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Prova sugli effetti di una dieta arricchita con HMF, grassi e proteine in Apis mellifera L.

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UNIVERSITA' DI PISA

Corso di Laurea Magistrale: Produzioni Agroalimentari e

Gestione degli Agroecosistemi

Tesi di Laurea

Studio sugli effetti di una dieta arricchita con HMF, grassi e

proteine in Apis mellifera L.

Relatore: dott. Angelo Canale

Relatore: dott. Antonio Felicioli

Correlatore: dott.sa Lucia Casini

Candidato: Giovanni Cheli

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INDICE

1.0 INTRODUZIONE ... 3

1.1 La società delle api ... 4

1.2 La dieta dell’ape in natura ... 7

1.2.1 Sostanze zuccherine ... 7

1.2.2 Polline ...12

1.3 La dieta larvale ...16

1.3.1 Differenziamento di casta ...18

1.4 La dieta delle adulte ...22

1.4.1 Aspetti fisiologici e alimentazione ...23

1.5 La dieta della regina ...27

1.6 La dieta delle api management ...28

1.6.1 Le diete stimolanti ...28

1.6.2 Le diete di supporto ...30

1.6.3 Le diete fornite dall’uomo ...32

1.7 La dieta e salute dell’ape ...33

1.8 Diete artificiali sperimentali in laboratorio ...41

2.0 SCOPO DEL LAVORO ...43

3.0 MATERIALI E METODI ...46 3.1 HMF ...47 3.2 Proteine...50 3.3 Grassi ...52 4.0 RISULTATI ...54 4.1 HMF ...55 4.2 Proteine...63 4.3 Grassi ...68 5.0 DISCUSSIONI ...73 5.1 HMF ...74 5.2 Proteine...79 5.3 Grassi ...83 6.0 CONCLUSIONI ...87 7.0 BIBLIOGRAFIA ...90

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1.1 La società delle api

L’ Apis mellifera L. è originaria degli ecosistemi dell’Europa, del Medio Oriente e dell’intero continente africano. Tuttavia, ad oggi, l’A. mellifera è presente anche in America, in Asia, in Australia e nelle isole del Pacifico (Seeley, 1995)

L’Apis mellifera L. vive in società altamente specializzate, in cui ogni individuo è intimamente legato e dipendente dall’altro per quanto riguarda il comportamento, la sopravvivenza e la riproduzione (Moritz e Southwick, 1992). La colonia è il fondamento e l’essenza per la fitness della specie. La fitness del singolo individuo è uguale a zero se questo è privato della sua società. Invece nel contesto della colonia l’individuo diventa estremamente efficiente nella riproduzione (Moritz e Southwick, 1992). Diversi autori (Moritz e Southwick, 1992; Seeley, 1989) considerano la società delle api come un unico organismo superiore dotato di grandissime capacità biologiche, in cui ogni ape rappresenta l’unità minima vivente che esplica le funzioni di cellula e, come tale, è fondamentale alla vita di tutto l’organismo. Una colonia, nel pieno della sua attività, è costituita da:

-1 regina -300 fuchi

-10.000 api bottinatrici

-25.000 api che lavorano all’interno dell’alveare -9.000 larve

-6.000 uova sistemante sul fondo delle cellette (Frediani e Pinzauti, 1993).

La colonia d’api costituisce una realtà biologica singolare. Una sorta di organismo complesso formato da migliaia di individui interdipendenti e regolato da sistemi di coesione, integrazione e comunicazione propri degli insetti sociali più evoluti (Moritz e Southwick, 1992).

Le api sono considerate come un superorganismo.

Il “superorganismo”, secondo Wilson e Sober (1989) è “un’insieme di singoli individui che insieme posseggono l’organizzazione funzionale che è implicita nella definizione formale di organismo”.

I superorganismi, e quindi anche la società delle api, hanno delle caratteristiche in comune. Moritz e Southwick (1992) ne descrivono le sette caratteristiche comuni:

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- sono generalmente sessili: le api vivono in nidi stabili dove accumulano cibo e allevano la prole;

- mantengono all’interno del nido una condizione omeostatica: le famiglie di api riescono a mantenere all’interno della colonia una temperatura interna costante che va da 34°C-36°C anche con variazioni di temperatura da -30°C a +50°C (Seeley, 2010) ;

- hanno un nido criptico o sono ben armate: le api hanno un nido criptico e in natura scelgono la loro nuova abitazione in base a delle caratteristiche ben precise (altezza dal suolo, larghezza e esposizione dell’entrata, volume interno);

- hanno un alto numero di individui: 20.000 operaie, una regina, alcune centinaia di fuchi (Seeley, 1995);

- nei superorganismi la selezione naturale agisce a livello di superorganismo e non di individuo;

- nei superorganismi la riproduzione avviene per gemmazione e nel caso della specie Apis mellifera viene chiamata sciamatura;

- ci sono individui che svolgono funzioni diverse: pulizia dell’alveare, cura della prole, somministrazione dell’alimentazione a larve, regina e fuchi, produzione di cera, guardia, foraggiamento (Contessi, 2015) .

L’Apis mellifera è un organismo aplodiplonte. Nel caso delle api il genere maschile si differenzia dal genere femminile per un corredo cromosomico aploide (n=16) invece che diploide (n=32) (Lodesani, 2016). Infatti i maschi si sviluppano da uova non fecondate, mentre le femmine da uova fecondate (Contessi, 2015).

All’interno della colonia troviamo due caste femminili: le operaie e le regine (Contessi, 2015). La differenza fra le suddette caste è dovuta ad una differente nutrizione nello stadio larvale, e ad una differente forma e dimensione delle celle in cui sono ubicate negli stadi pre-immaginali (Brouwers et al., 1987; Wu et al., 2018).

Tutte le uova fecondate vengono deposte dall’ape regina (Contessi, 2015).

Se presente, la regina depone anche le uova non fecondate da cui nasceranno i fuchi. Esiste la possibilità che in assenza della regina, alcune api operaie sviluppino i loro ovari e possano produrre uova (Contessi, 2015). Queste uova però sono aploidi e non possono essere fecondate (Contessi, 2015).

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Un caso particolare da segnalare è quello presente nella sottospecie di Apis mellifera capensis. Questa sottospecie di Apis mellifera, in assenza di regina, ha delle operaie che riescono a fare una partenogenesi telitoca, cioè depongono uova diploidi, dato da un’unione nella telotofase II di due nuclei aploidi, che danno origine a individui del genere femminile (Verma, Ruttner, 1983).

Nella casta delle operaie si ha un polietismo regolato dall’età degli individui (Moritz and Southwick, 1992). In particolare, questo riguarda le diverse attività svolte dalle operaie nel corso della loro vita. Per la divisione del lavoro nelle operaie c’è un’associazione fra età e comportamento/compito svolto: le api operaie giovani sono nutrici rispetto alle api anziane, bottinatrici.

Tuttavia, l’ontogenesi comportamentale è molto flessibile. Le bottinatrici in caso di necessità possono ritornare a svolgere i compiti di nutrice e le nutrici possono andare precocemente a bottinare (Münch and Amdam, 2010).

La vita media di un’ape operaia in condizioni di presenza di covata va da 30-50 giorni (Münch and Amdam, 2010). Nei periodi senza la presenza di covata, come per esempio durante l’inverno nei climi temperati, le operaie hanno una fisiologia differente e vengono chiamate api ditiunus. Queste api operaie possono vivere anche 10 mesi (Münch and Amdam, 2010). Questa diversa aspettativa di vita dell’ape operaia è ben adattata alla fluttuazione stagionale ambientale per poter riattivare lo sviluppo della colonia quando le condizioni ambientali ritorneranno adatte (Omholt, 1988) .

La regina generalmente invece riesce a vivere da fino a 4 e 5 anni (Akyol et al., 2008) e riesce a depositare fino a 2000 uova al giorno (Contessi, 2015).

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1.2 La dieta dell’ape in natura

Le colonie di Apis mellifera, in natura, per il loro fabbisogno alimentare in carboidrati raccolgono il nettare e la melata, che vengono trasformati e stoccati sotto forma di miele all’interno delle celle (Brodschneider and Crailsheim, 2010).

Per soddisfare invece il fabbisogno in proteine, grassi, vitamine e steroli le api raccolgono il polline che trasformano in pane delle api (Hrassnigg and Crailsheim, 2005).

L’accumulo di risorse come miele e pane delle api serve alla colonia per la sopravvivenza in periodi in cui l’ambiente non può sopperire alle richieste alimentari (Brodschneider and Crailsheim, 2010).

Le quantità e le composizione alimentare variano a seconda delle varie caste, dei generi (maschi e femmine) e delle diverse fasi di sviluppo, pre-immaginale e immaginale (Brodschneider and Crailsheim, 2010; Brouwers et al., 1987).

1.2.1 Sostanze zuccherine

Nettare

Il nettare è una soluzione zuccherina che deriva dalla secrezione dei nettàri (Fahn, 1979). I nettàri sono stati definiti come “strutture ghiandolari multicellulari, più o meno localizzate, che si trovano in organi vegetativi e riproduttivi delle piante e regolarmente secernono nettare” (Schmid, 1988).

