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Il controllo della liquidità nelle banche con Basilea III. Profili di convergenza tra aspetti di regolamentazione e di gestione.

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INDICE

INTRODUZIONE ...5

CAPITOLO PRIMO: IL RISCHIO DI LIQUIDITA’ I.1 Natura e cause del rischio di liquidità…...8

I.2 Il Funding Liquidity Risk……….11

I,2,1 L’approccio degli stock………12

I,2,2 L’approccio dei flussi di cassa………..…14

I,2,3 L’approccio ibrido………15

I,2,4 Stress test e Contingency funding plan……….15

I,3 Il Market Liquidity Risk………18

CAPITOLO SECONDO: LA CRISI E LE CRITICITA’ DI BASILEA II II,1 La crisi del 2007………..21

II,2 Un caso particolare: Northern Rock e la crisi di liquidità………...27

II,3 Le debolezze di Basilea II………...34

CAPITOLO TERZO: BASILEA III E GLI INDICATORI DI LIQUIDITÀ III,1 Basilea III: tratti generali………...42

III,1,1 Il Capitale………...47

III,1,2 Le riserve di capitale………..52

III,1,3 Il leverage ratio………..53

III,1,4 I rischi di mercato………..54

III,2 Gli indicatori di liquidità………...57

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III,2,1,1 Stock di HQLA………...60

III,2,1,2 Totale dei deflussi di cassa netti……….68

III,2,2 Gli strumenti di monitoraggio………73

III,2,2,1 Disallineamento delle scadenze contrattuali…………..73

III,2,2,2 Concentrazione della raccolta………74

III,2,2,3 Attività non vincolate disponibili………...75

III,2,2,4 LCR per valuta significativa………..75

III,2,2,5 Strumenti di monitoraggio tramite il mercato…………76

III,2,3 Net Stable Funding Ratio (NSFR)………..77

III,2,3,1 Ammontare disponibile di provvista stabile…………...79

III,2,3,2 Ammontare obbligatorio di provvista stabile………….80

III,3 L’attività di monitoraggio dell’Eba: dati a marzo 2016………82

III,4 Internal Liquidity Adequacy Assessment Process (ILAAP)…………..88

CAPITOLO QUARTO: IMPATTI GESTIONALI E CONSEGUENZE ALL’INTRODUZIONE DEGLI INDICATORI IV,1 Effetti economici e gestionali della nuova regolamentazione………...92

IV,1,1 Effetti sulla redditività………...92

IV,1,2 Effetti sulla composizione dell’attivo………96

IV,1,3 Effetti sulla composizione del passivo………...100

IV,1,5 Effetti di sostituzione tra prodotti bancari e finanziari………102

IV,2 Lo Shadow Banking System……….103

IV,3 Tasso interno di trasferimento e rischio di liquidità………108

IV,3,1 Il Tit di mercato e i suoi limiti……….112

IV,3,2 Liquidity term Premium………...………116

IV,3,3 La ri-determinazione del Tit………118

IV,3,4 La correzione del Tit………121

IV,3,5 La revisione delle modalità di utilizzo del Tit……….124

IV,4 La gestione del rischio di liquidità negli intermediari finanziari…....126

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IV,4,2 Il Buffer di Liquidità e gli stress test………130

IV,4,3 Il Sistema dei controlli……….131

CONCLUSIONI………..135

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA……….138

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INTRODUZIONE

La crisi finanziaria che a partire dall’estate del 2007, ha investito i mercati internazionali del credito generando una situazione di straordinaria tensione monetaria, ha portato alla luce l’importanza assunta dalla gestione del rischio di liquidità nell’ambito dello svolgimento dell’attività di intermediazione.

Il presente lavoro si pone l’obiettivo di illustrare gli effetti dell’introduzione di Basilea III sul tessuto finanziario mondiale dissestato dalla crisi, con particolare riguardo agli effetti previsti sul sistema di gestione della liquidità bancaria.

La gestione della liquidità ha suscitato scarso interesse fin dalle prime forme di regolamentazione internazionale, nelle quali non era preso adeguatamente in considerazione a causa della limitata rilevanza attribuita al rischio di liquidità e alle conseguenze di eventuali shock monetari.

