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Separazione e identificazione di peptidi potenziali biomarcatori della fibromialgia

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Academic year: 2021

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Indice

INDICE ... 1

Indice delle figure ... 2

Indice delle tabelle ... 2

Introduzione ... 3 CAPITOLO 1 ... 5 1.1 Fibromialgia ... 5 1.1.1 Definizione... 5 1.1.2 Epidemiologia e Eziopatogenesi ... 7 1.1.3 Diagnosi ... 13 1.1.4Terapia ... 14 1.2 La saliva ... 16 1.3 Proteomica ... 19 1.4 Cromatografia liquida ... 21

1.4.1 La cromatografia ad esclusione molecolare ... 29

1.5 SELDI-TOF-MS ... 31

1.5.1 Desorption, ionizzazione e analisi ... 34

Scopo ... 36 CAPITOLO 2 ... 37 Materiali e metodi ... 37 2.1 Materiali ... 37 2.2 Metodi ... 39 2.2.1 Soggetti ... 39 2.2.2 Raccolta saliva ... 39 2.2.3 SELDI-TOF-MS ... 40 2.2.4 OFFGEL ... 41 2.2.5 Purificazione da urea... 42 2.2.7 Studio cromatografico (HPLC) ... 43

2.2.8 Preparazione del campione ... 45

2.2.9 Raccolta delle frazioni salivari e purificazione da sali ... 45

CAPITOLO 3 ... 47

Risultati e discussioni... 47

3.1SELDI-TOF-MS ... 47

3.2 HPLC-SEC ... 49

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Indice delle figure

FIGURA 1: VISUALIZZAZIONE DEI 18 TENDER POINTS ... 6

FIGURA 2: TRASMISSIONE NOCICETTIVA ... 11

FIGURA 3: COLONNA CROMATOGRAFICA ... 22

FIGURA 4: SCHEMA HPLC ... 23

FIGURA 5: INIETTORE HPLC ... 25

FIGURA 6: COLONNE CROMATOGRAFICHE ... 27

FIGURA 7: PROTEINCHIP TAMPONI, KIT E REAGENTI ... 32

FIGURA 8: PROTEINCHIP ARRAYS ... 32

FIGURA 9: SELDI-TOF-MS ... 35

FIGURA 10: COLONNINE PER ELIMINARE UREA ... 42

FIGURA 11: BEUTA PER FILTRAZIONE SOTTOVUOTO ... 44

FIGURA 12: FILTRI 3K; PROCEDIMENTO DI ELIMINAZIONE SALI ... 46

FIGURA 13: IMMAGINI INGRANDITE DEI PICCHI RITROVATI NELLE FRAZIONI OFF-GEL. A) PICCO V83 CON M/Z 13288 DELLA FRAZIONE CPN PI 6.1. B) PICCO V21 CON M/Z 4548 DELLA FRAZIONE CON PI 4.9 ... 48

FIGURA 14: CROMATOGRAMMA DELLA FRAZIONE SALIVARE MARCATA CON FITC ... 50

FIGURA 15: ZOOM DEL CROMATOGRAMMA CHE RAPPRESENTA LE FRAZIONI RACCOLTE DA HPLC ... 51

Indice delle tabelle

TABELLA 1: FIBROMYALGIA IMPACT QUESTIONNAIRE ... 14

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Introduzione

La Fibromialgia è una patologia muscoloscheletrica cronica non infiammatoria ad eziologia sconosciuta, caratterizzata da dolore diffuso, presenza di punti algogeni (tender points) e da una varietà di sintomi aspecifici e disfunzioni di accompagnamento. I sintomi principali comprendono affaticamento cronico, sonno non ristoratore, rigidità mattutina, disturbi dell'umore, ansia, depressione, disfunzioni cognitive (problemi di memoria, difficoltà di concentrazione, diminuzione chiarezza mentale), intestino irritabile e sindrome della vescica, disfunzione sessuale. Per la diagnosi e per la classificazione della patologia sono considerati tuttora validi i criteri dettati dall’ACR (“American College of Rheumatology”). Il primo criterio è la presenza, da almeno tre mesi, di un dolore muscolo-scheletrico diffuso che interessa i quattro quadranti del corpo sia nella parte superiore sia inferiore del lato destro e sinistro del corpo, includendo tra le zone lese anche la colonna vertebrale che può essere considerata il quinto quadrante. La sola percezione del dolore però non è sufficiente a diagnosticare la malattia, è necessario, infatti, riscontrare anche la dolorabilità di almeno 11 dei 18 “Tender Points”, riportati come secondo criterio, in risposta a digitopressione. Tuttavia l’interpretazione dei suddetti criteri è soggetta a critiche e la molteplicità dei sintomi, la sovrapposizione ad altre patologie e, quindi una patogenesi ed un’eziologia ancora sconosciuta, non permettono una diagnosi specifica. Negli ultimi anni sono stati eseguiti inoltre numerosi studi riguardanti marcatori specifici per la fibromialgia, senza però riscontrarne successo; allo stato attuale infatti, non esistono marcatori specifici e la diagnosi è fondamentalmente clinica.

Studi precedenti, condotti dal gruppo di ricerca in cui ho svolto questo lavoro di tesi, hanno confrontato le proteine della saliva di soggetti affetti da fibromialgia e gruppi di controllo, rivelando tramite analisi con strumentazione surface-enhanced laser

desorption/ionization-time of flight-mass spectrometry (SELDI-TOF-MS), la presenza

di quattro picchi diversamente espressi tra sani e malati rispettivamente a 4423, 4548, 7354, 13288 Dalton (Da). Il solo utilizzo del SELDI-TOF-MS, tuttavia non consente l’identificazione dei picchi osservati. In questo lavoro di tesi abbiamo quindi portato avanti un tipo di studio alternativo affiancando lo studio tramite SELDI-TOF-MS ad altri due tipi di analisi proteomica: HPLC di gel cromatografia che permette la separazione delle proteine salivari sulla base del loro peso molecolare e l’OFF GEL, che

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4 permette la separazione delle proteine secondo il punto isoelettrico. In particolare, la cromatografia liquida ad alta pressione è la tecnica cromatografica liquida maggiormente utilizzata negli studi di proteomica per la separazione dei costituenti di una miscela e la gel cromatografia permette che la separazione avvenga in base al loro peso molecolare. Questa metodica permette una separazione sfruttando diversi vantaggi: alta velocità, elevata risoluzione, efficienza e sensibilità per la separazione di macromolecole, permettendo inoltre il rilevamento di specie a bassa concentrazione. Rende anche possibile il recupero del campione in diverse frazioni, relative a una differente porzione del cromatogramma e contenenti quindi proteine all’interno di un preciso range di peso molecolare. Tali proteine possono essere facilmente utilizzate per un’analisi più dettagliata al SELDI-TOF-MS, tecnica che permette di evidenziare la presenza di un pattern di proteine potenzialmente utili a discriminare pazienti con fibromialgia da soggetti sani, e quindi identificare biomarcatori salivari nei pazienti affetti da fibromialgia.

Sono stati analizzati campioni salivari, provenienti da analisi OFF GEL, dopo purificazione da urea, tramite HPLC-SEC, utilizzando i parametri ottimizzati dall’analisi di saliva marcata con FITC.

Quindi lo scopo di questa tesi è di valutare, tramite tecniche di analisi proteomica molto valide, quali SELDI-TOF-MS, OFF GEL e HPLC-SEC, gli effettivi cambiamenti dei profili delle proteine salivari presenti in pazienti affetti da fibromialgia. Dunque, partendo da queste mappature, riuscire a identificare eventuali marcatori biologici utili per stilare diagnosi e prognosi della patologia.