Le angiosperme e le gimnosperme, grazie alla secrezione di nettare, riescono ad instaurare relazione mutualistiche con gli animali (Nicolson et al., 2007). Il rapporto mutualistico che si viene a creare porta con sé dei benefici alla pianta, come per esempio il servizio di impollinazione (Nicolson et al., 2007).

I nettàri che più sono coinvolti nell’assecondare l’impollinazione sono quelli posizionati all’interno degli organi fiorali (Nicolson et al., 2007). Gli animali che si cibano di queste secrezioni sono per la maggior parte insetti, come le api, ma abbiamo casi anche di uccelli, mammiferi e marsupiali (Nicolson et al., 2007). I nettàri extrafiorali solitamente sono coinvolti nel richiamare animali che, grazie alla presenza alimentare, difendono il territorio da estranei (Nicolson et al., 2007).

Il nettare è prevalentemente composto da acqua e zuccheri ed in piccole quantità troviamo aminoacidi, minerali, lipidi, acidi organici, fenoli, alcaloidi, terpenoidi (Nicolson et al., 2007).

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Gli zuccheri e gli aminoacidi sono i metaboliti primari che si ritrovano in maggior quantità nel nettare e più associati alle sue funzioni attrattive (Roy et al., 2017).

Il contenuto energetico che il nettare può fornire dipende dalla quantità totale di zucchero presente, il quale è relazionato con la concentrazione zuccherina e il volume (Corbet, 2003). La concentrazione degli zuccheri varia dal 7% al 70% w/w (Nicolson, 1998). Gli zuccheri prevalenti nel nettare sono il saccarosio e i suoi due monomeri fruttosio e glucosio (Nicolson, et al., 2007). Tradizionalmente lo studio della composizione del nettare è stato incentrato sulla composizione zuccherina, in quanto nel nettare ne troviamo in grandi quantità.

Ritroviamo anche altri monosaccaridi (mannosio, arabinosio, xylosio, ribosio), disaccaridi

(maltosio, melibiosio) e più raramente oligosaccaridi (raffinosio, melezitosio, stachiosio)

(Nicolson et al., 2007). Il sorbitolo, alditolo del glucosio, è frequente trovarlo in nettari di piante mediterranee (Petanidou, 2005).

Alcune eccezioni sulla composizione zuccherina la fanno i nettari derivati dai due generi della famiglia delle Proteaceae, Protea e Faurea. In queste piante, lo xilosio è presente al 39% rispetto al totale (Nicolson and Van Wyk, 1998).

La percentuale di saccarosio rispetto alla totale quantità di zuccheri presenti nel nettare varia da valori del 8-10%, per piante a bassa concentrazione di saccarosio come per esempio quelle appartenenti alle famiglie delle Liliaceae, Apiaceae, Dipsacaceae, a valori del 62-86%, per le piante ad alta concentrazione di saccarosio come quelle appartenenti alle famiglie Lamiaceae, Ranuncolaceae, Fabaceae (Petanidou, 2005). I monomeri fruttosio e glucosio, sono derivati dall’idrolisi del saccarosio traslocato o sintetizzato nei nettàri. La concentrazione dei sue monomeri è determinata dall’attività enzimatica dell’invertasi durate o dopo la secrezione nettarifera (Pate et al., 1985). Convenzionalmente il nettare viene diviso in base al rapporto fra saccarosio e i due suoi monomeri. Il nettare viene perciò suddiviso in quattro classi: saccarosio dominante, quando il rapporto è maggiore di 1; ricco in saccarosio, quando il rapporto è compreso fra 1 e 0,5; ricco in esosi, quando il rapporto varia da 0,5 a 0,1; esoso dominante, quando il rapporto è minore di 1 (Baker e Baker, 1983).

Gli aminoacidi nel nettare sono la seconda classe di soluti presenti nel nettare dopo gli zuccheri avendo una concentrazione che varia da 100 a 1000 volte inferiore rispetto agli zuccheri (Nepi et al., 2012). Nel nettare sono stati trovati sia gli aminoacidi essenziali che quelli non essenziali per l’ape (Nicolson e Thornburg, 2007).

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ma non possono essere sintetizzati dagli organismi animali e devono essere assunti con l’alimentazione (Hou et al., 2015).

Nonostante il contenuto in amminoacidi essenziali nel nettare, le api (Apis mellifera L.) generalmente utilizzano il polline come fonte principale di amminoacidi e proteine. Gli aminoacidi potrebbero contribuire al sapore del nettare stimolando dei recettori dell’apparato boccale (Nicolson et al., 2007).

Bertazzini e colleghi (2010) sostengono che le api bottinatrici preferiscono un nettare arricchito con prolina rispetto ad un nettare arricchito con alanina o con serina.

L’importanza che assolvono gli altri composti, come minerali e metaboliti secondari delle piante, sono stati raramente studiati.

Il nettare contiene diversi ioni inorganici, tra cui K+, catione dominante, Cl-, anione dominante

(Nicolson, Thornburg, 2007). K+ è stato trovato in percentuali, rispetto al totale dei cationi,

variabili dal 91% to 94% in 20 specie del genere Nicotiana, Cl- rispetto al totale degli anioni,

varia dal 69% all’ 84%. Altri ioni riportati nel nettare sono NO3-, PO

43-, SO42-, Na+, NH4+,

MG2+ and Ca2+ (Tiedge and Lohaus, 2017). Questi ioni, oltre ad un ruolo nutrizionale, sembra

che abbiano un ruolo nel contenimento dello sviluppo microbico nel nettare.

Gli ioni possono far parte del ciclo redox del nettare: un meccanismo di difesa fiorale contro lo sviluppo microbico (Carter and Thornburg, 2004).

Analisi effettuate su api bottinatrici con metodologia PER (proboscis extension reflex) hanno trovano una diversa risposta alle diverse concentrazioni saline. Sembra che soluzioni

zuccherine con basse concentrazioni di NaCl (1,5-3% w/w di Na ) e MgCl2 (1,5 % w/w in

Mg) siano fago-stimolanti, ma KCl sembra avere effetti di avversione (Lau and Nieh, 2016). Ciò spiega anche il fatto che, un alto livello di potassio nei nettari di cipolle e avocado riduce l’attrattività per le api (Wright et al., 2018). Il nettare contiene anche diversi metaboliti secondari delle piante, e fra questi alcuni sono coinvolti nell’appetibilità del nettare. L’ingestione di nettari con metaboliti secondari sembra essere dose dipendente: basse concentrazioni di alcuni fenoli e alcaloidi sono preferiti dalle api (Apis mellifera L.) rispetto al controllo con solo zucchero. Un’alta concentrazione di quest’ultimi invece inibisce l’ingestione (Singaravelan et al., 2005). I metaboliti secondari sono stati sviluppati dalle piante come deterrenti per gli erbivori, ma non allontanano gli insetti impollinatori che, con la loro attività, svolgono un’importante funzione per la pianta (Köhler et al., 2012).

Fra i metaboliti secondari i fenoli risultano avere una particolare importanza nell’interazione con le api ed altri impollinatori. I fenoli sono molto diffusi nei nettari e il loro accumulo può

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rendere il nettare tossico, diventando a volte repellente per alcuni visitatori (Ferreres et al., 1996) . I fenoli posso essere usati come markers per l’identificazione botanica, come descritto da Ferreres e colleghi (1996) per il nettare di erica (Erica sp.). I fenoli sono molecole solubili in acqua e l’ipotesi della loro presenza nel nettare è che questi si solubilizzano dalla struttura contenitiva del fiore (Raguso, 2004). Le sostanze fenoliche sono anche prodotti che: danno profumo ai fiori, hanno proprietà difensive nei confronti dell’attività microbica, attirano gli impollinatori. I fenoli hanno proprietà fluorescenti ed è stato suggerito che i composti fluorescenti accumulati nel nettare servano come guida per gli impollinatori, specialmente l’ape (Apis mellifera L.) che riesce a vedere la luce UV. Ma ancora non è del tutto chiaro se sia proprio questa la loro funzione (Nicolson, Thornburg, 2007).

Un’altra categoria di metaboliti secondari presenti nel nettare sono i composti terpenici. I composti terpenici sono sostanze odorifere prodotte da quasi tutti i fiori. Sono i principali costituenti degli olii essenziali, e sono stati osservati in nettari di diverse specie di piante (Raguso, 2004).

Come per i fenoli anche i terpenoidi sono solubili in acqua e la loro presenza nel nettare può essere dovuta a un processo passivo di assorbimento (Raguso, 2004). Raguso (2004) ha testato e dimostrato l’ipotesi che alcune molecole, come il geraniolo, linalolo e lo jasmone, erano assorbite da soluzioni zuccherine artificiali, mimando le condizioni in cui esse si trovavano nel nettare, e che successivamente esse andavano incontro alla volatilizzazione. I terpeni possono avere degli effetti sulla salute e sul comportamento dell’ape (Apis mellifera L.). Per esempio, il timolo, un fenolo monoterpenico, viene utilizzato in apicoltura come acaricida contro la Varroa destructor. E sembra avere anche effetti contro il microsporidio Nosema ceranae. Quando le api neo-sfarfallate sono alimentate in gabbiette con sciroppo arricchito di timolo (60 ± 9 milioni di spore/api) rispetto al controllo (138 ± 7 milioni di spore/api), non mostrano differenze di mortalità (Costa et al., 2010).