Con l’evoluzione del sistema finanziario e l’entrata in scena degli strumenti di finanza innovativa, la gestione delle risorse liquide ha assunto inevitabilmente un ruolo di crescente importanza. Solamente con lo scoppio della crisi dei mutui subprime e il conseguente crollo del sistema economico, tuttavia, la questione della liquidità ha finalmente ricevuto un’appropriata e specifica regolamentazione.

Lo sviluppo del tema in esame prevede una fase iniziale in cui sono esposti gli aspetti principali del rischio di liquidità, con particolare riferimento alla natura e all’origine dello stesso, da ricondurre all’essenza propria della funzione di intermediazione svolta dalle banche.

Il rischio di liquidità è poi scomposto nelle due fondamentali tipologie di manifestazione, il funding liquidity risk e il market liquidity risk, indicando per ognuna i tratti tipici e le tecniche appropriate di valutazione.

Il secondo capitolo analizza in dettaglio la situazione delineata sui mercati finanziari a partire dalla crisi del 2007, descrivendo i passaggi che hanno portato

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la crisi ad espandersi a livello globale, soffermandomi sul contributo della liquidità e del rischio ad essa associato, una parte in particolare analizza la crisi della Northern Rock, una crisi scoppiata principalmente a causa del rischio di liquidità, che evidenzia e riassume come tale rischio fosse sottovalutato negli anni pre-crisi.

L’ultima parte del secondo capitolo spiega le debolezze di Basilea II e le cause che hanno portato il Comitato e rivedere le disposizioni, introducendo nuovi indicatori e rafforzando le banche dopo il periodo di crisi.

Il terzo capitolo infatti è dedicato alla disposizioni di Basilea III e descrive principalmente i due indicatori: il Liquidity Coverage Ratio e il Net Stable Funding Ratio e ne analizza i contenuti e gli aggiornamenti, con una parte dedicata agli strumenti di monitoraggio e ai dati emersi dai report delle Autorità di Vigilanza.

L’ultimo capitolo descrive come le disposizioni Basilea III ed in particolare i due indicatori stanno impattando sulla gestione delle banche. I principali effetti riguardano l’intermediario sotto tutti gli aspetti, dalla redditività alla composizione del’attivo e del passivo, dal business mix all’effetto di sostituzione tra prodotti bancari e finanziari.

Un paragrafo è dedicato allo Shadow Banking System, il quale comprende l’insieme dei soggetti e delle attività che danno vita a un’intermediazione creditizia complementare e concorrente a quella dei normali sistemi bancari. Un fenomeno che potrebbe trarre vantaggio dalla maggiore severità della nuova regolamentazione e che quindi necessita di una revisione da parte delle Autorità in modo da limitare il possibile arbitraggio regolamentare.

Infine l’ultima parte analizza uno strumento gestionale fondamentale come il sistema dei tassi interni di trasferimento dei fondi (Tit) e come il nuovo contesto dei mercati e il rischio di liquidità hanno reso inappropriato il sistema tradizionale. In conseguenza di questo la dottrina economica tenta di trovare possibili soluzioni al problema.

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CAPITOLO I: IL RISCHIO DI LIQUIDITÀ

I.1 Natura e cause del rischio di liquidità

Nello svolgimento della sua attività la banca trasferisce le risorse finanziarie da soggetti in surplus di risorse (i risparmiatori) a soggetti in deficit (gli investitori), reperendo, tipicamente, i capitali attraverso l’indebitamento a breve termine e impiegando tali risorse in attività a medio e lungo termine. La liquidità è dunque intrinseca nell’attività di intermediazione creditizia e genera una serie di rischi che la banca è dovuta a monitorare. Due di questi rischi sono il rischio di tasso di interesse e il rischio di liquidità, i quali sono originati proprio dal mismatch temporale esistente tra le attività e le passività del bilancio bancario.

Il rischio di tasso di interesse può essere definito come il rischio che variazioni nei tassi di interesse di mercato producano una riduzione della redditività e del valore economico di una banca. Infatti, ad esempio, un aumento dei tassi comporterebbe un rinnovo dei depositi a costi più alti e un rendimento invariato degli impieghi a tasso fisso, con un conseguente impatto negativo sul margine di interesse e quindi sulla redditività. Inoltre la riduzione del margine di interesse, cioè della forbice tra tassi attivi e passivi influenzerebbe negativamente il valore della banca per i suoi azionisti, poiché tale valore è dato dal valore attuale dei profitti futuri attesi.

