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Identità performate: generi e femminismi nella sperimentazione audiovisiva contemporanea

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE,

DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-89: Storia dell’arte

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Identità Performate

Generi e femminismi nella sperimentazione audiovisiva

contemporanea

IL RELATORE IL CANDIDATO

Elena Marcheschi Fabio Giacalone

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INDICE

INTRODUZIONE 6

CAPITOLO I - GENERE E POTERE 12

PREMESSA   12  

IDENTITÀ: UNA QUESTIONE ONTOLOGICA   13  

IDENTITÀ ALLO SPECCHIO   15  

QUESTIONI DI GENERE   20  

GENESI PSICANALITICHE   23  

PIONIERE   24  

SISTEMI PRODUTTIVI   28  

COSTRUZIONE DEL POTERE   33  

PERFORMATIVITÀ   37  

CAPITOLO II - LA COSTRUZIONE DELLA FEMMINILITÀ 41

MADRI - MACCHINE DA RIPRODUZIONE   46  

MATERNITÀ IN VIDEO   50  

MOGLI - DESPERATE HOUSEWIVES   54  

DOMESTICITÀ IN VIDEO   55  

AMANTI -GUILTY PLEASURES   65  

SESSUALITÀ IN VIDEO   69  

VIDEOFEMMINISMI   79

CAPITOLO III - LA COSTRUZIONE DELLA MASCHILITÀ 81

RIFLESSIONI LINGUISTICHE   83  

CRISI STORICHE   85  

VIRILITÀ PERPETUA   90  

MASCHILITÀ IN VIDEO   93  

L’ANATOMIA DEL MASCHILE   94  

LA CORPOREITÀ DEL MASCHILE   103  

MASCHILITÀ SUBALTERNE   109  

BRUTALITÀ DEL VIDEO   113  

CAPITOLO IV - CONFUSIONI IDENTITARIE: PROSPETTIVE QUEER 115

INDIVIDUO   120  

SOCIETÀ   127  

SOVVERSIONI   133  

(4)

CONCLUSIONI 148

BIBLIOGRAFIA 153

SITOGRAFIA 161

(5)

Alle mie radici,

Alla mia terra,

Ai miei genitori:

Grazie.

(6)

INTRODUZIONE

Identità s. f. [dal lat. tardo identĭtas -atis, der. di idem «medesimo», calco del gr. ταὐτότης]. Identità di persona: l’essere appunto quello e non un altro1

.

Sebbene apparentemente sembri semplice e chiaro, il concetto di identità si struttura in realtà come un elemento più complesso e labirintico rispetto a quanto si intenda comunemente. A cosa ci riferiamo quando parliamo di identità? Identità culturale, sociale, di genere, sessuale?

Un ampio spettro di risposte, ma con denominatore comune: sono tutte caratteristiche che rappresentano e descrivono un individuo. Spesso tali attributi sono però considerati in modo aprioristico: preesistono alla nostra esistenza, siamo a essi associati quando nasciamo e ci definiscono lungo il percorso della nostra vita. Per tali motivi, la questione dell’appartenenza si configura quindi come centrale nel discorso identitario che, negli ultimi anni, è tornato a essere la base di studi e ricerche in ambito socio-antropologico.

Ci sono alcuni periodi, infatti, in cui la questione dell’identità diviene più attuale che in altri. Ciò accade quando l’appartenenza sociale si fluidifica e si frammenta, oppure si moltiplica2

. In parole povere, ciò avviene quando aumenta la mobilità sociale, quando si moltiplicano i gruppi, le classi e le subculture che costituiscono l’orizzonte vitale dell’individuo, oppure quando fenomeni migratori ed eventi storici spingono all’incontro di culture tradizionalmente distanti. In questi periodi, infatti, la riflessione sull’identità avviene in mancanza di alcuni punti di riferimento importanti, in primo luogo quello dell’appartenenza. Con le parole di Elena Marcheschi:

Gran parte delle evoluzioni planetarie che interessano l’inizio del terzo millennio sono connesse ai processi indotti dalla globalizzazione e alle ripercussioni che questa ha avuto nel riconfigurare l’economia mondiale e la società interna. Molti studiosi hanno infatti sottolineato come la globalizzazione abbia di fatto scardinato i precedenti assetti, alimentando complessi fenomeni di collisioni, rimescolamenti e intersezioni sociali e

                                                                                                               

1 Treccani.it, definizione di identità, al link: http://www.treccani.it/vocabolario/identita/, ultimo accesso 11/05/2018.

2 Cfr. L. Bovone, P. Volonté (a cura di), Comunicare le identità: percorsi della soggettività nell’età

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culturali e andando a creare impoverimento, diseguaglianze e tensioni, sia a livello individuale che collettivo3.

La mancanza di certezze è pertanto un elemento centrale all’interno delle riflessioni avvenute nelle varie correnti di pensiero degli ultimi anni, che hanno portato alla formazione di movimenti teorici identitari definiti decostruzionisti.

Nell’ambito delle scienze umane, infatti, con particolare riferimento alla storiografia e all’antropologia, il decostruzionismo rientra in quella che Enrico Manera definisce come una riflessione in grado di sottolineare

l’importanza del momento soggettivo e autorale rispetto a quello ingenuamente oggettivo: dichiarata impossibile ogni neutralità, l’oggetto di studi è inteso come il risultato della disciplina che se ne occupa, capace nelle sue forme di scrittura di una sovradeterminazione che può giungere sino all’“invenzione”. Analogamente la radicalità della decostruzione ha influenzato i gender studies e il pensiero post-coloniale che hanno visto in essa uno strumento per sottolineare la fluidità del concetto di “identità”: maschile e femminile così come razza, etnia, nazionalità diventano categorie inservibili e soggette a smobilitazione, mostrate nel loro essere prodotti privi di contorni netti e di peso ontologico a favore di una concezione oscillante e instabile dell’identità, irriducibile a categorie metafisiche e oggetto di continua rinegoziazione da parte dei soggetti che se ne fanno portatori4.

Parlare di identità implica pertanto parlare anche di genere. Sebbene le definizioni identitarie riguardino anche cultura, società, razza, religione e molto altro, alla base di tutto ritroviamo proprio il genere.

Perché prima di essere cittadini, prima di appartenere a un certo substrato sociale e culturale, alla nascita siamo considerati come uomini o donne, maschi o femmine. Subito dopo la nascita il controllo dei genitali accerta l’inserimento all’interno di una data categoria. E tale determinazione segna ogni essere umano per il resto della vita: in base all’appartenenza a un sesso o all’altro, prima ancora di essere considerati per caratteristiche estetiche, economiche e intellettive, il nostro sesso farà si che ci siano porte aperte o chiuse, strade avallate o impervie.

                                                                                                               

3 E. Marcheschi, L’Io multiplo. Identità e autorappresentazione nella sperimentazione audiovisiva del

terzo millennio, in La Valle dell’Eden, Semestrale di musica e cinema e audio visivi, n. 30, Scalpendi

Editore, Milano, 2017, p. 101.

4 E. Manera, Decostruzionismo, nella rivista Doppiozero, 05 Aprile 2011, al link:

(8)

Con l’avvento e lo sviluppo degli ormai noti gender e queer studies, a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si è cercato di far luce e destrutturare numerose pratiche sociali considerate come naturali e biologiche. Nello specifico, il tentativo di tali studi è stato quello di scomporre l’identità col fine di capire quanti e quali siano davvero i fattori biologici che influiscono sulla creazione dell’individuo, e quanti e quali siano invece i fattori derivanti da una costruzione socio-culturale. Ciò che tali studi cercano di contestare è proprio l’assunto, come ricorda Simone De Beauvoir, del determinismo biologico, secondo cui la biologia è destino5

.

