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Partecipazione politica e democrazia deliberativa: aspetti teorici ed esperienze sul campo

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Academic year: 2021

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Non si tratta di trovare “soluzioni” per alcuni “problemi”, ma un altro modo di vita, che non sarebbe la negazione astratta della modernità, ma il superamento [Aufhebung], la sua negazione determinata,

la conservazione delle sue migliori conquiste e il suo aldilà verso una forma migliore della cultura – una forma che restituirebbe alla società alcune qualità umane distrutte

dalla civiltà industriale borghese. Ciò non significa un ritorno al passato, ma una deviazione dal passato

verso un nuovo avvenire.

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INDICE

INTRODUZIONE... pag. 1

PRIMO CAPITOLO – DEFINIZIONE DI UN CONCETTO ... pag. 5 1.1 Definizione del concetto di partecipazione politica ... pag. 5 1.2 Globalizzazione e fine dello Stato/politica ... pag. 11 1.3 Partecipazione e democrazia rappresentativa... pag. 30

SECONDO CAPITOLO – LA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA: IL FONDAMENTO TEORICO DELLA LEGGE REGIONALE... pag. 53

2.1 Introduzione alla democrazia deliberativa ... pag. 53 2.2 Confronto tra democrazia partecipativa e democrazia deliberativa... pag. 77 2.3 Alcuni aspetti sociologici della partecipazione: incertezza e capitale sociale ... pag. 84

TERZO CAPITOLO – DALLA TEORIA ALLA PRATICA: ANALISI DI ALCUNI PROCESSI DELIBERATIVI ... pag. 95

3.1 Il caso di Castelfalfi ... pag. 95 3.2 Il caso di Ponte Buggianese ... pag. 105 3.3 Il caso di Castelfranco di Sotto ... pag. 107 3.4 Il caso di Marina di Carrara ... pag. 110

CONCLUSIONI... pag. 116

BIBLIOGRAFIA... pag. 120

SITOGRAFIA ... pag. 124

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INTRODUZIONE

Questa tesi parla di partecipazione politica, e cioè di un fenomeno assai complesso attorno al quale si sono concentrati da sempre gli interessi di molti studiosi. Il significato di questa espressione è considerevolmente vasto e racchiude in sé una serie d’attività, come ad esempio, solo per citarne alcune, l’esercizio del voto, la militanza in un partito, o la partecipazione a manifestazioni politiche. Consultando il Dizionario di Politica della casa editrice Tea (1990)1 si evince che vi possono essere almeno tre forme di partecipazione politica: la prima è detta presenza, la seconda attivazione, e la terza forma designa invece la partecipazione politica in senso stretto.

Per quanto riguarda la prima forma è da intendersi il livello più blando di partecipazione politica e si riferisce a tutti quei comportamenti che svolgono solo ed esclusivamente una funzione recettiva dove l’individuo non produce nessun tipo di contributo. Sono da considerarsi casi che rientrano in questa categoria anche le semplici esposizioni a messaggi politici.

Nel secondo profilo di partecipazione politica delineato, invece «il soggetto svolge all’interno o all’esterno di una organizzazione politica una serie di attività cui è permanentemente delegato o di cui viene incaricato di volta in volta o di cui si può fare promotore egli stesso. Questa figura ricorre quando si fa opera di proselitismo, quando ci si impegna in campagne elettorali, quando si diffonde la stampa di partito, quando si partecipa a manifestazioni di protesta e via dicendo».2 In questo caso siamo sicuramente alla presenza di una partecipazione che si esprime con una dimensione maggiore rispetto alla precedente e che vede un impegno dell’individuo più radicato e presente.

La terza ed ultima figura che viene tratteggiata, e cioè quella della partecipazione politica in senso stretto, identifica invece tutte quelle situazioni dove gli individui influiscono direttamente o                                                                                                                

1

N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di Politica, Tea, Milano, 1990.

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indirettamente sui processi di formazione delle decisioni politiche; fanno parte di questo modello quei contributi che i cittadini posso dare in forma diretta solo in contesti politici molto ristretti, o in forma indiretta con la scelta del personale politico delegato a prendere decisioni vincolanti per l’intera collettività.

Esiste però anche un altro livello di partecipazione politica e cioè quell’agire democratico dei cittadini membri di una comunità che, organizzati singolarmente o collettivamente fuori dalle strutture dei partiti, cercano di tutelare i propri interessi influenzando le decisioni di governo anche in periodi diversi dall’appuntamento elettorale. Ed è verso questo tipo di partecipazione politica che questa tesi di laurea ha indirizzato il proprio interesse, ponendo in modo specifico l’attenzione su quei processi partecipativi che sempre più si stanno diffondendo nelle pratiche di governo.

La rilevanza che ha in letteratura questo tema è indubbia e molti sono stati gli uomini di pensiero che nel merito si sono espressi, ognuno con la propria visione e prospettiva: Anthony Giddens ad esempio afferma che dobbiamo essere pronti a sperimentare procedure democratiche alternative,3 James Fishkin e Bruce Ackerman invece hanno elaborato innovativi strumenti di partecipazione,4 oppure Colin Crouch per il quale la democrazia germoglia quando per un numero sempre maggiore di cittadini aumentano le possibilità di partecipazione alle determinazioni delle priorità della vita pubblica ed ai processi decisionali che ne conseguono,5 fino ad arrivare ad Edgar Morin per il quale la partecipazione può essere strumento essenziale per la costruzione di un nuovo modello di governance che possa portare alla nascita di una politica per l’umanità.6 Questi sono solo alcuni dei thinkers menzionati in questa tesi, ed in numero comunque ristretto rispetto all’insieme degli studiosi che hanno dato un significativo contributo al dibattito in corso.

                                                                                                               

3A. Giddens, Il mondo che cambia – Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna, 2000. 4

G. Bosetti, S. Maffettone, Democrazia deliberativa: cosa è, Luiss University Press, Roma, 2004.

5

C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma, 2003.

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Tuttavia, la partecipazione politica come argomento centrale di questa tesi trova ragioni profonde anche nelle articolazioni della sua stessa discussione. Non ci possiamo, infatti, esimere dal ricordare in questa introduzione che parlare di partecipazione politica vuol dire anche confrontarsi con un ventaglio di questioni e problematiche di più ampia portata e che con quest’ultima s’intersecano in un orizzonte ancora non del tutto decifrabile. La crisi dei partiti e della politica, i limiti della democrazia rappresentativa, gli squilibri prodotti dalla globalizzazione, le difficoltà nelle quali si agitano gli Stati nazionali, lo smarrimento nel quale si trova il cittadino globale, sono solo alcuni dei fattori che entrano in gioco in questa riflessione.

È dalla consapevolezza di questo duplice aspetto, tra rilevanza teorica dell’argomento e complessità dello scenario nel quale si colloca, che muove la metodologia utilizzata per questo lavoro.

Ho cercato infatti di seguire una logica, nello sviluppo degli argomenti, che tenesse conto di queste due dimensioni, in un continuo tentativo di trovare il giusto equilibrio tra visione teorica e prospettiva pratica. Sono nati così tre capitoli, che in divenire hanno dato prima solide fondamenta ed anima a questa tesi, e poi, sempre più corpo e forza alla struttura che la sorregge.

Nel primo capitolo ho cercato innanzitutto di tracciare i contenuti del concetto di partecipazione politica, con l’obiettivo di arrivare alla formulazione di una definizione che fosse in grado di confinare e descrivere al meglio l’oggetto d’interesse di questa tesi. Delimitare il problema nella sua giusta cornice è servito ad avere sempre ben chiara la linea lungo la quale il percorso dell’analisi doveva muoversi, anche quando, all’interno sempre di questo capitolo, si è trattato di approfondire il concetto di globalizzazione, o di comprendere le ragioni della crisi nella quale si trovano gli Stati nazionali e la democrazia rappresentativa.

