenziale internazionale requisiti patrimoniali sui rischi di mercato, Roma, 2006

15 Le posizioni detenute a fini di negoziazione sono quelle, intenzionalmente destinate a una successiva dismissione a breve termine, assunte allo scopo di beneficiare di differenze tra prezzi di acquisto e di vendita, o di altre variazioni di prezzo o di tasso d’interesse. Per posizioni si intendono le posizioni in proprio e le posizioni derivanti da servizi alla clientela (prime brokerage) o di supporto agli scambi (market making). Il portafoglio di negoziazione di vigilanza è costituito dalle posizioni in strumenti finanziari e su merci detenute a fini di negoziazione o per la copertura del rischio inerente ad altri elementi dello stesso portafoglio. Tali strumenti devono essere esenti da qualunque clausola che ne limiti la negoziabilità o, in alternativa, devono poter essere oggetto di copertura. L’intento di negoziazione è dimostrato facendo riferimento a strategie, politiche e procedure stabilite dalla banca per gestire la posizione o il portafoglio

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 Rischio di regolamento  Rischio di concentrazione

b) con riferimento all’intero bilancio:  Rischio di cambio

 Rischio di posizione su merci

Analizziamo singolarmente queste tipologie di rischio.

Il rischio di posizione, insieme al rischio di cambio, costituiscono rischi principali e centrali, per incidenza, all'interno dell'operatività bancaria. Il rischio di posizione è un rischio che dipende da come le oscillazioni dei fattori di mercato, ma anche di fattori che si legano alla situazione specifica della società emittente, influenzano il prezzo degli assets in bilancio. Questo rischio è dato dalla somma di due componenti fondamentali:

a) il rischio generico è attribuibile alle variazioni dei prezzi conseguenti a movimenti sfavorevoli dell’intero mercato;

b) il rischio specifico è invece collegato alla singola posizione in quel determinato strumento operativo.

Il rischio di regolamento, in base alla normativa, è quello che si determina nelle transazioni su titoli quando la controparte, dopo la scadenza del contratto, non ha ancora provveduto alla consegna dei titoli o del denaro. Tale perdita è connessa: ➢ per le transazioni delivery versus payment, DVP (consegna contro pagamento) (o viceversa), alla differenza fra il prezzo a termine fissato contrattualmente e il valore corrente degli strumenti finanziari, delle valute o delle merci da ricevere (consegnare);

➢ per le transazioni non DVP, dette anche a “consegna libera”, la perdita si ricollega al valore corrente degli strumenti finanziari, delle valute o delle merci trasferite alla controparte per i quali non è stato ricevuto il corrispettivo, oppure

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al contante pagato senza ricevere il sottostante.

Il rischio di concentrazione riguarda il caso in cui la banca è eccessivamente esposta verso uno stesso soggetto, gruppi di soggetti interconnessi o appartenenti ad uno stesso settore di attività o ad una medesima area geografica, per percentuali notevoli del suo patrimonio. La norma impone il rispetto di determinati requisiti, nel caso in cui, l’esposizione verso un singolo cliente superi la soglia stabilita dall’autorità stessa (limite individuale di fido). È un rischio dunque che si ricollega alla normativa sui grandi fidi e ha lo scopo di preservare la banca da grandi perdite e da grandi interferenze sull'equilibrio patrimoniale e finanziario.

Per quanto riguarda rischi relativi all’intero bilancio, come abbiamo già accennato, si fa riferimento al rischio di cambio e rischio di posizione su merci. Il primo rappresenta il rischio di subire perdite per effetto di avverse variazioni dei corsi delle divise estere su tutte le posizioni detenute dalla banca indipendentemente dal portafoglio di allocazione (trading e banking book); il secondo, invece, fa riferimento alle possibili perdite derivanti da variazioni di prezzo delle merci.

1.4.2 I modelli interni

Nel gennaio del 199616, il Comitato di Basilea ha introdotto la possibilità per le

banche di seguire, oltre alla strada tracciata dall'autorità di vigilanza e rappresentata dal metodo standard, anche la strada del modello interno, determinando in modo autonomo, seppure nel rispetto di alcune condizioni qualitative e quantitative, il proprio livello di rischio e il conseguente grado di patrimonializzazione necessario. L'obiettivo è quello di avere una misura più accurata dell’esposizione al rischio rispetto a quella fornita dall’utilizzo