Il timolo ha avuto effetti sul comportamento fototattile delle api diminuendolo sia in condizioni di laboratorio che in condizioni di campo (Carayon et al., 2014).

Ad ogni trattamento rimarrebbero residui nella cera (Carayon et al., 2014). Non sono noti, al momento, gli effetti a lungo termine di questi trattamenti sul super organismo ape.

Gli alcaloidi sono stati identificati su nettari e polline in un largo numero di piante (Adler, 2000; Rand et al., 2015). Le interazioni con altri agenti stressori, come infezioni o stress climatici, possono incrementare l’effetto tossico dei composti. Tuttavia, gli alcaloidi del nettare, come la nicotina, anabasine e caffeina, potrebbero avere potenziali effetti benefici

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sulla salute dell’ape. Come per esempio, nicotina e anabasine, entrambe presenti nel nettare in diverse specie del genere Nicotiana, possono ridurre la carica parassitaria in Bombus impatiens parassitatati con il protozoo intestinale Chritidia bombi (Richardson et al., 2015). La nicotina non sembra agire, a differenza del caso sopracitato, sul patogeno microsporigeno Nosema ceranae in Apis mellifera L. (Hendriksma et al., 2020). Inoltre, Köhler e colleghi (2012) hanno osservato che alte concentrazioni di nicotina in soluzioni zuccherine agisce come deterrente per le api (Apis mellifera L.). L’effetto deterrente risulta essere meno marcato quando la concentrazione zuccherina delle soluzioni è alta (0,32 M, 0,63 M) rispetto a quando la concentrazione zuccherina è bassa (0,15 M) (Köhler et al., 2012). Köhler et al. (2012) hanno osservato inoltre come api neo-sfarfallate dentro gabbiette in condizioni di laboratorio, in presenza di basse concentrazioni di nicotina (3 μM) nel cibo, sembrano avere un maggior tasso di sopravvivenza rispetto al controllo. Un altro alcaloide studiato per le proprie proprietà psicoattive e assunto dall’ape (Apis mellifera L.) in natura è la caffeina. La caffeina può portare a dipendenza, migliorare le capacità mnemoniche nell’ape come dimostrato da Wright et al. (2013). Le api ricompensate con soluzioni contenenti concentrazioni di caffeina simili a quelle trovate in natura in alcune specie appartenenti ai generi Coffea sp. e Citrus sp., hanno mostrato una maggiore capacità di ricordare un profumo floreale rispetto alle api che erano state ricompensate con solo saccarosio (Wright et al., 2013).

Melata

La melata è un prodotto che può derivare o da secrezione di alcuni organi della pianta o da escrezioni di insetti che si nutrono della linfa floematica delle piante (Emitteri) (Sanz et al., 2005). La linfa elaborata è generalmente dominata dal saccarosio (Fink et al., 2018). Alcune piante, oltre al saccarosio, utilizzano altri composti per il trasporto dei fotosintetati come gli oligosaccaridi della famiglia del raffinosio, che vengono utilizzati dalle piante appartenenti alla famiglia delle Oleaceae, o gli alcol zuccheri (per esempio il manitolo e il sorbitolo) nelle piante appartenenti alla famiglia delle Rosaceae (Nadwodnik and Lohaus, 2008; Öner-Sieben and Lohaus, 2014). Molti insetti dell’ordine degli Emitteri si cibano anche di questi differenti composti diversi dal saccarosio (Nadwodnik and Lohaus, 2008; Öner-Sieben and Lohaus, 2014).

Gli Emitteri, inoltre, riescono ad aumentare la concentrazione dei composti azotati all’interno della linfa elaborata e espellono la restante parte, meno concentrata in composti azotati. La

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loro capacità di captare e assorbire aminoacidi è molto elevata. Solo l’1-3 % degli aminoacidi totali presenti nel floema è stato trovato nella melata (Sandström and Moran, 2001).

I composti zuccherini che ogni specie di emittero defeca possono essere differenti rispetto ai composti presenti originariamente nella linfa elaborata. È stato osservato che in Salix acutifolia, una pianta che ha come unico zucchero di trasporto il saccarosio, quando attaccata dall’afide Tuberolachnus salignus, questo produce una melata contenente differenti mono-, di- e trisaccaridi (Mittler T. E., 1958). Le piante che in Europa sono più note per la loro produzione di melata sono: pino, abete bianco, abete rosso, Quercus spp., castagno, betulla, salice, Tilia sp. (Primorac et al.., 2009).

Ma esistono insetti, come la Metcalfa pruinosa (insetto della famiglia Flatidae), che sono

polifagi ed attaccano una grande varietà di piante (Utzeri et al., 2018).

1.2.2 Polline

Il polline è il microgametofito maschile delle angiosperme e delle gimnosperme.

Il granulo pollinico ha un diametro variabile da 5 µm in Myosotis spp. a 200 µm nelle Cucurbitaceae (Twell, 2007).

Il granulo pollinico delle angiosperme e delle gimnosperme è formato al suo interno da due o tre cellule. Una cellula vegetativa e una o due cellule germinative che stanno all’interno della cellula vegetativa (Twell, 2007). Questo però non è valido per le gimnosperme che hanno caratteristiche differenti (Pacini et al., 1999).

Un granulo pollinico maturo delle angiosperme è composto da tre strati esterni:

(1) l’esina, lo strato più esterno, è composta da sporopropellina, un composto altamente resistente che previene la perdita di acqua dai granuli che serve alla germinazione, ne mantiene la loro vitalità grazie alla sua resistenza ad alte temperature, alla luce ultravioletta (UV) e ai danni meccanici a causa dei microorganismi (Ariizumi and Toriyama, 2011). L’esina ha forme differenti in base alla specie e al tipo di impollinazione. È generalmente multistrato e non ha una superficie tutta unita. Ci sono dei punti, uno o più di uno, in cui questo strato ha dei pori che servono al granulo pollinico per la germinazione (uscita del tubetto pollinico).

(2) l’intina, lo strato interno, a sua volta multistrato, composta principalmente da cellulosa e pectine (Twell, 2007).

(3) il Pollen-kit è uno strato che riempie le cavita esterne dell’esina ed è composto da lipidi, proteine, pigmenti e composti aromatici (Edlund, 2004).

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(4) il protoplasma interno.

Il valore nutrizionale del polline spesso è valutato in base al suo contenuto proteico e alla presenza e la quantità di aminoacidi ritenuti essenziali per le api (Roulston and Cane, 2000). Però sembra che ci siano poche evidenze che le api valutino la scelta del polline in base al loro alto contenuto proteico (Nicolson, 2011; Roulston and Cane, 2002). Questo potrebbe essere vero per il semplice fatto che maggior quantità di proteine e aminoacidi determinano una quantità minore di voli per la raccolta di polline che servono per raggiungere il loro fabbisogno proteico.

Le proteine contenute all’interno del polline variano enormemente (Keller et al., 2005). La concentrazione in proteine nel polline, raccolto a mano da 377 specie diverse comprese in 93 famiglie, sia compresa fra un 2,5% della sostanza secca, trovato per il polline della specie Cupressus arizonica, fino al 61% della sostanza secca trovato nella specie Dodecatheon clevelandii (Primulaceae) (Roulston and Cane, 2000). Le api bottinatrici cambiano la concentrazione proteica del polline aggiungendo nettare. Human e Nicolson (2006) hanno valutato le differenti caratteristiche del polline della specie Aloe greatheadii var. davyana raccolto a mano sul fiore e quello raccolto dalle api tramite delle trappole posizionate davanti l’alveare. Hanno notato che la concentrazione di proteine su sostanza secca diminuiva da 51% al 31 %.

Le analisi solitamente sono fatte sul polline raccolto con le trappole posizionate davanti l’alveare. L’analisi del polline raccolto dalle api è problematica, in quanto le api aggiungono al polline nettare ed enzimi salivari (Anderson et al., 2011).

Importante, oltre che il contenuto proteico, è il bilanciamento degli aminoacidi essenziali all’interno del polline, sia che siano in forma libera sia che siano all’interno delle proteine (Huang, 2012). La quantità di isoleucina nei pollini di Eucalyptus spp. o istidina nel polline di mais sono, ad esempio, molto basse o inesistenti (Höcherl et al., 2012; Somerville, D.C., 2001).

La divisione degli aminoacidi fra essenziali e non essenziali nell’ape è stata studiata da De Groot (1953).

Nel polline troviamo sia aminoacidi essenziali che non essenziali, con una prevalenza per quest’ultimi in 62 specie di piante come riportato da Somerville (2001), dove gli aminoacidi prevalenti sono risultati essere la prolina, l’acido glutamminico, l’acido aspartico.