Il secondo capitolo può essere suddiviso fondamentalmente in due momenti: nel primo la discussione si spinge avanti fino ad introdurre le caratteristiche di una nuova prospettiva, la democrazia deliberativa, evidenziando gli aspetti che la differenziano dalla democrazia

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partecipativa, ed esaltandone i contenuti che hanno poi rappresentato il fondamento teorico della Legge sulla partecipazione della Regione Toscana. Nel secondo invece, con l’obiettivo di completare le argomentazioni portate nel capitolo, l’analisi si sofferma su alcuni aspetti sociologici della partecipazione come il concetto d’incertezza e di capitale sociale.

Infine il terzo capitolo, che dalla teoria alla pratica è stato per intero dedicato all’analisi di quattro progetti di partecipazione che sono stati realizzati in altrettanti Comuni della Regione Toscana. Dalla lettura di queste pagine emergerà con chiarezza che la partecipazione è la condizione essenziale per l’elaborazione e realizzazione di qualsiasi serio progetto di futuro e che la sfida che tutti gli attori sociali devono accettare è quella di incentivare e sostenere ogni forma di partecipazione ed impegno collettivo. È dallo sviluppo della partecipazione che possono emergere i presupposti per una discussione che abbia come obiettivo quello di elaborare una politica per l’umanità, e per farlo, Istituzioni, partiti politici e cittadini, sono chiamati ad un cambiamento e questo non può che essere verso la partecipazione. Il quadro di riferimento resta quello della democrazia rappresentativa, nella quale sperimentare nuove forme di democrazia come quella deliberativa, ma l’attenzione, soprattutto degli studiosi, dovrà rimanere alta anche verso eventuali forme alternative di democrazia.

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PRIMO CAPITOLO

DEFINIZIONE DI UN CONCETTO

1.1 Definizione del concetto di partecipazione politica

Iniziare il primo paragrafo del primo capitolo di questa tesi, riportando la definizione lessicale che un qualsiasi dizionario della lingua italiana dà del termine partecipazione, non rappresenta sicuramente il modo più originale di sviluppare una riflessione scientifica, ma, ai fini di questo lavoro, appare come l’unico in grado di tracciare con serietà la traiettoria lungo la quale dipanare le prime considerazioni.

«Il prendere parte a qualcosa», significato con il quale il Dizionario Fondamentale della Lingua Italiana DeAgostini (1995) definisce la partecipazione, consente infatti d’iniziare a confrontarci con un termine che racchiude in sé due dimensioni entrambe molto importanti: la prima, determina un sentimento d’appartenenza rispetto ad altro, e la seconda definisce invece un agire. Si partecipa perché si appartiene, e si manifesta questa appartenenza attraverso un agire.

Appartenenza ed agire quindi, sembrerebbero essere i varchi sotto ai quali transitare per avvicinarci al centro del ragionamento, e se è vero quanto detto, il passaggio successivo non può che essere quello di trovare adeguate risposte a due conseguenti e legittime domande: 1) a cosa si appartiene; 2) come e perché si agisce.

Nel nostro lavoro, poiché la partecipazione è da intendersi come partecipazione politica, l’appartenenza si lega alla comunità di riferimento, che può variare da locale, nazionale o globale. È nelle comunità, complessivamente intese, che l’appartenenza trova un approdo quasi spontaneo. È la condizione «sine qua non» della partecipazione politica, nella quale il cittadino si riconosce come tale, in quanto titolare di diritti e doveri.

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Soffermandosi a riflettere su questo passaggio, si evince che la connessione tra partecipazione politica e cittadinanza è molto più marcata di quel che può sembrare e spinge il ragionamento fino a chiamare in causa anche il concetto di democrazia.

Se per democrazia si intende letteralmente potere del popolo, la partecipazione politica allora non adempie solo al compito di ampliare il campo della cittadinanza, ma anche a quello di mantenere e far funzionare la democrazia intesa come forma di Stato e di governo. Facendo un successivo passo in avanti, si può affermare che il senso di appartenenza che unisce i membri di una stessa comunità, è funzionale anche al riconoscimento dell’altro in termini di uguaglianza e quindi di democrazia in senso politico.

È in quest’approccio che il significato di partecipazione politica inizia a trovare una sua forma, ma per arrivare ad una definizione più chiara e concreta si deve fornire una risposta plausibile anche alla domanda relativa al perché si partecipa.

Prima di tutto dobbiamo affermare che i cittadini, siano essi singoli o associati, sono portatori d’interessi e preferenze, e quindi, agiscono mettendo in campo tutte quelle azioni finalizzate ad influenzare le decisioni del governo. Una distinzione importante che può essere utilizzata, è quella tra 1) partecipazione strumentale, 2) partecipazione come fine in sé.

La prima trova nell’agire finalizzato alla difesa di determinati interessi e nella ricerca di utilità specifiche, le sue motivazioni principali. È lo strumento con il quale i cittadini tutelano i propri interessi rispetto a quelle che sono le azioni dei governi, e che può essere collegato ad un concetto più ampio di sistema di interesse, dove l’azione dei vari attori è indirizzata a migliorare la propria posizione rispetto a quella degli altri.

La seconda distinzione invece fa riferimento ad un sistema di solidarietà, dove l’agire degli individui, non solo diventa protezione d’interessi particolari, ma anche e soprattutto identificazione

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con quelli comuni e di valore in sé. La partecipazione in questo caso è solidarietà ed anche virtù civica nelle mani del buon cittadino che con l’impegno politico, ciba se stesso.

Essa quindi assume uno scopo ulteriore che si manifesta non solo nella tutela delle convenienze singole o collettive, ma anche e principalmente nel campo della formazione individuale della personalità di chi partecipa.

A questo punto, tirando le fila del ragionamento fatto, si può tentare di tracciare una prima definizione di partecipazione politica che possa almeno raccogliere le caratteristiche evidenziate: per partecipazione politica intendiamo l’agire democratico dei cittadini membri di una comunità, volto a tutelare i propri interessi, e a difendere i propri valori, influenzando le decisioni di governo.

Per quanto approssimativa possa essere tale definizione, riesce tuttavia, credo, a delimitare con chiarezza il campo dentro il quale questa tesi deve muoversi, ed allo stesso tempo permette di allungare lo sguardo verso un altro aspetto essenziale che servirà a rendere ancora più chiara la sfera d’interesse di questa ricerca.

Il mosaico fin qui composto, nel tentativo di far luce e di spiegare le ragioni dell’appartenenza e del perché si partecipa, sarà infatti arricchito da una parte più consistente che cercherà di indirizzare l’attenzione sul come si partecipa, o più esattamente, sulla struttura della partecipazione politica. Ad un primo livello, l’influenza dei cittadini alle scelte di governo, tramite la selezione dei programmi e dei leader politici chiamati a ricoprire ruoli istituzionali, avviene principalmente nella partecipazione elettorale. I cittadini, cioè, esercitando il diritto di voto, non solo appartengono ad una comunità, ma agiscono per determinarne i governi.7

Comunemente definita come democrazia rappresentativa, questo sistema presenta un’importante qualità, anche se, come vedremo più avanti, gli aspetti critici in questo modello non mancano.                                                                                                                

7  

Interessante notare che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, al 1° punto all’art. 21, riporta quanto segue: «Ogni individuo ha il diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti».    

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Con il voto popolare si attiva un meccanismo virtuoso di legittimazione reciproca tra cittadino e governo, dove il primo si sente parte della comunità ed attore principale nella formazione del suo destino, ed il secondo invece incentiva in sé la responsabilità rispetto al mandato democraticamente conferitogli dal voto popolare.