16 Comitato di Basilea, 1996, Emendamento all’accordo sui requisiti patrimoniali per incorporarvi

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dell’approccio standard. Tali modelli, introdotti nella prima metà degli anni Ottanta dalle principali banche commerciali statunitensi e successivamente diffusi presso la maggior parte delle istituzioni finanziari dei paesi economicamente sviluppati, sono denominati modelli del “valore a rischio” (Value at Risk, VaR). Uno dei primi modelli basato su tale strumento, noto come

RiskMetrics©, fu introdotto alla fine degli anni Ottanta dalla banca statunitense

J.P Morgan, per iniziativa del suo CEO, Sir Dennis Weatherstone, il quale chiese di ricevere, alle 16:15 di ogni giorno, un’informazione sintetica, racchiusa in un singolo valore monetario, relativa ai rischi di mercato dell’intera banca nei diversi segmenti di mercato (azionario, obbligazionario, valute, derivati,

commodity)17.

Il VaR è la misura di rischio probabilistico più usata e rappresenta la massima perdita potenziale che una certa posizione può subire con un certo livello di confidenza e in un orizzonte temporale predefinito. Spostando queste variabili ovviamente giungo ad una misura diversa, quindi è fondamentale stabilire un intervallo di confidenza ed un periodo di tempo. Indicando con pr(E) la probabilità dell'evento E, con c il livello di confidenza e con L la perdita sull'orizzonte temporale prescelto, si ha:

pr(L>VaR)=1-c

Fissato pr, il VaR rappresenta quindi la minima perdita che si può tollerare con probabilità pr. Tipicamente, pr è una quantità molto piccola (dell’ordine del’1%), quindi presumibilmente la soglia definita dal VaR è piuttosto grande.

Si noti come la definizione di VaR ammetta la possibilità di perdite superiori al VaR stesso (con probabilità pari a 1 – c). “È chiaro che il VaR non è in grado di descrivere la forma che le perdite assumono oltre il VaR stesso. Alcuni portafogli possono registrare perdite vicine al VaR ma altri possono registrare perdite che 17Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione, gestione, Milano, Egea, 2008

(23)

superano di parecchie volte la misura del VaR18”. Il VaR può essere calcolato per

strumenti finanziari e portafogli differenti, rendendo confrontabili i diversi rischi. Per questo motivo esso è utilizzato per tre esigenze principali: confrontare le diverse alternative di impiego del capitale di rischio di un'istituzione finanziaria, valutare la redditività del capitale allocato ed infine prezzare in modo corretto le singole operazioni sulla base del relativo grado di rischio.

I modelli VaR permettono di raggiungere i seguenti obiettivi:

1. definire i fattori di rischio (per esempio cambi, tassi, azioni, materie prime) che possono influenzare il valore del portafoglio della banca; 2. costruire la distribuzione di probabilità dei possibili valori futuri del

portafoglio della banca associati a ciascuno dei possibili valori assunti dai fattori di rischio;

3. sintetizzare la distribuzione di probabilità dei possibili valori futuri del portafoglio della banca in una o più misure di rischio e rendere comprensibile al top management la misura di rischio prescelta.

Il Comitato di Basilea, come abbiamo già accennato, ha imposto alle banche che intendono adottare modelli interni, il rispetto di precisi limiti qualitativi e quantitativi nella costruzione dei modelli stessi, che, pur lasciando in linea di massima alle aziende di credito la possibilità di scegliere il sistema che meglio si adatta alle loro esigenze operative, circoscrive in maniera abbastanza rigida la discrezionalità riguardo alla scelta dei parametri fondamentali alla base del modello adottato.

Per quanto riguarda i criteri qualitativi viene prescritto che19:

1) il Consiglio di Amministrazione e l’Alta Direzione siano coinvolti attivamente nel processo di controllo dei rischi;

2) la banca disponga di una autonoma unità di controllo dei rischi;

3) il modello sia strettamente integrato nella gestione quotidiana del rischio; 4) sia attuato un rigoroso programma di prove di stress.

18 Jorion P., Value at Risk: the new benchmark for managing financial risk. New York, Mc Graw Hill, 2007

(24)

Le banche dovranno disporre di una prassi ordinaria per il calcolo del VaR, nonché predisporre controlli interni documentati e dovranno assicurare che ad intervalli regolari venga eseguita una verifica indipendente sia della gestione che della misurazione del rischio.