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Capitolo 1

1.1 Fibromialgia

1.1.1 Definizione

La Fibromialgia (FM) o sindrome fibromialgica (SFM) è una patologia muscolo-scheletrica cronica non infiammatoria, la quale può presentarsi sia come disturbo di natura primaria, in cui è la patologia stessa a causare i diversi sintomi, sia come disturbo secondario, ossia in associazione con altre patologie autoimmuni: artrite reumatoide, sclerosi sistemica, sindrome di Sjögren, tiroidite autoimmune, tetania e sindrome dell’affaticamento cronico[1]. Con il termine FM (da “fibro” che fa riferimento ai tessuti fibrosi e “mialgia” che indica l’intenso dolore muscolare percepito dai soggetti malati) si intende quindi una malattia reumatica che colpisce i muscoli provocando un aumento della tensione muscolare, responsabile di algie muscolo scheletriche diffuse, rigidità e parestesie. La FM è una patologia cronica molto complessa e particolarmente intensa; storicamente è stata definita “fibrosite”, a causa del dolore e della rigidità muscolare che interessa i pazienti e che quindi veniva collegata ad uno stato infiammatorio, successivamente invece ne è stata definita una genesi psicologica escludendo quella infiammatoria[2]. Nel 1990, per la diagnosi e per la classificazione, sono stati dettati criteri da parte dell’ACR (American College of Rheumatology), che la definisce come una condizione di dolore cronico, diffuso, associato ad una vasta gamma di sintomi aspecifici o disfunzioni, quali affaticamento, astenia, disturbi del sonno, depressione, ansia, fascicolazioni, parestesie, disturbi neurocognitivi, acufeni, dolore temporo-mandibolare, disfunzione sessuale e altri stati cronici come colon irritabile. La malattia quindi si presenta come un disordine multifattoriale e il complesso quadro sintomatologico può essere influenzato negativamente da fattori esterni, come freddo, umidità, ma anche eventi stressanti, periodi di inattività o sovraccarico funzionale [1]. Quindi perché la diagnosi possa essere definita positiva alla patologia, i pazienti devono riscontrare questi criteri [3]:

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6  Presenza, da almeno tre mesi, di dolore muscolo-scheletrico diffuso a livello dei quattro quadranti del corpo, ossia parte superiore, inferiore, destra e sinistra di esso, considerando anche dolore alla colonna vertebrale, definita il quinto quadrante; la sola percezione del dolore non è sufficiente a diagnosticare la malattia.

 Dolore diffuso in risposta a “tender points”( Figura 1), ossia 18 punti dolenti alla digitopressione in corrispondenza di specifiche sedi muscolari e tendinee che caratterizzano la FM.

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7 1.1.2 Epidemiologia e Eziopatogenesi

La FM è una malattia molto complessa ad eziopatogenesi sconosciuta, per la quale non esistono tecniche laboratoristiche o strumentali specifiche. Quindi risulta difficile sia la sua diagnosi sia la classificazione. Infatti i criteri ACR, nonostante siano stati aggiornati, non permettono comunque una descrizione della patologia in maniera specifica; non sono definiti da dati strumentali, ma solo clinici, inoltre identificano solamente un sottogruppo di pazienti nei quali il dolore è molto più diffuso rispetto ad altri, non rappresentando quindi interamente la popolazione osservata [4] ,[1]. Sebbene tutti i casi in cui si manifesta la FM sono accumunati da un’intensa sofferenza muscolare, che tende a peggiorare nel tempo, accompagnata da ipossia (scarsa concentrazione di ossigeno nel tessuto muscolare), si riscontra difficoltà nell’identificazione e nella definizione della patologia, dovuta anche alla molteplicità dei sintomi che si sovrappongono ad altre patologie e che rendono quindi la diagnosi meno chiara[5].

Quindi, a fronte di quanto detto sopra, anche dal punto di vista epidemiologico si riscontrano delle difficoltà nella valutazione e un numero limitato di studi su incidenza e prevalenza che rendono meno agevole la messa a punto di una corretta mappa epidemiologica della malattia. La FM presenta una prevalenza che sta tra 0,5% e 5%, dipendente dal tipo di studi fatti sulla popolazione e dal tipo di criteri usati [6]. In particolare, secondo gli studi, il sesso femminile presenta un rischio maggiore con rapporto maschi/femmine di circa 1:9. La motivazione della maggiore prevalenza femminile non è del tutto nota; sembra probabile che debba essere ricondotta ad una diversa interazione tra fattori genetici, biologici, psicologici e socio culturali tra i due sessi[7],[2]. Generalmente i sintomi appaiono tra i 20 e i 60 anni e sembra che la prevalenza aumenti con l’aumentare dell’età, ma una FM giovanile può colpire adolescenti e bambini dai 10 anni o meno, con prevalenza molto variabile e con possibile scarsa identificazione della patologia[8].

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8 FM e fattori esterni

La non identificazione immediata può dipendere anche dal fatto che i sintomi, e quindi la patologia stessa, possono rimanere latenti per anni ed essere innescati da fattori esterni fondamentali nel determinarne lo sviluppo. In particolare alcuni fattori di stress, quali traumi fisici (soprattutto quelli che colpiscono il tronco), interventi chirurgici, malattie infettive (HIV, virus di Epstein-Barr, virus di epatite C), stress emozionali, eventi catastrofici, disturbi di natura autoimmune e qualsiasi altra condizione che provochi dolore, possono essere implicati nell’origine della FM. Inoltre anche quando tali eventi non si sono verificati, almeno in maniera apparente, un’attenta indagine riesce a documentare comunque un trauma psichico più o meno recente che si può dimostrare correlato all’insorgenza della patologia[2]. Questi fattori di stress scatenano dolore cronico diffuso solo nel 5-10% degli individui colpiti, quindi la maggior parte di essi, dopo essere stati coinvolti in eventi traumatici, comunque riacquistano il loro normale stato di salute[9]. Nonostante i diversi fattori esterni, sopra riportati, possano innescare lo sviluppo di questa condizione, la risposta dell’uomo verso di essi è stata esaminata attentamente nei termini di un possibile rapporto causa-effetto e si è riconosciuto che il sistema che la controlla è mediato dal rilascio di due particolari ormoni, la norepinefrina e la corticotropina, anch’essi potenzialmente coinvolti nella genesi della patologia[10].

Quindi i fattori ambientali esterni possono essere determinanti, talvolta non sono però sufficienti a scatenare la patologia; approfonditi studi hanno dimostrato, infatti, che anche i fattori genetici possono predisporre gli individui alla FM[11],[12] .

FM e fattori genetici

I fattori genetici possono predisporre un soggetto alla FM e quindi la presenza di soggetti malati in famiglia può costituire un campanello d’allarme per un' eventuale predisposizione genetica[11],[12],[13]. Secondo diversi studi significativi la FM è legata a diverse condizioni psichiatriche e mediche definite “affective spectrum

disorder”( ASD ), le quali includono: depressione maggiore (MDD) , sindrome di ansia

generalizzata (GAD), disturbo premestruale disforico, disturbo da deficit di attenzione/iperattività ( ADHD), bulimia nervosa, sindrome dell’intestino irritabile (IBS) e altre condizioni come emicrania e cataplessia. Infatti i pazienti affetti da FM,

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9 secondo questi studi, avevano una maggiore probabilità di intercorrere in almeno un'altra di queste condizioni rispetto a individui sani[14]. Studi recenti, basati sulle relazioni tra due condizioni psichiatriche (ASD E GAD) e disordini somatici (FM, IBS e cefalea ricorrente), hanno confermato l’influenza di due fattori: uno, di natura prettamente genetica, condiviso dalle patologie psichiatriche (MDD e GAD), l’altro, di natura ambientale, più specifico per le affezioni somatiche. Questo conferma ulteriormente la costante relazione tra genetica e fattori ambientali[15]. Per quanto riguarda l’influenza genetica alla base dei disturbi dell’umore, sono state identificate alterazioni geniche, correlate anche allo stato di dolore, che potrebbero essere fattori di rischio di FM. I geni coinvolti includono il trasportatore della serotonina (5HTT), il recettore serotoninergico 5HT2A, le cotecolamminotranferasi (COMT) e il recettore dopaminergico D4 [16], [17]. In particolare l’associazione tra FM e l’allele “s” del trasportatore della serotonina legante la regione polimorfica (5HTTLPR) indica una relazione tra esso e svariati fattori di rischio di FM: ansia, MDD, bipolarismo, psicosi, nevrosi e anche ADHD. La conclusione di diversi studi è che un polimorfismo a singolo nucleotide (SNP) del gene 5-HTT possa provocare un aumento della sensibilità dolorifica in pazienti affetti da FM e essere alla base dell’associazione tra esposizione a fattori di stress e depressione [17],[18],[19]. Studi riguardanti il recettore serotoninergico 5HT2A hanno invece riscontrato che polimorfismi del fenotipo T/T si verificano maggiormente a livello di pazienti affetti da FM e che il solito allele, in presenza di un buon nutrimento materno, è associato a sintomi depressivi minori rispetto al genotipo C/C. Questo sottolinea quindi il fatto che i fattori ambientali giochino un ruolo importante nello sviluppo di disturbi umorali[20],[21]. Anche le COMT sono coinvolte nella FM. I geni COMT codificano per enzimi coinvolti nel metabolismo delle catecolammine (norepinefrina e dopamina) e influenzano, quindi, fenotipi riguardanti la sfera cognitiva e affettiva, inclusi quelli del dolore; sono quindi implicati nella patogenesi di emicrania e ansia, oltre che in disturbi cardiovascolari[19]. Inoltre tramite diversi studi è stato determinato il coinvolgimento di polimorfismi delle COMT in risposta a stress, MDD, ADHD, ansia, schizofrenia e disturbi cognitivi[17]. Infine altri studi hanno stabilito una connessione tra FM e recettori dopaminergici D4: alcuni hanno dimostrato che esiste un'associazione tra FM e il genotipo DRD4 exon III 7 ripetuto, il quale è significativamente basso in pazienti affetti da FM, mentre altri hanno riportato una corrispondenza tra polimorfismi riguardanti il gene trasportatore

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10 della dopamina ( DAT-1) e tolleranza al dolore[22][23] .