L’espressione “rischio di liquidità”, oggetto della presente trattazione, mostra invece la possibilità che la banca possa rivelarsi incapace di far fronte puntualmente agli obblighi di pagamento assunti nei tempi contrattualmente previsti e in modo da non pregiudicare il normale andamento della sua attività economica e il suo equilibrio finanziario. Tale tipologia di rischio si articola in due diverse forme, il funding liquidity risk e il market liquidity risk.

Per fundin liquidity risk si intende il rischio di non poter far fronte in modo fisiologico al divario tra i flussi e i deflussi di cassa, senza cioè intaccare

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l’equilibrio finanziario e l’operatività corrente della banca. Per market liquidity risk si intende l’impossibilità di convertire in denaro un’esposizione su una determinata attività finanziaria senza incorrere in perdite di valore che si riflettano in una diminuzione del prezzo a causa dell’insufficiente liquidità del mercato nel quale l’attività è negoziata oppure di un temporaneo malfunzionamento dello stesso1.

Queste due forme di rischio di liquidità, anche se distinte sul piano logico e per il fatto che la prima riguarda il lato del passivo mentre la seconda il lato dell’attivo, sono intrinsecamente collegate: infatti una banca per far fronte a deflussi di cassa inattesi potrebbe dover cedere sul mercato una posizione in attività finanziarie e se per farlo dovesse subire una significativa riduzione del prezzo a cui dismette il suo investimento, il danno causato dal rischio di liquidità risulterebbe più pronunciato.

Il rischio di liquidità è principalmente legato all’attività bancaria in senso stretto; tuttavia, esistono altri elementi che concorrono alla sua formazione o alla sua accentuazione e questi si dividono in fattori tecnici, fattori specifici relativi alla singola istituzione e fattori di natura sistemica. Per quanto riguarda i fattori tecnici possiamo far riferimento al fenomeno della cartolarizzazione cioè quel processo tramite il quale un soggetto definito originator cede degli asset ad una società appositamente costituita la quale per ripagare l’acquisto si indebita nei confronti del mercato finanziario. Questo processo, se da un lato consente alle banche di trasformare in risorse liquide anche attivi (come i mutui) che altrimenti sarebbero difficili da negoziare sul mercato secondario, dall’altro, se mal gestito, può portare a crisi di liquidità. I fattori specifici sono quelli inerenti alla singola istituzione finanziaria, quali fenomeni di downgrade o altri eventi in grado di intaccare il capitale reputazionale della banca riconducibili a lesioni d’immagine o perdita di fiducia da parte del pubblico; fenomeni legati alla tipicità di alcuni strumenti finanziari che potrebbero originare circostanze

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Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche - Misura, regolamentazione, gestione. Milano, EGEA, gennaio 2008

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impreviste di fabbisogno di liquidità all’interno di mercati particolarmente volatili e infine fenomeni generati dalle posizioni fuori bilancio e dagli impegni a erogare fondi. Per quanto attiene ai fattori sistemici, si tratta di problemi generalizzati di funding ed eventuali difficoltà di smobilizzo di attività finanziarie derivanti in larga misura da eventi che cadono completamente al di fuori della possibilità di controllo da parte della banca come, ad esempio, crisi dei mercati finanziari, crisi politiche o economiche, catastrofi naturali, eventi terroristici e altro ancora. Possono includere anche crisi generalizzate di fiducia che inducano depositanti di un certo paese o di una certa regione, a richiedere al sistema bancario locale il rimborso di un elevato ammontare di depositi . Altri due fattori che possono accentuare il rischio di liquidità e che negli ultimi anni sono stati riscontrati e hanno contribuito fortemente alla crisi del 2007, sono la globalizzazione dei grandi gruppi finanziari e la loro concentrazione. La globalizzazione ha fatto sì che i grandi gruppi detengano attività e passività, anche tramite le loro controllate nei paesi emergenti, nei confronti di una vasta pluralità e varietà di controparti, così che diventa più complesso mantenere un quadro aggiornato di tutti i possibili flussi di cassa futuri. La concentrazione ha portato alla nascita di un ristretto gruppo di istituzioni che si dividono buona parte del mercato aumentando dunque i rischi di contagio e rendendo più delicate le implicazioni per l’intero sistema finanziario.

