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Postoperative atrial fibrillation and the long-term risk of ischemic stroke: retrospective analysis of the California State Inpatient Database

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Postoperative Atrial Fibrillation and the

long-term risk of ischemic stroke:

retrospective analysis from the

California State Inpatient Database

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Indice

1 Introduzione

1.1 La rilevanza sociale dell’ictus pag. 3 1.2 Fibrillazione atriale (FA) ed ictus ischemico pag. 6 1.3 La terapia anticoagulante nella prevenzione dell’ictus ischemico in corso di FA pag.10 1.4 Stratificazione del rischio trombo-embolico ed emorragico nel paziente con fibrillazione atriale

non valvolare pag. 14

1.5 La fibrillazione atriale post-operatoria (POAF)

1.5.1 Epidemiologia pag. 20 1.5.2 Eziopatogenesi pag. 24 1.5.3 Fattori di rischio pag. 29 1.5.4 Rilevanza clinica pag. 31 1.5.5 Ictus ischemico e POAF pag. 34

2 Obiettivo dello studio pag. 39

3 Materiali e metodi pag. 40

3.1 Pazienti pag. 41

3.2 Predittori ed obiettivi pag. 44

3.3 Analisi statistica pag. 46

4 Risultati pag. 48

5 Discussione pag. 51

6 Appendice sul sistema sanitario americano pag. 56

7 Tabelle e figure pag. 65

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1 Introduzione

1.1 Rilevanza dell’ictus

L’ictus costituisce ancora oggi una patologia di notevole impatto sociale ed economico. Si colloca infatti attualmente al primo posto tra le cause di morte, se considerato come espressione o epifenomeno delle malattie cardiovascolari (figura 1), mentre invece, se considerato come entità nosografica distinta, occupa la quarta posizione per cause di mortalità negli Stati Uniti, preceduto rispettivamente dalle malattie cardiovascolari appunto, dai tumori e dalle malattie croniche delle basse vie respiratorie (1). La mortalità annua per ictus nel mondo ha presentato un notevole incremento dal 2005 al 2011 con un numero che è passato da 5,7 millioni (9,9% di tutte le cause di morte) a 6,2 millioni (2). Tale aumento risulta quantomeno in contrasto con il miglioramento delle strategie di prevenzione e trattamento dell’ictus, fenomeno che ha determinato infatti una netta riduzione del suo tasso di mortalità nei paesi definiti “ad alto reddito”, cioè con reddito pro-capite annuale superiore a 10.000 dollari (3). Accanto però a tale riduzione si è assistito ad una concomitante e preponderante ascesa del tasso di mortalità per malattia cerebrovascolare nei paesi “ a medio” e soprattutto “a basso” reddito procapite, fenomeno emergente legato verosimilmente ad aumento della vita media in queste aree, che però si sono trovate e si trovano tuttora

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impreparate ad affrontare l’ictus in tutte le sue sfaccettature; in particolare questi paesi non sono in grado di garantire, ad oggi, adeguate politiche di prevenzione e strategie di trattamento della fase acuta e delle complicanze simili a quelle messe in atto nei paesi con tassi di reddito più elevati con l’inevitabile conseguenza di un enorme incremento nei tassi di mortalità, soprattutto negli ultimi 30 anni (4).

L’importanza epidemiologica dell’ictus non deve però essere vista unicamente come tasso di mortalità, in quanto anche nei sopravissuti le complicanze della malattia cerebrovascolare sono molteplici ed ostacolano spesso il recupero ed il reinserimento sociale del soggetto colpito. In uno studio prospettico effettuato su 327 pazienti colpiti da ictus, il 76% presentava almeno una complicanza correlata alla malattia entro il primo anno dall’insorgenza, tra le quali si evidenziavano menomazioni di tipo fisico quali anchilosi articolari o spasticità a livello dei distretti muscolari colpiti, alterazioni sfinteriche, disturbi della deglutizione, complicanze legate alla scarsa mobilizzazione quali ulcere da pressione o trombosi venose profonde, malattie psichiatriche quali depressione maggiore (5). Inoltre tra le complicanze spesso sottovalutate ma estremamente importanti dal punto di vista socio-assistenziale ed economico vi è anche la stretta associazione tra ictus e disturbo cognitivo sino a forme di demenza conclamata (6). Il rischio di demenza nella popolazione con ictus è doppio rispetto ai controlli (7) e del 10% circa

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dopo il primo ictus. Una recente revisione della letteratura ha individuato nell’età avanzata, basso livello di istruzione, declino cognitivo pre-esistente, diabete e fibrillazione atriale fattori che aumentano il rischio di demenza dopo ictus (7,8). Inoltre il rischio di sviluppo di declino cognitivo nei pazienti con ictus ricorrente aumenta del 30%, indipendentemente dalla presenza o meno di fattori di rischio cardiovascolare. (8).

Infine l’ictus ha un notevole impatto in termini di costi. Negli Stati Uniti il costo globale legato alla patologia cerebrovascolare ammontava nell’anno 2009 a 38.600 milioni di dollari (1). Un paziente colpito da ictus ischemico ha un costo medio che nel primo anno ammonta in Italia a circa 30.000 € (9) e a quasi 60.000 dollari negli Stati Uniti (10). In tali cifre sono incluse sia le spese legate all’ospedalizzazione sia quelle per la prescrizione di farmaci o accertamenti, la riabilitazione fisica, la gestione domiciliare, e ovviamente tutte le spese indirette derivanti sia dalla perdita di autonomia lavorativa del paziente che dal numero di giorni di lavoro perduti dal caregiver, che spesso risulta essere un familiare o un amico (11). Dai dati citati si può pertanto evincere come l’ictus costituisca un’entità clinica di rilevanza assoluta.

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1.2 Fibrillazione atriale e ictus ischemico

La fibrillazione atriale (FA) costituisce la più frequente forma di tachiaritmia cardiaca sopraventricolare ed interessa l’1-2% della popolazione mondiale (12,13). La sua prevalenza é in costante aumento, soprattutto se consideriamo che ad esempio negli Stati Uniti il numero di persone affette da questa aritmia era compreso tra 2.7 e 6.1 milioni nel 2010, con un incremento di casi attesi nei successivi 40 anni di circa il doppio (6-12 milioni di persone colpite) (13,14). Inoltre la prevalenza della FA tende ad aumentare con l’aumentare dell’età, passando da valori di 0.5% nella popolazione di età compresa tra 40 e 50 anni fino a valori del 5-15% a 80 anni (12,14,15,16). Da un punto di vista diagnostico si parla di FA in presenza di un tracciato elettrocardiografico che documenti (17): 1) Irregolarità nell’intervallo RR (espressione di assenza di ritmo sinusale) 2) Mancata identificazione dell’onda P nel tracciato ECG (talora è

possibile identificare alterazioni della linea di base simili all’onda P, più spesso sulla derivazione V1)

3) Intervallo tra 2 impulsi di attivazione atriali (quando visibile sul tracciato), generalmente inferiore a 200 ms (espressivo di una frequenza atriale corrispondente a 300 battiti per minuto).

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La FA può essere suddivisa secondo le sue caratteristiche (18) in:

1) Parossistica quando l’aritmia si instaura e regredisce spontaneamente nell’arco di ore o giorni.

2) Persistente quando ha una durata superiore a 7 giorni e richiede cardioversione, elettrica o farmacologica

3) Permanente se la cardioversione non é stata efficace o non é stata tentata ed il paziente rimane aritmico. Viene spesso definita anche come fibrillazione atriale cronica.

Da un punto di vista eziopatogenetico è possibile inoltre classificare la FA in:

- Fibrillazione atriale valvolare: associata a stenosi mitralica, tipicamente espressione di pre-esistente malattia reumatica. Dopo l’introduzione della terapia antibiotica, questa forma di FA, associata ad elevatissimo rischio trombo-embolico, è stata quasi debellata (19,20).