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Un’altra classe di composti che ritroviamo nel polline sono i lipidi, che tipicamente hanno una concentrazione minore del 10% su sostanza secca (Nicolson, 2011). In sei specie di eucalipto, quelle maggiormente presenti nell’Australia orientale, è presente una percentuale di lipidi compresa fra 0,59 e 1,9% su sostanza secca (Manning and Harvey, 2002). Ci sono casi come la colza (Brassica napus) in cui la concentrazioni in lipidi è eccezionalmente alta del 31,7% su sostanza secca (Rothnie et al., 1987). Un’alta concentrazione di lipidi è considerate attrattiva per le api (Singh et al., 1999).

I lipidi nel polline si trovano sia al suo interno, sia nel pollen-kit (Dobson, 1988)

La composizione in acidi grassi dei diversi pollini varia notevolmente. I tre acidi grassi più comuni sono: acido palmitico, linoleico (omega-6) e alfa-linolenico (omega-3), che insieme comprendono in media il 60-80% di tutti i grassi acidi presenti (Arien et al., 2015; Avni et al., 2014; Manning, 2001). Questi tre, oltre all'oleico e allo stearico, sono i principali acidi grassi presenti nel corpo delle api (Arien et al., 2015; Avni et al., 2014). Di grande significato nutrizionale sono i due acidi grassi essenziali, l'acido linoleico e l'alfa-linolenico, la cui carenza di quest'ultimo potrebbe compromettere le funzioni cognitive delle api (Arien et al., 2015).

La concentrazione di acido linoleico è maggiore nel corpo rispetto al cervello delle api, mentre è vero il contrario per l'acido alfa-linolenico (Arien et al., 2015). Questi due acidi grassi, oltre a decanoico, dodecanoico e miristico, hanno proprietà antimicrobiche; pertanto i pollini ricchi di questi acidi grassi potrebbero svolgere un ruolo importante nell'igiene dell'alveare, oltre al loro valore nutrizionale (Manning, 2001).

Un altro composto che si trova nel polline è l’amido. Roulston e Buchmann (2000) analizzando i pollini di 89 specie Angiosperme, hanno trovato che il contenuto di amido variava da 0 al 22%.

Atri composti importanti per le caratteristiche nutrizionali del polline sono gli steroli.

Gli steroli pollinici sono diversi e comprendono, β-sitosterolo, stigmasterolo, avenasterolo e colesterolo 24-metilene (Villette et al., 2015).

Il polline è noto per essere più ricco di vitamine idrosolubili (ad esempio, vitamine del gruppo B) rispetto alle vitamine liposolubili (Avni et al., 2014; Roulston and Cane, 2000).

Tra i minerali importanti che le api assorbono dal polline troviamo il ferro, che si accumula alla periferia dell'addome, in parte come magnetite, con un sospetto ruolo nella navigazione delle api (Wang et al., 2013). Tuttavia, un'alta concentrazione di ferro nel polline, ad esempio

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da colture fortemente fertilizzate, può indurre perossidazione lipidica e ridurre la longevità delle api (Jumarie et al., 2017).

L’Apis mellifera è un insetto generalista, che perciò non si è adattato ad un’alimentazione esclusiva di una specie vegetale e quando le colonie hanno a disposizione un pascolo ricco in varietà di polline di specie differenti, queste risultano avere meno patologie, una maggiore forza e una maggior quantità di covata (Avni et al., 2014; Fine et al., 2018; Human and Nicolson, 2006).

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1.3 La dieta larvale

La regina ovidepone in celle diverse per forma e dimensione in base alla casta e al genere (Ratnieks and Keller, 1998). Le celle destinate alle larve che diventeranno operaie hanno un diametro di circa 5,4 mm mentre quelle destinate alle larve che diventeranno fuco sono intorno a 6,8 mm di diametro con una forma esagonale (Lodesani, 2016). Generalmente, invece, le celle per le larve destinate a diventare regine sono a forma di coppa, con l’apertura rivolta verso il basso e possono avere un diametro che va da 8 mm a 10 mm (Wu et al., 2018). La regina inserisce il suo addome sul fondo della celletta depositandoci un uovo in posizione verticale rispetto al piano di appoggio (Lodesani, 2016). Generalmente le uova sono tutte deposte dalla regina, quando questa è presente (Seeley, 1995).

Il tempo che intercorre fra la deposizione dell’uovo, di qualsiasi genere e casta, e l’uscita della larva è generalmente 3 giorni (Contessi, 2015). Harbo e Bolten (1981), hanno osservato che mettendo uova appena deposte maschili (non fecondate) e femminili (fecondate) ad una temperatura di 34.8°C ed un’umidita relativa dell’80%, sono necessarie circa 71,4 +/- 1,2 h per la schiusa delle uova fecondate e 3 h in più per quelle non fecondate. Questo conferma che l’uscita della larva è a circa 3 giorni dalla deposizione.

Le api nutrici ispezionano frequentemente le uova all’interno delle celle e durante e immediatamente dopo la nascita della larva depositano il cibo nel fondo della celletta (Brouwers et al., 1987).

Nelle prime fasi la larva è adagiata sul fondo della celletta ed è immersa nella gelatina reale che le api nutrici gli hanno fornito (Contessi, 2015).

Le larve del genere femminile fino al terzo giorno di vita hanno la possibilità di manifestare il fenotipo da regina e/o il fenotipo da operaia. I meccanismi fisiologici e molecolari precisi che determinano il cambiamento di casta non sono ancora del tutto chiari (Hoover et al., 2006) ma sicuramente è coinvolto il regime alimentare.

La gelatina reale somministrata alle larve destinate a diventare regine, già nei primi tre giorni di vita larvale, ha una composizione diversa rispetto a quella somministrata alle larve che hanno un destino da operaia, anche se durante i primi tre giorni di vita larvale sussiste ancora la possibilità che le larve possano mutare il loro indirizzo fenotipico (regina e/o operaia) (Contessi, 2015).

Alla larva destinata a diventare regina viene sempre fornita gelatina reale per tutto il suo sviluppo larvale (5 giorni) (Brouwers et al., 1987; Contessi, 2015). La composizione della

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gelatina fornita alla larva destinata a diventare regina rimane costante per tutto lo sviluppo larvale (Brouwers et al., 1987).

Invece, dopo i primi tre-quattro giorni, le larve destinate a diventare operaie e quelle destinate a diventare fuchi hanno una variazione del regime alimentare (Asencot and Lensky, 1988; Contessi, 2015; Scarselli et al., 2005).

La variazione nel regime alimentare, rispetto alla sola gelatina reale, inizia a 84 h dalla nascita delle larve destinate a diventare operaie e a 108 h per le larve destinate a diventare fuchi (Brouwers et al., 1987).

Le variazioni che si hanno rispetto alla dieta fornita precedentemente sono: aumento della concentrazione di zuccheri, diminuzione della concentrazione di acqua, proteine e lipidi (Brouwers et al., 1987).

Le differenze alimentari fra le due caste riguardano anche la frequenza della somministrazione degli alimenti, ed in generale delle cure a loro riservate (Brouwers et al., 1987). Le larve destinate a diventare regine vengono visitate circa 10 volte in più rispetto alle larve destinate a diventare delle operaie (Brouwers et al., 1987).

Sia la frequenza di alimentazione, sia la quantità di alimento può variare in base al numero di nutrici presenti nella colonia, al loro livello di attività, all’età e il sesso della larva allevata (Lindauer, 1952) e a quanto affamata è la larva (Huang and Otis, 1991).

Gli studi sulla frequenza alimentare non sono stati effettuati su larve maschili, ma sembra che siano paragonabili a quelle larve destinate a diventare operaie (Hrassnigg e Crailsheim, 2005). Dopo avere completato l’ultima muta la larva, tramite complessi movimenti, da prima che era appoggiata sul fondo della celletta, si distende e ricopre l’intero volume della cella, rivolgendo la testa verso l’uscita (Contessi, 2015). Le larve destinate a diventare operaia e regina vengono opercolate, con una placca porosa di cera, al quinto giorno dalla schiusa dell’uovo (Contessi, 2015). Le larve destinate a diventare fuchi vengono opercolate a sette giorni dalla nascita (Contessi, 2015).

Dopo l’opercolatura iniziano, all’interno della celletta, gli stadi di prepupa e pupa fino al completo sviluppo ad immagine (Contessi, 2015).

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1.3.1 Differenziamento di casta

La gelatina reale è prodotta principalmente dalle ghiandole ipofaringee delle api nutrici, ma anche dalle ghiandole mandibolari (Lensky and Rakover, 1983). Sembra che sia la gelatina reale a determinare il cambiamento di casta (Spannhoff et al., 2011). Essa è un colloide bianco giallastro con un pH fra 3,6 e 4,2 e la sua composizione varia in base a alla stagione e alle condizioni regionali (Scarselli et al., 2005), alla razza (Sano et al., 2004) e alle differenze fisiologiche e metaboliche delle api nutrici e delle larve (Scarselli et al., 2005).