In conclusione, le cause genetiche alla base della FM riguardano alterazioni nella regolazione delle monoammine e dei segnali infiammatori; si potrebbe ipotizzare quindi che queste alterazioni genetiche nei confronti di stati depressivi e di dolore possano tradursi in una sottoregolazione dei circuiti coinvolti nella modulazione di risposte allo stress, al dolore e a stati emozionali[17].

FM e sistema nervoso centrale e periferico

Secondo un’ipotesi largamente riconosciuta le cause scatenanti la FM sembrerebbero affondare le proprie radici nel sistema nervoso centrale e periferico. I segnali del dolore vengono infatti rilevati da terminazioni nervose nocicettive periferiche e convogliati verso neuroni situati a livello dei gangli delle radici dorsali (DRG). Il segnale poi è dirottato tramite fibre-C e A-delta ai neuroni sensoriali secondari localizzati nella colonna dorsale del midollo spinale (Figura 2), [17]. La sensibilizzazione periferica, riscontrata nella patologia, oltre ad alterazioni funzionali delle membrane nervose e dei segnali endocellulari, può essere dovuta anche ad alterazioni della connettività sinaptica negli assoni contenuti nei gangli della radice dorsale (che potrebbe portare ad un aumento della percezione dolorosa) o in seguito a scariche ectopiche e comunicazione efaptica tra fibre nervose (trasferimento elettrico dei segnali diretto). La sensibilizzazione centrale nel dolore neuropatico (NEP) invece può essere causata da un danno a carico dei neuroni GABA-inibitori, determinando così un potenziamento della trasmissione nocicettiva[17], [24].

Nella FM, inoltre, sono state dimostrate alterazioni di numerosi neurotrasmettitori; per esempio, la ridotta concentrazione di serotonina e 5-idrossi-triptofano nel liquor e nel plasma, la ridotta produzione di melatonina o l’aumento di oltre tre volte della concentrazione di sostanza P del liquor. Questi sono tutti segnali di un’alterazione dei meccanismi fisiologici riguardanti la modulazione del dolore e la regolazione del sonno che sono alla base della FM. Le manifestazioni muscolari della malattia (rigidità, dolore diffuso), invece, derivano da una regolazione delle vie simpatiche midollari, secondaria alle alterazioni centrali, che controllano la vascolarizzazione e la contrazione muscolare[2].

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Figura 2: Trasmissione nocicettiva

FM e autoanticorpi

La FM viene considerata, come detto precedentemente, una malattia di natura non infiammatoria e non autoimmune. Nonostante ciò, è stata riscontrata la presenza di autoanticorpi nel siero di pazienti affetti dalla patologia e diversi studi hanno cercato di dimostrare la relazione tra la loro presenza e la patogenesi della FM stessa[20], [25]. In particolare sono stati individuati due anticorpi possibili biomarcatori: anti-68/48 kD per alcuni sottogruppi clinici di FM primaria e sindrome da stanchezza cronica, e anti-45 kD per FM secondaria e disturbi psicologici [26]. La presenza di anticorpi anti-68/48 kD è stata riscontrata in pazienti affetti da FM con presenza di fatica cronica manifestata tramite ipersonnia e/o disturbi cognitivi. Inoltre studi riportarono che la presenza di anticorpi tiroidei, maggiormente coinvolti nell’emicrania, in pazienti affetti da FM era simile a quella riscontrata in pazienti con artrite reumatoide (RA), ma più elevata rispetto a gruppi di controllo. E’ stata rilevata anche la presenza di anticorpi anti-polimerici (APA) con risultati però contrastanti: Wison et al. hanno trovato una maggiore prevalenza di APA (67%) nei pazienti FM proveniente dagli Stati Uniti[27], mentre Bazzichi e collaboratori ne hanno trovato una percentuale inferiore (23%) [28]. Inoltre è stato verificato che anticorpi quali l’antiganglioside, l’antiserotonina e l’antifosfolipide sono presenti ad un livello superiore nel siero di pazienti affetti da sindrome fibromialgica [25]. Un altro gruppo di studio è stato in grado di confermare la

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12 prevalenza di anticorpi contro la serotonina e la tromboplastina, ma si è concluso che i dati non sono sufficienti ad accertare la rilevanza diagnostica degli anticorpi proposti [29].

Finora, quindi, nessuno degli autoanticorpi suddetti è stato ancora adeguatamente validato per la malattia.

FM e infiammazione

Sulla base dell'ipotesi che l'origine di tutto il dolore riscontrato in pazienti FM sia la risposta infiammatoria, particolare attenzione è stata focalizzata su di essa. Dal 1988 è noto che a livello del liquido spinale dei pazienti FM si riscontri un aumento dei livelli della sostanza infiammatoria P (SP) [30]. Negli ultimi anni, è stato rilevato che citochine infiammatorie possono essere coinvolte nella sindrome FM; in particolare IL-6 e IL-8, il quale rilascio è stimolato da SP, possono essere alla base dei sintomi FM Infatti IL-8 promuove dolore simpatico e IL-6 è associato a ipersensibilità al dolore, stanchezza e depressione[20]. Sono stati inoltre rilevati livelli elevati di IL-10 IL-8 e fattore di necrosi tumorale –alfa (TNFα) in pazienti FM rispetto ai controlli. Studi più approfonditi su IL-10, citochina antinfiammatoria antagonista di TNFα e IL-1β, però sembrano essere discutibili, poiché le sue concentrazioni nel siero di pazienti FM o aumentano o non presentano cambiamenti significativi rispetto ai controlli[31],[32]. Quindi non risulta ancora chiaro quali siano le fonti di innesco di un infiammazione; è stato anche proposto che la FM sia dovuta ad una risposta infiammatoria neurogenica ad allergeni, agenti infettivi, prodotti chimici o dovuta a stress emotivo [30]. In aggiunta a ciò, tenendo presente che le anomalie meccaniche del rachide cervicale o lombare possono essere riscontrate come una possibile eziologia della FM, è stato dedotto che l’infiammazione possa derivare da questi disturbi e quindi possa essere una delle cause di FM piuttosto che una conseguenza. Inoltre va tenuto conto che spesso la FM presenta sintomi riscontrati anche nella depressione e che questa viene associata ad un aumento della produzione di citochine pro-infiammatorie, con conseguente attivazione della risposta infiammatoria, e quindi le due patologie possono essere accumunate [33],[34].

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13 1.1.3 Diagnosi

Come diretta conseguenza di un’eziopatogenesi complessa e ancora poco chiara, anche la diagnosi della patologia risulta essere molto difficile. Per questa si utilizzano i criteri stabiliti dall’American College of Rheumatology (ACR) nel 1990, di cui si è parlato precedentemente. Per quanto riguarda il primo criterio la sola percezione del dolore non è sufficiente a diagnosticare la malattia, pertanto in associazione allo stesso, è necessario riscontrare la dolorabilità di almeno 11 dei 18 “Tender Points” , riportati nel secondo criterio, in risposta a digitopressione. Tuttavia l’interpretazione dei suddetti criteri è soggetta a critiche: il limite netto di undici punti non è del tutto riscontrabile, in quanto ogni inserzione tendinea e ogni muscolo sono dolenti nel soggetto fibromialgico e la dolorabilità dei vari tender points potrebbe variare spontaneamente giorno dopo giorno [4]. Inoltre, sebbene i criteri siano stati utilizzati per standardizzare i diversi gruppi di pazienti, la diagnosi della FM è essenzialmente clinica e le metodiche di laboratorio non sono di facile accessione. Questo rende pressoché impossibile ricondurre alla FM soggetti che presentano una medesima prognosi e caratteri sintomatici omogenei [35],[36],[37].