- Fibrillazione atriale non valvolare: non associata a stenosi valvolare (forma più frequente e a cui si fa riferimento nel proseguio del testo) Come noto da molti anni la FA rappresenta un fattore di rischio indipendente per ictus ischemico (21-28). Tale associazione è legata, da

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un punto di vista fisiopatologico, all’anomala attivazione e contrazione atriale che determina un’alterazione del flusso sanguigno a livello cardiaco (in particolare a livello dell’atrio sinistro) con transizione del flusso stesso da laminare a turbolento e con conseguente possibile tromboembolia distale (24) e possibile ictus cardioembolico, che costituisce il 20% circa di tutte le cause di ictus ischemico (29) e raggiunge valori superiori attorno al 30% nella popolazione ultraottantenne (figura 2) (30). In realtà le modalità di formazione del trombo a livello atriale sono più complesse e comprendono meccanismi che vanno da alterazioni del flusso sanguigno (come già detto) responsabili di fenomeni di stasi a livello atriale (in particolare a livello dell’auricola (31,32)), del lume vascolare (quali per esempio sostituzione fibrotica del tessuto miocardico atriale, responsabile di fenomeni di dilatazione e di alterazione della conduttività elettrica endocavitaria) ed infine delle componenti ematiche (in particolare modificazioni della cascata emocoagulativa con switch protrombotico e modificazioni dell’attività piastrinica) (33). La FA é il principale fattore di rischio per ictus cardioembolico (34,35), tanto che è riscontrabile, in forma isolata o in associazione a malattia cardiaca, nel 57% di casi di ictus cardioembolico (29). Sulla base dei dati presenti in letteratura, Il rischio di ictus ischemico nei pazienti con FA sembra essere indipendente dal tipo di FA (parossistica, persistente o cronica) (36 -38). La FA costituisce

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un fattore predittivo negativo nei pazienti con ictus ischemico, se paragonati a pazienti con la medesima patologia ma in ritmo sinusale. Quest’ultima si associa infatti, come dimostrato in molteplici studi ad una maggiore mortalità e disabilità (39-45). In particolare, nello studio di Sage JI et al., effettuato su pazienti con ictus ischemico e FA, oltre ad essere messo in evidenza un alto tasso di recidiva a lungo termine (37%) si riscontrava un’ elevatà mortalità nel follow-up (39). Lo studio di Sandercock P et al. confrontava invece la mortalità a breve termine (30 giorni) in pazienti affetti da ictus ischemico, con e senza FA. La mortalità a breve termine nel primo gruppo risultava del 15% superiore all’altro (43). Tale dato confermava l’indagine di Candelise L et al. in cui si rilevava una mortalità più elevata nei pazienti con ictus ischemico ed FA rispetto a controlli senza l’aritmia sia nel breve periodo (27% vs 14%) che a 6 mesi di distanza dall’evento (40% vs 20%) (41). Tutti questi dati trovavano poi anche conforto da evidenze autoptiche che imputavano al cardioembolismo (nel 65% dei casi) ed in particolare alla fibrillazione atriale non valvolare (36% dei casi) un nesso di causalità nel determinismo di infarti cerebrali massivi responsabili del decesso del paziente (40). Infine l’indagine prospettica condotta dal gruppo di Hannon N et al. nel 2010 metteva in evidenza come i pazienti con ictus ischemico ed FA presentassero una significativa maggiore disabilità a 3 mesi (documentata mediante scala di Rankin modificata) rispetto allo stesso

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gruppo di pazienti senza aritmia, dato in accordo con la precedente revisione della letteratura condotta da Mattle HP (46). Inoltre, a giustificare un maggiore tasso di disabilità e mortalità nel primo gruppo, vi era una crescente associazione della FA con punteggi di gravità clinica (documentata mediante National Institute of Health Stroke Scale) più elevati, fenomeno identificativo dell’aritmia come predittore di prognosi infausta (45). Le cause legate a questo fenomeno sono molteplici: una maggiore gravità clinica dell’ictus all’esordio, con lesioni di maggiori dimensioni e localizzate in maggior misura a livello corticale; la concomitante maggior frequenza di malattia coronarica nei pazienti con FA, un più alto tasso di recidive, anche precoci; un età mediamente più avanzata (47). Emerge pertanto come l’ictus ischemico nei pazienti con FA possa rappresentare un evento devastante. A pagina 66 la figura 3 sintetizza la storia naturale della FA (vedi sezione “ tabelle e figure”) (48).

1.3 La terapia anticoagulante nella prevenzione dell’ictus

ischemico in corso di FA

La prevenzione (primaria e/o secondaria) dell’ictus ischemico nei pazienti con FA non valvolare è stata per decenni oggetto di discussioni e controversie (49-53) tanto che per molto tempo si é basata su considerazioni di tipo empirico piuttosto che su studi clinici. Le prime evidenze scientifiche relative all’efficacia della terapia anticoagulante

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orale sulla FA provengono da studi effettuati su pazienti con aritmia associata a malattia valvolare (19-20). Successivamente tale terapia ha dimostrato la sua efficacia nel corso di numerosi trials clinici effettuati negli ultimi 25 anni. In particolare se effettuata ad un dosaggio che permetta il raggiungimento di un valore di INR (International Normalized Ratio – misura standardizzata del Tempo di Protrombina) compreso tra 2 e 3, l’uso di warfarin (o di altri anticoagulanti orali come l’acenocumarolo o il fluindione) si è dimostrata superiore alla terapia anticoagulante con stesso farmaco a dosaggio fisso, eparina a basso peso molecolare, terapia antiaggregante con acido acetilasalicilico (ASA), Indobufene, Tifllusal o combinazioni di antiaggreganti nella prevenzione dell’ictus ischemico (ASA + dipiridamolo, associazione ASA + Warfarin o Clopidogrel). (54-81). Inoltre, nella metanalisi di Hart RG e coll. , effettuata su 29 trial randomizzati (con un follow-up di almeno 3 mesi) e su più di 28.000 pazienti, la terapia con warfarin “adusted dose” (modulata cioè nella posologia al fine di ottenere un INR compreso tra 2 e 3) ha dimostrato un’efficacia nella riduzione dell’ictus ischemico pari al 64% (rischio assoluto) rispetto alla popolazione di controllo che non assumeva alcun trattamento, un valore nettamente superiore rispetto alla terapia antiaggregante (22% di riduzione del rischio se confrontata con i controlli in placebo) (82). La necessità di monitorare i valori dell’INR ma soprattutto il timore di complicanze emorragiche costituiscono spesso

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motivi di mancato trattamento con dicumarolici soprattutto nella popolazione anziana, che risulta a maggiore rischio emorragico, specialmente a livello intracranico (83). Il timore di tali complicanze spiega in gran parte la mancata prescrizione di anticoagulanti orali, che in alcuni casi può arrivare sino al 50% della popolazione con FA che necessiterebbe di questa terapia (84). Peraltro se poi si analizza la precedente metanalisi di Hart RG et coll. del 2007 si può vedere come l’età media dei pazienti inclusi nella metanalisi fosse abbastanza bassa (71 anni). Questo può aver motivato il non significativo incremento del rischio emorragico nel gruppo esposto a terapia anticoagulante orale (82). Per far fronte alle suddette problematiche, nel corso degli ultimi 15 anni sono stati sviluppati nuovi anticoagulanti orali, nel tentativo di garantire maggiore maneggevolezza, attraverso l’assunzione di un posologia fissa che non richiedesse il monitoraggio di un parametro ematico per la regolazione del suo dosaggio, ed un miglior profilo di sicurezza attraverso una riduzione del rischio emorragico. Gli studi SPORTIF II, III e V (72,73,75), effettuati tra il 2003 ed il 2005 dimostravano la non inferiorità della molecola ximelagatran, un inibitore diretto della trombina assunto a dose fissa due volte al giorno, rispetto a warfarin in pazienti con FA non valvolare. Veniva inoltre segnalato un minor tasso di eventi emorragici maggiori e minori ma ciò che suscitava dubbi e che poi, a brevissima distanza di tempo, determinò il ritiro dal