Il Comitato di Basilea fissa anche alcuni criteri quantitativi che i modelli interni hanno l’obbligo di rispettare. Essi sono i seguenti:

1) il VaR deve essere calcolato su base giornaliera utilizzando un intervallo di confidenza al 99° percentile;

2) il periodo di detenzione (holding period) ipotizzato per il calcolo del VaR deve essere almeno pari a 10 giorni lavorativi (anche periodi più brevi, purché esista una metodologia adeguata, riesaminata periodicamente); 3) il periodo storico di osservazione deve essere almeno 1 anno, tranne nel

caso in cui un periodo di osservazione più breve sia giustificato da un aumento improvviso e significativo della volatilità dei prezzi;

4) le serie dei dati devono essere aggiornate con frequenza mensile.

Infine, risulta importante sottolineare che l’eventuale scelta da parte delle istituzioni creditizie di utilizzare un modello interno deve essere attentamente ponderata e testata alla luce delle indicazioni finali contenute nell’emendamento del 1996. Si tratta di condizioni che impongono alle banche propense ad abbandonare il metodo standard, il rispetto di una stessa metodologia di valutazione per le misura di ciascuna classe di rischio. E’ inoltre stabilito per le banche che hanno già adottato un modello interno per uno o più fattori di rischio, di estendere tale approccio al totale delle operazioni, per passare quindi ad un modello globale. Una volta adottato un modello globale non sarà più permesso tornare all'utilizzo del sistema standard di misurazione.

(25)

Capitolo 2: I modelli di misurazione dei rischi di

mercato

Premessa

La ricerca di una misura di rischio standard e omogenea, per valutare posizioni in strumenti finanziari diversi, non è assolutamente un problema banale e di poco conto.

Nel corso degli anni si sono susseguiti numerosi e diversi contributi orientati alla quantificazione dei rischi finanziari che attraverso modelli più o meno sofisticati hanno proposto diverse prospettive del problema. Ne sono un esempio le opere degli anni ‘50 e ‘60 di Graham e Dodd e in particolare le opere di Markowitz. Quest’ultimo, generalmente conosciuto come il primo esponente della moderna teoria di portafoglio, fa notare che gli investitori non sono orientati soltanto alla massimizzazione del rendimento, altrimenti deterrebbero solo il titolo che presenta il profitto atteso più alto. Nella realtà invece detengono portafogli di titoli. Le scelte di investimento prendono in considerazione anche un altro fattore, che è il rischio. Per ogni soggetto esiste, in base alle preferenze individuali e alle opportunità di mercato, una combinazione di rendimento e rischio ottimale.

Le misure di rischio e rendimento individuate da Markowitz sono la deviazione standard e la media dei rendimenti. Tali misure descrivono in maniera formale il profilo rischio-rendimento di un qualunque investimento.

La deviazione standard è un indice statistico che consente di misurare la dispersione delle singole osservazioni intorno alla media aritmetica. Nel campo finanziario rappresenta il grado di oscillazione di un investimento cioè la "volatilità" di un mercato o di un titolo. Tale indicatore (solitamente indicato con il simbolo greco σ) si calcola applicando la seguente formula:

σ=

1

(N −1)

i=1

N

(26)

dove:

xi = è il singolo valore che assume il fenomeno da valutare; nel caso di un'attività finanziaria si tratta delle performance periodiche;

N=il numero dei dati della serie storica;

x =rappresenta la media aritmetica dei valori.

In termini qualitativi possiamo dire che un'alta deviazione standard significa una più grande probabilità che alcuni risultati futuri devieranno dalla media e una più bassa probabilità che il risultato sia effettivamente quello atteso. Una deviazione standard più bassa, al contrario, significa una più piccola probabilità di deviare dalla media e quindi una maggiore possibilità che il risultato sia effettivamente quello atteso.

L’evoluzione dello studio di metodologie e modelli quantitativi in grado di fornire indicazioni sul rischio degli strumenti finanziari ha continuato a svilupparsi nell’ultimo ventennio grazie alle solide fondamenta teoriche poste dalla teoria di portafoglio, ma anche al forte progresso tecnologico che ha interessato gli strumenti di calcolo e di elaborazione dati. Il contributo maggiore in termini di innovazione gestionale e tecnologica, riguardo allo sviluppo e al perfezionamento delle tecniche di risk management bancario, è certamente imputabile alle grandi banche d’affari americane come la

J.P.Morgan, Citybank, Chase Manhattan, e Bankers Trust, che nei primi anni ‘80

hanno introdotto nella loro organizzazione un nuovo approccio gestionale focalizzato alla gestione del profilo rischio-rendimento tipico di ognuno dei business in cui l’impresa è orientata. Tale approccio è chiamato generalmente

Business Risk Management (BRM).