Da quando però il concetto di identità di genere fu introdotto a livello psichiatrico si iniziò a scindere fra quest’ultima e il sesso biologico6

. Ma furono solamente gli apporti successivi di filosofe femministe come Ann Oakley, Gayle Rubin, Joan Scott e Judith Butler a rivelarsi fondamentali nello sviluppo delle teorie identitarie sul genere. Dalle loro osservazioni emerge il ritratto di una società che ha “naturalizzato” il concetto di femminile e di maschile, rivestendoli di norme e convenzioni ben precise e strutturate. Dalle stesse filosofe è poi rivendicata una cesura netta fra natura e cultura, distruggendo anche l’idea di un genere unico o binario, lasciando piuttosto spazio a molteplici sfumature identitarie.

In che modo dunque video e sperimentazione audiovisiva portano il loro contributo al dibattito sull’identità?

Judith Butler, nel suo Gender Trouble, parla del genere come un atto, una

performance ripetuta7

. Attraverso la decostruzione delle rappresentazioni sociali delle identità, basate sul concetto che il genere è performativo, Butler propone la transitività dei generi e mette in discussione la stabilità dell’identità e delle politiche a essa legate. Se l’identità non è quindi fissa, questa non può più essere ridotta, etichettata o categorizzata. Secondo Butler è possibile disvelare le costruzioni del genere attraverso quelli che chiama gli atti corporei di sovversione, come i travestimenti e le azioni di

dragging: tali pratiche sono sovversive in quanto consistono in una imitazione

parodistica e consapevole delle norme di genere e, così facendo, rendono visibile il carattere imitativo e performativo del genere stesso. Nel pensiero di Butler, infatti, queste azioni mettono in luce quanto le identità di genere dipendano dalla messa in                                                                                                                

5 Per approfondimenti: S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2008. 6 Come si approfondirà in seguito, il primo a parlarne fu Robert Stoller nel 1968.

7 Cfr. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the subversion of identity, Routledge, New York, 1990, p. 196.

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scena sociale delle norme prodotte dai soggetti. La domanda, dunque, inizia a cambiare: cosa è davvero donna? Cosa è davvero uomo?

Prendendo atto della norma, subentra quindi l’eccezione: il problema è capire in quali casi e come si allontana dalla regola.

A questo punto, il collegamento con la sperimentazione audiovisiva mi è apparsa spontanea. La videoarte, dal canto suo, ha infatti sempre sperimentato. Fin dal principio, ha messo in questione, giocato, distrutto e rimontato insieme quelli che erano concetti e conoscenze socialmente condivise. La sperimentazione audiovisiva ha difatti a lungo destrutturato e perturbato l’elemento familiare, sostituendolo e trascinandolo verso la sua alterità: verso l’altro, il temuto ignoto. Scrive ancora Elena Marcheschi:

Dunque parlare di identità e autorappresentazione oggi appare quanto mai attuale e gli artisti che operano nell’ambito della produzione audiovisiva sperimentale più recente ci aiutano a comprendere gli assetti mutevoli dei soggetti, pervasi da incertezze e timori, ma anche animati da capacità di resilienza e vitalistica reattività8.

Molti artisti hanno così posto l’identità al centro dei propri lavori, in modi più o meno differenti. Dal femminismo vibrante di Pipilotti Rist alle maschilità anatomiche di Matthew Barney, passando dall’identità socioculturale di Ezgi Kilinçaslan, arrivando alla con-fusione identitaria di Katarzyna Kozyra e Owen Eric Wood. Sono solo alcuni esempi di artisti che mirano a decostruire l’identità, tentando di mostrare quanto questa sia un concetto labile, precario e, appunto, performato.

Lo scopo è proprio quello di mostrare, nelle pagine che verranno, quanto mutevole sia la costruzione identitaria e quanto fittizia sia la presunzione di una verità fondante. Partendo quindi dal genere, che permette di avere una visione su quanto radicati possano essere i preconcetti e come questi possano essere in grado di influenzare le vite individuali e socioculturali.

Questo scritto vuole pertanto ovviamente evidenziare il contributo che le arti elettroniche hanno apportato e continuano ad apportare sulle tematiche dell’identità e del genere. Tale obiettivo sarà perseguibile unendo due campi: da un lato attraverso                                                                                                                

8 E. Marcheschi, L’Io multiplo. Identità e autorappresentazione nella sperimentazione audiovisiva del

terzo millennio, op. cit., p. 101.  

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l’apporto della pratica sperimentale audiovisiva, dall’altro analizzando i contributi di teorici e studiosi che hanno affrontato la questione dell’identità di genere.

Occorre però prima fare una precisazione a riguardo. Le arti elettroniche e la sperimentazione audiovisiva non sono gli unici campi delle arti visive in cui è possibile riscontrare tematiche inerenti le questioni identitarie. L’apporto di altri medium, come la fotografia e il cinema, è stato infatti fondamentale nello sviluppo delle riflessioni identitarie, sebbene espresse con linguaggi artistici ed estetici differenti.

Nell’ambito del cinema in particolare, si è potuto assistere a numerosi dibattiti sulla marca identitaria del genere, osservando il contributo di numerosi studiosi: per fare due esempi recenti e connazionali, basti pensare agli studi di Alberto Scandola sulla maschilità nel cinema Hollywoodiano9 o a quelli di Mauro Giori sull’omosessualità e il cinema italiano10

. In particolare, è utile menzionare anche il lavoro di Sergio Rigoletto, che nella sua analisi sulla crisi della maschilità nel cinema, afferma:

Meno è stato scritto sulle opportunità che il cinema offre nel considerare la mascolinità in relazione a un'esperienza di trasformazione. Non si tratta solamente di capire quanto questo cambiamento, con le sue complessità e contraddizioni, è difficile da individuare e osservare. Il problema è capire come l'idea stessa del cambiamento sembra sollevare un sospetto immediato, se non un palese pessimismo. [...] Gli anni '70 sono stati un decennio di innovazione e lavoro stimolante per i cineasti italiani, caratterizzati dal radicalismo e da accesi dibattiti sulla funzione di il cinema come mezzo politico e come fenomeno culturale di massa. Durante questi anni, il cinema italiano ha sperimentato una proliferazione di immagini sessualizzate come mai prima d'ora. Il sesso è emerso come una questione di interesse pubblico, come qualcosa che doveva essere mostrato e discusso. [...] In questo contesto, ha preso il via anche un dibattito di vasta portata sulla mascolinità, con un numero di film che iniziano a mettere in discussione i confini di definizione che delimitano un'identità maschile socialmente accettabile e le esclusioni inevitabilmente prodotto da tali confini11.

                                                                                                               

9 Per approfondimenti rimando a: A. Scandola, Hollywood Men. Immagine, mascolinità e performance

nel cinema americano contemporaneo, Kaplan Edizioni, Torino, 2017.

10 Per approfondimenti: M. Giori, Homosexuality and Italian Cinema. From the fall of Fascism to the

Years of Lead, Palgrave Macmillan Editore, Londra, 2017.