La gelatina reale è composta (Wright et al., 2018) mediamente da: - acqua: 57-63%;

- carboidrati: 11-30%; - proteine: 12-20%; - lipidi: 3-10%;

- micronutrienti (vitamine, steroli, atre sostanze): 2%.

La concentrazione di zucchero nell’alimentazione sembra influire sul cambiamento di casta (Kaftanoglu et al., 2011).

Alcuni autori (Asencot and Lensky, 1988, 1988; Brouwers et al., 1987) hanno osservato che la gelatina reale somministrata alle larve destinate a diventare operaie ha un contenuto di zuccheri inferiore (3,1 %) rispetto alle larve destinate a diventare regine (12,4%) e una minore quantità di sostanza secca (26,5% e 36,3% rispettivamente).

In studi di crescita di larve femminili di Apis mellifera in laboratorio infatti è stato notato che all’aumentare della concentrazione di zucchero, aumenta la probabilità che la larva femminile diventi una regina o un’intercasta (un’ape che ha caratteristiche morfologiche intermedie fra un’ape regina e un’ape operaia) (Kaftanoglu et al., 2011).

Le proteine all’interno della gelatina reale sono formate per l’82-90% (w/w) dalle Major royal jelly proteins (MRJPs) (Ramanathan et al., 2018). Quella maggiormente presente, 46% rispetto al totale delle proteine presenti, è la MRJP 1 o Apalbumina 1 (Ramanathan et al., 2018).

Le MRJPs sono composte da 400-578 aminoacidi ed hanno un peso molecolare che va dai 45 ai 65 kDa (Buttstedt et al., 2014). Sono molto ricche in aminoacidi essenziali per Apis mellifera, spiegandone la loro funzione nutrizionale (Buttstedt et al., 2014). Però, secondo alcune ricerche, le MRJP potrebbero essere coinvolte anche in altre funzioni (Kamakura, 2011).

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Kamakura (2011), durante prove di allevamento di larve di Apis mellifera e Drosophila melanogaster e arricchendo l’alimentazione con MRJP 1, ha riscontrato una correlazione fra questa proteina e la grandezza del corpo dell’insetto, lo sviluppo ovarico e la riduzione del tempo di sviluppo, che per la specie Apis mellifera sono tutti indici per il differenziamento di casta. Tuttavia, studi successivi e la replica di questi esperimenti non sono riusciti ad ottenere lo stesso risultato (Buttstedt et al., 2016).

I lipidi presenti nella gelatina reale sono per la maggior parte composti da acidi grassi in forma libera a media (6-12 atomi di carbonio) e a corta catena (minore di 6 atomi di carbonio) (Li et al., 2013). Gli acidi grassi a 8-10-12 atomi di carbonio sono i più abbondanti e fra questi uno, il 10-idrossi-2- decenoico, rappresenta dal 50,5 a 66,7% rispetto alla totalità dei lipidi presenti nella gelatina reale (Li et al., 2013).

Il 10-idrossi-2- decenoico sembra essere coinvolto in un sistema epigenetico di inibizione dell’istone deacetilasi (Spannhoff et al., 2011). Questo è stato studiato su cellule eucariote coltivate in vitro (NIH 3T3 K-ras e NIH 3T3) non di ape (Spannhoff et al., 2011).

Il DNA, nel nucleo, è avvolto in un complesso di 8 proteine istoniche (di 5 tipologie differenti), questa struttura, DNA più gli istoni, viene chiamata nucleosoma (Pierce, 2016). L’espressione genetica, cioè la produzione di un RNA complementare alla parte di DNA trascritta, è determinata anche (oltre che dalle sequenze interne al genoma) dalla capacità che gli enzimi di trascrizione hanno di arrivare al sito da replicare (Pierce, 2016). L’acetilazione negli istoni avviene nei residui di lisina nelle sue code terminali, riducendo la sua carica positiva, diminuendo così l’affinità con il DNA e aumentando l’accessibilità agli enzimi di replicazione (Spannhoff et al., 2011).

L’istone deacetilasi al contrario è un enzima che va eliminando un gruppo acetile e di conseguenza va a ridurre la trascrizione (Pierce, 2016). Come scritto prima, all’interno della pappa reale ritroviamo 10-idrossi-2- decenoico che ha la capacità di inibire la istone deacetilasi, ed è possibile che questa sua presenza influisca sulla differente manifestazione del fenotipo delle larve femminili delle specie Apis mellifera L..

Un altro meccanismo che sembra avere un effetto sul differenziamento di casta in Apis è quello della DNA metil trasferasi 3 (Kucharski et al., 2008).

Esistono nel genere Apis, tre DNA metil trasferasi, simili a quelli che troviamo nell’uomo (Kucharski et al., 2008; Wang et al., 2006). La metil trasferasi è un enzima che va ad inserire

un gruppo metilico (CH3) nella posizione 5 della citosina, trasformandola in 5-metilcitosina

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2016).

Per studiare il suo effetto sul cambiamento di casta Kucharski et al.(2008), hanno iniettano un siRNA (tecnologia RNA interference ) nella larva di ape al primo stadio di sviluppo. La tesi aveva un siRNA che andava a reprimere la metil trasferasi 3 e il controllo aveva un siRNA che andava a reprimere un gene non coinvolto nella fase larvale (Maleszka et al., 2007), riscontrando che nel gruppo sperimentale il 73% delle larve sopravvissute avevano seguito il decorso di sviluppo fenotipico da regina, rispetto al controllo dove la percentuale era solo del 23% (Kucharski et al., 2008).

La tecnologia dell’RNA interference permette di silenziare un gene, inserendo esternamente, in questo caso specifico un RNA complementare-antisenso (piccolo o grande), nell’RNA messaggero di interesse, che viene successivamente tagliato dall’enzima DICER (Pierce, 2016). Si pensa che questo meccanismo si sia evoluto per combattere i virus ad RNA (Pierce, 2016).

Le prove di Kucharski e colleghi (2008) e le prove di Spannhoff e colleghi (2011) suggeriscono che i meccanismi epigenetici siano coinvolti nel cambiamento di casta ed insieme alla nutrizione vanno a determinare una cascata di risposte ormonali differenziate (Buttstedt et al., 2016; Wheeler et al., 2006).

Lo stato nutrizionale viene captato dal segnale insulino-insulino simile (IIS) e dal segnale TOR (Target Of Rapamycin).

Il segnale IIS è un fattore di informazione, che per una grande varietà di organismi eucarioti, determina il segnale di stato nutrizionale, regolandone anche la crescita e la dimensione (Wheeler et al., 2006).

L’Apis mellifera ha due tipi di peptidi simili all’insulina per funzionamento, e tre tipi di recettori che sembrano essere coinvolti nella ricezione del segnale (Wheeler et al., 2006). Wheeler et al. (2006) hanno visto che questi segnali cambiano al variare della destinazione di casta. Le larve che erano allevate per diventare regine avevano un’espressione genica superiore sia per i peptidi insulina simili, sia per i suoi recettori (Wheeler et al., 2006). L’espressione genica variava anche dal momento in cui la larva, destinata a diventare operaia, viene destinata a diventare regina (con un traslarvo), costatando che l’espressione genica può cambiare nel corso delle prime 48-72 ore (Wheeler et al., 2006).

Il TOR è il componente centrale nella via di segnalazione che regola la crescita delle cellule e dell’organismo in risposta allo stato nutrizionale, ed è una via ben conservata negli eucarioti

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(Colombani et al., 2003; Oldham and Hafen, 2003).

Prove sul tasso di crescita di lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae) e Drosophila melogranum hanno visto che la via del TOR andava a regolare la trascrizione dei geni ribosomiali e metabolici, che sono indici per la crescita (Guertin et al., 2006; Powers and Walter, 1999). In Drosophila, a cui è stato soppresso la via del TOR, si è avuto un allungamento del tempo di sviluppo pre-immaginale e una riduzione della grandezza, sia delle larve sia degli adulti (Colombani et al., 2003).

E come per i IIS anche il segnale TOR sembra essere coinvolto nel differenziamento di casta in Apis meliffera (Mutti et al., 2011).

Alimentando larve destinate a diventare regine, dal 4° stadio di muta larvale, con una soluzione di rapamicina, si è visto che lo sviluppo delle regine era più lento, con un peso allo sfarfallamento minore, ma con una non differenza nella quantità degli ovarioli (Patel et al., 2007).

A tre giorni dalla schiusa dell’uovo, le larve che sono destinate a diventare regine, rispetto alla larva destinata a diventare operaia, mostrano un accrescimento del corpora allata, una ghiandola endocrina che è responsabile della produzione dell’ormone giovanile (JH) (Dogra et al., 1977).

Al quarto giorno dalla schiusa dell’uovo, abbiamo il picco di concentrazione dell’ormone giovanile (JH) nelle larve destinate a diventare regine (Rachinsky et al., 1990).