La difficoltà nel formulare una diagnosi formale di FM è anche dovuta al fatto che molti dei sintomi imitano quelli di altre condizioni (dolori reumatici, disturbi psichiatrici e altri disturbi somatici), per questo sarebbe necessario escludere malattie reumatiche prima di procedere alla diagnosi. E’ stato inoltre stimato che da quando il paziente riscontri i primi sintomi al momento in cui FM è formalmente diagnosticata, possono passare 5 anni [38], [39].

Per definire l’ampio range di sintomi riscontrati comunemente e fornire buone indicazioni sull’impatto che questa patologia ha sulla vita dei pazienti, questi vengono sottoposti al FIQ test (Fibromyalgia Impact Questionnaire) ( Tab 1). Il test consiste in 10 quesiti, da cui deriva poi un punteggio (punteggio totale FIQ), che indica l'impatto della malattia sulla vita; il punteggio va da un minimo di 0 (nessun impatto) a un massimo di 100 (massimo impatto) e, anche se non è definito clinicamente significativo, su questa scala la maggior parte dei pazienti con diagnosi di FM hanno un punteggio totale FIQ di almeno 50 (su un massimo di 100 vedi tabella 1), mentre pazienti gravemente afflitti presentano spesso un punteggio di 70 o più [38].

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14 Tab.1 FIBROMYALGIA IMPACT QUESTIONNAIRE ( FIQ)

DOMANDA 1 funzioni fisiche

Durante le scorse settimane sei stato capace di:

Fare shopping?

Fare il bucato con lavatrice ed asciugatrice? Preparare pasti?

Lava Aspirare un tappeto?

Pulire i piatti / utensili da cucina a mano? Fai letti?

A piedi diversi isolati? Visitare amici o parenti?

Fare lavori in giardino o il giardinaggio? Guidare la macchina?

S

salire le scale?

( sempre, quasi sempre , a volte, mai)

Domanda 2

La scorsa settimana, quanti giorni ti sei sentito bene?

( 1-7) Domanda 3

Quanti giorni la settimana scorsa non le è stato possibile andare a lavoro o fare mestieri di casa

a causa della fibromialgia? ( 1-7)

Domanda 4

Quanto il dolore o sintomi della Fibromialgia hanno interferito con la sua capacità di svolgere il suo lavoro , compresi i mestieri di casa

(Nessun problema, grande problema) Domanda 5

Come descriverebbe il dolore? ( assente, molto grave)

Domanda 7

La sua sensazione di stanchezza è stata? (Assente,molto intensa)

Domanda8

Come descriverebbe il risveglio mattutino?

( ben riposato, molto stanco) Domanda 9

Come descriverebbe il suo livello di ansia e nervosismo?

(Basso,alto) Domanda 10

Come descriverebbe il suo livello di malinconia e depressione? ( basso, alto)

Tabella 1: Fibromyalgia Impact Questionnaire

1.1.4Terapia

La FM è una patologia fortemente dolorosa che condiziona la quotidianità dei pazienti colpiti. Ha un impatto negativo nella loro capacità lavorativa, nella vita di famiglia e, in generale, nella qualità della loro vita, e in quanto tale deve essere quindi curata. A causa però della sua eziologia sconosciuta e della patogenesi poco chiara non esiste un regime terapeutico standard. Infatti, ad oggi, l'Agenzia europea per la valutazione dei medicinali o la Food and Drug Administration non hanno ancora approvato una terapia per il trattamento del dolore della FM o sindrome nel suo complesso [33].

I trattamenti farmacologici vengono combinati con trattamenti non farmacologici, ai quali, ormai molto spesso, i pazienti fibromialgici ricorrono a causa di uno scarso impatto dei farmaci nel decorso della malattia [39].

Le terapie farmacologiche sono basate su antidepressivi e analgesici, che agiscono sui meccanismi “centrali” della patologia, e miorilassanti e antiepilettici, che agiscono

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15 invece sulla manifestazione “periferica” della FM e dunque sulla contrattura muscolare. Associati ad esse vi sono le terapie non farmacologiche, che includono esercizio fisico, il massaggio, la terapia cognitivo-comportamentale, ecc [39]. Oggi terapie, come l'esercizio fisico, sono raccomandate nella gestione dei sintomi FM assieme trattamento farmacologico. Infatti, è stato dimostrato che l'allenamento e l'esercizio aerobico migliorano funzione fisica, stress psicologico e altri parametri che riguardano la qualità del vita dei pazienti FM.

Allo stato attuale, non esistono marcatori specifici di FM, e molti di loro sono usati solo per capire i meccanismi patogenetici e per identificare sottogruppi di pazienti.

Pertanto è opportuno individuare biomarcatori precisi di FM in accordo con criteri fattibili e riproducibili, a fini diagnostici e terapeutici [35].

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16

1.2 La saliva

La saliva come fluido diagnostico è il campione d’indagine selezionato per questo lavoro di tesi. Negli ultimi dieci anni, l'utilizzo della saliva come matrice biologica non convenzionale alternativa al sangue è aumentato esponenzialmente; in diversi campi di applicazione è stata rivolta l'attenzione su di essa come mezzo diagnostico per individuare e predire la progressione di alcune patologie[40].

In particolare, la saliva viene utilizzata in clinica e nella ricerca in diversi campi (virologia, immunologia, microbiologia, endocrinologia, epidemiologia) per l’indagine di biomarcatori proteici di numerose patologie, quali infiammazioni sistemiche (malattie cardiovascolari ) e locali (carcinomi), o patologie virali (HIV); in ambito pediatrico per le indagini di paternità e in tossicologia nella determinazione di sostanze esogene nell’ambito di infortunistica stradale ed infine nel monitoraggio degli effetti terapeutici dei farmaci (TDM, Therapeutic Drug Monitoring) [41], [42],[43]. Infatti in questo senso la saliva presenta diversi vantaggi rispetto ad altri fluidi biologici; permette di utilizzare un metodo di prelievo non invasivo per il paziente ,il quale può effettuarlo in totale autonomia o comunque aiutato da personale con preparazione limitata e senza particolari attrezzature, permette inoltre di superare il problema del prelievo ematico, non gradito da pazienti poco collaborativi come bambini, anziani e portatori di handicap, e di diminuire il rischio di contrarre infezioni durante il prelievo; offre poi un approccio conveniente per screening su ampia popolazione riducendo fortemente i costi, fattore questo che rappresenta un indubbio vantaggio. Inoltre è una matrice meno complessa rispetto al sangue e, di conseguenza, anche le procedure richieste per la manipolazione, il trattamento e l’analisi dei campioni sono più semplici [41][44].

Il suo impiego però presenta anche alcuni svantaggi: a causa delle variazioni delle biomolecole presenti, non sempre riflette in maniera affidabile le loro concentrazioni plasmatiche, inoltre la sua composizione è influenzata dal grado di stimolazione del flusso salivare, oltre che dal metodo di raccolta, infine presenta analiti in concentrazione nettamente inferiori al plasma per cui servono metodi di rilevazioni molto sensibili [45],[46].

La saliva è una secrezione esocrina prodotta a livello del cavo orale ad opera di ghiandole salivari. La sua composizione è mista (mucosierosa) caratterizzata da diverse

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17 componenti organiche ed inorganiche importanti per svolgere le sue diverse funzioni. A livello di un soggetto sano vengono prodotti dai 500 ai 1500ml di saliva al giorno, con un flusso medio di 0,5 ml/min. Questa stima è variabile poiché condizionata da molteplici fattori come sesso, età, nutrizione e stato emotivo, inoltre la produzione di saliva non è costante e varia durante la giornata. Il 90% del fluido salivare viene prodotto dalle ghiandole salivari maggiori (parotidi, sottomandibolari, sottolinguali) e

minori (labiali, linguali, palatine, buccali, molari, incisive e nasofaringee) e per un 10%

è rappresentata dal fluido gengivale crevicolare[47]. La sua composizione dipende da diversi fattori, come lo stimolo, la velocità di produzione e la ghiandola dalla quale viene secreta. In particolare è costituita per il 99% da acqua e 0,5% di residuo secco, a sua volta costituito per il 60% circa da sostanze organiche e per il 40% da sali inorganici di potassio, sodio, calcio, sotto forma di cloruri e carbonati[48].