11 S. Rigoletto, Masculinity and Italian Cinema. Sexual Politics, Social Conflicts and Male Crisis in the

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Il cinema si è rivelato quindi anch’esso di fondamentale importanza nello sviluppo delle ricerche sull’identità, ponendosi, insieme al video sperimentale e alla fotografia, come uno strumento atto a scandagliare l’animo umano.

Dovendo però scegliere dove indirizzare la mia analisi, ho preferito optare per il linguaggio sperimentale del video, principalmente per due motivi: da un lato perché rappresenta l’interesse principale dei miei anni di studio universitari, dall’altro proprio perché il dibattito sull’identità di genere appare talvolta lacunoso in questo settore. In ultima istanza, questa tesi nasce dalla constatazione di una mancanza di scritti uniformi in materia che unissero le teorie e le pratiche video sperimentali inerenti l’ambito identitario. Nonostante siano numerosissimi gli esempi di sperimentazioni audiovisive sull’identità e il genere, ho sentito l’esigenza di uno scritto unitario che li racchiudesse in sé, correlandoli ai numerosi gender studies. Partendo proprio dai cataloghi INVIDEO e da numerosi altri esempi collezionati nel corso del mio biennio di studi magistrali, ho selezionato dei gruppi di opere e di artisti, da me ritenute più significative, concentrandole in un periodo che si colloca principalmente dagli anni Ottanta/Novanta ai giorni nostri.

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CAPITOLO I

Genere e Potere

Premessa

«Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?»

Seppur banali, questi sono alcuni degli interrogativi che caratterizzano l’individuo nel suo relazionarsi con il proprio io e con il mondo esterno, in un caleidoscopico rapporto che si divide fra uguaglianza e diversità, soggettività e alterità. Un rapporto non lineare, mai fisso e perfettamente chiaro, che rappresenta la base di un concetto altrettanto criptico: l’identità. E il domandarsi cosa sia davvero l’identità è un punto cruciale che ha segnato ulteriormente il pensiero filosofico e non.

Nasce in primo luogo da un bisogno di conforto, di appartenenza, come necessità di scavare fino all’osso dell’individuo raggiungendo il vero e proprio Io, intorno al quale sono costruiti vari strati, atteggiamenti e proiezioni di tale entità. Sebbene questo pensiero abbia radici lontane, fin dalla Grecia antica, la presa di coscienza vera e propria di tale entità avviene solo in periodo recente.

Nel 1999, Zygmunt Bauman scriveva nel suo La società dell’incertezza12

che

l’identità, come la conosciamo oggi, nasce come un fenomeno della modernità:

Si pensa all’identità quando non si è sicuri della propria appartenenza; e cioè, quando non si sa come inserirsi nell’evidente varietà di stili e moduli comportamentali, e come assicurarsi che le persone intorno accettino questo posizionamento come giusto e appropriato, in modo che entrambe le parti sappiano come andare avanti l’una in presenza dell’altra. «Identità» è il nome dato al tentativo di sfuggire a questa incertezza. Quindi «identità», anche se palesemente nome, si comporta come un verbo, sebbene un verbo di sicuro strano: appare solo al futuro13.

Se in un primo momento questa assume una forma stabile, solida e ben definita, il concetto di identità cambia, secondo Bauman, in quella che viene generalmente definita epoca postmoderna: ad oggi uno dei principali problemi teorici è cercare di

                                                                                                               

12 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999. 13 Ivi, p. 28 a seguire.

(13)

lasciare l’identità come un concetto aperto, instabile e in perenne movimento. Continua infatti Bauman:

Nel caso dell’identità, come in altri casi, la parola chiave della modernità era creazione; la parola chiave della postmodernità è riciclare. Oppure si può dire che, se “il medium che era il messaggio” della modernità era la carta fotografica (pensiamo agli album di famiglia che si ingrossano implacabilmente, documentando pagina dopo pagina ingiallita il lento aumentare di eventi che portano all’identità, eventi irreversibili e non cancellabili), in ultima analisi il medium della postmodernità è il videotape (cancellabile e riutilizzabile, pensato per non trattenere le cose per sempre, che fa spazio agli avvenimenti di oggi unicamente a condizione che quelli di ieri siano cancellati, trasudando il messaggio dell’universale “fino a maggior chiarezza” di ogni cosa valutata degna di essere registrata)14.

L’individuo contemporaneo diventa quindi un turista, un viaggiatore in continuo movimento all’interno delle dinamiche di ricerca di sé e del proprio io. Egli (o ella, o loro) cerca di non iscriversi all’interno di una categoria data o ben definita, pur traendo un parziale conforto dalla sicurezza della classificazione. Sempre Bauman afferma che «il principale motivo d’ansia dei tempi moderni, collegato all’identità, era la preoccupazione riguardo alla durabilità; oggi riguarda invece la possibilità di evitare ogni impegno»15

.

Il lungo processo di costruzione identitaria appare dunque come un sentiero impervio e tortuoso, difficile da completare in modo chiaro e universalmente valido.

Identità: una questione ontologica

Con la definizione di identità si fa solitamente riferimento a fenomeni riguardanti il singolo individuo, considerandola come un soggetto unico, ben solido e sicuro.

In accordo con lo studioso Galimberti16

, la nozione di identità in questi termini, definibili singolari, nasce solamente all’interno dell’antropologia occidentale, poiché nelle altre culture l’individuo riconosce solamente l’appartenenza ad un determinato gruppo: esiste cioè una sorta di identità plurima, in cui il singolo individuo perde                                                                                                                

14 Ivi, p. 29. 15 Ivi.

16 U. Galimberti, Psiche o Techne: l’uomo nell’età della tecnica, Opere XII, Feltrinelli Editore, Milano, 1999, pag. 546.

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spessore in luce del far parte di una comunità. Come illustrato da Galimberti, già «nella Grecia antica si cominciò a pensare a un nucleo permanente nelle mutazioni della vita individuale, capaci di garantire l’identità di un individuo con se stesso e la sua differenza con altri individui»17

.

I processi di costruzione dell’identità comportano però un impegno attivo del soggetto e un continuo inscriversi dello stesso in molteplici rapporti poiché, come sostiene la ricercatrice Silvia Leonelli, «l’identificazione è essa stessa un movimento, un processo del soggetto, una relazione»18

. Parlare di identità, dunque, significa innanzitutto:

1- assumere la consapevolezza che l’individuo è un essere vivente che fin da subito si muove all’interno di una rete di relazioni,

2- abbandonare l’idea di identità come un’entità fissa e inviolabile, e soprattutto di confini stabili, chiari e invalicabili, dimenticando quelle che possono essere concezioni che vedono l’identità come salda e duratura.

Già nel Settecento, però, il concetto di fissità dell’io era stato criticato da Hume, che nel suo Trattato sulla natura umana ha scritto che «noi non siamo altro che fascio di collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento»19

.

Ci sono alcuni periodi, in particolare, in cui la questione dell’identità diviene più attuale che in altri. Ciò accade quando l’appartenenza sociale si fluidifica e si frammenta, oppure si moltiplica20

. In parole povere, ciò avviene quando aumenta la mobilità sociale, quando si moltiplicano i gruppi, le classi e le subculture che costituiscono l’orizzonte vitale dell’individuo, oppure quando fenomeni migratori ed eventi storici conducono all’incontro di culture tradizionalmente distanti. In questi periodi, infatti, la riflessione sull’identità avviene in mancanza di alcuni punti di riferimento importanti, in primo luogo quello dell’appartenenza. Scrive il sociologo Paolo Volonté:

                                                                                                               

17 Ivi.

18 S. Leonelli, Molteplicità. L’identità personale tra narrazione e costruzione, Clueb Edizioni, Bologna 2003, p. 165.

19 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bari, Laterza, 1982, (Prima pubblicazione 1738), I, pp. 263-266, didascalia del testo originale.