Il rischio di liquidità ha relazioni con altri rischi tipici della banca. Queste relazioni sono bidimensionali ovvero da esso ad altri rischi e viceversa, con effetti circolari di causa/effetto. Gli impatti del rischio di credito sul rischio di liquidità derivano dal venire meno, a causa delle insolvenze, di flussi finanziari positivi attesi dai rimborsi di crediti. In altri termini deriva dal peggioramento della redditività aziendale e delle sue prospettive espresse dal rating della banca, con conseguente difficoltà di trovare i fondi liquidi sul mercato o con un aumento del loro costo. L’aggravarsi del rischio di liquidità, inoltre, ha, a sua volta, riflessi sul credito erogato e sul rischio di credito. Infatti la tendenza delle banche a ricomporre i propri attivi aumentandone le componenti liquide ha un impatto sui volumi di credito erogati dall’economia, con conseguenze che si rivelano

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negative per quest’ultima. Gli impatti del rischio di mercato sul rischio di liquidità si esprimono nei termini di asset/market liquidity risk, infatti negative condizioni dei fattori di mercato si riflettono sui prezzi delle attività finanziarie e portano a soluzioni più onerose del rischio di liquidità. A sua volta, la ricerca di interventi di gestione del rischio di liquidità può essere causa di peggioramento dei fattori che sono alla base dei rischi di mercato. Il rischio di reputazione ha impatti sulla banca e sulla sua attività e le interrelazioni con il rischio di liquidità sono facilmente individuabili. Un suo peggioramento rende più difficile la gestione del rischio di liquidità e si traduce in condizioni più onerose di accesso al credito, quindi di accesso al mercato interbancario in veste di prenditore di fondi. Allo stesso modo, difficoltà di gestione del rischio di liquidità hanno riflessi negativi sul rischio di reputazione stesso.

Nella sua accezione tecnica, il rischio di liquidità si presenta distinto nelle due macro-categorie di funding liquidity risk e market liquidity risk

I.2 Il Funding Liquidity Risk

Il funding liquidity risk inteso come il rischio che la banca si trovi nelle condizioni di non essere in grado di far fronte ai propri impegni di pagamento nel momento in cui essi giungono a scadenza, può essere misurato facendo riferimento a tre tipi di approcci: l’approccio degli stock, l’approccio dei flussi di cassa e l’approccio ibrido.

Elemento comune alle tre categorie è rappresentato dalla tipologia di cash flows presi in considerazione per la costruzione del modello: di norma si considerano non i flussi di cassa contrattuali ma quelli effettivi , bensì anche quei flussi che avranno luogo in previsione del comportamento delle controparti ( una parte dei depositi a vista può essere associata a fasce di scadenza superiore), dell’istituto di credito e della strategia posta in atto nel gestire le proprie relazioni d’affari. Simili correzioni possono essere diverse a seconda dello scenario di riferimento, quindi saranno diverse se consideriamo la normale operatività, o quella in uno scenario di stress.

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I.2.1 L’approccio degli stock

Obiettivo di questo modello è una riclassificazione del bilancio della banca al fine di individuare l’insieme delle componenti suscettibili di generare il funding liquidity risk e simultaneamente le poste in grado di fornire un’adeguata copertura in caso di manifestazione effettiva del rischio. Per questo motivo si andranno a ricercare nell’attivo del bilancio tutti quegli elementi rapidamente convertibili in denaro contante e definiti come attività monetizzabili: esse sono rappresentate sostanzialmente, in aggiunta al contante vero e proprio e alle poste a esso assimilabili, dagli impieghi a vista, come quelli overnight e quelli a breve e brevissimo termine, che possono essere prontamente resi liquidi evitando la compromissione dell’ordinaria attività finanziaria della banca e la possibilità di deterioramento delle relazioni con la clientela; e dai titoli unencumbered detenuti dall’istituto, ossia titoli considerati eleggibili perché facilmente liquidabili e non stanziati in garanzia per prestiti o contratti derivati.

L’analisi avviene dunque avendo considerazione dell’effettiva liquidabilità delle poste e non della loro scadenza contrattuale. Il valore complessivo delle attività monetizzabili deve essere poi diminuito di uno scarto di sicurezza (haircut): esso può rappresentare sia l’eventuale minusvalenza che la banca realizza in caso di vendita immediata delle attività monetizzabili sul mercato, sia il ridotto valore del prestito a breve termine che otterrebbe costituendo a garanzia le medesime attività. Il valore dell’haircut ha ovviamente dimensione crescente all’aumentare della scadenza dei titoli: il suo importo aumenta o diminuisce a seconda del rischio percepito associato alla detenzione dell’asset e scadenze maggiori sono associate a rischi maggiori.