I peptidi insulinici, sempre per le larve destinate a diventare regine, sono espressi al massimo subito prima dell’aumento della concentrazione dell’ormone JH (Wheeler et al., 2006). In molti insetti, come per esempio la vespa solitaria Euodynerus foraminatus, l’aumento di JH comporta un aumento proporzionale della fertilità (Jindra et al., 2013; Tibbetts et al., 2013).

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1.4 La dieta delle adulte

Le api operaie neo-sfarfallate, appena uscite dalla celletta, devono ancora finire il loro accrescimento. All’avanzare dei giorni il peso in sostanza secca aumenta (Crailsheim and Stolberg, 1989). Infatti, devono sviluppare le varie ghiandole (ipofarigee, ceree), il corpo grasso e i muscoli alari, che utilizzeranno in seguito per adempiere alle diverse mansioni. Nei primi momenti di vita il loro compito è quello di pulire le cellette (Johnson, 2010).

Il consumo di pane delle api, ricco in proteine, aumenta nei primi giorni, a circa 42-52 ore dallo sfarfallamento, fino a raggiungere un picco al nono giorno, quando devono assolvere il compito di api nutrici (Hagedorn and Moeller, 1967).

Le api nutrici sono quella tipologie di operaie, di età compresa fra il quinto e sedicesimo giorno dallo sfarfallamento, che consumano molto polline e nutrono la covata, la regina, i fuchi e le altre operaie grazie alla loro gelatina (Schmickl and Crailsheim, 2004).

La classe delle nutrici è importante sullo sviluppo delle operaie neo-sfarfallate.

Le api neo-sfarfallate, se messe in presenza delle nutrici in condizioni di laboratorio, rispetto al controllo di sole neo-sfarfallate, riescono ad accrescere in maniera maggiore le ghiandole ipofaringee (in volume) ed avere una più alta concentrazione proteica all’interno delle stesse, a condizione in cui polline e miele sono messi a disposizione ad libitum (Naiem,et. al , 1999). Comunque, api neo-sfarfallate prelevate direttamente dall’interno della colonia mostrano un volume delle ghiandole ipofaringee e una concentrazione proteica statisticamente più alti rispetto ai soggetti neo-sfarfallati con e senza nutrici tenuti in condizioni di laboratorio (Naiem,et. al , 1999).

Le api nutrici hanno un’attività proteolitica molto elevata, rispetto alle operaie che adempiono a diverse funzioni, nel mesentero, permettendogli di digerire ed assorbire i composti proteici (Moritz and Crailsheim, 1987).

Per quantificare il diverso contributo alimentare di proteine e carboidrati in api operaie di diversa età Paoli et al. (2014), in laboratorio, hanno utilizzato differenti diete contenenti concentrazioni note di amminoacidici essenziali, quelli trovati da De Groot (1953), in grado di sostituire le proteine su api di diverse età.

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I risultati hanno mostrato che i rapporti di consumo di EAA:C (amminoacidi essenziali e carboidrati) variava da 1:50 a 1:75 per le prime due settimane dallo sfarfallamento, mentre le bottinatrici consumavano soluzioni con concentrazioni contenenti un rapporto EAA:C di 1:250 (Paoli et al., 2014).

La ricerca suddetta è confermata anche da analisi di campo. Crailsheim et al. (1992) hanno valutato la presenza di polline all’interno dell’apparato gastrointestinale di api della sottospecie Apis mellifera carnica di diversa età, trovando una maggior presenza di polline nelle api a 9 giorni dallo sfarfallamento rispetto alle api di età di 30, 23, 16, 4 e 1 giorno dallo sfarfallamento.

Nella colonia, le api bottinatrici consumano per la maggior parte carboidrati, come nettare e miele, ma sono anche alimentate con la gelatina che le api nutrici gli forniscono (Crailsheim et al., 1992).

1.4.1 Aspetti fisiologici e alimentazione

Le api nutrici hanno le ghiandole ipofaringee più sviluppate rispetto alle operaie bottinatrici. Le ghiandole ipofaringee sono composte da circa 600 acini che confluiscono il loro secreto all’interno di un canale unico che raggiunge la faringe. Ogni acino è composto 6-20 unità secretorie. Ogni unità secretoria è composta da due cellule (Klose et al., 2017). Sono posizionate nel capo delle api operaie.

Le ghiandole ipofaringee sono utilizzate per la produzione di gelatina nelle nutrici, ma vengono anche utilizzate dalle bottinatrici per la produzioni di enzimi che servono per il metabolismo dei carboidrati e per la trasformazione del nettare in miele (Klose et al., 2017). Le ghiandole ipofaringee utilizzano i composti provenienti dall’emolinfa per sintetizzare la gelatina nelle api nutrici.

Un composto che sembra essere importante per la produzione di gelatina e la regolazione fisiologica è la vitellogenina. Per vedere se la vitellogenina veniva utilizzata da parte delle api come proteina per la sintesi della gelatina Amdam et al. (2003) hanno inserito una

vitellogenina, marcata con 14C, nell’emolinfa delle api. Le operaie sono state reinserite

all’interno delle colonie di varie dimensioni (n° di api da 700 a 1000). Dopo 12 ore è stata analizzata la distribuzione del carbonio radioattivo nelle colonie. I risultati hanno mostrato

che le api inserite avevano perso dal 14 al 38% del 14C, che risultava essere trasferito alle

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La vitellogenina è una glicoliproteina di 180 KDa ed è conosciuta come la proteina del tuorlo ed è utilizzata per lo sviluppo dell’oocita (Fleig, 1995; Wheeler and Kawooya, 1990). Sembrerebbe che la maggior longevità della regina sia dovuta all’attività antiossidante della vitellogenina e spiegherebbe come mai le api invernali/diutunus riescano a vivere più tempo (Seehuus et al., 2006).

Oltre alla funzione alimentare la vitellogenina sembra essere la chiave delle capacità duttili comportamentali dell’ape operaia e della durata della propria vita. Utilizzando la tecnologia dell’RNA interference per il gene che trascrive la proteina vitellogenina, è stato osservato che le api operaie andavano ad assolvere prima il compito di bottinatrici rispetto ad api controllo e avevano una durata di vita minore (Nelson et al., 2007). È stato inoltre evidenziato un effetto sul comportamento di bottinamento delle api operaie: quelle trattate con l’RNA interference mostravano una raccolta di nettare maggiore rispetto alle altre due prove di confronto (Nelson et al., 2007).

La sintesi e la presenza nell’emolinfa della vitellogenina variano con il ruolo dell’operaia e con la longevità dell’ape. Le bottinatrici, le api operaie che hanno aspettative di vita basse (7-10 giorni), producono poca vitellogenina con una più bassa concentrazione rispetto invece alle nutrici. Quest’ultime ne hanno meno delle api operaie che devono resistere per più tempo, le api diutunus, che hanno il più alto tasso di sintesi e concentrazione fra le api operaie (Amdam, 2011). L’espressione genica della proteina vitellogenina risponde positivamente alla concentrazione di amminoacidi nell’emolinfa (Amdam et al., 2012).

Per vedere il movimento delle proteine all’interno del corpo delle api operaie sono state fatte

prove di iniezione di un amminoacido radioattivo (fenianalina-14C) nell’emolinfa di api

operaie neo-sfarfallate. Confrontando due gruppi di api (n=8), una inserita nell’alveare e una nell’incubatore, dopo un periodo di sole 10 ore dall’iniezione, è stato notato una minor concentrazione di fenilalanina radioattiva, sia nel capo che nell’addome, nelle api in alveare rispetto alle api tenute in incubatore, probabilmente per trasferimento trofallassico con le compagne. La diminuzione è stata maggiore per la fenilalanina dell’addome. Ciò è probabilmente dovuto alla traslocazione di questo aminoacido dal corpo grasso all’emolinfa e successivamente alle ghiandole del capo (Crailsheim, K, 1992).

La vitellogenina nelle api operaie viene generalmente sintetizzata nel corpo grasso (Amdam et al., 2012).

Il corpo grasso, è un insieme di cellule presenti nell’addome, nel torace e nella testa (Corona et al., 2007). Il corpo grasso ha diverse funzioni all’interno degli insetti. Esso ha funzioni sia

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di accumulo energetico, sia di biosintesi e di metabolismo (Arrese and Soulages, 2010). Data la sua grande varietà di compiti, il corpo grasso è spesso il target di segnali ormonali (Arrese and Soulages, 2010).

Sembrerebbe che la quantità del corpo grasso cambi in base alla mansione associata. Quando le operaie assolvono il compito di bottinatrici, la quantità presente di corpo grasso è circa della metà rispetto a quella delle api che assolvono il compito di nutrici (Toth and Robinson, 2005). Il perché le bottinatrici abbiano meno corpo grasso non è ancora stato chiarito. Si ipotizza che possa essere dovuto ad un cambiamento nel metabolismo e/o nel comportamento alimentare che le bottinatrici hanno. Le bottinatrici hanno la possibilità di ritornare ad assolvere il compito di nutrice, ma sembrerebbe che, quando ciò si verifica, la quantità di corpo grasso non aumenti rispetto alla condizione normale per una bottinatrice (Toth and Robinson, 2005). Tuttavia, quando le bottinatrici ritornano ad assolvere nuovamente il compito di nutrici, si ha un aumento delle ghiandole ipofaringee con un contemporaneo abbassamento dell’ormone giovanile (JH) (Huang and Robinson, 1996).