20 Cfr. L. Bovone, P. Volonté (a cura di), Comunicare le identità: percorsi della soggettività nell’età

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In una società flessibile, ad alta mobilità sociale, diviene più difficile identificare quel nucleo di permanenza che unifica le molteplici e differenti manifestazioni puntuali della biografia di una persona. È in questi periodi che la questione dell’identità diviene, appunto, una questione, da elemento implicito delle relazioni sociali si fa problema sociologico affrontato riflessivamente dagli studiosi, ma anche dagli stessi attori sociali21.

Ciò ha portato quindi a un duplice risultato, che se da un lato vede una moltiplicazione delle appartenenze a causa dell’indebolimento dei confini, dall’altro queste ne risultano indebolite, poiché nessuno è più perfettamente inquadrabile in un ruolo sociale prestabilito. L’appartenenza non è più quindi un fattore unico, fisso e inviolabile: la fluidità ne ha occupato il posto. La possibilità di spostarsi facilmente e viaggiare, così come la diffusione sempre più capillare di accessi al web, ha permesso e permette di conoscere ed esplorare culture, assetti e società diametralmente opposte alle nostre. L’identità, di conseguenza, non è più quindi chiusa e saldamente radicata nei suoi confini, ma lascia spazio ad aperture, movimenti e processi di modifica e ampliamento. Si presenta quindi come un processo, un’azione che implica un perenne fare e disfare: un continuo mettere in dubbio, confrontare e ricostruire. Citando la sociologa Loredana Sciolla:

È l’identità stessa che, adattandosi alla situazione, diventa contingente, frammentaria, cambia cioè il suo statuto. [...] Le identificazioni si moltiplicano, come si moltiplicano le dissonanze, di fronte le quali l’identità dell’individuo si smembra e si dissolve o con cui camaleonticamente si mimetizza22.

Ma soprattutto, è importante sottolineare come il concetto di identità sia riscontrabile in vari ambiti e contesti: non è pertanto una definizione circoscrivibile ad un solo ambito dell’esistenza.

Identità allo specchio

Riconoscere quindi l’esistenza di tale identità personale ha come suo implicito il riconoscimento dell’alterità dell’altro. Ed è quindi necessario riconoscersi, studiarsi, comprendersi. La presa di coscienza della corporeità riveste un ruolo fondamentale in                                                                                                                

21 Ivi.

22 L. Sciolla, Problemi di un sé integrato. Identità e dimensione morale-temporale, in L. Bovone, P. Volonté (a cura di), Comunicare le identità: percorsi della soggettività nell’età contemporanea, Franco Angelo Editore, Milano, 2006, p. 67.

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questo processo: è il primo indice identitario, copertina di ciò che presentiamo ed è ciò che d’impatto viene recepito dal mondo esterno. Lo studio del corpo e della propria immagine rappresenta, infatti, il ponte iniziale verso la conoscenza del proprio io: si presenta così come la base identitaria, ne è il mezzo espressivo e analizzarlo permette di trovare un approccio basilare verso la propria interiorità.

Il primo mezzo nell’autoesplorazione è di solito lo specchio che, insieme all’autoritratto, rappresenta uno strumento fondamentale per la conoscenza del sé: dal bambino che gioca e si stupisce del proprio riflesso, all’adulto che scopre la sua totalità in foto. Pur essendo accessibili a tutti, essi sono però strumenti utilizzati anche, e soprattutto, in arte. La condizione è però una: accettare l’autoritratto come espressione del proprio io implica lasciare spazio all’altro, all’estraneo.

Come afferma lo studioso Francesco Linguiti, «lo specchio restituisce sempre l’identità come alterità, l’unità come divisione»23

. L’immagine riflessa è sempre un’immagine differita, estranea, nuova: è un’immagine filtrata dalla realtà esterna. E tale è l’autoritratto. L’autorappresentazione, che sia pittorica, analogica o digitale, permette sempre al soggetto di fissare un dato momento, posa o luogo nel tempo, limitando «l’estrema trasformazione che la vita opera nell’uomo e nelle cose»24

. In una prospettiva limitante si potrebbe affermare che si tratti di immagini narcisistiche, vanesie: ma è nell’egocentrismo che risiede la chiave dell’identità, nell’esplorazione e ricerca personale. Ed è proprio attraverso lo scatto fotografico che, citando la scrittrice Susan Bright, il «sé si spacca, si fonde e si frantuma, diventa talmente inscenato e costruito da non mantenere più nulla di autentico: diventa tutti o nessuno»25

.

Sono molti gli artisti e i fotografi che hanno affrontato il tema dell’esplorazione e dell’identità mediante l’uso dell’autoritratto negli ultimi decenni: per citarne alcuni, Charles Latham, Sara Lorusso, Ken Ohara, Ana Casas Broda, Anna Fox, Janieta Eyre, Walead Beshty, Elina Brotherus, Shigeyuki Kihara, Maria Bruni, Sian Bonnell... Fra questi, in particolare spiccano i nomi di Airyka Rockefeller, Nan Goldin e Renée Cox. Ciascuna di loro è in grado di intrecciare un rapporto unico con l’identità,                                                                                                                

23 F. Linguiti, L’identità fluttuante: cinema/televisione, audiovisione e forme della differenza, Effata Editrice, Torino, 2002, p. 267.

24 G. Bonomi, Il corpo solitario: l’autoscatto nella fotografia contemporanea, Rubbettino Editore, Catanzaro, 2011, p. 16.

25 S. Bright, Autofocus, L’autoritratto nella fotografia contemporanea, Contrasto Due srl, Roma, 2010, p. 8.

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ricavandone tre tipologie di sguardo differenti: il primo più intimo e sensuale; il secondo quasi asettico e impassibile; l’ultimo maggiormente critico e politico. Airyka Rockefeller è un’artista americana che crea degli scenari e delle pose complesse, in parte erotizzate. Utilizza una patina intrisa di romanticismo e sensualità, ovattando l’immagine e lasciandola così sospesa. Scrive Susan Bright:

Le fotografie mostrano momenti sospesi tra attività, gli istanti che precedono o che seguono un’azione, o che denotano stati mentali. Quando l’artista è ignara di quanto sta per accadere, un numero di equilibrismo sulla soglia di un momento viene chiaramente descritto nei titoli delle immagini26.

L’atteggiamento voyeuristico fa sì che lei stessa ci scruti di rimando, mentre noi osserviamo l’immagine, come nel caso di Beetween Flesh and Stone (The Czech

Republic), del 2006. Al contempo lei studia se stessa, i propri angoli, la propria luce,

il proprio corpo: cerca il proprio io.

-A. Rockefeller, Between Flesh and Stone (The Czech Republic), 2006.

                                                                                                                26

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Il lavoro di Nan Goldin è invece più incentrato sul corpo e su questo voyeurismo che tratta l’amore come un feticcio. Nella sua Ballad of Sexual Dependency, Goldin mostra anche i segni di passioni violente, di turbamenti e solitudine. Iconica la sua immagine Nan one month after Being Battered del 1984, in cui mostra i segni della fine di una relazione violenta. Non si tratta di una vera e propria denuncia, sebbene lei posi fiera e ben vestita davanti l’obiettivo, mettendo in mostra lividi e contusioni, quasi come un simbolo di protesta.