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commercio fu l’epatotossicità, talora anche fatale, riscontrata nell’ambito degli studi. Nel 2009 lo studio RE-LY (85) ha analizzato l’efficacia e la sicurezza della molecola dabigatran, anch’esso un inibitore della trombina e confrontato con warfarin, somministrata due volte al giorno al dosaggio di 110 o 150 mg, nella prevenzione dell’ictus ischemico e dell’embolia sistemica in pazienti affetti da FA non valvolare. Nel gruppo di pazienti che assumeva dabigatran al dosaggio di 110 mg, si è evidenziata una non inferiorità rispetto a warfarin nella prevenzione degli eventi ischemici ed una riduzione siginificativa degli eventi emorragici maggiori. Nel gruppo invece che assumeva la molecola al dosaggio maggiore (150 mg) si riscontrava addirittura una superiorità di dabigatran rispetto a warfarin a fronte però di un seppur non significativo incremento nel tasso di eventi emorragici maggiori. Lo studio ROCKET-AF (86) invece ha analizzato la non inferiorità della molecola rivaroxaban, inibitore diretto del fattore X attivato somministrato alla posologia di 20 mg 1 volta/die, nella prevenzione di eventi embolici cerebrali o sistemici rispetto a pazienti con FA non valvolare in trattamento con warfarin. Rivaroxaban si è dimostrato non inferiore a warfarin nella prevenzione dei suddetti endpoints ed ha mostrato un profilo di tollerabilità sovrapponibile, significativamente maggiore per quanto riguarda le emorragia intracraniche e le emorragie maggiori. Infine nello studio ARISTOTLE (87) apixaban, anch’esso un inibitore del fattore X attivato somministrato

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al dosaggio di 5 mg due volte al giorno, ha mostrato addirittura una superiorità per l’endpoint combinato ictus (ischemico o emorragico) embolismo sistemico rispetto al gruppo di pazienti con FA non valvolare trattati con warfarin. Anche la mortalità a lungo termine risultava più bassa nel gruppo che assumeva apixaban.

Dagli studi menzionati emerge come il trattamento per la prevenzione del tromboembolismo arterioso e più nello specifico dell’ictus ischemico può avvalersi di diverse molecole di comprovata efficacia. Le linee guida americane, in merito alla gestione della terapia anticoagulante orale nel paziente con FA non valvolare identificano dabigatran, apixaban e rivaroxaban come valide alternative a warfarin, sottolineando come la scelta di un’anticoagulante piuttosto di un altro debba basarsi su considerazioni che tengono conto delle scelte e delle caratteristiche del singolo paziente (in particolar modo età, peso, funzionalità epatica e renale) (88). In Italia, l’AIFA (Agenzia Italiana sul Farmaco) ha approvato tutti e tre i nuovi anticoagulanti orali, sebbene sia stata garantita la rimborsabilità al momento solo per dabigatran.

1.4 Stratificazione del rischio trombo-embolico ed

emorragico nel paziente con fibrillazione atriale non valvolare

La scelta dell’anticoagulante più adeguato nel paziente con FA non valvolare, intimamente correlata alle sue caratteristiche ed alle proprietà

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farmacodinamiche e farmacocinetiche della molecola selezionata, non può prescindere da una corretta ed accurata valutazione del rischio tromboembolico ed emorragico del paziente stesso (89). Sono stati definiti infatti sistemi classificativi che permettono di valutare il rischio/beneficio della terapia anticoagulante orale. Il sistema di stratifificazione del rischio trombo embolico maggiormente utilizzato è il CHADS2 score (90) e deriva dall’unione di classificazioni del rischio provenienti dall’Atrial Fibrillation Investigators (AFI), che avevano identificato nell’ipertensione, pregresso TIA o ictus ischemico e diabete mellito i predittori di tromboembolismo nei pazienti con FA (91), e dal gruppo degli Stroke Prevention in Atrial Fibrillation (SPAF) investigators che invece mostrava come valori di pressione superiori a 160 mmHg, pregressa ischemia cerebrale, insufficienza cardiaca, età superiore a 75 anni e sesso femminile fossero strettamente associati ad un maggior rischio di ictus ischemico (92). Nell’articolo di Gage e coll. del 2001 viene creato e validato il sistema classificativo CHADS2 (acronimo di “Congestive heart failure, Hypertension, Age > 75, Diabetes mellitus, Stroke x 2 ) che prevede l’assegnazione di un punto per ciascun fattore di rischio eccetto che per la presenza di pregressa ischemia cerebrale (intesa come pregresso ictus ischemico o TIA), al quale viene dato un punteggio pari a 2, in considerazione del maggior impatto sul potenziale rischio nel paziente con FA (93,94). Il punteggio ottenibile va da 0 a 6

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punti e il rischio annuale di ictus nel lavoro menzionato viene calcolato a seconda del punteggio ottenuto. Sulla base dei dati ottenuti gli autori suddividono i pazienti con FA in tre categorie: punteggio 0: basso rischio , punteggio 1: rischio moderato, punteggio≥ 2: alto rischio (Figura 4) (90). Questo tipo di classificazione ha costituito per lungo tempo un utile elemento diagnostico, prognostico ed anche terapeutico per il paziente con FA non valvolare, in considerazione soprattutto dell’indicazione e del profilo rischio/beneficio legato all’eventuale introduzione di una terapia anticoagulante orale. In particolare l’inizio di tale terapia era indicato in pazienti ad alto rischio, preferibile rispetto a terapia antiaggregante in pazienti a rischio moderato e non indicata nei pazienti a basso rischio, in cui veniva suggerita la terapia antiaggregante (95) . Negli ultimi anni sono emersi dubbi relativi a tale sistema di stratificazione del rischio trombo-embolico, in particolare per quanto riguarda l’attendibilità nell’assegnazione del paziente con FA non valvolare nelle categorie rischio basso e moderato (89). In particolare il sistema CHADS2 ha cominciato ad essere considerato non sufficientemente adeguato nell’identificazione del “vero” paziente a basso rischio trombo-embolico. Ciò è stato in parte dovuto alla pubblicazione di due revisioni sistematiche effettuate dallo “Stroke in AF Working Group” e dal “UK National Institute of Health and Clinical Evidence (NICE)” che, mettendo insieme i dati del braccio non in warfarin di alcuni trial clinici sulla FA,

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hanno identificato ulteriori predittori di rischio embolico tra cui il sesso femminile, l’età avanzata (incremento progressivo a partire però dai 65 anni e non dai 75 come specificato nel CHADS2) (96,97). Inoltre in 2 studi di coorte effettuati su un campione di popolazione della Danimarca emergeva come anche la presenza di malattia vascolare periferica costituisse un predittore indipendente di tromboembolismo nel periodo di follow-up analizzato (5-10 anni) (98,99). Sulla base di queste evidenze è stato creato un nuovo score definito con l’acronimo CHA2DS2-VASc (Congestive heart failure, Hypertension, Age ≥75 years (double point), Diabetes mellitus, Stroke or TIA (double point), Vascular disease, Age 65-74 years, female Sex) che prevede un punteggio compreso tra un minimo di 0 ed un massimo di 9 (17). Come facilmente comprensibile l’introduzione di più parametri nella valutazione del rischio tromboembolico aumenta la possibilità che un paziente venga definito a rischio moderato o elevato, tenuto conto che , nonostante un aumento del punteggio massimo, le indicazioni terapeutiche sono rimaste invariate (punteggio 0: basso rischio nessuna terapia o antiaggregante – punteggio 1: rischio moderato e preferibile ricorso a terapia anticoagulante orale – punteggio ≥ 2: indicazione all’anticoagulante orale) (17). L’attendibilità del CHA2DS2-VASc è già stata valutata in uno studio di coorte europeo (100) (Figura 5). Ciò che però può far sorgere dei dubbi su questo score per il tromboembolismo arterioso è che, se da un lato è estremamente

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preciso nel considerare tutti i principali fattori di rischio, d’altro canto può essere pressoché omnicomprensivo in alcune categorie di pazienti. Basti pensare che già solo una donna, senza fattori di rischio ma di età superiore ai 65 anni, presenta già una forte indicazione alla terapia anticoagulante orale (CHA2DS2-VASc: 2). Come si può inoltre notare dalla figura 5 nello studio di Lip e coll. che ha confermato l’attendibiilità del CHA2DS2-VASc, il gruppo di pazienti con punteggio pari a 0 era bassissimo (un solo paziente) ed anche il numero con punteggio pari a 1 era superiore soltanto alle categorie di CHA2DS2-VASc con score molto elevato (compreso tra 7 e 9) mentre risultava solo un terzo delle categorie con score 3-5. Nonostante questo le attuali linee guida della European Society of Cardiology suggeriscono l’uso del CHA2DS2-VASc al posto del CHADS2 nella stratificazione del rischio di ictus ischemico (17,101).