I modelli di BRM, applicati ai rischi di mercato, tendono a determinare la massima perdita associata alle posizioni assunte dalla banca in relazione ad un determinato periodo di riferimento. La somma di tutte le esposizioni al rischio per le singole posizioni determina la perdita cui è sottoposto l’intero portafoglio bancario di attività. Questa misura, attualmente adottata in ambito operativo è

(27)

detta VAR (Value at Risk). La sua invenzione, come abbiamo già accennato, è generalmente attribuita a Dennis Weatherstone, un funzionario della banca d’affari J.P. Morgan. Esso era alla ricerca di una misura sintetica, semplice e intuitiva per comunicare al senior management l’esposizione al rischio del portafoglio di trading della banca. Ebbe quindi l’idea di abbandonare complicate misure contabili, per calcolare sulla base di semplici ipotesi una misura della massima perdita sostenibile in un certo intervallo di tempo.

2.1 I modelli Value at Risk

Il Value at Risk (VaR) è un metodo statistico di misurazione del rischio di un portafoglio in grado di sintetizzare la stima del rischio dell’intero portafoglio in un solo numero.

Il VaR, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, riassume la massima perdita attesa, su un dato orizzonte temporale, nei limiti di un predefinito intervallo di confidenza. Più precisamente: considerando una probabilità di c% ( c è il livello di confidenza) e un periodo di t giorni, il VaR è la perdita che ci si aspetta venga ecceduta solo con una probabilità di (1-c)% nel prossimo periodo di t giorni.

La scelta di c e t è soggettiva:

· il livello di confidenza c definisce il grado di protezione dal rischio di movimenti avversi dei fattori di mercato. I valori tipici per c sono 99%, 97,5%, o 95%: la scelta può essere rilevante o meno a seconda dell’uso che si intende fare del VaR, cioè a seconda che il VaR venga utilizzato come misura assoluta del rischio sostenuto o come unità di confronto (ad esempio confronto di rischiosità tra portafogli diversi), in questo caso c diventa solo un fattore scalare. Naturalmente, più ampio è il livello di confidenza c adottato, maggiore è la capacità del VaR di contenere le perdite (nel senso che risulta meno probabile eccedere la perdita massima stimata), ma minore è il contributo del VaR in termini informativi, dato che viene esclusa una gamma più ristretta di valori ;

(28)

· i periodi normalmente adottati sono di 1, 2 o 10 giorni, oppure un mese. Ipotesi sottostante è che la composizione del portafoglio rimanga costante durante il periodo considerato; quindi la scelta dell’orizzonte temporale deve dipendere dalla frequenza con cui il portafoglio viene sottoposto a movimentazioni e dal periodo necessario per la liquidazione del portafoglio.

Esistono diversi metodi per il calcolo del VaR, caratterizzati da diverse ipotesi sottostanti e da diverse procedure; si può comunque individuare uno schema di base, comune a tutti i metodi, che prevede:

1. l' individuazione dei fattori di rischio rilevanti, cioè dei fattori di mercato che influiscono sul valore del portafoglio;

2. stima della distribuzione di probabilità dei rendimenti dei fattori di rischio; 3. determinazione della distribuzione di probabilità dei rendimenti del portafoglio in termini di profitti e perdite sulla base delle stime al punto ‘2’;

4. l’ammontare di massima perdita probabile.

L’obiettivo comune a tutti i metodi è quello di ottenere una stima della distribuzione futura del rendimento di portafoglio o meglio della variazione del valore del portafoglio.

In particolare, si possono distinguere due principali categorie di modelli, a loro volta caratterizzati da ulteriori sotto-categorie.

La prima categoria è quella dell'approccio varianze-covarianze, anche noto come metodo analitico o parametrico. Tale approccio si basa su quattro ipotesi fondamentali:

– ipotizza che le possibili variazioni di tutti i fattori di mercato (o dei rendimenti degli strumenti in portafoglio) seguano una distribuzione normale;

– l'informazione sui possibili valori futuri dei fattori di mercato e sulle loro correlazioni è riassunta in una matrice di varianze e covarianze;

– linearità dei profili di rischio degli strumenti e dei portafogli di strumenti negoziati;

(29)

– indipendenza seriale dei rendimenti dei fattori di mercato.

L'approccio varianze-covarianze è indubbiamente il più diffuso nell'ambito dei sistemi di risk management ed è quello attualmente utilizzato dalla banca J.P.

Morgan attraverso la metodologia RiskMetrics20, considerata generalmente la capostipite della generazione dei modelli di tipo analitico o parametrico.