In alcuni dei suoi lavori gioca però anche con elementi differenti, prendendo in causa anche soggetti esterni. Sono individui presi dalla realtà, dalle sue cerchie di amici e conoscenti. Si tratta di un mondo di outsiders, freaks, violenze e droghe. Più che di una denuncia, si tratta però proprio di una funzione estetizzante delle stesse. Una testimonianza impassibile volta a mostrare le sfaccettature di vite completamente diverse fra loro. Ma, di questi aspetti, si parlerà in modo più approfondito in seguito.

-N. Goldin, Nan One Month After Being Battered, 1984.

Renée Cox ha invece, come detto prima, un approccio critico e un sottotesto politico importante. Costatando la scarsa presenza di personaggi neri nella storia dell’arte, soprattutto non relegati a stereotipi di schiavitù e sottomissione, decide di ricreare

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immagini e quadri – spesso rinascimentali – tramite la fotografia. Al centro, protagonista indiscussa, lei stessa, che si presta all’obiettivo nuda, fiera e potente. Nascono così lavori come Yo Mama’s Last Supper (1999), ironica ripresa de L’ultima

Cena. A questa segue l’intera serie Yo Mama, con riferimento alle numerose Madonne con Bambino e alle Deposizioni di Cristo.

-R. Cox, Yo Mama’s Last Supper, 1999.

Nell’evoluzione artistica di Renée Cox si assiste anche a storie di soprusi, di indagine della sessualità e degli stereotipi. Nella serie American Family, l’artista esplora le numerose identità – fittizie o reali – che ha assunto durante la sua vita. Da studentessa in una scuola cattolica, a moglie e madre in grado di provare pulsioni sessuali, ad artista e avvocato contro le discriminazioni razziali e di genere. Una protesta in pieno stile Black Lives Matter, in aggiunta a quelle che sono ulteriori problematicità collegate al sesso e al genere. Quello di Cox è un lavoro di ricerca, esplorazione e accettazione del proprio corpo e di se stessi, segnato come un atto di amore verso il proprio io, la propria identità e razza.

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Questioni di Genere

Come visto finora, il concetto di identità può essere articolato attraverso diverse prospettive: personale, professionale, culturale, di etnia, di razza, di popolo, religione o classe.

Ma parlare di identità implica, almeno in un primo momento, parlare anche di genere. Sebbene le definizioni identitarie riguardino cultura, società, razza e molto altro, alla base di tutte queste categorie si trova proprio il genere. Perché prima di essere cittadini, prima di appartenere a un certo substrato sociale e culturale, alla nascita si è uomini o donne, maschi o femmine. Scrive la filosofa Pieranna Garavaso:

Grazie alla nozione di genere, compiamo però un grande passo in avanti nell’individuazione e nell’analisi della discriminazione delle donne. Con il termine «genere» si notano e nominano per la prima volta simboli culturali e costruzioni sociali separati e separabili dal ruolo biologico27.

Fin dalla nascita e per l’intero corso della vita l’appartenenza a un sesso o all’altro farà si che ci siano porte aperte o chiuse, strade avallate o impervie.

Nonostante negli ultimi anni siano stati fatti grandi passi avanti nel percorso di parità fra sessi, sopravvivono ancora problematiche che ne limitano la percezione sociale. Nel quotidiano, nel parlato, esistono infatti una serie di stereotipi e pregiudizi che si rivelano sintomatici di quella che è un’ineguaglianza identitaria e sociale. Si tratta di pregiudizi che ciclicamente e inconsciamente portano avanti avversità e problemi sociali. L’osservazione degli stereotipi fornisce però preziosi elementi per comprendere quelle che sono le aspettative nei confronti delle donne e degli uomini e cosa si intenda davvero con comportamenti “femminili” e “maschili”28

.

Alcuni esempi, banali, sono che «i maschi non hanno mai paura» o che «le femmine sono dolci e sensibili». In accordo con la sociologa Graziella Priulla, le appartenenze di genere sono spesso decodificate proprio attraverso l’utilizzo di tali stereotipi, ovvero

                                                                                                                27

P. Garavaso, N. Vassallo, Filosofia delle donne, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 26.

28

Per una ricerca approfondita a riguardo, rimando a E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci Editore, Roma, 2004.

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processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano una o un gruppo di caratteristiche a una categoria o gruppo, sulla base di una limitata e insufficiente informazione o conoscenza. Si mettono a fuoco gli aspetti che vengono considerati salienti, articolando intorno tutto il resto e lasciando nell’ombra gli elementi che porterebbero a una disconferma dell’immagine di base29.

Nella rappresentazione stereotipata opera però un forte codice simbolico in grado di influenzare la costruzione delle identità e delle capacità dei singoli, riuscendo anche, talvolta, a frenare le potenzialità insite negli individui e creando, quindi, una limitazione nella loro personalità.

Banalmente, si parla a volte di uomini che aiutano le compagne nelle faccende domestiche. Questa frase, apparentemente semplice, stupida e leggera, implica un sottotesto di rilievo: il dovere primario di una donna sembrerebbe essere quello di doversi occupare dell’housekeeping. Potrebbe avere successo in qualunque altro campo, ma il suo metro di giudizio, in questi casi, sarà sempre collegato all’ambito domestico. La sua competenza e autorevolezza saranno quindi, seppur in maniera più o meno esplicita, eclissate dalle aspettative radicate nei suoi confronti. Si tratta ovviamente di un esempio volutamente estremizzato ma, inserito all’interno di un contesto più complesso, indica comunque la presenza di una scala gerarchica (anche se in questo caso velata) in grado di definire le relazioni sociali: una scala che vede all’apice l’uomo e alla base la donna. Gli stereotipi, pertanto, non sono soltanto prodotti della mente individuale, ma se condivisi tra i membri di una cultura permettono a tutti di intendersi e di comportarsi in modo coerente verso i membri di altri gruppi30

. Una società dunque crea, mantiene e trasmette i suoi stereotipi, attraverso tutti i suoi linguaggi.

Intere ondate di movimenti femministi si sono ovviamente susseguite nel corso della storia proprio per cambiare, denunciare e rivoluzionare tali meccanismi, avviando un lungo processo di rinnovamento, non ancora del tutto concluso.

A partire dagli inizi del XX secolo, in cui in quasi tutto il mondo occidentale il femminismo si presentava come l’espressione di un moto politico di solo donne che, infrangendo il silenzio sulla condizione di inferiorità giuridica, sociale, lavorativa,                                                                                                                

29 G. Priulla, C’è differenza. Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole, Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p.134.

30 Per approfondimenti: M. L. Andersen, Howard F. Taylor, L’essenziale di sociologia, Zanichelli, Modena, 2004.

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morale e culturale del proprio sesso, apriva la storia degli esseri umani alla riflessione sulle relazioni asimmetriche fra i generi.

Il diritto di voto, il cosiddetto suffragio universale, è stato uno dei cavalli di battaglia dei movimenti: attraverso questo strumento si è cercato di trovare un metodo di affermazione per una nuova autonomia e libertà delle donne31

.