Le considerazioni suddette hanno una loro importanza se consideriamo che, nella valutazione del paziente con FA non valvolare, è necessario considerare non solo il suo rischio protrombotico, ma anche il suo rischio emorragico. Come è ben noto la terapia anticoagulante orale presenta un rischio di emorragia maggiore che è compreso tra lo 0.7 ed il 7.2% a seconda degli studi considerati (102,103). In realtà se andiamo a considerare il braccio in terapia con warfarin dei 3 studi sui nuovi anticoagulanti orali la percentuale di eventi nel corso del follow-up è

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risultata compresa tra il 3,1 ed il 3,6% (85-87). Al fine di garantire un adeguato rischio/beneficio nella selezione del paziente con FA per la terapia anticoagulante, è stato introdotto un punteggio chiamato HAS-BLED (Hypertension, Abnormal renal/liver function, Stroke, Bleeding history or predisposition, Labile International normalized ratio (INR), Elderly, Drugs/alcohol concomitantly) per definire il rischio emorragico nel paziente che si appresta ad iniziare la terapia anticoagulante orale (104). Il punteggio va da 0 a 9 considerando che in presenza di concomitante insufficienza epatica e renale o di assunzione di farmaci e alcolici alle voci dedicate viene dato un punteggio di 2. Un punteggio superiore a 3 configura un’alto rischio emorragico e dovrebbe essere preso in considerazione, secondo le linee guida della European Society of Cardiology di fronte ad un paziente con indicazione all’anticoagulante orale. Ciò che è facilmente visualizzabile nell’HAS-BLED è che alcuni fattori di rischio per l’emorragia sono gli stessi che per la trombo-embolia (ipertensione arteriosa, età, pregresso ictus) pertanto nella pratica clinica può essere frequente trovare un paziente con punteggi di CHADS2 o CHA2DS2-VASc elevati e concomitante elevato punteggio HAS-BLED. Nell’ambito delle linee guida della American Heart and Stroke association si delineano linee di comportamento più definite nella gestione del bilancio rischio/beneficio della terapia anticoagulante orale nel paziente con FA non valvolare. Inoltre viene utilizzato il CHADS2 come strumento

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per la valutazione del rischio embolico e, secondariamente, non si specifica uno score da analizzare per la valutazione del rischio emorragico in quanto gli attuali sistemi classificativi a disposizione (tra cui appunto l’HAS-BLED) vengono definiti come privi di adeguata accuratezza (88).

1.5 La fibrillazione atriale post-operatoria (POAF)

1.5.1 Epidemiologia

Nell’ambito della FA, é possibile distinguere una forma meno conosciuta sia da un punto di vista epidemiologico, diagnostico (per mancanza di definizioni condivise) e prognostico-terapeutico (rischio a lungo termine di ricorrenza o complicanze mediche), la fibrillazione atriale post-operatoria (POAF). Come già facilmente comprensibile nella sua definizione, si tratta della forma di aritmia più comune dopo intervento chirurgico (105). I dati epidemiologici a disposizione su questa aritmia provengono soprattutto da gruppi o registri di pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici di by-pass aorto-coronarico o sostituzione valvolare aortica o mitralica e mostrano un‘incidenza compresa tra lo 0.37 ed il 65% (106-113). Queste notevoli differenze sono legate vari motivi (114.115):

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1) Caratteristiche demografiche della popolazione analizzata: pazienti anziani, con pregressa malattia valvolare cardiaca, pregressa storia di aritimia cardiaca (soprattutto FA), dilatazione atriale, ipertensione arteriosa sono maggiormente predisposti allo sviluppo di POAF, come dimostrato in vari studi (109,116-118). Vi sono anche differenze di razza nella predisposizione allo sviluppo dell’aritmia. Alcuni lavori hanno dimostrato una maggiore predisposizione nella razza caucasica (115,117) ed una minore incidenza nella razza afroamericana (119), in parte probabilmente legata alle minori dimensioni medie dell’atrio in quest’ultima, la cui dilatazione infatti costituisce un fattore facilitante lo sviluppo di POAF (120,121). L’obesità (nei pazienti con POAF di età inferiore a 50 anni) e la presenza di sindrome metabolica hanno mostrato un’associazione indipendente con il rischio di sviluppo di POAF dopo intervento di bypass aorto-coronarico (122). Infine anche l’assunzione di alcuni farmaci influenza lo sviluppo dell’aritmia. Nello studio di Bhave P. et al., uno dei pochi peraltro a valutare incidenza, predittori e mortalità legata alla POAF in pazienti sottoposti ad intervento non cardochirurgico, l’assunzione di statine, ACE-inibitori o antagonisti del recettore per l’angiotensina (sartanici) costituivano tutti fattori associati ad un minor rischio di aritmia postoperatoria (118).

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- Metodiche e durata della monitorizzazione elettrocardiografica: nella maggior parte degli studi la POAF viene documentata attraverso telemetria. Il monitoraggio ECG viene mantenuto per periodi variabili di tempo nei pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia maggiore (24-48 ore o in alcuni casi per tutta la durata della degenza in ospedale (123)). Il periodo più a rischio per lo sviluppo di POAF è rappresentato dalle prime 72 ore (124-126). Se analizziamo i dati provenienti dallo studio di Siebert e coll. il tasso di incidenza di POAF dopo bypass aorto-coronarico risulta del 9.8% (125), nello studio di Letch e coll. del 17.6% (127) mentre invece, nell’analisi retrospettiva di Shen e coll. è pari al 29% (117). Le differenze riscontrate sono sopratutto legate al fatto che che la monitorizzazione elettrocardiografica nell’ultimo studio veniva proseguita dall’immediato periodo postoperatorio sino alla dimissione del paziente. Nei primi due studi invece, gli autori riferiscono un monitoraggio telemetrico del battito che durata massima di 48 ore; nel restante periodo l’eventuale documentazione ECG dell’aritmia veniva valutata solo in presenza di sintomi suggestivi di POAF che richiedessero l’esecuzione di un tracciato elettrocardiografico. Questo giustifica pertanto la maggiore incidenza dell’aritmia evidenziata da Shen e coll. Risulta pertanto evidente come una stima della reale incidenza di POAF sia

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fortemente inficiata dal tempo di monitorizzazione

elettrocardiografica, che ovviamente costituisce una metodica più sensibile di quanto non sia la sintomaticità riferita dal paziente per l’aritmia, considerando infatti che molti episodi di FA sono asintomatici.

- Definizione della POAF non univoca : se si analizzano i diversi studi sulla POAF notiamo che la definizione di questa aritmia è estremamente variabile; non ne esiste infatti un’univoca anche se alcuni lavori utilizzano quella della STS (Society of Thoracic Surgeons) che identifica la POAF come qualsiasi episodio di fibrillazione atriale di nuova insorgenza che compaia dopo intervento chirurgico, durante la degenza e che richieda qualsiasi intervento per la sua risoluzione (beta-bloccanti- calcio antagonisti, amiodarone, anticoagulanti o cardioversione elettrica) (128). La necessità di un trattamento volto alla sua risoluzione non costituisce parte integrante di criteri diagnostici utilizzati in altri lavori. Per esempio lo studio di Makhija e coll. definisce la POAF solo in presenza di un’aritmia che duri più di un’ora (criterio temporale, non presente nella precedente definizione), senza fare alcuna menzione della necessità o meno di trattamento per la risoluzione della stessa (126). Nel lavoro di Mariscalco et al., effettuato sempre su pazienti sottoposti ad intervento cardochirurgico, la POAF viene definita

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come un episodio di fibrillazione atriale che abbia almeno una durata di 15 minuti (129). Infine nello studio di Villareal RP et al. viene presa in considerazione solo la presenza dell’aritmia, indipendentemente dalla sua durata o dall’eventuale ricorso alla cardioversione elettrica o farmacologica (130)

1.5.2 Eziopatogenesi

Le modalità attraverso cui si instaura la POAF non sono state ad oggi completamente chiarite e sicuramente includono interazioni complesse che si instaurano a livello cardiaco e sistemico. E’ possibile classificare tali meccanismi di insorgenza in due gruppi (123):