Per quanto riguarda il passivo del bilancio, al contrario, bisogna rintracciare il valore di quelle passività, indicate come volatili, il cui rinnovo presenta un certo grado di aleatorietà: in genere si tratta di finanziamenti a vista a breve e brevissimo termine aventi controparti istituzionali, quali la provvista interbancaria overnight e le operazioni pronti contro termine a brevissima

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scadenza, e la percentuale di depositi della clientela ritenuta instabile. Il criterio di valutazione adottato prende in considerazione il comportamento effettivo e previsionale dei clienti e tralascia la scadenza contrattuale. Infatti se si escludono fenomeni di corsa gli sportelli, è improbabile un collettivo prelevamento dei depositi, visto che questi rappresentano uno strumento di pagamento. Nell’attività di riclassificazione bisogna, inoltre, tener conto degli impegni a erogare assunti dall’intermediario e non figuranti in bilancio, oltre che delle linee di credito stabilmente disponibili che sono impegni irrevocabili assunti a favore della banca da terzi, grazie ai quali la banca dovrebbe poter contare su un flusso addizionale di fondi, ove necessario, senza dover costituire attività in garanzia.

L’eccedenza delle attività monetizzabili sulle passività volatili pone in evidenza la cash capital position, indicatore dell’efficienza della banca di resistere a tensioni di liquidità che si propagano oltre la normale soglia di tolleranza garantita dal buffer posto a copertura. Nel calcolo della cash capital position, al fine di una maggiore precisione, si può includere la quota di impegni a erogare prevista; lo stesso non avviene per le linee di credito disponibili che, anche essendo obblighi di finanziamento verso la banca contrattualmente assunti da parte di terzi, presentano la probabilità di una mancata corresponsione: questi soggetti, in situazioni di prestito giudicato difficilmente recuperabile, potrebbero ritenere preferibile incorrere in sanzioni giuridiche piuttosto che ottemperare ai propri impegni.

Un altro indicatore è dato dal long term funding ratio, che rappresenta la quota di attività a lungo termine coperta da passività durevoli, ossia anch’esse a lungo termine. Esempi di passività consolidate sono prestiti obbligazionari, debiti di natura commerciale a lungo termine, altri debiti a lunga scadenza, fondo TFR e altri fondi durevoli; nelle attività a medio e lungo termine includiamo invece gli impieghi di capitale della banca destinati a perdurare nel bilancio per un periodo prolungato: di queste fanno parte le immobilizzazioni materiali, le immobilizzazioni immateriali e quelle finanziarie, in aggiunta alle altre attività non correnti.

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Nelle banche, proprio per la loro funzione di trasformazione delle scadenze, questo valore è naturalmente poco elevato, ma può essere utile per segnalare livelli particolarmente bassi rispetto alla media.

I,2,2 L’approccio dei flussi di cassa

La debolezza propria del metodo degli stock, rappresentata dall’ordinamento delle poste di bilancio nelle due sole classi di attività monetizzabili e passività volatili, è superata con l’attuazione del metodo dei flussi di cassa: esso permette la classificazione dei flussi monetari, comprensivi dell’eventuale quota interessi, all’interno di una più ampia scala di scadenze (maturity ladder) in cui figurano fasce di liquidità (gradi di liquidità) che si sviluppano da una prospettiva annuale fino a una decennale2.

Le poste a vista vengono dunque valutate non secondo il criterio contrattuale bensì attraverso l’intervento di un modello comportamentale che tiene conto dell’esperienza passata della banca. Ogni fascia di scadenza evidenzia i flussi netti (liquidity gap) e i flussi netti cumulati (liquidity gap cumulato), cioè il saldo relativo alla fascia in questione e il saldo totale di tutte le fasce precedenti.

Qualora risultassero valori negativi dei liquidity gap, ciò denoterebbe una situazione in cui si prevedono maggiori deflussi di cassa attesi rispetto agli afflussi: pertanto, in assenza di adeguate misure correttive, la banca potrebbe incorrere in una crisi di liquidità.

L’unico limite del metodo consiste nella valutazione dei titoli unencumbered in base alla scadenza, senza tener conto della loro utilità in sede di costituzione a garanzia in cambio dell’ottenimento di finanziamenti a breve e brevissimo termine.