Il voto assume pertanto un valore simbolico, pedagogico e politico, mostrandosi, scrive la storica Rossi-Doria, come «un pezzo di progetto generale di rivendicazione di dignità e di autonomia femminili di cui gli altri pezzi sono l’accesso delle donne all’istruzione superiore e alle libere professioni e l’estensione alla sfera pubblica delle loro attività assistenziali»32

.

Il primo femminismo (First Wave Feminism) è solitamente collocato nell’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine della I Guerra Mondiale e si sviluppa in concomitanza e in conseguenza ai grandi stravolgimenti industriali, economici, culturali-borghesi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, per poi diffondersi a macchia d’olio nel resto d’Europa. Mentre la parola “femminismo” appare solo nel 1895, il movimento si era già in parte costituito nei decenni precedenti.

Il femminismo della seconda ondata individua un periodo di attività svoltasi degli inizi degli anni Sessanta fino al termine degli anni Ottanta, in cui si sono inestricabilmente collegate le disuguaglianze culturali e politiche. Il movimento incoraggiò le donne a comprendere quegli aspetti della loro vita personale in una maniera profondamente politicizzata, visti come riflessi di una struttura di potere volta verso il sessismo. A questi gruppi si affiancarono inoltre anche altri fenomeni e gruppi minoritari, come il movimento di liberazione omosessuale, dagli anni Sessanta, che vide nella cooperazione fra minoranze politiche (per l’appunto, donne e omosessuali) un modo per raggiungere i propri obiettivi33

.

                                                                                                               

31 Nella vastissima bibliografia in materia, ho fatto riferimento ai seguenti volumi: G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne, Laterza, Roma-Bari 2007; inoltre F. Restaino, A. Cavarero., Le filosofie

femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002; B. Mapelli, G. Seveso (a cura di), Una storia imprevista. Femminismi del Novecento ed educazione, Guerini, Milano 2003.

32 A. Rossi-Doria (a cura di), La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, Rosenberg & Sellier, Torino 1990, p. 272.

33 Rimando a M. D’Amico, C. Nardocci, M. Winkler (a cura di), Orientamento sessuale e diritti civili:

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Genesi psicanalitiche

È necessario fare una piccola ma importante precisazione su quanto detto finora. Si è parlato di sesso, di uomini e di donne. Occorre però scindere quello che è il sesso biologico dall’identità di genere dell’individuo. Il sesso biologico è, infatti, quello che costituisce ogni persona alla nascita, comprendente i genitali e che prevede, solitamente, due generi – eccezion fatta per casi di ermafroditismo. L’identità di genere è invece un concetto più complesso, inerente l’Io personale dell’individuo e il suo sentirsi più o meno parte di determinati generi o gruppi. A quest’ultima sfera è associabile poi il ruolo di genere e la sua espressione, cioè l’insieme di comportamenti, di canoni estetici e aspettative con cui il soggetto si presenta all’interno di un gruppo sociale.

I primi tentativi concreti nel costruire una struttura concettuale scientifica, nascono ovviamente con Freud alla fine del XIX secolo. Sebbene egli non abbia mai trattato apertamente il concetto di identità di genere, questo si sviluppa durante tutto il suo operato. Ritiene infatti che la «sessualità adulta e il genere non siano qualcosa di fissato dalla natura, ma si costruiscano attraverso un lungo processo irto di conflitti»34

. Uno dei primi psicanalisti a introdurre, pur inconsapevolmente, il concetto di ruolo di genere, fu però l’austriaco Alfred Adler, nel 191235

. Adler per primo prende in considerazione la differente polarità fra maschile e femminile, sottolineando come uno dei due poli sia però maggiormente svilito. Il senso di femminilità è, secondo Adler, costantemente associato al concetto di debolezza. Questo aspetto sarebbe instillato negli individui fin dall’infanzia, facendo si che i bambini e le bambine, troppo deboli nei confronti degli adulti, si trovino a vivere l’esperienza della “posizione femminile”. Svilupperebbero così un senso di femminilità, cominciando a nutrire dei dubbi circa la possibilità di poter mai raggiungere davvero la maschilità, sinonimo di potenza e forza. Si tratta di esperienze che persistendo nel corso della loro vita, ne segnerebbero e caratterizzerebbero i comportamenti e le interazioni sociali.

                                                                                                               

34 Come spiegato da R. W. Connell in Maschilità: Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Edizione italiana a cura di David Mezzacapa, Feltrinelli Editore, Milano, 1996, p. 19.

35 A partire dallo scritto del 1912 Il temperamento nervoso, Adler si focalizza sul senso di inferiorità degli organi sessuali, esplorando la dinamica della nevrosi e la genesi dell’organizzazione della personalità con una particolare attenzione ad aspetti sociali e relazionali. Il suo operato è considerato un primo manifesto femminista ante-temporum. Per approfondimenti: A. Adler, Il temperamento

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Il termine identità di genere è stato però utilizzato così come oggi lo conosciamo dallo psichiatra Robert Stoller nel 1968 36

. Nella sua opera Sex and gender, Stoller concepì una teoria sullo sviluppo dell'identità di genere in contrasto con la bisessualità biologica sostenuta da Freud. Basandosi su una ricerca estensiva condotta sulle persone transessuali, affermò il principio della femminilità primaria secondo il quale i tessuti biologici e l'identificazione psicologica di questo specifico gruppo si orientano inizialmente verso lo sviluppo femminile. In seguito, l'azione di una forza maschile risulterebbe in grado di interrompere la relazione simbiotica con la madre37

. Stoller pensò di aver scoperto un’identità a se stante, che chiamò identità nucleare di

genere. Identificò tre diverse componenti in grado di intervenire nella formazione

dell'identità di genere, da lui considerata come un senso innato di maschilità o di femminilità, solitamente consolidata a partire dal secondo anno di vita:

• influenze biologiche e ormonali; • l'assegnazione sessuale alla nascita; • influenze ambientali e psicologiche.

Lo psichiatra statunitense distinse inoltre l'identità di genere, cioè la consapevolezza più o meno conscia dell'appartenenza a un determinato sesso, dal ruolo di genere, cioè il comportamento sociale esterno mostrato principalmente nel relazionarsi con le altre persone. Secondo Stoller, questi aspetti rappresentano minacce all'identità di genere originaria, dando origine a meccanismi di difesa quali le perversioni38

. La teoria di Stoller è però una teoria minimizzante: non considera il femminile e il maschile come elementi presenti nell’inconscio di tutti gli individui, ma solo come parte di uno specifico gruppo deviante, cioè quello dei e delle transessuali.

Pioniere

Se dunque già Freud, Stoller e Adler hanno fornito le prime basi psicanalitiche sull’identità e il genere, è stato solo a partire dalla seconda metà del Novecento che tali aspetti sono stati ampliati e sviluppati in ambito sociologico e antropologico.                                                                                                                

36 Per maggiori informazioni rimando a Stoller R., Sex and Gender: The Development of Masculinity

and Femininity, Science House, New York City, 1968.

37 Cfr. D. Goleman, Dr. Robert J. Stoller, 66, Teacher and Leading Sex-Identity Theorist, in The New York Times, 10 Settembre 1991, al link: https://www.nytimes.com/1991/09/10/us/dr-robert-j-stoller-66-teacher-and-leading-sex-identity-theorist.html, ultimo accesso 05/05/2018.