- Meccanismi legati a fattori acuti: vi sono evidenze relative ad un possibile ruolo di fattori dell’infiammazione, in particolare attraverso attivazione della cascata del complemento con conseguente rilascio di citochine pro infiammatorie, potenzialmente scatenanti la POAF (131,132). Nei pazienti sottoposti ad intervento di bypass aortocoronarico,per esempio, si assiste ad un’ attivazione del complemento sia mediante la via alternativa (mediante fattore di necrosi tumorale alfa) sia attraverso la via classica. Si ritiene che la circolazione extracorporea e la somministrazione di protamina, procedure comuni rispettivamente nel corso e dopo tale intervento chirurgico, siano i fattori responsabili dell’attivazione della cascata

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complementare (133-135). Associati a questa, anche altri fattori dell’infiammazione, quali ad esempio proteina C reattiva, interleuchina 2 e 6 vanno incontro ad un progressivo aumento nell’immediato postchirurgico (133-136). Nello stesso periodo spesso i pazienti con POAF presentano in particolare valori elevati di granulociti neutrofili ed e monociti (137,138). Inoltre alcuni studi hanno mostrato come l’incremento del numero dei globuli bianchi nel periodo postoperatorio di pazienti sottoposti a bypass costituisca un predittore di sviluppo di POAF (139). In ambito cardiochirurgico, è stato ipotizzato anche un possibile ruolo dell’incisione chirurgica nel determinismo della POAF. Questo potrebbe essere legato all’instaurarsi di una “pericardite sterile” conseguente al trauma chirurgico e alla manipolazione terapeutica del tessuto miocardico che potrebbe predisporre all’instaurarsi dell’aritmia, come dimostrato nel modello animale di Page et al. (140) in cui l’induzione di una pericardite sterile mediante infusione di talco determinava attivazione fibroblastica, con conseguente perdita di miociti epicardici e alterazioni della connessina a livello atriale, rendendo il tessuto più suscettibile all’instaurarsi di artimie come la POAF. Infine un’ ulteriore possibile evidenza sul ruolo dell’’infiammazione sistemica o locale cardiaca proviene anche da studi che hanno valutato l’effetto della somministrazione di statine e

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farmaci steroidei in modelli animali di POAF. La somministrazione di tali farmaci era in grado di ridurre il livelli ematici di proteine di fase acuta e la durata dell’aritmia (141,142). In particolare il possibile effetto profilattico delle statine (che attraverso la loro inibizione dell’HMGCo A reduttasi sembrano avere attività antiinfiammatoria diretta) nella riduzione del rischio di POAF è stato evidenziato anche in studi effettuati su vaste coorti di pazienti sottoposti a varie tipologie di intervento chirurgico (118,143).

Tra le ipotesi patogenetiche alla base dello sviluppo della POAF vi è anche quella di una disregolazione del sistema simpatico (144). Si realizza cioè una condizione di netta prevalenza del simpatico sul parasimpatico che determina una riduzione del periodo refrattario del miocardio atriale ed un aumento dell’attività ectopica delle sue cellule (145). Questo meccanismo è plausibile alla luce di evidenze cliniche che mostrano come i pazienti con POAF abbiano valori circolanti di noradrenalina più elevati dei controlli che non sviluppano l’aritmia (146), e prognostico terapeutiche considerando che moltissimi studi hanno dimostrato come da un lato la sospensione dei beta-bloccanti prima dell’intervento chirurgico sia associata ad un incremento del tasso di POAF e dall’altro come il mantenimento o la somministrazione a pazienti di questi farmaci “de novo” sia associata ad un minor rischio postchirurgico di

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sviluppo di aritmia (1). Non a caso le linee guida della European Society of Cardiology (ESC) suggeriscono il mantenimento della terapia beta-bloccante o il suo inizio una settimana prima di un intervento cardiochirurgico al fine di prevenire successivi episodi di POAF(17). In realtà è giusto precisare che non è ancora del tutto chiaro se la disregolazione del sistema autonomo, invocata come potenziale causa o concausa nel determinismo della POAF, sia legata esclusivamente ad un’aumento dell’attività simpatica o se invece vi sia una concomitante riduzione dell’attività parasimpatica vagale sui due atri (148,149).

Anche lo stress ossidativo sembra essere coinvolto nell’insorgenza della POAF, anche se in questo campo le evidenze presenti in letteratura provengono unicamente da indagini e valutazioni effettuate su pazienti cardiochirurgici e pertanto sono più difficilmente generalizzabili. In particolare, soprattutto nei pazienti sottoposti ad by-pass aortocoronarico con metodica “on pump”, ossia attraverso il ricorso alla circolazione extracorporea (che determina un fenomeno di transitoria ischemia a livello cardiaco e polmonare) si realizzano complesse modificazioni ematiche con netto incremento di prodotti dello stress ossidativo come perossinitrito ed aumento di attività della NADPH ossidasi che possono facilitare la necrosi ed apoptosi miocitaria e la sostituzione

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di tali cellule con fibroblasti (150,151). Il meccanismo dipendente da un incremento dello stress ossidativo potrebbe essere la ragione più plausibile dell’aumentato tasso di POAF nella popolazione anziana, particolarmente suscettibile infatti al meccanismo di ischemia-riperfusione utilizzato negli interventi cardiochirurgici di tipo “on pump” (152). Anche in questo caso ad avvalorare il suddetto meccanismo fisiopatologico, sono presenti evidenze cliniche che mostrano come il ricorso intraoperatorio a sostanze vettrici di molecole antiossidanti quali N acetilcisteina (153) o Nitroprussiato di sodio (154), siano in grado di ridurre il rischio di sviluppo di POAF. Predisposizione individuale: oltre a meccanismi che si attivano in maniera acuta nel corso o nel periodo immediatamente successivo ad intervento chirurgico, alcuni lavori hanno valutato la possibile presenza di una predisposizione individuale del soggetto a sviluppare POAF. L’attenzione è stata rivolta allo studio di eventuali alterazioni delle correnti ioniche di calcio e potassio che potessero rendere il miocardio atriale più facilmente soggetto a modificazioni della refrattarietà e quindi più predisposto allo sviluppo di aritmie. I dati attualmente a disposizione su questo argomento sembrano escludere un possibile ruolo diretto di questi canali nell’instaurarsi della POAF (123). Inoltre alcuni studi si sono focalizzati sulle

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caratteristiche morfologiche e di durata dell’onda P elettrocardiografica, che da un punto di vista fisiologico rappresenta l’onda di depolarizzazione atriale . In particolare nello studio di Goette e coll. la durata dell’onda P correlava significativamente con l’entità della fibrosi atriale, indice di alterazione istologica e potenzialmente predisponente a sviluppo di POAF (155). C’è da dire comunque che, analizzando e confrontando ECG preoperatori di pazienti che dopo intervento cardiochirurgico sviluppavano aritmia con pazienti che non la sviluppavano, la durata dell’onda P nel primo gruppo era mediamente ma non significativamente più lunga rispetto allo stesso valore medio nel secondo gruppo (156). 1.5.3 Fattori di rischio

Come già accennato in precedenza, numerosi studi hanno identificato precisamente fattori di rischio o predittori indipendenti per lo sviluppo di POAF (118):

- Pregressa storia di FA: questi pazienti potrebbero presentare caratteristiche predisponenti allo sviluppo di aritmia sulle quali lo stress chirurgico potrebbe esercitare un effetto favorente la comparsa dell’aritmia (157)

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- Età: cosiccome la FA non valvolare, anche la POAF presenta un’aumentata incidenza con l’aumentare dell’età (109,118,158) legata alla maggior grado di fibrosi atriale (155) e alle comuni alterazioni della conduzione elettrica cardiaca (soprattutto atriali) presenti nella popolazione anziana (159).

- Cardiopatia strutturale o valvolare: la presenza di cardiopatia ischemica (118) di scompenso cardiaco (158), dilatazione atriale (che determina modificazioni strutturali a livello atriale risultanti in fibrosi miocardica con alterazioni della conduzione)(160), concomitante malattia mitralica (109) sono associate ad aumentato rischio di sviluppo di POAF.

- Pregresso ictus (158) - Insufficienza renale (161)

- Obesità e sindrome metabolica: l’obesità sembra costituire un predittore indipendente per lo sviluppo di POAF dopo bypass aortocoronarico solo nei pazienti di età inferiori a 50 anni, mentre invece nello stesso gruppo di pazienti vi è forte associazione tra sindrome metabolica e rischio di sviluppo di POAF (162) senza differenze se stratificati per classi di età.