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Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche - Misura, regolamentazione, gestione. Milano, EGEA, gennaio 2008

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I,2,3 L’approccio ibrido

Questo modello presenta le stesse caratteristiche dell’approccio degli stock, con una sola variante: è inclusa la possibilità che, in caso di tensioni di liquidità, i titoli posseduti dalla banca siano posti a costituzione di garanzia per ottenere credito attraverso un’operazione di repurchase agreement (pronti contro termine)o, ancora, possano essere ceduti sul mercato dei titoli.

L’importo ottenuto da queste operazioni sarà imputato alle fasce a più breve termine della maturity ladder e lo scarto di sicurezza (haircut) e le quote interessi saranno da attribuire alle fasce corrispondenti alle rispettive scadenze.

I,2,4 Stress test e Contingency funding plan

Gli strumenti atti alla stima del rischio inatteso di liquidità sono la modellizzazione dell’incertezza e le prove di stress. Nell’ambito della modellizzazione dell’incertezza si possono distinguere i modelli basati sui portafogli di replica e i modelli basati sulla teoria delle opzioni.

Ambedue gli approcci mirano a quantificare e riprodurre correttamente gli effetti derivanti dalle opzioni implicite presenti all’interno dei prodotti aventi scadenza indeterminata, sia che si tratti di attività (con opzioni di pagamento anticipato) sia di passività (con opzione di pagamento anticipato).

Il modello dei portafogli di replica consiste nel replicare un prodotto a scadenza non determinata attraverso un portafoglio di strumenti elementari che si comporti allo stesso modo in presenza di variazioni dei tassi di interesse di mercato.

I due portafogli sono simili perché producono flussi e rendimenti simili: ad esempio, nel caso di un deposito in conto corrente che non presenti scadenza, il corrispondente portafoglio di replica può essere formato da dodici depositi a termine associati a istanti successivi. Il numero dei depositi a termine è calcolato sulla base di periodi convenzionali che, in questo caso, corrispondono alle dodici

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mensilità di cui è composto l’anno: in questo modo è possibile suddividere il deposito a scadenza non determinata in una serie di strumenti a scadenza certa che permettono di valutare il rischio di liquidità associato al titolo originario in un definito orizzonte temporale tramite una misurazione disgiunta effettuata a intervalli regolari.

L’ammontare dei depositi a scadenza sarà determinato sulla base di stime econometriche relative al rapporto tra i prelievi sui depositi in conto corrente e lo sviluppo dei tassi di interesse storici.

L’approccio della teoria delle opzioni consente, invece, di ricavare il valore delle opzioni implicite nei prodotti a scadenza incerta mediante una stima dell’evoluzione dei tassi di interesse di mercato. Il valore dell’opzione in oggetto è ricavato, secondo il modello option adjusted spread (OAS), dalla differenza esistente tra il rendimento proprio del detentore di un titolo callable e un analogo bond non in possesso di tale opzione.

Le analisi di scenario mirano invece alla simulazione di un insieme di circostanze di particolare e inatteso stress da cui ricavare l’idoneità della banca a far fronte a crisi di liquidità senza intaccare la sua normale operatività e senza pregiudicare la sua struttura finanziaria.

Al fine di verificare la solidità del proprio assetto di liquidità, le banche realizzano una serie di prove di stress: con questo termine s’intende la realizzazione di una simulazione concernente una situazione di particolare avversità in cui l’intermediario può incorrere.

Tre sono i metodi in base ai quali si possono realizzare previsioni dell’andamento dei flussi di cassa in condizioni sfavorevoli:

1) L’approccio storico, fondato sull’analisi di eventi passati che hanno colpito l’istituzione specifica, altri intermediari oppure l’intero mercato;

2) L’approccio statistico, incentrato sull’utilizzo di serie storiche di dati in ottica prospettica al fine della costruzione di stime dei fenomeni di rischio e della loro portata;

3) L’approccio judgement-based, attuato in conformità a ipotesi previsionali e soggettive formulate dal top management dell’impresa.

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In questo modo è possibile analizzare l’incidenza di singoli fattori di rischio oppure sperimentare scenari worst-case in cui più elementi concorrono a inasprire la crisi di liquidità della banca.