L’importanza fisiologica della saliva è giustificata dalle diverse funzioni che essa svolge all’interno dell’organismo umano grazie alle sue componenti proteiche (TAB)[47],[49],[50] :

Digestione di carboidrati e grassi (amilasi); Valorizzazione del gusto (anidrasi carbonica);

Lubrificazione del cibo e facilitazione della deglutizione (mucina); Azione antimicrobica (lisozima, lattoferrina);

Azione tamponante protettiva del cavo orale (urea);

Protezione dentale; inibiscono la precipitazione del calcio: la staterina e la PRP permettono la mineralizzazione dello smalto legandosi allo ione Ca++;

Inibizione delle proteinasi (cistatina, inibitori della serina proteinasi e delle metalloproteinasi);

intervengono nei processi di trascrizione, proliferazione cellulare e chemiotassi. La raccolta di saliva direttamente dalle ghiandole che la producono può essere utile per individuare alcune patologie specifiche delle ghiandole, mentre per la diagnosi di diverse malattie sistemiche viene prelevata la saliva presente a livello del cavo orale. A livello salivare infatti si ritrovano diverse sostanze, tra cui proteine, ormoni, acidi

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18 nucleici ed elettroliti provenienti da più sedi, sia locali (cavo orale) che sistemiche. La saliva contiene infatti alcuni costituenti del siero che raggiungono le ghiandole salivari attraverso una via intracellulare (diffusione passiva) o attraverso una via extracellulare (ultrafiltrazione attraverso le giunzioni strette tra le cellule) [51]. Queste sostanze danno informazione circa lo stato di salute, la condizione nutrizionale, l’adattamento ambientale e in particolare circa lo stato patologico di un individuo. Nonostante comunque i costituenti plasmatici non siano riscontrati a livello salivare alle solite concentrazioni del siero, l’interesse verso il prelievo salivare è cresciuto esponenzialmente, come detto in precedenza, e lo studio della saliva risulta avere una certa importanza nell’identificazione dei componenti proteici di un campione mediante analisi proteomica. Lo studio del proteoma salivare umano permette infatti di identificare biomolecole salivari associate nell’uomo allo stato di salute o malattia[51]. La proteomica viene quindi utilizzata come tecnica per studiare le proteine presenti a livello salivare, ed individuare marcatori proteici utili per la diagnosi e il trattamento di diverse patologie; infatti mettere a confronto pazienti sani con pazienti malati potrebbe evidenziare livelli di proteine che possono poi essere utilizzati come possibili biomarcatori.

Nella pratica si vengono in questo modo a valutare gli effettivi cambiamenti dei profili delle proteine, che incorrono nella patologia nel corso di un tempo ben definito, e dunque, partendo da queste mappature, L’obiettivo sarebbe quello di riuscire a identificare eventuali marcatori biologici utili, sia dal punto di vista diagnostico che dal punto di vista prognostico, per controllare l’evoluzione della patologia nei pazienti.

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1.3 Proteomica

La proteomica, termine coniato nel 1995, è una disciplina scientifica che studia il

proteoma, l’insieme delle proteine appartenenti a una linea cellulare, ad un organismo o

ad un sistema biologico, ossia proteine prodotte dal genoma[52], [53],[54]. Lo studio del proteoma è quindi fondamentale per comprendere la fisiologia e i processi biologici degli esseri viventi essendo le proteine necessarie per svolgere le attività biologiche e non i geni; infatti attraverso il solo studio del genoma non sarebbe possibile ottenere informazioni circa i meccanismi patologici, le modificazioni post-traduzionali, l’interazione tra le proteine e i possibili target farmacologici[55],[56],[57]. La proteomica si rivela quindi complementare alla genomica ed essenziale per la comprensione dei meccanismi biologici; il proteoma quindi viene definito come un’entità dinamica, in quanto cellule di uno stesso organo possono esprimere proteine differenti e lo stesso tipo di cellule, in base a diverse condizioni fisiologiche (età, malattia, ambiente), potrebbe esprimere proteine diverse[58],[59],[60].

Questa scienza mira ad indagare e stabilire l’identità, la quantità, la struttura e le funzioni biochimiche e cellulari di tutte le proteine presenti in un tessuto, in una cellula o in un comparto subcellulare, descrivendo come queste proprietà siano variabili nello spazio, nei tempi o in un determinato stato fisiologico. Negli anni questa tecnica si è nettamente evoluta con grande interesse da parte della scienza e viene utilizzata per [61],[62],[63]:

 comparazione tra tessuti malati e normali;

 comparazione tra tessuti malati e trattati farmacologicamente;  identificazioni di nuovi bersagli proteici per i farmaci;

 studio delle modificazioni post-traduzionali;  strategie integrate con la genomica;

 analisi dei tessuti nelle patologie tumorali;  monitorare processi cellulari;

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20 Gli attuali studi di proteomica sono prevalentemente focalizzati su due aree principali:

Proteomica funzionale: ha come obiettivo la definizione della funzione biologica delle proteine, il cui ruolo è ancora sconosciuto, l’identificazione di interazioni tra di esse e le eventuali modificazioni post traduzionali al fine di approfondire i meccanismi cellulari; Proteomica profiling: fornisce la descrizione dell’intero proteoma di una cellula, organismo o tessuto; si basa sullo studio qualitativo e quantitativo dei diversi profili di espressione delle proteine e comprende la loro identificazione e localizzazione.

Un’altra metodica importante sotto questo punto di vista è considerata la “proteome mining” che è finalizzata all’identificazione delle interazioni farmaco-proteina altamente selettive, consiste in uno screening di una vasta gamma di composti chimici contro un proteoma e fornisce utili informazioni sulla specificità di suddetti composti verso le proteine target.

Un classico approccio proteomico prevede tre fasi: 1. Scelta, preparazione ed estrazione del campione.

2. Separazione della miscela proteica mediante tecniche cromatografiche o elettroforetiche.

3. Identificazione delle proteine tramite l’uso della spettrometria di massa, seguito da analisi bioinformatica dei dati.

Le tecniche proteomiche rientrano in un range molto vasto, dove vengono integrati metodi biologici, chimici ed analitici. La spettrometria di massa (MS), accoppiata a diversi metodi di separazione di proteine, è la tecnica principalmente utilizzata; altamente sensibile e versatile permette di quantificare le proteine, di determinarne sequenza, massa e informazioni strutturali, come le modificazioni post-traduzionali (le glicosilazioni o le fosforilazioni per esempio)[64],[65],[66]. In particolare il metodo classico e il più utilizzato in questo tipo di studi è caratterizzato dalla combinazione di MS, per identificare le proteine, con l’elettroforesi bidimensionale (2-DE), per separarle con una tecnica ad elevato potere risolutivo. Inoltre vi sono altri metodi come la combinazione di diverse strategie di separazione; ad esempio la cromatografia ad esclusione molecolare (SEC), la cromatografia a scambio ionico (IE), a fase inversa (RP), o altre tecniche cromatografiche[66],[67]. Per il nostro studio abbiamo utilizzato due tecniche proteomiche complementari: HPLC-SEC e SELDI.

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1.4 Cromatografia liquida

La cromatografia è una tecnica analitica, nei tempi sempre più sofisticata, utilizzata per la separazione di sostanze. E’ un metodo fisico che permette la separazione di costituenti di una miscela in base alla loro ripartizione tra due fasi: fase stazionaria (solido o gel), ossia una fase immobile all’interno di una colonna cromatografica, e fase

mobile (liquido o gas), ossia una fase che si muove lungo la colonna, attraversando la

fase stazionaria, e trasportando con sé l’elemento da analizzare, definito analita. In particolare i composti da separare vengono introdotti nella fase mobile e si ripartiscono lungo la colonna cromatografica in funzione della loro affinità relativa per le due fasi (Figura 3); si creano delle interazioni chimiche tra le molecole disciolte nella fase mobile e la superficie della fase stazionaria, che sono diverse per ogni molecola, così ognuna si muove lungo la colonna cromatografica con diversa velocità. Le molecole più affini per la fase stazionaria si muovono in media più lentamente rispetto alle più affini alla fase mobile. Quindi analiti che migrano a velocità differenti si separano formando bande o zone all’interno della colonna e vengono eluiti così separatamente (l’analita più trattenuto dalla fase stazionaria esce per ultimo). In questo modo avviene una separazione.

La scelta delle due fasi avviene in base alle caratteristiche delle molecole da separare, in particolare, la scelta della fase mobile dipende dalla fase stazionaria; tuttavia vi sono dei requisiti generali che una simile fase deve possedere:

 Bassa viscosità (minore è la viscosità, maggiore è l’efficienza)  Immiscibilità con la fase stazionaria

 Capacità di solubilizzare il campione  Elevata purezza

 Non essere tossica, corrosiva e volatile

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Figura 3: Colonna cromatografica

Questa tecnica viene utilizzata in diversi campi della scienza applicata per la sintesi di farmaci e per la purificazione di prodotti in chimica organica, nella scienza alimentare e nella clinica forense e per la separazione di molecole organiche, come le proteine[68],[69].