Questo ingranaggio, se ben funzionante, tenderà a far sviluppare una profonda empatia tra cittadino e politico, e sfocerà in un rapporto di crescente coincidenza tra rappresentanza e preferenze della maggioranza, ed altresì, incentiverà l’utilizzo di quelle logiche secondo le quali alla politica viene imposto di rendere conto agli elettori del lavoro svolto.

La partecipazione politica però non si manifesta solamente ad ogni scadenza elettorale. Anzi. «Per il singolo, o per particolari gruppi di cittadini, le attività politiche più importanti possono essere quelle del periodo tra un’elezione e un’altra, allorquando si cercano di influenzare le decisioni governative su specifici problemi».8

Questo secondo livello di partecipazione politica, oltre a definire ulteriormente il significato che abbiamo dato a questa nozione, delimitando ancor di più l’oggetto della ricerca, pone con forza l’accento su quelle modalità che vengono adottate dai cittadini nella quotidianità delle loro vite per intervenire sulle scelte fatte, o ancora da fare, dai vari livelli di governo.

L’articolo 49 della nostra Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, recita testualmente che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». I nostri padri costituenti avevano quindi immaginato una struttura istituzionale, dove il ruolo dei partiti fosse centrale nella dialettica tra governo e cittadino. I partiti dovevano assolvere il ruolo di mediazione e collegamento tra le politiche dei governi e le molteplici espressioni d’interessi manifestati dai cittadini. È in questa

                                                                                                               

8  S. Verba, N.H. Nie e J. Kim, Partecipazione e eguaglianza politica, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 100.  

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prospettiva, ed inserendoli in Costituzione, che l’Assemblea Costituente riversa su di essi una grande responsabilità.

Le vicende degli ultimi decenni però, sembrano però averci raccontato un’altra storia, vale a dire che i partiti, per molteplici ragioni, hanno vinto solo in parte questa sfida. La profonda crisi nella quale sono sprofondati, soprattutto rispetto alla suddetta funzione costituzionale riconosciutagli, apre nella società nuovi spazi di partecipazione politica che i cittadini stanno iniziando ad occupare. Ed è nell’interesse verso queste forme dell’agire politico che la definizione di partecipazione politica trova una sua valida concretizzazione.

Con il termine «partecipazione politica» si intende quindi l’agire democratico dei cittadini membri di una comunità che, organizzati singolarmente o collettivamente fuori dalle strutture dei partiti, cercano di tutelare i propri interessi influenzando le decisioni di governo anche a distanza dal periodo elettorale.

Non c’è dubbio che tra le righe di questa definizione si nascondono questioni, che per la loro importanza, non possono non essere almeno accennate in questo passaggio. La prima, inevitabile, riguarda la crisi dei partiti, non tanto in questo caso nel rapporto con la loro funzione ideologica, ma piuttosto rispetto al ruolo che la Costituzione gli conferisce. Venendo a mancare quel collante che teneva uniti cittadini e governi, in un complicato sistema di equilibri e mediazioni strutturato dai partiti e dalla vasta rete di associazioni collaterali, nelle comunità d’appartenenza si è verificato, in modo inversamente proporzionale all’aggravarsi della crisi di quest’ultimi, un progressivo spostamento di questa funzione verso le istituzioni. I partiti non sembrano essere più strumento di Government, all’opposto le istituzioni divengono spesso il luogo nel quale si manifestano le contraddizioni, e dove si radicalizza e trova sede il conflitto tra governo e cittadino.

La seconda questione, che è conseguenza diretta dell’affermarsi di questo nuovo scenario, riguarda le trasformazioni che hanno interessato le istituzioni e i cittadini. Le prime si sono confrontate con

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obsoleti processi decisionali, inadeguati rispetto al quadro di grande cambiamento in corso, e con la consapevolezza di essere diventate soggetto politico tra gli altri. Il modello di Government, fondato sulle gerarchie del potere e sul primato delle istituzioni su tutto il resto, ha dimostrato la sua fragilità e debolezza. Germoglia quindi un nuovo concetto teorico, la Governance, che invece procede orizzontalmente, valorizzando una visione collaborativa, d’interazione e partecipazione. È dalla Governance e dal ricorso a percorsi di partecipazione ed inclusione che le Istituzioni guardano a questi cambiamenti.

I cittadini invece fanno i conti con la complessità di un nuovo ruolo che gli richiede non solo partecipazione ma anche competenze, capacità organizzative e comunicative.

Lo «sciame inquieto del consumatore»9 ritrova la sua dimensione di homo politicus. Si ridimensiona il ruolo del politico di professione per lasciare spazio ad una nuova figura, quella del cittadino attivo, riflessivo e consapevole. La situazione sembra aprirsi quindi ad una nuova struttura di rappresentanza che potremmo definire «democrazia del pubblico». «In questo contesto, segnato dalla recessione dei partiti, ricompare la tensione tra partecipazione istituzionale e di movimento, si espandono le opportunità di forme di partecipazione innovative, non convenzionali – spesso a-legali se non, addirittura, illegali – e soprattutto si riaprono spazi di partecipazione e d’opinione individualizzati, anche se non privi di rischi per la stessa qualità della partecipazione»10.

La terza questione, a differenza delle altre due già abbastanza definite dal dibattito sociologico, non è stata ancora analizzata in tutta la sua complessità, perché ancora incerta e di difficile comprensione. Infatti, emerge con forza l’esigenza di capire quale tipo di rapporto può nascere tra una nuova forma di partecipazione che si va delineando e il modello classico di democrazia rappresentativa che caratterizza le strutture contemporanee. «Dobbiamo anche essere pronti a                                                                                                                

9  

Z. Bauman, Homo consumens, Lo sciame inquieto del consumatore, Edizioni Erickson, 2007.   10  F. Raniolo, La partecipazione politica, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 56.

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sperimentare procedure democratiche alternative – sostiene Anthony Giddens – specialmente quando possono contribuire ad avvicinare le decisioni politiche alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini. Le giurie popolari, per esempio, o i referendum elettronici non sostituiscono la democrazia rappresentativa, ma possono esserne un utile complemento»11. E poi, «la partecipazione costituisce in questa prospettiva, un modo per rinnovare continuamente la legittimità delle decisioni politiche attraverso la discussione e l’elaborazione di soluzioni negoziate e condivise di problemi che emergono come rilevanti per le istituzioni e per la comunità».12

Si tratta quindi di arrivare a capire non solo quali siano le nuove forme della partecipazione, evidenziandone i loro punti di forza e di debolezza, ma anche di ragionare sugli effetti di queste dinamiche, vista la moltiplicazione di importanti spazi di discussione e confronto su questo tema. Iniziare a farlo, utilizzando la definizione di partecipazione che ci siamo dati, ci sembra un modo valido ed efficace. Pur riconoscendo sicuramente che tale definizione non è esaustiva rispetto alla vasta letteratura prodotta dalla sociologia, tuttavia in essa sono presenti importanti indicazioni che tracciano, con sufficiente chiarezza, il profilo di quale partecipazione politica tratterà questa tesi. Delimitando in questo modo il raggio d’azione sarà più facile concentrare l’attenzione solo su quei dibattiti essenziali per la comprensione dei fatti, e su quei fenomeni, come la globalizzazione, che maggiormente si legano al tema della partecipazione, e che già dal prossimo paragrafo tenteremo di analizzare.

1.2 Globalizzazione e fine dello Stato/politica

Era il 6 Ottobre del 1861 quando Hervé Joncour, protagonista di uno dei più bei romanzi usciti dalla penna di Alessandro Baricco, partì dalla Francia per raggiungere il Giappone con l’obiettivo di                                                                                                                

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A. Giddens, cit.,, pp. 93-94.  