L’ormone giovanile è maggiore nelle bottinatrici rispetto alle nutrici (Jassim et al., 2000). La quantità di ormone giovanile è più basso nelle le api operaie diutunus (Fluri et al., 1982). L’ormone giovanile sembra essere collegato con la glicolipoproteina vitellogenina. Silenziando la sintesi della vitellogenina, con la tecnica dell’RNA interference, è stato osservato che la concentrazione di ormone giovanile aumenta (Nelson et al., 2007).

La vitellogenina in Apis mellifera L. è trascritta da solo un gene, rispetto invece ad altri insetti come per i generi Xenopus e Caenorhabditis dove sono coinvolti più geni (Amdam et al., 2012).

Sembra che vitellogenina, l’ormone giovanile e i segnali e i recettori insulini-simili, come per le larve, siano collegati alla regolazione del comportamento e della durata della vita (Corona et al., 2007).

All’interno della colonia, quando le api bottinatrici vengono eliminate, le api più giovani accelerano il loro sviluppo comportamentale in modo che la colonia possa avere nuove bottinatrici (Huang and Robinson, 1996); lo stesso accade quando si verifica una mancanza di carboidrati all’interno della colonia (Schulz et al., 1998).

Oltre che per una questione alimentare, la transizione da ape di casa ad ape bottinatrice è regolata dagli ormoni delle stesse bottinatrici, l’etil-oleato, ed è disincentivato dagli ormoni della covata, costituita da un blend di 10 composti (esteri metilici e etilici degli acidi grassi)

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(Le Conte et al., 1994) prodotto dalle ghiandole salivari delle larve (Conte et al., 2006), e dagli ormoni della regina, il QMP (Queen Mandibular Pheromon).

La diversità di compiti all’interno della colonia sembra però rimanere abbastanza costante in presenza di covata. Quando nella colonia avviene una perturbazione nella quantità di api che assolvono un determinato compito questa cerca di ritornare allo stato originario in termini di percentuale di api che assolvono specifici compiti (Huang and Robinson, 1996).

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1.5 La dieta della regina

La regina è circondata da una corte di operaie di un’età di circa 12 giorni, che generalmente sono le api che assolvono il compito di nutrici (Free et al., 1992).

Le api che circondano la regina ne regolano l’alimentazione e sono le messaggere della presenza della regina all’interno della colonia. Infatti, la regina produce una miscela di composti, che viene denominata QMP (Queen Mandibular Pheromone). Questa miscela viene veicolata alle altre operaie non a diretto contatto con la regina. Il QMP è formato maggiormente da 5 componenti diversi: l'acido (E)-9-ossi-2decenoico(9-ODA), i due eniantomeri l'acido 9-Idrossido-2-decenoico(9-HDA), e il metil-p-idrossibenzoato (HOB) e 4-idrossi-3-metossifenetil alcol (HVA) (Slessor et al., 1988). Il QMP è una miscela feromonica che: promuove la salute delle api con una riduzione dello stress ed influenza lo sviluppo cerebrale (Morgan et al., 1998), aumenta la resistenza delle operaie alla malnutrizione (Fischer and Grozinger, 2008), controlla la suddivisione del lavoro (Pankiw et al., 1998) e l’attivazione o meno degli ovari delle operaie (Hoover et al., 2003).

La regina può contenere da 160 a 180 ovarioli e può deporre da 1000 a 2000 uova nel momento di massima deposizione (Lodesani, 2016).

Non sappiamo precisamente quanto alimento viene fornito alla regina, ma è stato osservato che quando non sono presenti fonti alimentari esterne e si formano le operaie diutiunus, il numero di api operaie che circondano la regina diminuisce (Free et al., 1992). Questo fenomeno coincide con il momento in cui la regina non depone o depone poche uova. Ciò suggerisce che la colonia regoli la deposizione della regina con l’alimentazione che gli viene fornita (Free et al., 1992). Le operaie possono regolare la covata allevabile, non solo dall’alimentazione differenziale della regina, ma anche grazie alla cannibalizzazione delle giovani larve e delle uova.

Le operaie, quando vi è una mancanza di proteine/polline a livello di colonia, cannibalizzano le giovani larve e uova per soddisfare le loro necessita e per nutrire le larve già più grandi che hanno una domanda maggiore di nutrienti (Schmickl and Crailsheim, 2001).

La produzione di uova è generalmente correlata con la produzione di vitellogenina. La vitellogenina sembra essere prodotta dal corpo grasso (Corona et al., 2007). Il corpo grasso, che sintetizza la vitellogenina, è disposto non solo nell’addome ma anche nella testa e nel torace che sintetizzano una quantità maggiore di vitellogenina all’aumentare dell’età della regina (Corona et al., 2007).

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1.6 La dieta delle api management

Le colonie di Apis mellifera L. sono allevate dall’uomo, dalle quali si ricava beni (miele, polline, propoli, cera, veleno d’api, pappa reale, nuclei, regine) e servizi (impollinazione delle specie agrarie).

Le colonie in natura rispetto alle colonie allevate possono differire per l’alimentazione. In generale l’apicoltura si fonda sull’utilizzare le fioriture delle piante come pascolo.

Una pratica apistica che viene utilizzata dagli apicoltori che utilizzano questo principio dell’utilizzo delle fioriture è il nomadismo. Esso permette all’apicoltore di “inseguire” le fioriture di interesse produttivo (Simone-Finstrom et al., 2016).

Ma esistono casi in cui l’apicoltore, per esigenze produttive o per esigenze legate al supporto delle colonie, intervenga alimentando artificialmente le colonie.

Le diete supplementari fornite in apicoltura sono generalmente con carboidrati o con proteine (Sperandio et al., 2019).

1.6.1 Le diete stimolanti

Carboidrati

Come fonte di carboidrati sono impiegate in apicoltura varie soluzioni liquide (soluzioni di saccarosio o saccarosio invertito, HFCS o vari sciroppi derivati dalla frutta) (Brodschneider e Crailsheim, 2010), con la funzione di stimolare la deposizione delle uova da parte della regina ed aumentare la raccolta di polline da parte delle api (Goodwin e Houten, 1991). Potrebbe essere anche utilizzabile il miele, ma questo generalmente non viene usato, sia per un costo troppo elevato rispetto agli altri prodotti sia per problemi sanitari che ne potrebbe comportare. La peste americana per esempio può essere trasmessa dal miele (Genersch, 2010) e ha delle strutture di resistenza che le permettono di sopravvivere anche per 35 anni (Genersch, 2010). Possono poi subentrare problemi di saccheggio fra le colonie dell’apiario (Somerville, 2005), rendendo il miele una fonte supplementare non sicura.

L’effetto di stimolo della deposizione viene utilizzato spesso in Europa prima della fioritura dell’acacia (Robinia pseudoacacia) (Sperandio et al., 2019). L’aumento della deposizione ha la funzione di arrivare alla fioritura con un numero sufficiente di api. Infatti all’aumentare del

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numero di api e della densità di api nella colonia cresce la quantità di nettare raccolto su ape operaia presente (Harbo, 1986).

Sembra che l’uso di una dieta stimolante in carboidrati possa avere un effetto positivo anche sull’impollinazione, per esempio del Kiwi in Nuova Zelanda (Goodwin e Houten, 1991). Infatti sembra che quando le colonie vengano stimolate con un’alimentazione zuccherina liquida aumenti, da parte delle bottinatrici, la raccolta di polline (Goodwin and Houten, 1991). Però c’è da porre attenzione anche ad un eccesso nutritivo per quanto riguarda i carboidrati. Infatti su prove svolte in Venezuela, in apiari diversi in termini di produttività di miele, con colonie di api europee e africanizzate, sembra che una quantità troppo elevata di alimentazione stimolante possa comportare una riduzione della capacità produttiva della colonia come osservato da Pesante et al. (1992) alimentando le colonie delle differenti sottospecie con due quantità diverse delle soluzioni in saccarosio (1:1 w/w saccarosio/ acqua), 1 litro e 3 litri due volte a settimana. Gli Autori hanno ipotizzato che la causa della minor produzione di miele sia ascrivibile alla minor capacità di deporre uova da parte della regina perché lo sciroppo processato dalle operaie andava a diminuire la quantità di cellette libere.

Con una minor quantità di covata, data dalla minor deposizione della regina, la necessità della colonia di bottinare polline diventa minore.

Inoltre, quando alle colonie veniva aumentata la quantità di alimento da 1 l al giorno a 3 l al giorno della soluzione zuccherina (1:1 w/w zucchero : acqua), è stato osservato una diminuzione della raccolta di polline (Goodwin e Houten, 1991).