Tra i diversi metodi di cromatografia, la cromatografia liquida ad alta prestazione (high

performance liquid chromatography HPLC) è quella che trova un largo impiego in

proteomica grazie ai suoi molteplici vantaggi: alta velocità, elevata risoluzione efficienza e sensibilità per la separazione di macromolecole, e in particolare permette di rilevare specie a bassa concentrazione. A fronte di questo è la tecnica maggiormente utilizzata per l’analisi e la purificazione di una vasta gamma di molecole; permette, inoltre, di individuare le interazioni, alla base di tutti i processi biologici, che si creano tra di esse consentendo quindi la purificazione di molecole sulla base della loro funzione biologica o della loro struttura. L’HPLC è quindi diventata la tecnica centrale per la caratterizzazione di peptidi e proteine e svolge un ruolo importante negli sviluppi delle scienze biomediche e biologiche degli ultimi dieci anni[70].

L'HPLC rappresenta un’ evoluzione strumentale rispetto alla cromatografia su colonna a bassa pressione; si utilizza infatti una pressione elevata che permette di separare miscele molto complesse in tempi ridotti.

La strumentazione HPLC utilizzata nella ricerca in proteomica non differisce dalla strumentazione HPLC convenzionale. Sistemi di pompaggio, colonne di separazione e

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23 rivelatori utilizzati per la ricerca proteomica sono sfruttati anche per le analisi convenzionali[71].

Un apparecchio HPLC (figura 4) è costituito da [72]:  riserva della fase mobile;

 Pompa;  Camera di mescolamento  Filtro  Iniettore;  Siringa;  Precolonna;  Colonna;  Rivelatore;  Registratore;  Collettore frazioni; Figura 4: Schema HPLC

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24 Riserva della fase mobile

Consiste in uno o più contenitori in vetro o acciaio, generalmente bottiglie, contenenti 500 ml o più di solvente utilizzato come fase mobile. I contenitori sono collegati a un dispositivo che serve per degassare le soluzioni eluenti, questo perché si possono creare delle bolle d’aria che se entrano in colonna possono causare un’ alterazione della fase stazionaria o compromettere l’efficienza del sistema di pompaggio; inoltre, per eliminare particelle indisciolte, a monte dell’entrata nel macchinario sono presenti filtri di vetro poroso[73].

L’eluizione della fase mobile può avvenire tramite l’utilizzo di uno o più solventi: Eluizione isocratica: la composizione della fase mobile rimane costante durante

tutta la separazione cromatografica.

Eluizione a gradiente: la composizione della fase mobile varia durante l’eluizione per permettere la separazione di tutti i soluti.

Pompe

Trasferiscono la fase mobile dalla riserva del solvente alla colonna cromatografica; si usano pompe pneumatiche o meccaniche e tutte devono fornire un flusso di fase mobile costante e riproducibile, elevate pressioni di ingresso, inerzia chimica, elevata autonomia, velocità di flusso variabili in un range di 0,1-10 ml/m, resistenza alla corrosione verso una grande varietà di solventi. Esse devono inoltre consentire rapide operazioni di ricambio di fase mobile e pulizia ed infine devono essere poco ingombranti e prive di vibrazioni eccessive[73].

Camera di mescolamento

I sistemi di miscelazione in HPLC permettono di utilizzare, come detto, fasi mobili costituite da più solventi e in proporzioni variabili tra loro; tale possibilità risulta fondamentale in quelle situazioni in cui il campione contiene analiti difficili da separare con una sola fase mobile, la cui composizione resta costante durante tutta la separazione cromatografica (eluizione isocratica). Questa camera permette di miscelare i due solventi tra loro.

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25 Filtri

A monte dell’iniettore è inserito un sistema di filtri che impediscono l’entrata in colonna di materiale estraneo. Si impiegano filtri con un diametro fra 5 e 10 mm, che non provocano significative cadute di pressione e bloccano le particelle indesiderate.

Iniettori

L’iniettore (Figura5) è un dispositivo che permette di introdurre il campione nel flusso continuo di fase mobile, con la quale viene trasportato nella colonna cromatografica. E’ caratterizzato da un sistema a valvola (sampling loop), in cui si utilizza una tipica valvola di iniezione integrata da un capillare (loop) di volume opportuno, dove viene iniettato il campione mediante una normale siringa; a seconda del loop varia il volume del campione iniettato in colonna; infatti la caratteristica principale di questo sistema è l’alta riproducibilità dei volumi inietttati. Una manopola permette l’assunzione di due posizioni: quella di caricamento (Load) e quella di trasferimento del campione (Inject). Quando il campione deve essere caricato, la manopola si trova nella posizione di “load”, a questo punto si inserisce l’ago di una micro siringa nell’apposito foro di iniezione fino al blocco, si vuota il contenuto e, per poter trasferire il campione in colonna, si pone la manopola su “inject”. Dopo aver estratto la siringa, prima di procedere a una nuova iniezione, occorre commutare di nuovo la manopola nella posizione di “load".

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26 Precolonna

La precolonna o colonna di guardia è una piccola colonna, che ha la funzione di evitare danneggiamenti della colonna cromatografica ed è impaccata con lo stesso materiale di essa. In particolare rappresenta un sistema di protezione da impurità presenti nel campione o nei solventi della fase mobile, che potrebbero alterare la funzionalità della colonna. Queste sostanze saranno filtrate e trattenute dalla precolonna. I solventi usati nella fase mobile in HPLC devono comunque avere un elevato grado di purezza, e sono filtrati prima dell’uso e degassati per evitare la formazione di bolle che comprometterebbero l’efficienza del sistema di pompaggio[72].

Colonna

La colonna cromatografica rappresenta l’elemento principale in HPLC; consiste in un tubo cilindrico di diametro interno molto piccolo, che contiene il materiale di imballaggio necessario per effettuare la separazione , cioè la fase stazionaria, diversa a seconda del principio chimico-fisico di separazione che si vuole sfruttare. La colonna deve resistere a elevate pressioni, fornire un flusso continuo e costante al suo interno e deve essere inerte al sistema di separazione.

Le colonne possono essere di vetro e si possono utilizzare con pressioni inferiori a 10 atm, ma più comunemente sono in acciaio inossidabile, con diametro interno da 2 a 9 mm e lunghezza da 3 a 30 cm, capaci di sopportare pressioni fino a 300 atm.

La fase stazionaria utilizzata è solida e presenta una granulometria delle particelle molto inferiore rispetto a quella usata nella cromatografia liquida classica; ciò consente di migliorare le prestazioni ed in particolare l’efficienza della separazione.

In HPLC vengono principalmente usate:

Particelle pellicolari: costituite da un nucleo non poroso di forma sferica, rivestito da un sottile strato di materiale microporoso.

Micro particelle porose: possono essere di forma irregolare o sferiche a diverse porosità, si utilizzano in colonne corte e assicurano elevata efficienza e buona capacità.

Esistono in commercio colonne per HPLC già impaccate con materiali porosi preparati in forma di piccole sfere del diametro dell’ordine di 2,5-10 μm, costituite da silice

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27 porosa (Porosil), da polistirene (Poragel) oppure da perline di vetro ricoperte da un sottile strato poroso (Corosil)( Figura6).

Esistono inoltre colonne con diametro interno di 1 mm o meno che consentono di ottenere in minor tempo e con notevole risparmio di solventi, livelli estremamente elevati di sensibilità anche con volumi molto ridotti di campione da analizzare[72],[73].

Figura 6: Colonne cromatografiche

Rivelatori

L’eluato proveniente dalla colonna passa immediatamente nel rivelatore, alloggiato in una “colonna di flusso”, posta a valle della colonna. Un rivelatore ha la funzione di monitorare in continuo l’eluato proveniente dalla colonna in modo da identificare la presenza di analiti ed inviare il suo segnale ad una stazione di dati informatici. Ogni rivelatore deve avere una sensibilità adeguata, buona stabilità e riproducibilità, tempi di risposta rapidi. Esistono diversi tipi di rivelatori, scelti in base alle caratteristiche e alle concentrazioni dei composti che devono essere separati e analizzati:

 Rivelatore a raggi UV;  Rivelatore a fluorescenza;  Rivelatore Elettrochimico;  Rivelatore a indice di rifrazione  Rivelatore a spettrometria di massa

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28 In questo studio di tesi abbiamo usato un rivelatore a fluorescenza. La scelta di utilizzare questo tipo di rivelatore è da ricercarsi nel fatto che, sebbene meno sensibile di un rivelatore a spettrometria di massa, è molto più economico; inoltre, questo rivelatore è da 100 a 1000 volte più sensibile di un rivelatore UV con valori di sensibilità compresi tra 10-9-10-11 g/ml[73].