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Il concetto di genere sorge e si sviluppa, infatti, per la prima volta con le femministe americane, con l’intento di evidenziare la qualità storica e sociale delle differenziazioni tra uomini e donne, prendendo in tal modo una netta posizione nei riguardi del determinismo biologico che vede l’appartenenza a un genere come un destino sociale prestabilito. Il movimento femminista nasce quindi dalla presa di coscienza di questa disuguaglianza e dalla volontà sociale e politica di modificare lo stato in cui vivevano, con lo scopo di creare una società paritaria.

Nel 1971 fu Ann Oakley a fornire una teoria più elaborata sul concetto di genere in

Sex, Gender and Society39

, uno dei primi lavori a prendere in esame questo tema, parlando del genere in contrapposizione al concetto di sesso. Secondo Oakley, infatti, il sesso farebbe riferimento alla differenza biologica e anatomica tra maschio e femmina, mentre il termine genere sarebbe inerente una questione di cultura relativa all’ambito del sociale.

La diffusione del concetto di genere come focus all’interno delle scienze sociali va però collocata nei primi anni Ottanta, merito soprattutto delle teorie di Gayle Rubin. Ponendosi come scopo quello di studiare la natura e la genesi dell’oppressione e della subordinazione sociale femminile, Rubin ha tentato di denaturalizzare questo stato di indipedenza e sottomissione mediante il concetto di Sex/Gender/System o

Sex/Gender/Sexuality System che vede il cambiamento da parte della società

dell’istinto sessuale biologico in prodotto dell’attività umana40

. Con l’espressione

Sex/Gender/System (SGS) Rubin intende il complesso di disposizioni attraverso cui la

società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana. Tramite i processi, gli atteggiamenti, i modi di comportamento e delle relazioni, ciascuna

società converte tale sessualità biologica e regola la ripartizione dei compiti tra

uomini e donne, diversificandoli l’uno dall’altro, dando vita proprio al genere. Il genere come social product implica quindi che esso sia costruito culturalmente, in modo circostanziale, secondo gli usi e i costumi della società di riferimento.

                                                                                                               

39 Per maggiori informazioni rimando ad A. Oakley , Sex, Gender and Society, Maurice Temple Smith, 1972.

40 Concetto che sarà poi ripreso ed elaborato più volte, viene introdotto per la prima volta nel saggio

Thinking Sex: Notes for a Radical Theory of the Politics of Sexuality, in Carole S. Vance (a cura di), Pleasure and Danger: Exploring Female Sexuality, Pandora Edizioni, Londra, 1992, pp. 267-293,

consultabile al link:

http://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.462.7005&rep=rep1&type=pdf. Ultimo accesso 05/05/2018.

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Secondo Rubin la cultura occidentale è di stampo eteronormativo, in cui ognuno è presupposto essere - per natura - eterosessuale (attratto da uomini in caso di donne e viceversa), a meno che non sia dichiarato diversamente. Si creano delle aspettative riguardo il come gli altri debbano comportarsi nella vita sociale e pubblica, da chi essi debbano essere attratti, basandosi sulla percezione corporea, che assume il ruolo di “copertina” nel rappresentare le caratteristiche del sesso biologico. Ciò che fa Rubin è contestare il determinismo biologico che implica che tutte le persone biologicamente femmine alla nascita dovranno identificarsi come donne (ed essere attratte da uomini). In una visione deterministica dunque, la biologia rappresenterebbe il destino41

.

Attraverso la teorizzazione di tale SGS, il concetto di genere ha immediatamente segnato la nascita sociale e culturale dei concetti di dominazione maschile, dando vita a quello che Rubin e le femministe hanno battezzato come patriarcato. Tale aspetto ha messo in dubbio la presunta naturalità delle differenze relative al modo di fare e di agire e alle aspettative sociali, ma più di tutto alle disparità tra uomini e donne nei maggiori ruoli sociali. Il genere è stato una categoria introdotta al fine di dare una spiegazione a tutto ciò che non è biologicamente dato e pertanto socialmente e culturalmente costruito, nella disuguaglianza sessuale e nelle sproporzioni di potere, dichiarando come gli uomini abbiano convertito una diversità sessuale biologica, naturale e pertanto di per sé neutra, in una diversità sociale e culturale rispetto ai ruoli, spingendo le donne verso posizioni inferiori. Quindi, secondo Rubin, il genere indica la divisione tra i sessi socialmente imposta e perciò risalta la natura artificiale della relazione tra l’elemento biologico e le sue derivazioni sociali. Per rendere i due sessi liberi dai ruoli che la società gli impone, Rubin suggerisce la prospettiva dell’eliminazione del genere.

Sebbene l’apporto di Rubin si configuri senza dubbio come uno tra i più incisivi, è stata la storica Joan Scott a rendere celebre il famoso concetto di gender. Scott realizza un’accurata analisi nel suo saggio del 1986, Gender: a Useful Category of

Historical Analysis42 :

                                                                                                               

41 Ivi.

42 J. W. Scott, Gender: A Useful Category of Historical Analysis, in The American Historical Review,

vol.91, No. 5, Oxford University Press, 1986, pp. 1053-1075, visionabile al link

https://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/students/modules/sexuality_and_the_body/bibliography/jo an_scott_gender_1986.pdf, ultimo accesso 05/05/2018.

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La mia definizione di genere è divisa in due parti e diversi sottoinsiemi. Il nucleo della definizione si basa sulla connessione fra due proposizioni: il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali, basato sulla percezione delle differenze fra i sessi; e il genere è lo strumento primario per costruire le relazioni di potere43.

La prima parte è dunque inerente la percezione delle differenze fra i sessi; la seconda riguarda il modo in cui tale percezione influisce sul potere che i sessi esercitano nella società.

La prima parte di tale definizione asserisce inoltre che il genere è socialmente costruito. Non esiste nulla di naturale o biologicamente predeterminato a riguardo. Si parla dunque di differenze percepite dai sessi, non di differenze naturali. Certo, alcuni di questi aspetti non possono ovviamente sfuggire alle dissomiglianze fisiche, ma queste ultime diventano tratti ed elementi in grado di caratterizzare l’esistenza dell’individuo. Analizzando la ricezione di tali differenze, Joan Scott elenca quattro aspetti fondamentali, per cui:

• i simboli culturali evocano rappresentazioni multiple (e spesso in contraddizione);

• esistono concetti e norme che interpretano cosa significano tali simboli;

• le organizzazioni politiche e le istituzioni sociali influenzano l’interpretazione simbolica;

• esiste il concetto di identità soggettiva (nulla è oggettivo, è solo socialmente costruito).

La prima dimensione introduce quindi l’elemento del mutamento, poiché il termine “genere” fissa la questione della costruzione sociale dell’appartenenza al sesso. La simbologia a essa associata è varia, spesso in contraddizione: la femminilità cristiana è rappresentata sia dalla peccaminosa Eva che dalla Vergine Maria44. Ciò implica che non può esistere un’unica concezione di genere, che le differenze fra uomo e donna sono codificate e costruite da vari agenti sociali. Si intende dunque che se le diversità tra uomo e donna traggono origine dalla società di appartenenza, allora non si tratta di differenze naturali dovute a elementi biologici innati, ma si tratta di costruzioni storico-sociali e culturali del maschile e del femminile e delle relazioni che intrattengono.

                                                                                                               

43 Ivi, p. 1067, la traduzione è mia. 44 Ivi.

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La costruzione sociale del genere implica quindi che tutto ciò che viene costruito può essere anche decostruito, influenzato, cambiato: è perciò mutabile. Esiste poi una seconda dimensione relativa al concetto di genere, e si riferisce al suo aspetto

relazionale. Lo studio di uomini e donne acquista infatti un senso logico solamente se

questi vengono analizzati non separatamente, bensì in termini di reciprocità: interdipendenza e reciprocità del divenire maschile e femminile.