In Cina, il primo paese nel mondo per produzione di pappa reale, quando gli apicoltori non hanno possibilità di spostare le colonie per utilizzare il flusso nettarifero che l’ambiente offre le colonie vengono alimentate con soluzioni acqua: zucchero 1:1-1.2 w/w per poter sostenere comunque la produzione di pappa reale (Chen et al., 2002).

Proteine

All’inizio della primavera nei climi temperati la colonia ricomincia la sua attività di accrescimento allevando una nuova covata (Seeley and Visscher, 1985).

La quantità di uova deposte, da parte della regina, dipende dalla dieta proteica che ha a disposizione la colonia (Ahmed et al., 2020).

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Nella ricerca di Mattila e Otis (2006), svoltasi in Canada in tre anni di monitoraggio, da Agosto 2001 a Settembre 2004, si è valutato l’effetto di una dieta stimolante proteica primaverile, con polline e sostituto del polline (Bee Pro Bee, Mann Lake Limited, Hackensack, MN) sulle colonie. È stato osservato che, in tutti gli anni di monitoraggio, la colonia mostrava una quantità maggiore di api nel periodo primaverile rispetto al controllo, dove non veniva messo a disposizione nessun tipo di alimentazione aggiuntiva. Tuttavia, entrambe le colonie mostravano una produzione in miele statisticamente uguale in tutti e tre gli anni presi in considerazione.

La ricerca suggerisce che una dieta arricchita con polline o un sostituto del polline sia utile nel caso in cui all’apicoltore serva una popolazione maggiore di api nel periodo primaverile (Mattila and Otis, 2006).

Una popolazione maggiore nelle colonie nel periodo primaverile può permette all’apicoltore di produrre nuclei o pacchi d’ape (Mattila and Otis, 2006), aumentando in tal modo i beni prodotti dal singolo alveare. L’alimentazione proteica può essere fornita internamente o esternamente. Internamente l’alimentazione proteica viene generalmente somministrata in forma solida.

Oltre che alla composizione proteica, è importante la superficie esposta dell’alimentazione solida (Avni et al., 2009). Avni et al. (2009) utilizzando un’alimentazione composta da 26,7 % in peso di farina di soia tostata, 26,7 % polline raccolto da api, 26,7 % zucchero a velo, 19,9 % miele, e distribuita su tre superfici di dimensione differente: 29,200, 46,248, 84,640

mm2, hanno osservato che una maggior superficie disponibile determina un maggior consumo

del composto e una maggior differenza della covata opercolata.

1.6.2 Le diete di supporto

Carboidrati

Le colonie per superare l’inverno, nei climi temperati, hanno bisogno di una grande quantità di riserve energetiche. Seeley e Visscher (1985) hanno stimato che il peso perso da una colonia, da luglio ad aprile, è di circa 20 kg in un clima temperato. Il peso perso cambiava se la colonia allevava covata (0,84 kg/settimana) o meno (0,42 kg/settimana).

Le colonie raccolgono il nettare e lo stoccano come miele, per la loro necessita di mantenere le scorte per l’inverno. Ma l’apicoltore generalmente raccoglie il miele in sovrappiù per le

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proprie necessità. Da questo deriva l’alimentazione supplementare che può essere fatta o prima dell’inverno, per preparare le riserve all’interno e/o durante l’inverno.

In molte regioni del Nord Europa, dopo l’ultimo raccolto di miele, le colonie sono alimentate con più di 20 kg di sciroppo per sopperire alle necessità invernali (Brodschneider e Crailsheim, 2010). Nelle regioni dell’Europa Meridionale invece, dove la produzione di miele continua fino alla metà di Novembre, il candito (prodotto semisolido zuccherino) è spesso usato per invernare le colonie, talvolta in combinazione con sciroppi concentrati (Sperandio et al., 2019).

Una delle maggiori cause di mortalità invernale nelle zone temperate è la fame (Somerville, 2005).

Proteine

Le proteine, derivato dal polline o dai suoi sostituti, possono essere utilizzati in apicoltura per sostenere la colonia quando le risorse di polline esterne sono assenti o basse per supportare la colonia (Schmidt et al., 1995). La pratica si attua anche quando l’unica fonte pollinifera esterna è di bassa qualità (Somerville, 2001). Questa pratica si attua in modo che, quando le condizioni sono di nuovo favorevoli allo sviluppo della colonia, essa sia in breve tempo grande a sufficienza per la produzione di beni o servizi.

Per esempio, l’effetto di una dieta di supporto proteica, in una sperimentazione su colonie in Egitto in inverno, in una località dove le temperature medie in inverno erano fra 20 e 30 gradi, ha mostrato che le colonie dopo 18 settimane di alimentazione con sciroppo zuccherino (rapporto saccarosio: acqua 3:1 w/w), candito proteico e vitamina C uscivano dall’inverno con una maggiore quantità di covata, di api, rispetto alle colonie alimentate con solo soluzioni zuccherine (Tawfik et al., 2020).

In questa località il clima non era temperato e durante l’inverno le colonie non disponevano di una flora che sostenesse il loro mantenimento della forza della colonia.

La dieta proteica però non è indispensabile per sostenere una colonia alla sopravvivenza. In quanto le api operaie possono cambiare la loro fisiologia in caso di mancanza di polline e covata, allungando la loro aspettativa di vita, per poi riprendere la loro attività quando le condizioni ritornano alla stato ottimale (Amdam, 2011).

Tuttavia l’alimentazione proteica può essere un’ottima strategia quando si voglia mantenere le colonie ad una forza adeguata per una successiva produzione (Tawfik et al., 2020).

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Un’alimentazione proteica sembrerebbe diminuire la carica virale del virus dalle ali deformi.

1.6.3 Le diete fornite dall’uomo

I prodotti zuccherini utilizzati possono essere sia in formato liquido che in formato solido. I prodotti liquidi che in genere vengono usati sono: soluzioni con saccarosio o saccarosio invertito, HFCS o vari sciroppi derivati dalla frutta (Brodschneider and Crailsheim, 2010). Lo sciroppo con saccarosio è utilizzato dagli apicoltori, come conferma un’indagine statistica svolta in Austria e nella regione del Südtirol, dall’autunno del 2007 alla primavera del 2008. Il 59,5% degli apicoltori interpellati ha affermato di aver utilizzato lo sciroppo con saccarosio in estate, alla fine della raccolta di miele (Brodschneider et al., 2010).

L’HFCS (High Fructose Corn Syrup) è un prodotto zuccherino derivato dal mais utilizzando un processo tecnologico di idrolisi e isomerizzazione dell’amido contenuto nell’endosperma del mais (Parker, et al., 2010). L’HFCS viene diviso in base al contenuto di fruttosio interno HFCS-90, con 90% di fruttosio, HFCS-42 con 42% di fruttosio e il HFCS-55 con il 55% di fruttosio (Parker, et al., 2010). Severson e Erickson (1984) hanno investigato l’effetto che aveva un’alimentazione con l’HFCS-42 e HFCS-55 rispetto ad un controllo di solo saccarosio nelle colonie (n=13 per ogni trattamento) in clima temperato. L’unico fattore differente rispetto al controllo (soluzione di solo saccarosio 1:1 w/w) era la quantità di covata opercolata in primavera, che però non determinava una quantità maggiore di miele prodotto né un peso in sostanza secca minore per le api neo-sfarfallate.

Il candito è un tipo di alimentazione solida che serve per sostenere la colonia nei periodi invernali/primaverili (Škerl and Gregorc, 2014), in quanto è un prodotto altamente concentrato in zucchero: su 100 g di candito ci sono 95 g di zucchero a velo e 5 g di acqua (Williams et al., 2013).

Le diete proteiche fornite dall’uomo generalmente cercano di sostituire il polline con composti proteici di altra natura, come per esempio farina di soia, lievito, alghe, latte, oppure dando il polline stesso come supplemento. Il polline sembra essere il modo migliore per fornire proteine alle colonie (Brodschneider and Crailsheim, 2010).

I composti che vanno a sostituire il polline possono essere forniti all’interno della colonie oppure esternamente (Contessi, 2015).

I lipidi generalmente non vengono considerati nell’alimentazione supplementare fornita dall’uomo.

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Però la ricerca di Herbert e colleghi (1980) quando è stato aggiunto ad una dieta sostituta del polline, con lievito e siero del latte, il 2 e 4 % di lipidi, estratti dal polline, ha mostrato che le colonie allevavano una maggiore quantità di covata.

1.7 La dieta e salute dell’ape

La malnutrizione nell’Apis mellifera L. è una delle cause che determina la CCD (Colony Collapse Disorder) (Ellis et al., 2010). Numerosi agenti stressori sono implicati come potenzialmente contributrici della perdita delle colonie di Apis mellifera L. che nell’ultimo periodo storico si registra a livello mondiale. Oltre alla malnutrizione, la perdita delle colonie è influenzata dall’esposizione delle api a pesticidi, parassiti, predatori e patogeni (Brodschneider and Crailsheim, 2010).

Gli eventi stressori nella colonia determinano, per nell’ape operaia, uno sviluppo comportamentale precoce (Perry et al., 2015).

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