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comprare uova di bachi da seta.13 Lavilledieu era il nome del paese in cui viveva, e la produzione di seta la loro ricchezza principale. Per evitare l’epidemia che aveva colpito gli allevamenti di uova di bachi da seta in Europa, decise di andarle ad acquistare in Siria e in Egitto, ma quando il contagio superò i confini del Mediterraneo, fu costretto a viaggiare fino al lontano Giappone per garantirsi uova non infette. Questo fu l’unico modo per garantire ai cittadini di Lavilledieu la possibilità di mantenere inalterata la loro economia. Le vicende che s’intrecciano poi nelle pagine del celebre romanzo, sono note agli amanti della lettura ma ovviamente superflue ai fini di questa tesi. Quello che ci sembra interessante far notare nel richiamo letterario fatto, riguarda invece la presenza di alcuni aspetti, come gli spostamenti di persone, gli scambi di merci ed i mercati economici in una dimensione internazionale, che trovano concretezza nella tesi secondo la quale, già nella seconda metà dell’800, il mondo fosse interessato da una significativa forma di globalizzazione.

Pensare quindi che la globalizzazione sia un fatto recente, nato dalla metà del ventesimo secolo in poi, passando dalla fine della Guerra Fredda allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche, vuol dire ancorare il ragionamento ad un limite temporale e teorico che non permette di cogliere molti degli aspetti che lo caratterizzano.

La globalizzazione è da considerarsi, seppur a diversi stadi di sviluppo e talvolta a livelli embrionali o nascenti, un fenomeno ben più antico, e tracciarne un profilo storico diventa un passaggio essenziale ed ineludibile.

Innanzi tutto, utilizzando le scansioni temporali riportate nel suo saggio da Luke Martell,14 saranno presi a riferimento periodi storici ben definiti: 1) Epoca premoderna, e cioè prima del 1500; 2) Epoca moderna, dal 1500 al 1800; 3) Industrializzazione moderna, dal 1800 al 1914, 4) Le due

                                                                                                                13  

A. Baricco, Seta, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2008   14  L. Martell, La sociologia della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2010.

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guerre mondiali e il periodo tra le due guerre; 5) Epoca tardo moderna, dal 1945 in avanti; 6) Sviluppi contemporanei o recenti, dagli anni Ottanta in poi.

Per quanto riguarda l’epoca premoderna, e quindi prima del 1500, la circolazione degli individui, delle idee e delle merci, seppur ancora ai suoi albori, era già presente, ed il sorgere di nuovi imperi, religioni e commerci, furono proprio conseguenza diretta di questi spostamenti. Tuttavia, per quanto indicative di un nuovo germogliare, all’interno del quale molti studiosi hanno intravisto, dal punto di vista economico, aspetti peculiari di un primo capitalismo, queste dinamiche, oltre ad una limitata durata, ebbero sempre una rilevanza regionale e mai globale, episodica e contenuta. Non vi era traccia d’interdipendenza, di stabilità e regolarità negli scambi.

La globalizzazione, per essere considerata tale, deve rappresentare qualcosa di più ampio, richiede non solo una connessione ma un’interdipendenza continua, una reciprocità tra le diverse parti del mondo, per fasi lunghe e durature. In questi casi si trattava di una sorta di miniglobalizzazioni regionali o di una prima globalizzazione arcaica che certo avrà pure influenzato in qualche modo o forma le fasi successive, ma che non può essere interpretata come vera e propria globalizzazione. Nel dettaglio, nell’epoca premoderna non troviamo quelle caratteristiche richieste per poter parlare di globalizzazione. La portata di questi fenomeni non era globale, limitati da tecnologie di trasporto che ancora non consentivano gli spostamenti transoceanici, non solo delle persone ma anche delle idee. Non erano ancora stati pensati organismi politici internazionali, ed anche la dimensione della popolazione interessata era assai ridotta, rispetto ad un coinvolgimento globale; di conseguenza, non si era nemmeno strutturata una coscienza globale, né tantomeno i collegamenti potevano essere definiti da un carattere di interdipendenza. Piuttosto, per quanto riguarda questa epoca, si può parlare solo di tendenze globalizzanti, lontane parenti di quelle che nell’epoca moderna determineranno lo stato nascente della globalizzazione.

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Il periodo storico che intercorre invece tra il 1500 ed il 1800, può essere interpretato come una fase di passaggio, un ponte che collegò la protoglobalizzazione, ad una globalizzazione moderna che si manifestò successivamente al 1800. Fu questa l’epoca nella quale si palesarono, anche se ancora con debolezza, tutte quelle forze che contribuirono alla sua piena realizzazione.

Nell’arco di questa fase il mondo assunse una dimensione diversa. I commerci, che prima si limitavano a spazi regionali, conobbero rotte nuove, e paesi come la Gran Bretagna, forti anche del potere politico e militare in loro possesso, iniziarono a sviluppare relazioni economiche globali. I viaggi di colonizzatori si spinsero in tutto il mondo, aprendo a nuovi spazi di colonizzazione. La cultura, la scienza e l’economia, divennero vettori di contaminazione globale e la voglia di conoscere e capire il mondo, il terreno nel quale la coscienza globale attecchì.

Le nuove tecnologie in ambito navale, diedero un significativo impulso agli spostamenti transoceanici sempre più numerosi, ed i nuovi collegamenti con l’America del Nord aprirono a scenari mercantili nuovi, che fino a quel momento avevano visto nelle Indie, nella Cina e nei Paesi arabi il loro unico approdo.

Tuttavia questo nuovo scenario, ed un capitalismo che si determinava sempre più nella sua estensione, non erano ancora variabili sufficienti per dare avvio alla globalizzazione. Per farlo occorreva che all’azione propulsiva del capitalismo si sommasse un’adeguata tecnologia industriale. Fu, infatti, il binomio tecnologia/capitalismo che consentì alla globalizzazione di dispiegarsi, nell’epoca della modernità, in tutta la sua essenza.

Le profonde innovazioni che interessarono il settore dell’industria, consentirono di produrre mezzi di trasporto più adeguati rispetto all’esigenza di intraprendere viaggi di lunga distanza. La macchina a vapore diventò ben presto nave a vapore, treno a vapore. Poi il motore a scoppio determinò la diffusione dell’automobile e dei mezzi da trasporto. Con il tempo propulsori sempre più potenti accrebbero l’efficienza dei trasporti realizzando una vera e propria rivoluzione. Le merci quindi

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iniziarono ad avere una distribuzione globale ed una produzione di massa. Anche le armi da fuoco divennero più avanzate, garantendo agli Stati possessori uno schiacciante predominio rispetto agli altri militarmente meno evoluti.

L’altro monomio, il capitalismo, rappresentava il sistema economico dominante, fatto di mercato, profitti e proprietà privata, che nell’innovazione tecnologica industriale trovò un’efficace vettore per espandersi in tutto il globo. Crescita e sviluppo erano i due ordini principali, dai quali partiva il bisogno del capitalismo di recuperare materie prime, di trovare manodopera e nuovi mercati.

Capitalismo e innovazione industriale divennero quindi sinonimo d’imperialismo e colonialismo. Gli Stati nazionali, prodotto di quest’epoca, economicamente e militarmente più potenti, erano gli attori principali della globalizzazione moderna, imponendosi con la forza a livello globale. Le guerre coloniali si moltiplicarono, per terre e per mari, mentre un fenomeno d’immigrazione di massa coinvolse milioni di persone.

L’epoca moderna diventò così la fase nella quale, tutti quei fenomeni che negli anni precedenti avevano iniziato a prodursi con debolezza, conobbero uno straordinario sviluppo globale.

Il capitalismo, le nuove tecnologie industriali, lo Stato nazionale, i nuovi organismi internazionali, il potere imperialista, i flussi globali di merci e persone, si strutturarono e radicarono con determinazione in un mondo ormai globalizzato ed interdipendente, aprendo così all’attuale forma di globalizzazione che ha caratterizzato la fine del ventesimo secolo e gli inizi del ventunesimo.