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1.5.4 Rilevanza clinica

La POAF è stata a lungo considerata un’entità clinica relativamente benigna, in considerazione del fatto che spesso presentava carattere transitorio ed autolimitantesi (163,164). Tale convinzione ha notevolmente influenzato la sua gestione negli anni, soprattutto nell’ambito dell’eventuale terapia di prevenzione del tromboembolismo arterioso; basti pensare che ad esempio nelle linee guida dell’American College of Chest Physicians del 2005 veniva suggerita l’introduzione della terapia anticoagulante orale per POAF solo in presenza di pazienti selezionati “ad alta probabilità di persistenza dell’aritmia” o in presenza di episodi di durata superiore a 48 ore (165,166). Si specificava come la selezione dei pazienti dovesse avvenire in maniera estremamente accurata e come, in presenza di un ripristino del ritmo sinusale nel corso del follow–up precoce di questi pazienti, si potesse interrompere la terapia anticoagulante a 30 giorni di distanza in quanto i rischi di sanguinamento potevano superare nel lungo termine i benefici nella prevenzione dell’ictus ischemico. Dati relativi ad un potenziale rischio nell’uso della terapia con warfarin in pazienti sottoposti a chirurgia maggiore provengono da qualche report, come per esempio nel lavoro di Makhija e coll. dove si evidenziava un significativo aumento del tasso di emorragie (9.7% vs 5.1%) – non specificato se minori, maggiori o “life threatening”) – in un gruppo di pazienti sottoposti a chirurgia toracica con

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POAF trattati con terapia anticoagulante orale a lungo termine rispetto a identico gruppo non trattato (126). In realtà nel lavoro appena citato il tasso di ictus ischemico nel gruppo trattato, sebbene non in modo statisticamente significativo, presentava comunque un trend positivo (0.56% nel gruppo trattato vs 2.2% nel gruppo non trattato – p= 0.057). Se andiamo a vedere le linee guida della European Society of Cardiology del 2010 la gestione della POAF presenta una sezione a sé stante ma al suo interno viene approfondita la parte relativa alla prevenzione dell’insorgenza di questa aritmia, mentre invece non viene menzionata alcuna particolare attenzione o selezione dei pazienti per l’introduzione della terapia anticoagulante (17). Nonostante tutto ciò di cui sopra, e sebbene alcuni report sostengano ancora come la POAF sia un’aritmia benigna non associata peraltro a mortalità intraospedaliera (167) moltissimi studi hanno invece confermato in maniera inconfutabile come la POAF costituisca un entità clinica di enorme importanza, con un forte impatto sul paziente (118,158). E’ infatti stato mostrato, attraverso studi di coorte a carattere prospettico e retrospettivo, effettuati sia su pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici (118,130,168,169) che ad ad altre operazioni di chirurgia maggiore (118) come la POAF rappresenti un predittore di mortalità intraospedaliera (109,129,130), a breve (30 giorni dall’intervento) (158,170) e a lungo termine (129,130,170), di aumento della lunghezza media di degenza (118,129,130) con

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conseguente aumento dei costi (118), di riammissione in terapia intensiva e necessità di intubazione (109), di infarto miocardico perioperatorio e scompenso cardiaco a lungo termine (109,168), di complicanze infettive, gastrointestinali e renali (161). Inoltre nello studio di Stanley T e al. viene dimostrato inoltre come la POAF costituisca un predittore indipendente di declino cognitivo. In questo lavoro venivano infatti analizzati longitudinalmente 309 pazienti sottoposti ad intervento di bypass aortocoronarico con una batteria di tests neuropsicologici raggruppati in 4 domini (memoria verbale, memoria di prosa, abilità visuospaziale, prove di attenzione e concentrazione) eseguiti il giorno prima della procedura e a 6 settimane di distanza dalla stessa. Il gruppo di pazienti con riscontro di POAF (69 pazienti – 22%) presentava un incremento prestazionale ai test significativamente inferiori rispetto al gruppo senza aritmia, anche dopo regressione lineare per differenze al baseline quali per esempio l’età o la presenza di pregressa AF, elementi che avrebbero potuto influenzare i risultati ottenuti (171).

Infine il dato più in controtendenza con le convinzioni del passato sulla rilevanza clinica della POAF risiede nel fatto che questa aritmia, come dimostrato nello studio di Ahlsson A e coll. rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di FA persistente ed aumenta tale rischio di 8 volte se paragonato a pazienti in ritmo sinusale sottoposti ad intervento di bypass aortocoronarico (168).

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1.5.5 Ictus ischemico e POAF

Sebbene molti lavori, effettuati quasi esclusivamente su pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici, evidenzino come anche il rischio di ictus ischemico nella POAF sia maggiore rispetto a controlli che dopo intervento non sviluppano l’aritmia, il reale impatto di questa malattia presenta valori meno definiti con percentuali che oscillano tra lo 0.7% ed il 5.8% (126,129,130,161,167,169,172-175). Le ragioni di questa discrepanza sono legate a molteplici fattori tra cui:

- Caratteristiche demografiche della popolazione analizzata: differente età, comorbidità, tipo di intervento chirurgico.

- Diversa definizione di POAF a seconda degli studi: comunemente ma non sempre utilizzata la definizione STS (Society of Thoracic Surgeons) che identifica la POAF un episodio di fibrillazione atriale di nuova insorgenza che compaia dopo intervento chirurgico, durante la degenza e/o che richieda qualsiasi intervento per la sua risoluzione (beta-bloccanti- calcio antagonisti, amiodarone, anticoagulanti o cardioversione elettrica) (119,128). Ovviamente questo tipo di definizione esclude episodi spontanei della durata di pochi minuti che possono comunque avere una loro importanza nella fisiopatologia del tromboembolismo arterioso.

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- Carattere retrospettivo di alcuni lavori con assenza in alcuni di follow-up dei pazienti o presenza di lavori single-center

- Mancanza di distinzione tra eventi a breve o a lunga distanza dall’intervento

- Mancata discriminazione tra ictus ischemico ed emorragico, nella maggior parte degli studi che può aver creato forti misinterpretazioni dei risultati

- Definizione di ictus diversa nei vari studi: definizione puramente clinica (126,129-130,161,169,172,174-175) o clinico radiologica (173).

- Non chiara relazione causale tra POAF e ictus ischemico: E’ ragionevole pensare che alcuni lavori abbiano inserito pazienti con stroke perioperatorio non correlato all’aritmia, sviluppatasi come complicanza successiva non correlata alla patogenesi dell’evento ischemico cerebrale. Nello studio di Hravnak M. e coll. I dati relativi al numero di ictus ischemici nei pazienti con POAF dopo bypass aortocoronarico presenta un enorme bias legato al fatto che 7 degli 8 eventi nel gruppo con aritmia compaiono prima dell’identificazione della stessa, lasciando spazio a ragionevoli dubbi sulla correlazione tra le 2 variabili (176).

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- Somministrazione di terapia anticoagulante in pazienti selezionati e maggior rischio: anche questo parametro può aver contribuito alle differenze in termini di rischio di ictus ischemico.

Ovviamente la presenza di tali bias di selezione e di classificazione degli eventi, oltre all’eterogeneità della popolazione potenzialmente a rischio di sviluppare POAF (tutti i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia maggiore) contribuiscono a rendere i dati epidemiologici di cui sopra poco attendibili.

In realtà due studi hanno elucidato, seppur con alcuni bias tra quelli elencati sopra, come il rischio a breve termine di ictus ischemico nei pazienti con POAF successiva a bypass aortocoronarico senza malattia valvolare concomitante sia significativamente più elevato rispetto allo stesso gruppo di pazienti in ritmo sinusale (119, 161). Nel lavoro di Saxena e coll. prospettico, multicentrico e basato su un registro pazienti molto accurato, in cui veniva valutato il ruolo della POAF come predittore negativo di outcome e breve e a lungo termine, si mostrava come il gruppo di pazienti con aritmia avevano un rischio di ictus nel breve periodo (non meglio specificato) significativamente superiore ai pazienti in RS dopo intervento di bypass aortocoronarico (1.3% vs 0.7% OR 95%: 1.80 (1.29-2.51)) (161). Nello studio di O’Neal W e coll., indagine

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retrospettiva e single center su più di 13.000 pazienti, veniva valutato l’impatto della POAF e della razza sull’outcome a lungo termine. Nel corso del follow-up (valore mediano 8.2 anni) il tasso di ictus ischemico nella popolazione con POAF risultava significativamente superiore rispetto ai controlli in ritmo sinusale, anche dopo la correzione per le differenze demografiche (2.4% vs 1% p<0.001) (119). Il lavoro che però ha definito in maniera più appropriata il rischio a lungo termine di ictus ischemico nella popolazione di pazienti sottoposta ad intervento cardiochirurgico è stato quello di Horwich e coll. Gli autori, analizzando retrospettivamente presso il loro centro una coorte di 8058 casi, trovavano un HR legato alla POAF di 1.26 per il rischio a lungo termine di ictus ischemico rispetto al gruppo senza aritmia dopo procedura chirurgica (172).