Infine, vi è una terza dimensione del concetto di genere e si riferisce alla

disuguaglianza di potere. Il concetto di genere ha origine anche dal constatare che i

rapporti tra donne e uomini non sono paritari e che le differenze nella ripartizione di mezzi e risorse, di vantaggi e opportunità, di diritti e di doveri, rivelano un divario e una ineguaglianza.

Di fatti poi, secondo Scott, l’ineguaglianza di potere tra gli uomini e le donne di solito si rivela essere una condizione d’inferiorità solo nel senso femminile, ovvero una sottomissione e una situazione a totale discapito per quest’ultima categoria.

La seconda parte riconosce quindi che il genere è usato per creare e rinforzare relazioni di potere. Scott asserisce, dunque, che le differenze di sesso sono usate dalla società per stabilire e portare avanti relazioni che non hanno nulla a che fare con la sessualità. Il sesso viene così utilizzato come legittimazione per ineguaglianza e differenze di genere. Così, secondo Scott, «il genere andrebbe ridefinito e ristrutturato in congiunzione con una visione di eguaglianza politica e sociale che include non solo il sesso, ma anche la classe e la razza»45

.

Introduce quindi un importante cambiamento nell’approccio femminista, che è quello

intersezionale: cercare la parità di genere implica il dover mettere in conto fattori che

influiscono sull’identità di genere, non correlati al sesso o alla biologia, bensì alle varie subculture e substrati sociali.

Sistemi produttivi

Quanto visto finora mostra che la concezione comune di ciò che è naturale e in cosa consista il naturale, è di base un costrutto sociale. È la base e il fondamento della conoscenza dell’essere umano. Il mio corpo biologicamente maschio non mi conferisce maschilità: la riceve nella sua definizione sociale. Non è pertanto possibile                                                                                                                

(29)

prendere per assolute le categorie di “uomo” e “donna”, poiché limitanti e problematiche: occorre quindi una differenziazione più ampia.

A tal proposito è importante considerare quello che Connell46

definisce come dualismo fra Pratica e Struttura. Ogni azione (pratica) si svolge in modo flessibile e libero all’interno di una struttura sociale ben definita e rigida. Per tale motivo è fondamentale tenerne conto all’interno di una ricerca storica, per far si che si consideri sempre il contesto in cui avvengono determinate azioni. Ad esempio, le donne vittoriane avevano la possibilità di scegliere di non sposarsi, ma questo non concedeva loro la completa libertà: esse dovevano comunque rinunciare a una vita sessualmente attiva, mantenendo la castità47

. Questo implica che sebbene ci siano delle aperture e delle eccezioni all’interno di movimenti ed epoche storiche, esse si manifestano sempre in un contesto sociale chiuso e rigido, che offre così un range limitato di possibilità. Ed è quindi nella struttura che Connell individua tre categorie principali48

:

• la divisione del lavoro (Labour); • il controllo del potere (Power);

• la differenza di investimento emotivo (Cathexis).

L’interazione fra questi tre elementi – lavoro, potere, catessi – crea quello che Connell definisce come uno specifico ordine di genere.

Scrive ancora Connell che «la struttura delle relazioni di genere non esiste al di fuori delle pratiche attraverso le quali gli individui e le collettività gestiscono quelle stesse relazioni»49

.

Quest’ordine gerarchico di genere vede quindi in cima un tipo di maschilità da Connell definita egemone e cui seguono, o fanno resistenza, altre tipologie di maschilità e femminilità, che analizzeremo in seguito.

Fra le tre categorie principali, la prima, importante categoria è quella che riguarda proprio il lavoro e la sua divisione sessuale circa le attività, sia domestiche che professionali. L’analisi di Connell investe sia l’apparato produttivo sia quello dei consumatori, mostrando come l’industria e la produzione avvenga secondo differenti                                                                                                                

46 Raewyn W. Connell è una delle maggiori esponenti del femminismo intersezionale. La divisione fra

Practice e Structure è riportata nel suo Gender And Power: Society, the Person and Sexual Politics,

Polity Press, Cambridge, 1987, p. 95 a seguire. 47 Ivi.

48 Ivi, p. 99.

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canoni. Donne e uomini rivestono infatti due ruoli differenti all’interno del sistema di produzione. E donne e uomini ricevono due differenti tipi di gratificazione all’interno di tale sistema. In molti casi gli uomini guadagnano anche il doppio delle donne per svolgere le stesse mansioni, ma spesso è proprio la distribuzione dei compiti ad avvenire in maniera differente. Per tale motivo, la divisione sessuale del lavoro, continua Connell, implica una divisione tecnica del lavoro: a parità di capacità, scegliere il miglior impiegato implica spesso scegliere un uomo50

. Un esempio chiaro è quello italiano: stando ai dati Istat51

del 2016, in cui si registra un fortissimo svantaggio occupazionale rispetto all’Ue.

Nella gran parte dei paesi europei i tassi di occupazione all’uscita dagli studi mostrano un differenziale di genere a sfavore delle donne a prescindere dal livello di istruzione. In Italia, il gap di genere per i laureati è di entità simile a quello medio europeo; mentre per i diplomati, lo svantaggio femminile in termini occupazionali è molto più accentuato.

Se quindi da un lato la produzione è strutturata per sessi, lo è anche la ricezione e il consumo dei prodotti.

Un esempio specifico è la tecnologia degli elettrodomestici e in particolare il loro impiego. Lavatrici, aspirapolveri, forni e molto altro sono, di base, unisex. Non prevedono un’identificazione con un determinato genere per poterne fruire. Eppure, è previsto che siano utilizzati da una donna. Commercial advertising e campagne di marketing ruotano però intorno l’immagine della madre, che col tempo si è evoluta. Se prima era solamente l’angelo del focolare, protettrice estrema della casa, ora diventa una lavoratrice di successo, restando comunque donna e madre/moglie devota il cui compito finale è quello di far si che la casa sia il posto ideale52.

                                                                                                               

50 Ivi.

51 Dati Istat raccolti per la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la parità di genere, consultabili al link:

www.istat.it/it/files/2017/10/A-Audizione-parit%C3%A0-di-genere-25- ottobre_definitivo.pdf?title=Parit%C3%A0+tra+donne+e+uomini+-+26%2Fott%2F2017+-+Testo+integrale.pdf, ultimo accesso 05/05/2018.

In Italia, solo il 38,7% delle giovani donne diplomate che hanno concluso il percorso di istruzione e formazione da non più di tre anni è occupata contro un 50,8% di uomini. Il corrispettivo differenziale nella popolazione laureata, più contenuto, è comunque importante: la quota di occupazione tra i laureati recentemente usciti dagli studi è pari al 59,2% per le donne e al 64,8% per gli uomini.

52 Sempre secondo i dati Istat sopracitati, leggiamo a pagina 16 ancora un esempio italiano sulla disparità nella condivisione dei carichi familiari: «persiste, infatti, la tradizionale asimmetria nella ripartizione del lavoro familiare, sebbene in diminuzione negli ultimi anni. La percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare della coppia, in cui entrambi i componenti sono occupati, diminuisce negli ultimi anni. Peraltro, le donne presentano

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