Le due guerre mondali hanno rappresentato però, un grande limite allo sviluppo della globalizzazione, ed il mondo che uscì da quegli anni bui e dolorosi si trovò a dover fare i conti con la contrapposizione tra comunismo e capitalismo da una parte, e tra paesi ricchi e paesi poveri dall’altra.

Est ed Ovest, Nord e Sud, divennero le direttrici sulle quali muoversi per comprendere le dinamiche che caratterizzarono l’epoca tardo moderna, ma soprattutto è in ciò che accadde successivamente,

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quando negli anni ottanta si sgretolò il blocco comunista, e da sistema bipolare, il mondo, passò ad una situazione monopolare dominata da un'unica grande potenza e dalla progressiva espansione del capitalismo, che si manifestarono con nettezza profili e contenuti della globalizzazione come noi oggi la conosciamo, e che potremmo definire postcoloniale.

È l’epoca contemporanea, dove il passaggio di potere dagli Stati nazionali alle nuove organizzazioni sovranazionali, come l’Unione europea e la Banca mondale, che segna inevitabilmente le dinamiche del mondo.

La cultura diventa globale e con l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche, internet prima tra tutte, che permettono il superamento dei confini tradizionali, la contaminazione tra diversità produce ibridazioni sempre più permeanti per la vita dei cittadini in ogni parte del mondo.

Cambiano anche in modo profondo gli equilibri politici ed economici del sistema mondo. Siamo dentro ad un passaggio che apre a nuovi scenari, nei quali, la supremazia dell’Occidente, cede sempre più il passo a nuove forze mondiali.

È però importante sottolineare che la globalizzazione, intesa come fenomeno mondiale caratterizzato da regolarità, sistemi e strutture, in cui le relazioni presentano un intenso livello di interdipendenza e di influenza tra di loro a livello mondiale, non si fonda però sull’imperialismo statunitense ed internet.

Quest’ultimi hanno contribuito alla costruzione di modelli globali ed alla loro espansione nel mondo, ma è nell’epoca moderna, e nelle ragioni del capitalismo, dell’innovazione industriale e degli Stati nazionali, che possiamo individuare i fattori fondanti della globalizzazione.

Quindi, non c’è una rottura tra la globalizzazione dell’epoca moderna e quella che troviamo nell’epoca postmoderna; semmai possiamo parlare di un suo sviluppo, di una sua accelerazione, ma

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senza mai dimenticare che i fattori economici, politici e culturali che l’hanno prodotta, trovano origine nell’epoca moderna.15

La globalizzazione postmoderna e la dimensione culturale che l’accompagna, cioè la divulgazione dei valori della civiltà occidentale nel mondo, può essere meglio compresa utilizzando i concetti di razionalizzazione e di individualizzazione.

Con il primo concetto, razionalizzazione, si indicano tutti quei meccanismi che si producono nell’azione sociale, fondati sulla crescente ricerca di efficienza e produttività. Il disincanto del mondo lascia spazio all’indagine scientifica e tecnica, spesso non solo per ragioni di conoscenza ma anche per forti interessi economici.

È interessante notare come in merito a questo cambiamento, il Professor Severino, nel tentativo di analizzare il rapporto tra capitalismo e tecnologia, elabori un’interessante riflessione: egli sostiene che «la tecno-scienza è destinata al dominio nel senso che esso è, insieme, il progressivo prevalere dell’agire tecnoscientifico, che dunque va progressivamente soppiantando l’agire capitalistico e politico».16

Il secondo concetto, individualizzazione, definisce invece la diffusione di una coscienza individuale a sfavore di una prospettiva collettiva che faceva dell’appartenenza la sua principale forza. L’articolazione dei mondi vitali degli individui, con la divisione del lavoro e la crescente complessità nella quale si muovono, cambia profondamente rispetto al passato e si manifesta nella profonda differenziazione dei percorsi sociali degli individui. Non esiste più la Storia, ma una pluralità di storie e d’individui. La dimensione culturale della globalizzazione, produce quindi fenomeni sociali che veicolano, allo stesso tempo, una crescente ricerca di efficacia/produttività, e una propensione sociale sempre più definita verso una coscienza individuale. Si potrebbe dire,                                                                                                                

15  

L. Martell, op. cit.,, cap. II.

16  E. Severino, Capitalismo senza futuro, Rizzoli Editore, Milano, 2012, p. 23.  

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almeno da questa prospettiva, che la globalizzazione rischia di essere il fattore scatenante di una progressiva disgregazione del sociale, che Alain Touraine in uno dei suoi saggi, descrive con chiarezza: «stiamo vivendo la fine di un tipo di società e, in primo luogo, di una rappresentazione della società nella quale il mondo occidentale ha vissuto per vari secoli. Questo paradigma che si sta indebolendo si è costruito sull’idea che la società abbia fondamento esclusivamente sul sociale».17 Il dibattito sulla natura e sui limiti della produzione culturale globale, ovviamente è assai ampio e variegato, tuttavia, si può articolare il confronto lungo quattro filoni di pensiero: 1) Globalisti 2) Alterglobalisti 3) Cosmopoliti 4) Antiglobalisti.18

I primi sostengono che grazie alla diffusione su scala globale della cultura occidentale, sostenuta da una crescente espansione dei valori della razionalizzazione e dell’individualismo, sta nascendo una nuova dimensione culturale che è il prodotto dell’integrazione tra quelle nazionali e quelle locali. In questa prospettiva, la globalizzazione, è quel fenomeno che riforma i valori e le istituzioni passate, ritenute inadatte rispetto alle sfide del cambiamento, ma anche strumento con il quale i valori tipici delle società occidentali si diffondono.

I secondi, gli alterglobalisti, leggono il fenomeno della globalizzazione come un insieme di elementi negativi che producono pericoli per l’uomo. Per la posizione alterglobalista, la globalizzazione culturale è letta non come una ricchezza, ma come un impoverimento delle diversità culturali ed il capitalismo, come un modello che non è riuscito a mantenere le promesse di libertà e ricchezza, e che anzi ha prodotto maggiori povertà e forti disuguaglianze sociali ed economiche tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre, questo livello d’analisi, fa emergere la povertà dell’esperienza che gli individui vivono nella vita quotidiana, sempre più distante da un’identità collettiva e che trova nell’individualismo il luogo privilegiato da frequentare.

                                                                                                                17  

A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, Il Saggiatore, Milano, 2004, p. 63.   18  

D. Maddaloni ( a cura di) , Il mondo contemporaneo. Un lessico sociologico, Ipermedium libri, S. Maria C.V. , cap. VII.

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I cosmopoliti, invece, concentrano la loro attenzione sulla portata del cambiamento che l’evoluzione delle nuove tecnologie di comunicazione e di trasporto hanno prodotto. L’allontanamento dalle culture locali a favore di una dimensione globale, non è percepito come il rischio di trascendere in una cieca omologazione, ma anzi, la possibilità di addivenire ad una consapevolezza sui rischi ed i problemi prodotti dalla globalizzazione e quindi sui rimedi da adottare per risolverli e superarli. Infine, gli antiglobalisti. Per questo filone di pensiero, la globalizzazione, e le radicali trasformazioni che porta con sé, al contrario, rappresentano lo stimolo giusto per il risveglio delle identità, non solo religiose ma anche etniche o regionali. A chiarire le contraddizioni del nostro tempo non sarà una dimensione cosmopolita, ma una nuova politica dell’identità.

Per quanto riguarda invece la dimensione economica e politica del sistema globale postmoderno, occorre soffermarsi su un primo aspetto, che da una parte coinvolge il fenomeno concernente l’espansione dei mercati e l’affermazione degli Stati, mentre dall’altra, l’accumulazione del capitale e la crescita di competenze tecniche e di risorse nelle mani dell’autorità.