Il rischio di ictus ischemico tromboembolico collegato alla POAF è stato, nella quasi totalità degli studi, indagato su popolazioni di pazienti sottoposti ad intervento cardiochirurgico, mentre invece nessuno studio ha valutato tale rischio dopo POAF comparsa a seguito di altro intervento chirurgico maggiore (addominale, toracico, chirurgia vascolare ecc). L’identificazione di questo dato costituisce un requisito essenziale nella gestione del paziente chirurgico, in particolar modo per l’eventuale necessità al ricorso della terapia anticoagulante orale che, in questi casi, deve essere fortemente indicata e presentare un rapporto

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beneficio/rischio nettamente a favore del primo perché il periodo postoperatorio costituisce di per sé un momento estremamente delicato in cui il rischio di sanguinamento spontaneo, soprattutto per interventi di chirurgia maggiore, è particolarmente elevato. La necessità di determinare il rischio a lungo termine di ictus ischemico nei pazienti che sviluppano POAF diventa ancora più evidente se consideriamo che ogni anno in tutto il mondo vengono effettuate approssimativamente dai 200 ai 234 milioni di interventi chirurgici (177,178).

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2 Obiettivo dello studio

Obiettivo del presente studio è quello di indagare il rischio a lungo termine di ictus ischemico nella popolazione di pazienti con POAF di nuova insorgenza dopo intervento chirurgico maggiore (inteso come ricovero determinante un regime di degenza postopratoria superiore a 3 giorni) cardiaco o non cardiaco L’analisi è stata effettuata attraverso l’uso del registro ammissioni e dimissioni ospedaliere dello stato della California (Stati Uniti d’America).

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3 Materiali e metodi

E’ stato effettuato uno studio di coorte, retrospettivo, utilizzando dati provenienti da tutti i Dipartimenti di Emergenza-Urgenza (DEU) e da tutte le strutture ospedaliere di degenza acuta non federali dello stato della California (Stati Uniti d’America) facendo ricorso al “California Office of Statewide Healthcare Planning and Development”, un registro che contiene dati anonimi relativi ad accessi al Dipartimento di Emergenza-Urgenza (DEU) ed eventuali ricoveri di ciascun cittadino nello stato della California. Tale sistema viene comunemente utilizzato, attraverso la trasmissione dei dati all’ “Agency for Healthcare Quality and Research”, per effettuare indagini di carattere economico-sanitario e per indagini epidemiologiche o può essere utilizzato per progetti di ricerca (179,180). Ogni paziente inserito nel registro ha un codice, che permette poi di accedere ad una scheda nella quale sono presenti tutti gli accessi al DEU e i ricoveri nel corso degli anni (181) e ciascuno di questi presenta una lista di patologie dalle quali il paziente è affetto, classificate secondo l’International Classification of Diseases, Ninth Revision, Clinical Modification (ICD-9-CM). In ogni occasione e per qualsiasi accesso al DEU, è possibile valutare se la o le malattie segnalate nella scheda del paziente erano o meno già presenti prima dell’ammissione o se invece sono state motivo o sono state diagnosticate durante la degenza (182).

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Il progetto in questione, analizzando retrospettivamente dati anonimi, non ha rìchiesto la sottomissione al Weill Cornell Costitutional Review Board; si è proceduto pertanto all’analisi immediata dei dati.

3.1 Pazienti

Sono stati reclutati tutti i pazienti sottoposti ad intervento chirurgico maggiore (durata di degenza superiore a 3 giorni), nel periodo compreso tra l’1 Gennaio 2007 ed il 31 Dicembre 2010. La data di inizio è stata scelta in quanto prima data utile per avere i dati di interesse nel registro, mentre invece la data fine analisi è stata scelta considerando che, essendo l’obiettivo dello studio quello di valutare il rischio a lungo termine di ictus ischemico nei pazienti con POAF, era necessario avere dei dati di follow-up minimi. La durata minima, arbitrariamente scelta, e’ stata fissata ad un anno per tutti i pazienti; sono stati pertanto esclusi dall’analisi tutti i pazienti ammessi nel 2011 in quanto i dati longitudinali a nostra disposizione per questi ultimi non avrebbero permesso di valutare l’endpoint per la lunghezza di follow-up minima desiderata.

Abbiamo identificato i pazienti di interesse attraverso il sistema DRG (Diagnosis Related Groups). Ciò ci ha consentito di includere tutte le procedure oggetto della nostra indagine retrospettiva. Considerando i frequenti cambiamenti nel sistema di classificazione DRG durante il

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periodo di studio, e’ stata utilizzata la versione 24 al fine di garantire omogeneita’ classificativa (183). Usando i codici DRG le procedure chirurgiche a livello del sistema circolatorio sono state suddivise in: chirurgia cardiotoracica, procedura endovascolare cardiaca e procedure di chirurgia vascolare (Figura 6). Nell’analisi effettuata abbiamo escluso in un primo momento gli interventi chirurgici legati alla gravidanza e le procedure cardiache percutanee, che non sono comunemente annoverate negli studi che valutano l’outcome vascolare postchirurgico (184). In un secondo momento abbiamo integrato un’analisi di sensibilita’ che ha incluso i suddetti interventi alla nostra coorte principale.

I gruppi di pazienti sottoposti ad intervento chirurgico maggiore sono stati suddivisi in due gruppi principali: popolazione sottoposta ad intervento cardiotoracico versus popolazione sottoposta ad altro tipo di intervento chirurgico maggiore. Questa separazione e’ stata effettuata sulla base dell’ipotesi che il meccanismo fisiopatologico determinante l’instaurarsi della POAF sia differente nella chirurgia cardiotoracica, in quanto in quest’ultima il cuore e’ esposto ad uno stress diretto (108).

Al fine di valutare il rischio a lungo termine di ictus ischemico, si e’ reso necessario escludere tutti i pazienti con precedente diagnosi di malattia cerebrovascolare (codici ICD-9-CM 430-438). Questa limitazione è stata necessaria in quanto il registro dati a nostra disposizione non permette di distinguere, nell’ambito della malattia cerebrovascolare, le recidive dagli

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esiti di pregresso ictus o emorragia cerebrale. Sono stati inoltre esclusi tutti i pazienti con diagnosi di ictus ischemico perioperatorio o comunque comparso nel corso dello stesso ricovero dell’intervento chirurgico; questa scelta è stata fatta per due motivi: il primo perché l’obiettivo dello studio è stato quello di valutare il rischio a lungo termine di ictus ischemico (in particolar modo dopo la dimissione dei pazienti) ed il secondo perché, non potendo risalire alla cronologia degli eventi sopraggiunti durante il ricovero, non sarebbe stato possibile stabilire l’eventuale nesso di causalità tra l’instaurarsi della POAF e l’ictus rischiando pertanto l’inclusione di eventi ischemici cerebrali senza alcun legame con l’aritimia (185) .

Sono stati inoltre esclusi dalla nostra indagine tutti i pazienti con pregressa diagnosi di fibrillazione atriale (codice ICD -9-M 427.3) prima dell’intervento chirurgico, in quanto obiettivo della nostra analisi era esclusivamente la POAF di nuova insorgenza.

I parametri valutati sul registro dimissioni della California utilizzato per il presente studio hanno mostrato una sensibilità dell’88% ed una specificità dell’86% (186), in particolar modo per quanto riguarda la diagnosi di FA, che ha mostrato una concordanza diagnostica con revisioni manuali delle cartelle cliniche dei pazienti presenti nel registro pari al 90% (187).