Il rilevatore a fluorescenza misura l’intensità di una radiazione fluorescente quando un analita viene eccitato con una radiazione UV di opportuna lunghezza d’onda (λ). Esso presenta diversi vantaggi; oltre il basso costo, è molto selettivo, permette infatti di rivelare concentrazioni molto basse di analiti che assorbono i raggi UV o che possono essere resi fluorescenti con l’utilizzo di reazioni di derivatizzazione[73]. Inoltre possiede elevata versatilità (possibilità di selezionare λ tra 190 e 800 nm), selettività (quando si hanno sovrapposizioni di picchi si può variare la λ in modo tale da minimizzare l’assorbimento degli interferenti) e possibilità di utilizzare gradiente di eluizione. Un problema nell’uso di questo rivelatore è che risponde soltanto a pochi analiti fluorescenti, per questo vengono utilizzati spesso marker fluorescenti. La luce UV, proveniente da una lampada al mercurio o allo xenon (filtrata alla λ opportuna) o da un laser, passa attraverso la cella a flusso; quando un campione fluorescente passa attraverso essa, assorbe la radiazione, si eccita e emette una radiazione fluorescente a λ maggiore; l’intensità della luce emessa viene misurata attraverso un fotomoltiplicatore posto a 90° rispetto al fascio incidente. Il rivelatore è collegato alla stazione di dati informatici, la quale registra il segnale per generare un tracciato chiamato cromatogramma sul display e per identificare e quantificare la concentrazione dei costituenti del campione. Il tracciato mostra la separazione degli analiti in funzione del tempo di ritenzione o del volume di fase mobile e della risposta del rivelatore usato. Tutte le apparecchiature sono collegate a un computer che, attraverso un software, gestisce tutte le operazioni connesse all’analisi: caricamento del campione, definizione dei gradienti per l’eluizione e analisi dell’eluato.

Questa tecnica permette di adottare tecniche di separazione diverse : Cromatografia di adsorbimento

Cromatografia di ripartizione Cromatografia di esclusione Cromatografia a scambio ionico Cromatografia a fase inversa

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29 1.4.1 La cromatografia ad esclusione molecolare

Tra le tecniche cromatografiche di HPLC quella maggiormente utilizzata per gli studi di proteomica è la cromatografia ad esclusione molecolare (Size Exclusion Chromatografy SEC) , detta anche cromatografia per filtrazione molecolare o gel cromatografi, in cui la separazione dei costituenti di una miscela avviene in base alla loro dimensione[74]. Operando un confronto con altre tecniche di separazione, la cromatografia ad esclusione molecolare presenta un potere risolutivo ridotto e il campione recuperato alla fine del processo risulta quindi diluito di due /tre volte rispetto alla condizione iniziale[70]. Tuttavia per le applicazioni della SEC (stima del PM, purificazione e analisi di proteine) questo non è fondamentale, e il metodo permette di avere maggiore rapidità in tempi di risoluzione e di recuperare il campione in diverse frazioni, contenenti proteine a diverso peso molecolare.

La separazione avviene, come detto, in base alla dimensione molecolare grazie all’utilizzo di una fase stazionaria avente pori di dimensioni controllate, che fungono quindi da filtro o da setaccio molecolare; questa fase è impaccata all’interno della colonna cromatografica ed è caratterizzata da granuli insolubili, generalmente di silice o comunque polimeri connessi tra loro da ramificazioni e legami crociati, che formano dei reticoli tridimensionali e che, in contatto con la fase mobile, assumono le proprietà di un gel. In particolare il campione passa attraverso la colonna penetrando nel gel: in questo modo le molecole che sono troppo grandi per penetrare nel reticolo gelatinoso vengono completamente escluse dalla fase stazionaria e quindi attraversano la colonna insieme all’eluente, muovendosi solo attraverso gli spazi interstiziali, mentre le molecole più piccole riescono a penetrare nel reticolo gelatinoso e si ripartiscono all’equilibrio tra l’interno e l’esterno delle particelle. La velocità di penetrazione sarà più o meno ritardata secondo le dimensioni molecolari: le molecole più piccole penetrano il gel, impiegando più tempo per uscire dalla colonna cromatografica, mentre le molecole più grandi saranno le prime ad essere eluite con la fase mobile in quanto troppo grandi per penetrare nei pori del gel.

La separazione è dettata dalle proprietà del gel costituente la fase stazionaria, in particolare le dimensioni delle sferette e la consistenza delle maglie gelatinose (maglie più fitte determinano lo spostamento dei limiti di esclusione verso i pesi molecolari più bassi) , determinano un limite superiore di esclusione, espresso come valore di peso

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30 molecolare al di sopra del quale le proteine sono escluse dal volume interno delle sfere (ossia passano solo nel volume morto), e un limite inferiore di esclusione, al di sotto del quale non c’è separazione tra le molecole, perché queste passano con eguale facilità nel volume morto e nelle maglie del gel; soltanto le proteine con peso molecolare compreso nell’intervallo tra i due limiti possono essere separate.

Esistono quindi in commercio diversi tipi di fasi stazionarie con differenti porosità, per cui è possibile scegliere opportunamente il tipo di materiale più adatto a separare le sostanze in questione [75]:

Materiali inorganici: caratterizzati da particelle di silice rivestite con uno stato esterno idrofilo per evitare l’assorbimento delle proteine e con un range di pH tra 2 e 8, per esempio TSK SW e Sinchropak;

Materiali organici: caratterizzati da legami incrociati, importanti per la rigidità, e stabili ad un range di pH maggiore, per esempio TSK PW, Shodex OH-pak ,Superose e Superdex.

Le fasi stazionarie più ampiamente utilizzate comprendono destrani a legami crociati (Sephadex), agarosio (Sepharosio Bio-Gel A), poliacrilammide (Bio-Gel P), poliesteri, gel di silice e polistireni[76].

Per una corretta separazione è altrettanto importante la scelta della fase mobile per l’eluizione. Infatti è possibile che si creino della interazioni tra analita e fase stazionaria, le quali possono essere dovute alla formazione di legami ionici tra il soluto e il gel o interazioni idrofobiche tra soluto e siti idrofobici del gel. Quindi come fase mobile si può utilizzare acqua distillata se i campioni sono composti da soluti elettricamente neutri; invece quando si devono analizzare le proteine, analiti non elettricamente neutri, è necessario utilizzare un tampone in modo da controllare il pH (tra 3-10); nel tampone dovrebbe essere aggiunto anche NaCl in modo da prevenire interazioni di tipo ionico tra le molecole da eluire e il gel[70]. L’aggiunta di un solvente organico, come l’acetonitrile, potrebbe invece risultare utile per eliminare le interazioni di tipo idrofobico tra il soluto e la matrice di separazione o tra gli stessi soluti; nel caso delle proteine, questo risulta molto utile quando sono presenti peptidi con molti residui amminoacidici terminali idrofobici[75].

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1.5 SELDI-TOF-MS

Surface enhanced laser desorption/ionization time-of-flight mass spectrometry

(SELDI-TOF MS) è un metodo, utilizzato in proteomica, proposto come un approccio per la scoperta di biomarcatori patologici; una tecnica che ha la capacità di fornire il profilo dell’espressione proteica di diversi campioni biologici e clinici in tempi brevi e che mette insieme due tecniche molto valide: la cromatografia e la spettrofotometria di massa. Quindi è una metodologia ad alto rendimento, particolarmente adatta allo studio di proteine a basso peso molecolare (<di 25 KDa), con sensibilità elevata e la capacità di esaminare proteine native con una tecnica di visualizzazione complementare della 2-DE; a differenza di questa però consente di analizzare più campioni in un tempo relativamente breve. È stata usata per identificare biomarcatori e per lo studio di interazioni proteina-proteina e proteina-DNA; inoltre la versatilità di SELDI-TOF MS ha permesso il suo utilizzo in progetti che vanno dalla identificazione di potenziali marcatori diagnostici per affezioni di prostata, vescica, mammella e ovaie, per il morbo di Alzheimer, per lo studio delle interazioni biomolecolari e la caratterizzazione di modificazioni post- tradizionali. Il principio di questa tecnica è molto semplice; pochi microlitri di un campione di interesse vengono depositati a livello degli spot di una matrice Proteinchip, i quali sono costituiti da una base metallica e presentano superfici cromatografiche con differenti caratteristiche fisiochimiche (idrofobi, cationici, anionici o con ione metallico)[77].

