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Il racconto del centro e della periferia. Uno studio comparato sull’impatto dei movimenti migratori nella narrativa italiana del boom

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Academic year: 2021

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Anno 34, 2019 / Fascicolo 1 / p. 145-147 - www.rivista-incontri.nl - http://doi.org/10.18352/incontri.10296 © The author(s) - Content is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 Unported License - Publisher: Werkgroep Italië Studies, supported by Utrecht University Library Open Access Journals

Il racconto del centro e della periferia

Uno studio comparato sull’impatto dei movimenti

migratori nella narrativa italiana del boom

Recensione di: Anna Taglietti, Scrivere il centro e le periferie. Gli

spazi della migrazione in Bianciardi, Ottieri e Parise, Roma, Aracne,

2018, 184 p., ISBN: 9788825516302, € 12,00.

Bianca Rita Cataldi

Lo scopo di questo saggio è analizzare l’impatto che il movimento migratorio ha avuto e ha ancora sulla narrativa italiana e, in particolare, sulla rappresentazione del centro, inteso come luogo di arrivo, e della periferia, inteso come luogo di partenza. Il corpus scelto per tale studio è formato prevalentemente dai testi di tre autori − Luciano Bianciardi, Ottiero Ottieri e Goffredo Parise − che negli stessi anni, ovvero gli anni Cinquanta-Sessanta del boom economico italiano, hanno condiviso l’esperienza della migrazione verso Milano, centro della vita industriale e del progresso. I principali, anche se non gli unici, testi analizzati sono quelli che costituiscono la cosiddetta “trilogia del miracolo” o “trilogia della rabbia” di Luciano Bianciardi (Il lavoro

culturale, L’integrazione, La vita agra), La linea gotica – Taccuino 1948-1958 di Ottiero

Ottieri e Il padrone di Goffredo Parise.

Sostenuta da un apparato teorico che si basa prevalentemente sul capovolgimento del paradigma di Francesco Orlando, secondo il quale è possibile leggere del centro attraverso gli autori che scrivono di periferie, Anna Taglietti esplora quanto anche la periferia sia presente in absentia negli autori trattati e nel loro racconto del centro. Il saggio analizza tre temi in particolare, a cui corrispondono i tre capitoli del libro: il centro (in questi tre casi rappresentato dalla città di Milano), la periferia e il corpo.

Nell’ultimo capitolo del libro viene riservato uno spazio anche a due autori, Giuseppe Marotta e Francesco Bianconi, che scrivono rispettivamente prima e dopo gli anni del boom, nel tentativo riuscito di ampliare il campo di indagine e di dimostrare come l’influenza dell’atto migratorio cambi anche a seconda della sensibilità personale dell’autore e del tempo in cui vive. Ciò che risulta subito evidente nell’analisi dei testi di Bianciardi, Ottieri e Parise, è come l’arrivo nella città-centro (Milano) provochi un senso di spaesamento. Quando il centro è immaginato da lontano, è possibile chiamarlo per nome, stabilirne dei contorni; quando, invece, chi scrive si ritrova a viverci, non fa più il suo nome, il che evidenzia la mancanza di integrazione con l’ambiente. Mentre il vecchio, la periferia da cui ci si allontana, rappresenta la pietra miliare nella costruzione del sé, il nuovo, ovvero il centro verso cui si migra, equivale all’incomprensione e alla non integrazione. L’analisi di questi testi viene quindi affrontata attraverso la prospettiva spaziale, in termini di rapporto uomo-spazio.

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Nel primo capitolo, le opere dei tre autori vengono comparate secondo tale prospettiva, sottolineando le diverse fasi del rapporto con il centro, dal desiderio di adattamento e appropriazione fino al tentativo di recuperare il rapporto umano avvicinandosi alle zone periferiche e proletarie. Sia nel caso di Bianciardi che di Ottieri, tale tentativo risulta fallimentare e i personaggi di queste opere si ritroveranno ancora più soli di quando erano appena arrivati in città. In Bianciardi in particolare, in tutte le opere ambientate a Milano, la voce narrante è sempre uno straniero, quasi un intruso, e Milano è un mostro tentacolare da detestare. Nel caso del Padrone di Parise, il protagonista si ritrova invece a essere completamente succube del signor Max, il “padrone” del titolo, fino al punto di permettergli di decidere non solo della sua vita lavorativa, ma anche di quella sentimentale. Se alla figura del padre (rimasto in periferia) viene attribuita una forza prevalentemente fisica, a quella del padrone corrisponde invece una forza persuasiva, mentale, capace di gestire ogni ambito della vita del suo sottoposto.

Il secondo capitolo si concentra sul racconto delle periferie che emerge in controluce dal racconto del centro. Quando evocata, ‘la periferia funge da contraltare e da termine di paragone’ (p. 43). Se, dunque, nella periferia tutto assumeva un senso all’interno di un definito ordine naturale delle cose, nella metropoli ‘la ricerca della realtà porta alla delusione inesorabile delle aspettative’ (p. 43). Nella dialettica morte-vita, che costituisce di per sé un topos della letteratura di ogni tempo, la città tende ad avvicinarsi inesorabilmente alla sfera mortifera, come è testimoniato anche dall’uso dello spettro cromatico che si tinge di grigio nella maggior parte delle opere di questi autori. L’eccezione è talvolta rappresentata dal quartiere di Brera, ma anche qui si tratta di una realtà positiva solamente a prima vista. Per Ottieri, Milano è sì un corpo estraneo ma, diversamente dalla Milano di Bianciardi, esercita anche un certo fascino sulla voce narrante che vi si avvicina, se ne allontana e poi la sente mancare. Il focus è dunque, per Ottieri, prevalentemente sull’idea dello sradicamento del lavoratore (il lavoratore intellettuale, in questo caso) che, pur di svolgere il proprio incarico, deve allontanarsi dal proprio spazio. In Parise, emergono soprattutto le conseguenze disumanizzanti di tale allontanamento, nonché del lavoro in sé.

Il terzo capitolo è infatti dedicato al rapporto tra spazio e corpo, a come la salute dell’individuo (fisica ma soprattutto mentale) reagisce alla migrazione dalla periferia verso il centro. Anche quando la malattia non è palesemente espressa, come avviene per la periferia, la si può leggere in filigrana, nella decadenza fisica, nel linguaggio del corpo e anche nel linguaggio scritto e parlato, che raggiunge talvolta dimensioni di totale straniamento, a cui corrisponde lo straniamento dell’individuo stesso. Infine, l’indagine si sposta su Marotta e Bianconi. Il primo, in A Milano non fa freddo, esorcizza il dolore dello sradicamento attraverso l’innamoramento nei confronti della città; il secondo, invece, in Il regno animale, racconta una Milano odiosa, già post-industriale e più grigia che mai, in cui è impossibile sentirsi a casa e in cui alla frammentazione dell’io corrisponde anche quella della struttura del testo.

In conclusione, l’ipotesi iniziale del ribaltamento del paradigma orlandiano risulta confermata non solo dal corpus scelto e analizzato con lucidità e con un denso supporto di riferimenti critici, ma anche da testi che precedono o seguono il periodo di riferimento. Tale ampliamento del campo di indagine dimostra come, seppur con diverse modalità, i movimenti migratori di un autore influenzino la sua produzione, e quanto sia possibile che la periferia, anche quando risulta assente nella narrazione, sia in realtà presente nel racconto stesso del centro, come in uno specchio rovesciato.

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Bianca Rita Cataldi

University College Dublin

UCD Humanities Institute, Belfield, Dublin 4 (Ireland) [email protected]

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