Questa doppia evoluzione, che si anima all’interno delle dinamiche della globalizzazione fin dalle sue origini, inevitabilmente dà vita ad una serie di rapporti, che si manifestano su più livelli, tra l’establishment economico e le classi dirigenti/politiche degli Stati.

Questo intreccio tra economia e politica, seppur mutato negli anni, rappresenta ancora oggi un elemento fondamentale sul quale s’innalza l’economica mondo capitalistica moderna.

Appare evidente che le ragioni di questa importanza, si collocano tutte nell’ambito delle ricadute, positive o negative, che le decisioni politiche hanno sull’interessi dell’élites economiche, e nell’attivismo con il quale i luoghi del potere economico, cercano di far sì che tali scelte siano il più possibile coerenti con gli obiettivi che il capitalismo si prefigge di raggiungere.

La logica del profitto dell’impresa capitalistica, trova, nel bisogno di potere e legittimazione della politica, una cooperazione conflittuale che gli permette di espandersi e svilupparsi globalmente. Lo

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spazio economico/politico supera i confini nazionali e regionali per approdare nel globale, tracimando in ambiti della vita che, inevitabilmente, mutano e divengono capitalismo.

Tuttavia queste tendenze producono anche il suo esatto contrario, cioè si aprono, all’interno di queste dinamiche, spazi nei quali poter coltivare prospettive che invece non sono contraddistinte da logiche di mercato o di profitto. La politica può diventare cosi tutela del mondo del lavoro, sostegno ai lavoratori, ai cittadini, ed allo sviluppo dell’occupazione, mentre lo Stato ed il Welfare assurgere al ruolo di limite allo sviluppo della globalizzazione.

Inizia così una fase nella storia della globalizzazione, nella quale il sistema economico mondiale entra in conflitto con gli Stati nazionali, i quali, anche al loro interno, conoscono sempre più crescenti contraddizioni e conflitti tra la classe imprenditoriale e le istituzioni.

Sarà solo in seguito alle due guerre mondiali che quest’opposizione troverà un equilibrio, dato da una regolazione sociale e politica dell’economia capitalista.

Da questo punto di vista, il rapporto tra economia e politica, nel momento in cui la globalizzazione si perfeziona come tale, intensificando i propri effetti a partire dagli anni novanta e fino ad arrivare ai giorni nostri, si fa sempre più complesso, e con la perdita d’importanza dei confini nazionali, gli Stati sembrerebbero perdere potere, influenza, ed anche il ruolo di controllore rispetto alle incoerenze dei network globali.

Viviamo quindi un’epoca nella quale la globalizzazione erode ed indebolisce, fino quasi a renderli irrilevanti, gli Stati nazionali?.

Per affrontare questo tema, che è uno dei più rilevanti della globalizzazione politica, occorre innanzi tutto ricordare che la forma di Stato che conosciamo noi è relativamente giovane, e come abbiamo già evidenziato in precedenza, prodotto dell’epoca moderna.

Quindi, non è sbagliato dire che l’invenzione politica dello Stato organizza la vita degli individui da un tempo limitato rispetto alla storia dell’umanità.

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Prima di questo momento, le società, soprattutto quelle nomadi, non avevano confini, perché sempre in continuo movimento. Erano fondamentalmente piccole società, caratterizzate da un’autoregolamentazione, e non avevano bisogno né di apparati, né di strumenti di governo istituzionale. Fondamentalmente, non c’è traccia in queste comunità dei due elementi costituenti dello Stato nazionale: il territorio e l’apparato.

Se andiamo ad analizzare le caratteristiche degli imperi, risulta infatti evidente sia l’assenza di un confine fisico, perché mai fissato e sempre in movimento quanto l’intensità dell’espansione dell’impero, ma anche di una qualsiasi struttura amministrativa incaricata di governare i territori conquistati.

Nemmeno nei sistemi feudali si trovano caratteristiche assimilabili allo Stato. In quest’ultimi, non esisteva l’idea un potere centralizzato, e tutto avveniva tramite una distribuzione del potere che dal monarca si ramificava, in un rapporto fedeltà/beneficio, verso alcuni individui. Non esisteva l’idea di un potere centralizzato ed impersonale ma anzi, a legittimare il re o la regina, era una modello che rincarnava nella persona, l’essenza della carica.

Dobbiamo aspettare la nascita dello Stato assoluto in Francia, Spagna ed Inghilterra, per intravedere alcune impostazioni che poi caratterizzeranno gli Stati nazionali. L’affermarsi di questo nuovo modello, è la conseguenza dello sviluppo di tre questioni che in esso trovano valida soluzione. La prima di queste è caratterizzata da un aspetto socioeconomico, strettamente collegato con la dimensione dei territori. I confini che caratterizzavano i feudi, non erano più adeguati per lo sviluppo dei mercati. Solo uscendo dallo spazio ristretto del feudo, per approdare ad un’estensione sufficientemente vasta, si sarebbe potuto garantire l’incontro fruttifero ed il germogliare dei vari interessi economici.

La seconda invece ha una rilevanza culturale-ideologica, correlata all’idea secondo la quale questa nuova forma di organizzazione, era anche lo strumento che permettesse ai vari monarchi, di

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continuare a garantirsi una legittimità, ridotta se confrontata ai grandi imperi, ma sicuramente accresciuta, se comparata a quella che era determinata nei feudi.

La terza dinamica è di tipo politico. La nascita degli Stati assoluti, è strumento con il quale la politica conserva il potere e l’autonomia rispetto alle grandi feudalità e soprattutto nei confronti della Chiesa.

È nel centro dell’Europa che si compone quindi il nuovo modello istituzionale da cui derivarono importanti elementi di novità, tali da porre alcune questioni alle quali gli Stati avrebbero dovuto trovare soluzioni adeguate. Una di queste è sicuramente la burocratizzazione del sistema, come risposta organizzativa alle nuove dinamiche in corso.

Gli Stati assoluti, infatti, erano determinati da un importante livello di centralismo e da una macchina amministrativa ben sviluppata, fatta di uffici, competenze, e di una nascente corporazione di burocrati, ed a differenza dei sistemi feudali, avevano inglobato in sé, l’idea di una forza militare permanente a difesa dello Stato.

Imperi, sistemi feudali e Stati assoluti, si differenziavano dunque profondamente dagli Stati nazionali, tuttavia, nella loro evoluzione, possiamo intravedere il terreno nel quale lo Stato, nella forma a noi più vicina, ha fatto crescere le proprie radici.

Il cambiamento è comunque importante, perché all’interno dello Stato nazionale, il territorio è ben determinato dai confini, ed il potere centralizzato, oltre che legittimo e riconosciuto, può contare su adeguati apparati amministrativi. Lo Stato, all’interno dei confini, è sovrano e legittimo. E per quanto riguarda invece il governo delle questioni internazionali, prevale una nuova visione, che vede, nel sistema delle relazioni diplomatiche tra Stati, un elemento di forte innovazione rispetto ai modelli analizzati. Ed ancora, per affinare questo ragionamento, le dinamiche oltre i confini, hanno una limitata ingerenza nelle varie politiche messe in campo dallo Stato.

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Lo Stato nazionale quindi, è il modello ultimo che gli uomini si sono dati, e quello che deve misurarsi con i vari aspetti della globalizzazione che sembrerebbero mostrarne il declino.

Il primo attacco proviene dalle crisi interne agli Stati e prodotte dalla globalizzazione. Alcune teorie di pensiero, come «la teoria della crisi di legittimazione di Habermas, e versioni di destra come le concezioni pluraliste e neoliberiste del sovraccarico dello Stato»,19 fanno notare che la crisi dello Stato sociale, è il prodotto di una politica messa in campo dai partiti, secondo i quali, per vincere l’elezioni, l’unica strada percorribile è quella di allargare il sistema assistenziale e le politiche di welfare, senza tener di conto però che, un eccessiva apertura in questo senso, suscita aspettative troppo alte rispetto alla reale possibilità dei governi di dare risposte adeguate. Questo meccanismo ha notevolmente stressato le strutture dello Stato sociale, rendendolo inadeguato e delegittimando i governi promotori di queste politiche.