La seconda categoria di modelli per la misurazione dei rischi di mercato si riferisce all'approccio delle simulazioni. Quest'ultimo si distingue dall'approccio varianze- covarianze per alcuni aspetti fondamentali:

– le possibili variazioni di valore dei fattori di mercato non si distribuiscono necessariamente secondo una normale;

– l'impatto dei possibili valori futuri dei fattori di mercato sulle possibili perdite della banca è quantificato attraverso la full-valuation. Quest'ultima consiste nella rivalutazione piena di tutte le posizioni al variare dei fattori di mercato, dove la dinamica dei prezzi dei fattori di mercato è generata da appropriati modelli di pricing basati o su dati storici (tecniche di simulazione storica) o sulla generazione di scenari ad hoc (tecniche Monte Carlo). Si tratta di un approccio più preciso ma che richiede anche un ammontare di calcoli maggiormente oneroso;

– infine, il VaR non può essere calcolato semplicemente come multiplo della deviazione standard , ma va ricercato analizzando l'intera distribuzione delle perdite future e individuandone il valore massimo dopo aver escluso una percentuale di casi pari a 1-c, partendo da quelli peggiori.

In generale gli approcci di simulazione possono essere tutti ricondotti a tre metodologie principali: la simulazione storica, la simulazione Montecarlo e le prove di stress.

20 Nell’ambito della metodologia RiskMetrics è necessario, per calcolare il VaR, ricondurre gli strumenti finanziari appartenenti al portafoglio ai fattori di rischio, e successivamente applicare l’algoritmo di calcolo utilizzando la volatilità dei fattori e la correlazione forniti direttamente da JP Morgan

(30)

2.2 L'approccio parametrico

Nell'ambito dell'approccio parametrico, la misurazione del rischio di mercato è ottenuta applicando specifiche metodologie statistiche per descrivere il modo con cui si realizzano i movimenti delle variabili finanziarie utilizzate. In particolare attraverso la stima di una matrice delle varianze e delle covarianze si cerca di sintetizzare i singoli movimenti (varianze) dei fattori di rischio ed i loro movimenti congiunti (covarianze). Successivamente, ponderando le singole varianze e covarianze dei fattori di rischio per opportuni parametri di sensibilità, si giunge ad una stima dell'impatto sul valore delle singole posizioni. In tal modo si ottiene una valutazione della distribuzione dei profitti e delle perdite (giornaliere, settimanali, mensili) del portafoglio che può essere utilizzata per formulare ipotesi probabilistiche sulla verosimiglianza che le perdite previste possano eccedere un determinato livello21.

2.2.1 La scelta della variabile aleatoria e i diversi approcci

del modello parametrico

L'ipotesi di fondo del modello varianze-covarianze consiste nella possibilità di definire la perdita massima potenziale sulla base esclusivamente di un set di parametri rappresentativi delle variabili aleatorie di partenza. La scelta della variabile aleatoria, da cui far dipendere le variazioni del valore di mercato della posizione, rappresenta la prima scelta fondamentale per qualsiasi modello di determinazione del VaR per la quantificazione dei rischi di mercato. Le possibili soluzioni che si possono proporre al riguardo sono essenzialmente tre che ne configurano altrettanti approcci22:

1) l’approccio risk factor normal (conosciuto nella prassi come delta

normal) che identifica le variabili aleatorie chiave nei singoli fattori di

21 Lusignani G., La gestione dei rischi finanziari nella banca, pag. 191, Bologna, Il Mulino, 1996

(31)

rischio alla base della variazione del prezzo degli assets finanziari.(es. tassi d’interesse, tassi di cambio);

2) l’approccio asset normal, che si basa sull’evoluzione del valore di una serie di attività benchmark ( es. titoli obbligazionari zero coupon con diverse scadenze, posizioni spot in cambi);

3) l’approccio portfolio normal, che analizza direttamente il valore del portafoglio complessivamente considerato, trattato come un’unica entità e quindi come l’unica variabile aleatoria.

2.2.2 Il VaR di una singola posizione

In termini generali l'approccio varianze-covarianze intende misurare il VaR di una singola posizione attraverso il prodotto di tre elementi:

• il valore di mercato della stessa (VM);

• un coefficiente (δ) rappresentativo della sensibilità della posizione a variazioni del fattore di mercato nei confronti del quale la posizione è esposta;

• la volatilità stimata dei rendimenti di tale fattore di mercato (σ). Analiticamente otteniamo la seguente formula:

VaRi=VMi⋅δik⋅σi

dove VaRi rappresenta il valore a rischio connesso alla i-esima posizione e k è la costante che determina l'intervallo di confidenza desiderato.