Per l’utilizzo del sistema ProteinChip SELDI sono stati formulati una serie di materiali tra cui (Figura7):

 Diversi kit ProteinChip: progettati per guidare l’operatore attraverso l’analisi e la profilazione.

 Tamponi ProteinChip: premiscelati e ottimizzati per essere utilizzati con i diversi tipi di matrici ProteinChip.

 Molecole ProteinChip che assorbono energia (EAMs): componenti essenziali per lo svolgimento delle analisi.

 Standard, calibratori e controlli ProteinChip: miscele validate che aiutano in una analisi dei dati e in una quantizzazione accurata.

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Figura 7: ProteinChip tamponi, kit e reagenti

Le matrici Proteinchip vengono prima incubate e poi lavate con un tampone appropriato; le proteine vengono catturate quindi sulla superficie cromatografica a seconda delle loro proprietà e analizzate mediante spettrometria di massa TOF. Il risultato è uno spettro caratterizzato da valori di massa/carica elettrica (m / z) e intensità delle proteine / peptidi legati. In particolare uno dei punti di forza di SELDI-TOF è la sua capacità di analizzare le proteine da diversi tipi di campioni grezzi, con un minimo consumo di campione e processamento[77],[78].

ProteinChip® Arrays

In commercio sono disponibili diversi tipi di ProteinChip® Arrays (Figura8) in base alle diverse superfici cromatografiche; queste superfici sono utilizzate per la determinazione di proteine e peptidi nell’ analisi di espressione differenziale.

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33 The ProteinChip Q10 array: è un forte scambiatore anionico, utilizzato per analizzare molecole che presentano una carica superficiale negativa. I punti attivi contengono gruppi cationici ammonici quaternari, i quali interagiscono con le cariche negative sulla superficie delle proteine bersaglio, ad esempio, l'acido aspartico e acido glutammico. Per quanto riguarda il legame importante è il pH del tampone: se il pH del tampone di legame / lavaggio viene mantenuto in a condizioni alcaline (ad esempio, pH 8,0), si otterrà una carica negativa netta complessiva su un maggior numero di proteine nel campione, e il risultato è più vincolante, mentre, diminuendo il pH del tampone di legame / lavaggio, una carica positiva netta complessiva è impartita sulle proteine, con conseguente minore legame (cioè maggiore specificità).

ProteinChip CM10 array: è un debole scambiatore cationico, utilizzato per analizzare molecole che presentano carica positiva sulla superficie. I punti attivi contengono gruppi carbossilato anionici, i quali interagiscono con le cariche positive sulla superficie delle proteine bersaglio, come lisina, arginina o residui di istidina. Per quanto riguarda il legame, diminuendo il pH del tampone di legame / lavaggio una carica positiva netta complessiva è impartita su un maggior numero di proteine nel campione e il risultato è più vincolante, mentre aumentando il pH del tampone di legame / lavaggio, una carica negativa netta complessiva è impartita sulle proteine, con conseguente minore legame (cioè, maggiore specificità). Inoltre il legame delle proteine è influenzato, per questo tipo di chip, anche dalla forza ionica del tampone: un aumento della la forza ionica crea concorrenza tra la proteina carica sulla superficie e gli ioni del tampone, causando un minor legame delle proteine sulla superficie della matrice, quindi maggiore specificità.

ProteinChip IMAC30 array: viene utilizzata per catturare molecole che si legano a metalli polivalenti cationici come nichel, gallio, rame, ferro e zinco. I punti attivi contengono sulla superficie gruppi NTA (acido nitriloacetico), chelante di ioni metallici. Quindi le proteine, poste sulla superficie della matrice, possono legarsi allo ione metallico chelato attraverso istidina, triptofano, cisteina, e aminoacidi fosforilati. Per generare selettività, i tamponi di legame /lavaggio possono contenere concentrazioni crescenti di competitori, come per esempio l’imidazolo, che competono con il metallo sul gruppo NTA per legare la proteina o il peptide.

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34 ProteinChip H50 array: presenta una superficie idrofobica e viene quindi utilizzata per catturare proteine o peptidi tramite interazioni idrofobiche o di fase inversa.

Gli spot attivi contengono catene di metilene che imitano le caratteristiche di un assorbente cromatografico alchilico con carboni da C6 a C12. Le proteine meno idrofobe non si legheranno alla superficie della matrice, mentre quelle più idrofobiche vi si legheranno; aumentando, quindi, il contenuto organico del tampone di lavaggio, aumenta la sua idrofobicità e le proteine, precedentemente erano legate alla matrice, si dividono nel tampone di lavaggio e vengono lavate via solo quelle la quale idrofobicità è inferiore a quella del tampone di lavaggio, mentre solo le proteine più idrofobiche vengono mantenute con tamponi di lavaggio [Bio-Rad Laboratories].

1.5.1 Desorption, ionizzazione e analisi

La tecnica si basa sulla spettrometria di massa, la quale permette una valutazione accurata del rapporto massa-carica (m / z) di peptidi e proteine. Il lettore del ProteinChip SELDI (Figura9) rileva e calcola la massa della proteine o peptidi di un campione biologico utilizzando un laser di azoto che induce la ionizzazione delle proteine e un cambiamento di stato da fase solida, cristallina, a fase gassosa. L'analita quindi può muoversi molto rapidamente, o “volare”, in base alla differenza di tensione che viene applicata; tutti gli analiti del campione sono sottoposti alla solita differenza di tensione, e quindi alla solita energia cinetica, ne consegue che i tempi di volo dipenderanno dalla loro massa. Infine un lettore registra il TOF dell'analita; da questa misura si risale ad una massa altamente accurata e precisa [Bio-Rad Laboratories]. I lettori del ProteinChip SELDI sono di due tipi e forniscono differenti livelli di automazione del sistema: il lettore Personal Edition permette il caricamento manuale delle matrici, mentre la versione del lettore Enterprise Edition presenta caratteristiche utili per compiere studi su larga scala, i quali richiedono maggiore sviluppo, e quindi sono presenti un caricatore automatico e uno scanner di codici a barre, tramite il quale viene riconosciuto il chip.

L’analisi avviene tramite software, in particolare ne sono disponibili due tipi:

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35 la raccolta, l’organizzazione e l’analisi dei dati ottenuti.

 ProteinChip software: fornisce ulteriori analisi sofisticate e strumenti per gli utenti più esperti che conducono studi su larga scala.

Entrambi i pacchetti forniscono mezzi veloci ed efficaci per organizzare la grande quantità di dati generati durante più studi su biomarcatori e strumenti personalizzati per integrazioni con analisi biostatistiche.

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Scopo

La Fibromialgia è una patologia muscoloscheletrica cronica non ad eziologia sconosciuta, caratterizzata da dolore diffuso, presenza di tender points e da una varietà di sintomi aspecifici e disfunzioni di accompagnamento. I sintomi principali comprendono affaticamento cronico, sonno non ristoratore, rigidità mattutina, disturbi dell’umore, ansia, depressione, disfunzioni cognitive. Per la diagnosi sono considerati tuttora validi i criteri dettati dall’ACR (“American College of Rheumatology”). Tuttavia l’interpretazione dei suddetti criteri è soggetta a critiche e la molteplicità ei sintomi, la sovrapposizione ad altre patologie e, quindi una patogenesi ed un’eziologia ancora sconosciuta, non permettono una diagnosi specifica. Studi precedenti, condotti dal gruppo di ricerca in cui ho svolto questo lavoro di tesi, hanno confrontato le proteine della saliva di soggetti affetti da fibromialgia e gruppi di controllo, rivelando tramite analisi con strumentazione surface-enhanced laser desorption/ionization-time of

flight-mass spectrometry (SELDI-TOF-MS), la presenza di quattro picchi diversamente

espressi tra sani e malati rispettivamente a 4423, 4548, 7354, 13288 Dalton (Da). Il solo utilizzo del SELDI-TOF-MS, tuttavia non consente l’identificazione dei picchi osservati. In questo lavoro di tesi abbiamo quindi portato avanti un tipo di studio alternativo affiancando lo studio tramite SELDI-TOF-MS ad altri due tipi di analisi proteomica: HPLC di gel cromatografia che permette la separazione delle proteine salivari sulla base del loro peso molecolare e l’OFF GEL, che permette la separazione delle proteine secondo il punto isoelettrico. Sono stati quindi analizzati campioni salivari, provenienti da analisi OFF GEL, dopo purificazione da urea, tramite HPLC-SEC, utilizzando i parametri ottimizzati dall’analisi di saliva marcata con FITC.

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