Diventa quindi evidente che, in una condizione di debolezza dello Stato nazionale davanti alle politiche di welfare, ed a una conseguente delegittimazione, il rischio di perdere spazi politici nazionali, favorendo la venuta di nuove forme globali, è molto alto. Altresì, dove lo Stato per più motivi è assente, la globalizzazione si presenta addirittura come una prospettiva da prendere in seria considerazione.

Il secondo attacco invece è sostenuto dagli aspetti economici, politici e culturali della globalizzazione. La mobilità dei capitali, sembrerebbe essere una vera e propria spina nel fianco degli Stati nazionali. Infatti, tra le altre cose, la globalizzazione ha determinato la possibilità di spostare con semplicità, ingenti somme di capitali da una parte all’altra del mondo, costringendo quindi i governi, ad incentivare l’attuazione di politiche favorevoli al capitalismo.

I vincoli delle epoche passate erano tali che qualsiasi imprenditore avrebbe avuto difficoltà a far muovere i propri capitali ma oggi, con l’avvento soprattutto delle nuove tecnologie e di innovative                                                                                                                

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forme di ‘finance’, il management dell’economia globale, può spostarli senza alcuna difficoltà. Sono le grandi società multinazionali le nuove protagoniste del nostro tempo, a discapito degli Stati nazionali che oggi si vedono sottrarre una sempre più importante quota di sovranità: «lo stato non è sovrano, non ha il controllo totale sul territorio e sulle politiche che vi attua, ma condivide la propria sovranità con il capitale»20.

Anche la cultura globalizzata rappresenta un altro fronte che ha contribuito a limitare potere e ruolo dello Stato nazionale. In un mondo globalizzato infatti le identità culturali nazionali si fanno sempre più deboli ed allo stesso tempo più complesse. Il cittadino, grazie ai crescenti flussi migratori ed alle comunicazioni globali, inizia ad accedere, nella sua quotidianità, a diverse identità nazionali, plasmando così un ibridazione culturale che indebolisce l’identità nazionale e le strutture sulle quali si fonda lo Stato nazionale.

La dimensione politica ovviamente non è esclusa da questo contesto, e se l’economia e la cultura diventano globali, anche’essa deve organizzarsi in uno scenario che non è più solo nazionale ma internazionale o transnazionale.

Le Nazioni unite, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, la Comunità europea e molte altre istituzioni ancora, sono testimonianza di quanto scritto e della complessità di un sistema mondo dove le interdipendenze si formano in conseguenza di decisioni politiche prese su livelli di potere diversi e spesso tra loro in conflitto.

Resta tuttavia essenziale capire che, se il trasferimento d’importanti funzioni da un livello nazionale ad uno internazionale e transnazionale è il risultato degli effetti prodotti dalla globalizzazione, il ruolo e le responsabilità che hanno avuto gli Stati nazionali nel determinare questa direzione, in uno stretto rapporto di condivisione con le nuove forze del potere economico globale condividendone finalità e prospettive, non è sicuramente da meno.

                                                                                                                20Ivi, p. 227.

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Il terzo ed ultimo attacco agli Stati nazionali proviene da tutte quelle problematiche che per sua natura la globalizzazione propone, ed alle quali gli Stati nazionali non riescono a trovare adeguate soluzioni. Le questioni ambientali, sociali, economiche, di sicurezza hanno oggi un impatto globale e le articolazioni con le quali si manifestano, sono tali che, nessun Stato, intervenendo da solo, può trovare risposte a questi problemi. Sono le contraddizioni della globalizzazione che facilitano la costruzione di soluzioni globali, oltre gli Stati nazionali, erodendone la sovranità ed il potere.

Riassumendo, gli Stati nazionali vivono un’epoca caratterizzata dal loro progressivo indebolimento, sia da un punto di vista politico e quindi di sovranità e legittimità, ma anche economico, sociale e culturale. Una crisi complessiva quindi, che trova nella globalizzazione il suo propulsore principale e nelle politiche socialdemocratiche, forse, la più evidente sconfitta degli Stati.

La teoria dello «Stato competitivo»21, sostiene che il contesto globale nel quale gli Stati sono chiamati ad operare, non consente di sviluppare importanti politiche socialdemocratiche, anzi, quest’ultime sembrerebbero essere destinate ad un ruolo di comparsa, a favore invece di un neoliberismo figlio della globalizzazione e più adatto a muoversi in un contesto di economia globale. Le socialdemocrazie sembrerebbero essere quindi le prime vittime del mondo globale. In un tempo nel quale i capitali economici si muovono con grande facilità da un paese all’altro, le forze politiche con responsabilità di governo negli Stati nazionali, cercano di trattenerli nei loro paesi, sostenendo tutte quelle politiche condivise dai grandi centri di potere economico, indebolendo così la tutela del lavoro, applicando tagli ai costi dello Stato sociale facendo crescere sempre più profonde disuguaglianze nella società.

La socialdemocrazia appare impossibilitata ad esercitare qualsiasi tipo di controllo sui capitali, perché così facendo, stimolerebbe la loro fuga; ed allora si vede costretta ad assecondarli, ed anzi a creare quelle condizioni nelle quali la fiducia del sistema finanziario resta immutata nei confronti                                                                                                                

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del paese, perché eventuali declassamenti, influirebbero negativamente sull’appetito dei potenti attori economici.

«I giudizi sull’affidabilità creditizia di un governo, dipendono dalle politiche governative e dal loro grado di corrispondenza con le preferenze di libero mercato delle imprese. In questo modo, finanza e capitale, divengono fattori determinanti delle politiche governative». 22

È del tutto evidente che, sul piano democratico, si aprono fratture assai profonde e dall’incerto andamento, perché se gli Stati sono costretti ad attivare politiche indirizzate alla tutela del capitale; dunque la politica governativa sembra non più riconducibile al rapporto con gli elettori ma a forze non elette, il più delle volte esterne al paese stesso. La politica di governo nazionale, non è più il frutto di un’idea del mondo, che legittimata da elezioni democratiche cerca di realizzarsi nella società degli Stati, ma semmai il risultato d’ingerenze unidirezionali di banche, multinazionali, ed investitori che influenzano le scelte al fine di massimizzare i profitti.

La teoria dello Stato competitivo non solo intravede il ridimensionamento complessivo degli Stati nazionali, ma anche il progressivo sgretolamento dello Stato sociale e della socialdemocrazia, intravedendo sullo sfondo, il realizzarsi di una convergenza delle politiche nazionali, sempre più omogenee tra di loro, verso un’unica politica governativa globale.

Tuttavia, seppur convincente, la teoria dello Stato competitivo, si dimostra debole quando la confrontiamo con il dato empirico. Infatti, ci sono molti Stati che invece hanno deciso di non incamminarsi lungo la via del neoliberismo.

I Paesi scandinavi in questo senso rappresentano forse l’esempio più illuminante; hanno mantenuto un’imposizione fiscale molto alta, uno Stato sociale tra i migliori al mondo, livelli d’occupazione elevati e prosperità economica senza rinunciare a stare nella globalizzazione, ed anzi, utilizzandola,

                                                                                                                22  Ivi, p. 233.

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hanno esportato le loro economie nel mondo, tenendo bassi tutti gli indicatori di povertà e disuguaglianze.

Anche la Germania, allo stesso modo, sta attraversando quest’epoca di grandi cambiamenti mantenendo relativamente alte le imposte (garantendo così servizi adeguati ai cittadini) e senza tradire le normative sull’economia e sul lavoro, fatte di vincoli precisi e coerenti che da sempre la contraddistinguono. E poi i paesi dell’America latina che, perseguendo politiche di certo non favorevoli alla teoria dello Stato competitivo, hanno ugualmente stimolato l’importazione di cospicui capitali dall’estero.