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Per riassumere, la nostra coorte ha incluso pazienti ricoverati per procedura chirurgica maggiore, suddivisi a loro volta in procedura cardiotoracica o non cardiotoracica, senza storia di FA né ictus, dimessi dagli Ospedali dello stato della California.

3.2 Predittori e obiettivi

Il principale predittore scelto per l’analisi è stata la presenza di POAF, definita dalla presenza del codice ICD-9-CM 427.3. L’outcome primario valutato è stato l’ictus ischemico definito dai codici ICD-9-CM 433.1, 434.1 or 436 se presenti questi ultimi in qualsiasi posizione nella scheda di accesso o dimissione ospedaliera dopo quella relativa al ricovero per intervento chirurgico. Sono stati esclusi pazienti che presentassero in associazione codici indicativi di emorragia subaracnoidea (430), emorragia parenchimale (431) o trauma cranico (800-804 e 850-854). Questo algoritmo è stato validato in precedenza e si è mostrato per la variabile ictus ischemico 86% sensibile e 95% specifico (188).

Al fine di annullare il possibile effetto di fattori confondenti nella valutazione dell’associazione tra POAF e ictus ischemico, e’ stata effettuata un’analisi Cox proportional soppesando l’associazione per: età, sesso, razza, tipo di intervento chirurgico, diabete mellito , ipertensione arteriosa, malattia ischemica cardiaca, scompenso cardiaco cronico

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congestizio, malattia periferica vasale, insufficienza renale cronica, malattia cronica ostruttiva polmonare (118,119,172). E’ stata inoltre effettuata una stratificazione basata sul tipo di copertura assicurativa in atto e suddivisa in:

- Copertura Medicare o Medicaid (per approfondimenti relativi alle caratteristiche specifiche dei due programmi vedere la sezione “Appendici”).

- Assicurazione privata - Pagamento diretto

- Altro tipo di copertura o non rilevabile:

Sono stati considerati esclusivamente quei pazienti che non presentavano diagnosi di FA nella scheda di ammissione ospedaliera al momento del ricovero per intervento chirurgico.

Utilizzando una variabile tempo-correlata la nostra analisi ha cercato di tenere conto dei casi di fibrillazione atriale diagnosticata precedentemente al ricovero per intervento chirurgico e inoltre, al fine di assicurare la massima associazione causale tra aritmia e evento ischemico cerebrale, anche quei casi di FA documentata successivamente ma non associata contestualmente ad ictus ischemico.

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3.3 Analisi statistica

Si e’ proceduto in prima istanza all’ analisi della distribuzione binomiale degli intervalli di confidenza per riportare i valori di outcome e successivamente, fatto ricorso alla curva di Kaplan-Meier per calcolare il rischio cumulativo di ictus ischemico dopo intervento chirurgico non cardiaco. Il log-rank test e’ stato utilizzato per analizzare i valori nei pazienti senza e con POAF. I pazienti sono stati inseriti nel nostro studio subito dopo la dimissione dall’ospedale sede dell’intervento chirurgico e sono stati monitorati nel tempo, sino all’eventuale ricovero per ictus ischemico, morte o comunque sino alla fine dello studio (31 Dicembre 2011). Un analisi Cox proportional e’ stata usata per determinare l’associazione tra POAF e successivo ictus ischemico, controllando tale associazione per tutti i potenziali fattori confondenti (vedi sopra). Considerando inoltre che il nostro obiettivo era quello di valutare in maniera accurata l’associazione tra POAF ed ictus ischemico abbiamo inserito nel nostro modello analitico tutte le variabili indipendentemente dal loro valore di significatività statistica nei due gruppi, il cui limite è stato posto per valori di errore standard (α) = 0.05.

Inoltre, al fine di eliminare eventuali ulteriori fattori confondenti residui, i dati ottenuti sono stati ulteriormente controllati mediante un’analisi di sensibilita’ effettuata attraverso l’utilizzo del modello di Elixhauser che

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include un numero di comorbidita’ residue utile per valutare l’attendibilita’ dei dati amministrativi (189).

Un’ ulteriore analisi di sensibilita’ e’ stata eseguita per differenziare l’associazione causale tra FA (codice ICD-9-CM 427.31) e Flutter Atriale (codice ICD-9-CM 427.32) con ictus ischemico.

Considerando che l’interesse della nostra analisi era quello di identificare nella maniera piu’ precisa possibile la POAF transitoria ed a risoluzione spontanea, un’ ulteriore analisi di sensibilita’ ha permesso di escludere quei casi nei quali la diagnosi di aritmia costituisse il motivo dell’accesso in PS o del ricovero senza essere associata ad ictus ischemico concomitante.

Infine l’associazione tra POAF ed ictus ischemico e’ stata valutata utilizzando nella nostra analisi il solo codice ICD-9-CM “ictus embolico” (numero 434.11), in quanto il meccanismo ipotizzato alla base della suddetta associazione e’ quello del cardioembolismo cerebrale. Il codice 434.11 ha dimostrato un’attendibilita’ del 73% al confronto con la revisione manuale della cartella clinica (190).

Tutte le analisi sono state effettuate facendo ricorso al software STATA/MP ((Version 13, StataCorp, TX).

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4. Risultati

Sono stati inclusi nello studio 1,212,626 pazienti con un follow-up medio di 2.6 +/- 1.1 anni. 24,828 (2.05%; 95% CI, 2.02-2.07%) hanno sviluppato POAF e 18,378 (1.52%; 95% CI, 1.49-1.54%) hanno presentato ictus ischemico. In questo gruppo si è riscontrata, come immaginabile, una prevalenza significativa di età avanzata, razza nera, ipertensione arteriosa, diabete mellito, malattia coronarica, scompenso cardiaco cronico congestizio, malattia vascolare arteriosa periferica, insufficienza renale cronica, BPCO, pregressa storia di FA ed un maggior numero di nuovi casi di POAF (figura 6). I pazienti con ictus ischemico presentavano inoltre una più frequente copertura assicurativa di tipo Medicare. Il rischio di stroke ha mostrato una stretta associazione con i valori al baseline di CHA2DS2VASc (figura 7). Inoltre, come atteso da quanto gia’ documentato in letteratura, l’incidenza di POAF e’ stata piu’ elevata nella popolazione di pazienti sottoposta a chirurgia cardiotoracica (13.7%) rispetto a quella sottoposta a procedure non interessanti la cavita’ toracica (1.1%, P<0.0001) ed inoltre nella prima popolazione rispetto alla seconda si riscontravano valori piu’ elevati di comorbidita’(figura 8).

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Ad un anno di follow-up il tasso cumulativo di ictus ischemico e’ stato del 2.36% (95% CI, 2.28-2.45%) nel gruppo di pazienti con diagnosi di FA non concomitante al ricovero per intervento chirurgico, 1.84% (95% CI, 1.62-2.10%) nel gruppo con POAF dopo intervento cardiotoracico, 1.24% (95% CI, 1.05-1.45%) in quello con POAF dopo intervento non cardiotoracico ed infine 0.53% (95% CI, 0.52-0.55%) in quelli senza aritmia cardiaca (figura 8). A quattro anni I tassi cumulativi erano rispettivamente di 6.88% (95% CI, 6.71-7.07%), 4.86% (95% CI, 4.35-5.43%), 3.78% (95% CI, 3.25-4.40%) ed 1.63% (95% CI, 1.60-1.67%) (figura 8). Dopo regressione mediante metodo Cox, la POAF si è dimostrata predittore indipendente per l’endpoint ictus ischemico sia nella popolazione sottoposta a chirurgia cardiotoracica (Hazard ratio [HR], 1.3; 95% CI, 1.1-1.5), ma soprattutto nella popolazione sottoposta ad altro tipo di chirurgia (HR 2.1; 95% CI, 1.9-2.3). L’associazione si e’ mostrata piu’ forte per il gruppo sottoposto a chirurgia non cardiotoracica (p value per interazione = 0.001).

Prendendo in considerazione come parametro di outcome il solo ictus ischemico embolico (codice ICD-9-CM 434.11) si e’ evidenziato un ulteriore incremento del legame tra POAF e ictus ischemico, in particolare nel gruppo sottoposto a chirurgia non cardiotoracica (HR, 5.1; 95% CI, 4.0-6.4 versus HR, 2.1; 95% CI, 1.6-2.8 nei pazienti sottoposti ad intervento cardiotoracico).

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