Più precisamente, l'approccio varianze-covarianze prevede che le singole posizioni vengano dapprima scomposte, utilizzando la tecnica del mapping, nelle relative componenti elementari, le quali risultano direttamente legate, in termini di sensibilità, a variazioni di uno solo dei fattori di mercato considerati. Il rischio dell'intera posizione è successivamente determinato sulla base dei rischi connessi alle singole componenti, aggregati sulla base delle correlazioni fra i rendimenti

(32)

dei relativi fattori di mercato.

2.2.3 Il VaR di un portafoglio

Dopo aver definito nel paragrafo precedente la formula del calcolo del VaR a livello di singolo asset, passiamo adesso a considerare il rischio di un portafoglio composto da più posizioni. In questo caso, l'analisi si estende all'utilizzo dei coefficienti di correlazione fra i rendimenti dei diversi fattori di mercato coinvolti e, come abbiamo già accennato, può essere calcolato sulla base di tre impostazioni differenti.

Per quanto riguarda il primo approccio (asset normal), il VaR di un portafoglio composto da N posizioni, viene calcolato facendo il prodotto tra il valore di mercato del portafoglio e un determinato multiplo della volatilità dei rendimenti del portafoglio.

Analiticamente otteniamo la seguente formula: VaRp=VM pk⋅σp

Nell'eventualità in cui vi siano solo due posizioni A e B aventi rispettivamente valori di mercato VMA e VMB e indicando con α e (1-α) le rispettive quote all'interno del portafoglio, la volatilità complessiva σp può essere espressa nel

seguente modo:

σp=

α2⋅σA2+(1−α)2

⋅σB2+2⋅α⋅(1−α)⋅σA⋅σB⋅ρA , B

dove σA e σB rappresentano rispettivamente la volatilità dei rendimenti delle

attività A e B e ρA , B rappresenta la correlazione fra di essi.

Quindi, ricordando che VMA=α⋅VMp e VMB=(1−α)⋅VMp il VaR del portafoglio può essere scritto come:

(33)

VaRp=VMpk⋅

α 2 ⋅σA2+(1−α)2⋅σB2+2⋅α⋅(1−α)⋅σA⋅σB⋅ρA , B = =

VM pk⋅σA)2+[(1−α)VMpk⋅σB]2+2⋅[α VMpk⋅σA]⋅[(1−α)VMpk⋅σB]⋅ρA , B = =

VaRA2 +VaR2B +2VaRAVaRB⋅ρA , B

Il procedimento appena descritto può essere applicato anche all'approccio

delta-normal; in tal caso nel calcolo del VaR dei singoli asset, alla volatilità dei

rendimenti delle attività benchmark σA e σB ,si sarebbe dovuto sostituire il

prodotto tra le volatilità dei rendimenti dei rispettivi fattori di rischio (σA' , σB' ) e la sensibilità del valore di mercato delle due posizioni alle variazioni nei rispettivi fattori di rischio (δAB) allungando semplicemente i calcoli.

Quando dal caso di due posizioni occorre passare alla situazione di un portafoglio reale composto da numerose posizioni diviene più agevole fare riferimento all'algebra matriciale per il calcolo del rischio23. Infatti indicando con V il vettore

dei VaR delle diverse posizioni comprese nel portafoglio:

V =

[

VaR1 VaR2 ... VaRn−1 VaRn

]

con V̄T la corrispondente matrice trasposta:

̄

VT=

[

VaR1 VaR2 ... VaRn−1 VaRn

]

(34)

con C la matrice delle correlazioni tra i rendimenti: C=

[

1 ρ1,2 ... ρ1, n−1 ρ1, n ρ2,1 1 ... ρ2, n−1 ρ2, n ρ1,n−1 ρ1,2, n−1 ... 1 ρn−1,n ρ1, n ρ2, n ... ρn−1,n 1

]

è possibile esprimere il VaR del portafoglio nel seguente modo:

VaRp=

V⋅C⋅ ̄V T

E' evidente che affinché il calcolo del VaR sia affidabile, è necessario disporre di una buona stima delle deviazioni standard dei fattori di rischio, cosi come delle correlazioni raccolte dalla matrice C.

Questa era la formulazione del calcolo del VaR del portafoglio per quanto riguarda l'approccio asset-normal e delta-normal.