Il dato empirico quindi fa emergere uno scenario sorprendente che ribalta i termini della questione per come l’abbiamo affrontata fino ad ora, e che aprirebbe alla possibilità di una risposta socialdemocratica alla globalizzazione. È la tesi della «compensazione», che racchiude in sé una nuova prospettiva.23 Se è vero che la globalizzazione produce povertà ed insicurezza, è altrettanto vero che gli Stati nazionali devono intervenire con iniziative compensative, come la tutela del lavoro o i sussidi statali, caratteristiche di una politica socialdemocratica. È nella compensazione il punto di riequilibrio rispetto al neoliberismo, ed alla possibilità che le politiche socialdemocratiche, possano dare risposte adeguate ai temi affrontati.

Formazione del capitale umano, di nuove professionalità più competitive, di manodopera specializzata, misure che promuovono il lavoro e le pari opportunità, investimenti nel campo dell’istruzione e dell’occupazione, sono tutte politiche socialdemocratiche che possono favorire in entrata, importanti capitali. Si passa quindi ad una politica dell’offerta che colloca le socialdemocrazie all’inizio, e non alla fine, del percorso di richiamo dei capitali e degli investimenti economici.

                                                                                                                23Ivi, p. 238.

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Quindi, gli Stati nazionali possono elaborare risposte compensative diverse da dare alla globalizzazione. Certo, quest’ultime non potranno non prescindere dalle molteplici dimensioni con le quali la globalizzazione si manifesta, e dovranno anche essere modulate rispetto ai vari tipi di Stato coinvolti, e soprattutto si dovrà tenere di conto nella loro elaborazione, delle tradizioni e delle pressioni interne ad ogni paese.

Sarà la storia di uno Stato, le sue tradizioni, il percorso intrapreso negli anni a determinare la direzione da intraprendere. La globalizzazione viene quindi filtrata, mediata ed elaborata da istituzioni nazionali e locali, riprodotta e sintetizzata in proposte politiche che possono sfociare anche nella richiesta di esercitare pressioni in direzione opposta ad essa. L’idea è che ogni nazione sviluppa in sé una modalità di lavoro, frutto e risultato della tradizione ormai radicata nella propria cultura e nella propria storia nazionale.

La tesi sul declino degli Stati nazionali, non può poi non tenere di conto che, nonostante tutto, gli Stati mantengono ancora una serie di competenze e poteri, che trasversalmente vanno ad interessare profondamente i molteplici ambiti delle loro società, e che le politiche governative variano da paese a paese evidenziando come l’autonomia degli Stati sia ancora ben presente, e come in realtà il rapporto con la globalizzazione è modulato dalla forza del peso politico che ogni paese esprime. La dicotomia tra paesi potenti e paesi deboli è assai rilevante perché fa emergere un altro aspetto critico della teoria dell’erosione degli Stati. Quest’ultima infatti, considera la globalizzazione il soggetto principale e gli Stati l’oggetto del processo. Invece, nella realtà, e come ho già potuto evidenziare nelle pagine precedenti, sono gli Stati, insieme al capitalismo, gli attori che hanno dato origine ai fenomeni di globalizzazione che si sono susseguiti nelle varie epoche, ed ancora oggi, molti di loro, ne determinano la forma e la dimensione. Il problema potrebbe riguardare quei paesi più deboli, che non hanno la possibilità di difendersi e di imporre, in un contesto globale, le loro politiche e di diventare quindi oggetto dei processi di globalizzazione in atto.

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Concludendo, possiamo affermare, che la globalizzazione così per come si è manifestata negli ultimi decenni, ha sicuramente rappresentato, ed ancora rappresenta, per tutte le questioni di ordine teorico e pratico che apre, un fenomeno assi articolato e di non facile comprensione.

Il lungo processo storico che ha portato alla sua piena attuazione, ci dice che gli Stati nazionali hanno avuto un ruolo fondamentale in questo percorso, ed assieme al capitalismo, sono stati gli artefici della sua evoluzione e crescita. Oggi, quegli stessi Stati, sono chiamati a confrontarsi con questa dinamica e con le contraddizioni che quotidianamente produce. Abbiamo compreso che la globalizzazione non s’impone ancora sugli Stati in ordine alla loro sovranità politica, culturale ed economica, ma sicuramente rappresenta una sfida insidiosa per la quale gli Stati dovranno mettere in campo tutte le loro migliori forze e competenze.

La centralità degli Stati non è messa in discussione, ma l’indebolimento al quale sono comunque sottoposti, deve rappresentare una valida motivazione per ridisegnare i propri confini culturali, politici ed economici, riconfigurandosi in una prospettiva nuova, che li veda attori protagonisti, ed in grado di governare la complessità dei processi in corso e di dare risposte adeguate al futuro che li attende.

L’impatto che la globalizzazione produce sulla politica e lo Stato nazionale, provoca dinamiche dagli esiti incerti e di non facile comprensione. Ciò che si può dire, con un certo margine di affidabilità, è che forse, il mantenimento degli Stati per come li abbiamo conosciuti, passa inevitabilmente dall’affermazione della funzione politica su quella economica. Certo, rispetto alle risposte globali che occorre dare ai molteplici problemi del nostro tempo, il dibattito sulle ipotesi di un governo mondiale contiene una sua validità, ma non può essere il fronte principale della discussione. È la politica degli Stati e tra gli Stati il terreno nel quale il confronto trova una sua validità, ed è solo in questa possibilità che le egemonie economiche globali potranno forse trovare il loro giusto ridimensionamento a favore di un mondo più equo e giusto.

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1.3 Partecipazione e democrazia rappresentativa

Uno dei maggiori autori che ha dedicato gran parte dei suoi studi alle forme dei sistemi democratici, è stato Joseph Schumpeter, il quale riteneva che, a differenza della visione classica della democrazia, nell’analisi della realtà empirica delle democrazie rappresentative, si poteva registrare come tra il popolo e i loro rappresentanti politici dallo stesso eletti, non vi fosse nessun tipo di connessione significativa al punto da giustificare l’affermazione di un governo indiretto del popolo. Nell’analisi schumpeteriana, con l’elezione dei rappresentanti politici, il popolo non fa altro che selezionare tra gli altri, coloro i quali saranno legittimati a prendere le decisioni politiche.

Oltre a questo non c’è altro; e qualsiasi prospettiva che veda nel voto elettorale lo strumento per l’attribuzione di deleghe e rappresentanze indirette dal popolo all’eletto, si sgretola davanti ad una definizione di democrazia secondo la quale quest’ultima, sarebbe lo strumento per le decisioni politiche che si determina dal voto popolare. È in questa spaccatura che il termine elitista, inteso come opposto alla democrazia, trova origine, portando in superficie quella che in realtà si presenta come la questione sostanziale di tutto il dibattito, se cioè esista un legame tra le decisioni di governo delle istituzioni rappresentative e l’espressione dell’elettorato tramite il voto elettorale.

Nei modelli di democrazia rappresentativa, l’effettiva dipendenza dei rappresentanti rispetto all’idee politiche degli elettori, è certamente tutelata. Basti pensare che in nessun governo rappresentativo, istituito dalla fine del 1700 in poi, troveremo traccia dei mandati imperativi e della revocabilità discrezionale dei rappresentanti, che da questo punto di vista, minavano alle fondamenta questo principio.

I mandati imperativi e la revocabilità discrezionale dei rappresentanti, nel corso dei secoli si svuotarono di qualsiasi ragione, e già nell’Inghilterra del XVIII secolo, si sviluppò l’idea che i membri del parlamento rappresentassero tutta la nazione e non l’interesse particolare dei suo

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