L'approccio portfolio-normal, invece, parte direttamente dalla volatilità del rendimento del portafoglio, senza scomporre quest'ultimo nelle sue componenti elementari. Tale approccio si basa sull'ipotesi che il rendimento del portafoglio sia distribuito normalmente e presuppone la costruzione di una matrice dei rendimenti periodali delle diverse attività di riferimento rispetto alle quali il portafoglio è stato scomposto. Quindi, indicando con R tale matrice:

R=

[

r1,1 ... ... r1,n r2,1 ... ... r2,n ... ... ... ... r1T−1,1 ... ... r1T−1,n r1T ,1 ... ... r1T , n

]

(35)

t;indicando con W la matrice dei pesi: W =

[

ω1 ... ... ωn

]

dove ωi rappresenta il peso della i-esima attività benchmark nel portafoglio considerato, è possibile determinate la serie storica dei rendimenti per calcolarne la rispettiva volatilità. Il ricorso all’approccio portfolio normal può quindi risultare più conveniente quando il numero di attività benchmark è particolarmente elevato, in quanto ciò potrebbe comportare la costruzione di una matrice delle correlazioni di dimensioni notevoli; è per tale motivo che esso richiede la disposizione di un'ampia serie di dati storici in quanto non è possibile sintetizzare la storia di ogni attività benchmark in un valore di volatilità dei rendimenti e in un vettore di correlazioni24.

2.2.4 La scelta del livello di confidenza

La scelta dell'intervallo di confidenza, funzione del grado di avversione al rischio della singola istituzione finanziaria, esprime implicitamente il livello di protezione contro movimenti avversi dei fattori di mercato che si intende ottenere. Una possibile soluzione a tale problema consiste nell'utilizzo di un determinato multiplo della deviazione standard, indicato in precedenza con il parametro k, come misura dello scenario pessimistico (worst case scenario) e dunque per la determinazione della massima perdita potenziale. È chiaro infatti come l'utilizzo della sola deviazione standard per il calcolo del VaR non fornirebbe un'indicazione dell'intero ammontare di possibili perdite che la singola posizione può generare. La soluzione adottata dall'approccio varianze-covarianze è quella di ricorrere all'ipotesi di distribuzione normale dei rendimenti25. Risulta

24Saita F., op. cit.,2000

(36)

opportuno fare una puntualizzazione sulla distribuzione normale. Come abbiamo già accennato, la semplicità del modello parametrico è dovuta al fatto che si assume che le variazioni dei fattori di mercato (tassi di cambio e di interesse) si distribuiscano in modo normale. La distribuzione normale è ampiamente utilizzata per descrivere movimenti di variabili casuali e dipende da due soli parametri: la media, la quale si può intendere come una misura dell'attesa dei profitti futuri, e la deviazione standard, la quale fa riferimento ad un probabile intervallo entro cui tali profitti cadranno.

La funzione di densità di probabilità di una variabile casuale x secondo una normale è: f (x )= 1 (σ⋅

2 π)⋅e −[ 1 2 σ⋅(x−μ) 2 ]

dove μ e σ rappresentano rispettivamente la media e la la deviazione standard della variabile casuale x. Sulla base di questa funzione è possibile ricavare la probabilità che la variabile x sia compresa all'interno di un determinato intervallo [a,b]. Tale probabilità è rappresentata graficamente dall'area compresa fra la curva e l'asse delle ascisse all'interno dell'intervallo considerato. Ad esempio, scegliendo un intervallo centrato sulla media e di ampiezza pari a un multiplo k della deviazione standard, la probabilità che x assuma un valore compreso in tale intervallo [μ-kσ, μ+kσ] è calcolabile con il seguente integrale:

Prob {μ−k σ<x<μ+k σ}=

μ−μ+k σk σ 1 (σ⋅

2 π)⋅e −[ 1 2 σ⋅(x−μ) 2]dx

A questo punto è possibile sottolineare due aspetti fondamentali. Anzitutto, il valore assunto dall'integrale è indipendente dal valore della media e della deviazione standard della distribuzione, ma dipende solo dal multiplo della

dei fattori di mercato (delta-normal), i rendimenti delle singole posizioni (asset-normal) o i rendimenti dei portafogli (portfolio-normal)

(37)

deviazione standard considerato. Infatti, effettuando la sostituzione

z=x−μσ

l'integrale sopra descritto può essere trasformato in

Prob {μ−k σ<x<μ+k σ}=

μ−k σ μ+k σ 1

2 π⋅σe −1 2dx =

k +k 1

2 πe −1 2⋅z 2 dz dove 1

2 πe −1 2⋅z 2

rappresenta la funzione di densità di probabilità con media nulla e varianza pari a zero (distribuzione normale standardizzata). Quindi la probabilità di ottenere valori compresi in un intervallo centrato sulla media e pari ad un certo multiplo k della deviazione standard è costante ed è funzione unicamente del valore k prescelto.

2.2.5 La scelta dell'orizzonte temporale

Un ulteriore problema riguarda la scelta dell'orizzonte temporale sul quale si desidera misurare la perdita potenziale. Per compiere questa scelta è necessario prendere in considerazione alcuni fattori.

Il più importante è un fattore di tipo oggettivo ovvero indipendente dalle aspettative del singolo soggetto. Esso è rappresentato dal grado di liquidità del mercato di riferimento della singola posizione. Il VaR, infatti, rappresenta una perdita massima solo se, entro l'orizzonte di rischio, la posizione che ha prodotto le perdite può essere ceduta prima che possa provocare ulteriori minusvalenze. Dunque è necessario imporre limiti che siano funzione anche dell'intervallo temporale in cui la singola posizione può essere liquidata.

(38)

Il secondo fattore,invece, è di tipo soggettivo, nel senso che dipende dall'intento del singolo operatore e/o dell'istituzione finanziaria. Si tratta del periodo di detenzione (holding period) della singola posizione. A questo proposito, una posizione di trading assunta con un'ottica di tipo speculativo di brevissimo periodo dovrebbe essere valutata con un orizzonte temporale più breve di quello relativo a una posizione, sullo stesso strumento finanziario, considerata di investimento e quindi assunta con un periodo di detenzione decisamente più lungo.

A questo punto, è necessario rilevare come la stima della volatilità relativa ad intervalli di tempo prolungati comporta dei problemi dovuti alla scarsità di dati disponibili e alla limitata significatività degli stessi se utilizzati per prevedere il futuro. In altri termini, se si vuole prevedere la volatilità futura, occorre calcolare le variazioni annue di prezzo verificatesi negli anni passati e, sulla base di queste, calcolare la volatilità annua passata. Affinché la stima sia attendibile occorre tuttavia che il campione sia abbastanza ampio ossia che vi sia un numero elevato (20-30 osservazioni) di variazioni annue di prezzo.

Per numerose variabili di mercato (si pensi, ad esempio, ai prezzi dei titoli quotati di recente), ciò può rendere impossibile il reperimento dei dati, inoltre i dati relativi a periodi molto lontani nel tempo potrebbero risultare scarsamente utili al fine di prevedere la volatilità futura.

Una possibile soluzione a tali problemi è quella che prevede di ricavare dalla volatilità giornaliera la stima della volatilità relativa a periodi prolungati. La formula da utilizzare a tale scopo è la seguente:

σTG

T

dove:

- σT è la volatilità relative al periodo T;

- σG è la volatilità giornaliera;

(39)

In altri termini, il passaggio dalla volatilità giornaliera a quella settimanale o mensile può essere ottenuto moltiplicando la prima per la radice quadrata del numero di giorni di negoziazione presenti nel periodo di tempo considerato. Infine, un ultimo fattore al quale bisogna fare riferimento (strettamente connesso a quello relativo al grado di liquidità del mercato) riguarda la dimensione della posizione assunta. Si è detto che la scelta di un determinato orizzonte temporale implica l'ipotesi che tale orizzonte permetta di liquidare realmente una posizione in essere nel caso in cui essa stia producendo perdite. Dunque, per evitare di esporsi esageratamente al rischio di liquidità del mercato, una banca con posizioni di importo consistente dovrà prevedere un orizzonte di rischio più lungo a quello giornaliero, anche quando i titoli in portafoglio dispongono di un mercato secondario attivo tutti i giorni.

2.2.6 Limiti e pregi dei modelli parametrici

Fra i diversi modelli di misurazione dei rischi di mercato l'approccio varianze-covarianze, è indubbiamente il modello più usato e conosciuto presso le istituzioni finanziarie26. La semplicità e la diffusione di questo modello deriva

principalmente dai seguenti fattori:

➢ anzitutto, rispetto agli altri modelli di misurazione, presenta un vantaggio fondamentale che è quello della semplicità. Tale semplicità riguarda non tanto il profilo concettuale, quanto l'onerosità dei calcoli e dunque dei sistemi informativi di supporto;

➢ è stato sostanzialmente il primo approccio utilizzato dalle banche che hanno intrapreso metodologie interne di gestione del rischio e quindi risulta il più testato in ambito operativo;

➢ infine, altro fattore essenziale deriva dalla decisione della banca d'affari

J.P. Morgan di rendere pubblici e disponibili gratuitamente, dal 1994, i

dati e le caratteristiche tecniche principali necessari per la sua

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