Esempi a riguardo possono essere forniti dalle circostanze di ritiri anticipati dei depositi da parte della clientela oppure dal verificarsi di shock improvvisi che colpiscono i mercati finanziari riducendo la possibilità e la capacità dell’intermediario di ottenere finanziamenti a breve e brevissimo termine.

Bisogna tenere presente che gli effetti del verificarsi di questi eventi possono avere natura indiretta oltre che diretta, come la modificazione di alcune poste del bilancio altrimenti intatte: ad esempio, in caso di crisi generale del mercato, il pubblico di investitori e risparmiatori potrebbe mostrare avversione nei confronti di investimenti futuri e quindi incanalare le proprie risorse nei depositi bancari determinandone un accrescimento.

Proprio la predisposizione di provvedimenti specifici da adottare nei casi in cui il rischio di liquidità si renda noto nei modi previsti dalle analisi degli scenari di stress, costituisce l’essenza dei piani di emergenza redatti dalla banca.

Il Contingency funding plan (CFP), infatti, ha il compito di prevedere ed elencare le fonti straordinarie di liquidità cui la banca può attingere in casi di crisi (mobilizzazione temporanea delle riserve obbligatorie, repurchase agreement con la Banca Centrale, finanziamenti da altre istituzioni, ecc.) e l’ordine di priorità con cui dovranno essere attivate, in dipendenza del costo, della disponibilità e flessibilità delle fonti e del tipo di shock che si sta fronteggiando.

Il CFP precisa, inoltre, quali sono i soggetti e gli organi incaricati dell’attivazione delle politiche di funding in caso di emergenza e quelle responsabili della comunicazione e illustrazione tecnica della situazione di stress in cui la banca si trova e delle soluzioni che s’intende adottare per superarla.

Esso dunque ha effetti non solo in sede di contrasto di gravi crisi di liquidità, ma presenta anche una funzione preventiva di attenuazione per quanto riguarda l’ampiezza e gli esiti della situazione di stress Infatti, un adeguato CFP permette alla banca di adempiere regolarmente le sue funzioni ordinarie impedendo

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possibili crisi di panico da parte dei clienti che provocherebbero l’immediato ritiro dei depositi; e, inoltre, qualora prevedesse una strategia di funding articolata su un complesso di fonti abbastanza diversificato dal punto di vista geografico e valutario, consentirebbe all’intermediario di superare in modo non eccessivamente difficoltoso le proprie tensioni di liquidità e allo stesso tempo fungere da stabilizzatore dell’intero sistema. Il monitoraggio costante del grado di concentrazione delle fonti di finanziamento permette, infatti, di ridurre sensibilmente il rischio che il venir meno di un determinato canale di liquidità possa arrecare danni all’attività economica e finanziaria dell’impresa, con ripercussioni notevoli sulla situazione di liquidità dell’intero sistema finanziario.

I,3 Il Market Liquidity Risk

La seconda forma in cui si manifesta il rischio di liquidità è rappresentato dal market liquidity risk, inteso come il rischio per una banca di non riuscire a smobilizzare una consistente posizione in asset senza incorrere in una significativa perdita di valore dell’attività, con ripercussioni sul prezzo di vendita, per motivi quali l’insufficiente profondità del mercato o l’ingente mole posta in liquidazione3.

Elemento essenziale in quest’ambito è il bid-ask spread, ossia il differenziale tra il miglior prezzo a cui un soggetto è disposto a vendere un titolo e il miglior prezzo a cui un altro soggetto è disposto ad acquistarlo su un determinato mercato finanziario in condizioni normali.

Le condizioni di vendita dipendono, dunque, dalle caratteristiche del mercato: in un ambiente sufficientemente ampio, spesso e liquido, l’intermediario sarà in grado di smobilizzare la propria posizione a un prezzo che non si discosterà eccessivamente dal valore relativo; qualora non fossero

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Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche - Misura, regolamentazione, gestione. Milano, EGEA, gennaio 2008

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verificate queste condizioni, risulterà più difficoltoso liquidare quantitativi notevoli di attività senza andare incontro a un ampliamento del bid-ask spread.

Naturalmente risulta assai gravoso cercare di formulare ipotesi concernenti l’entità futura del bid-ask spread in quanto esso si rende sostanzialmente dipendente in maniera crescente dalla dimensione della posizione da dismettere e in maniera decrescente dalla profondità del mercato.

Influiscono sulla sua formazione anche le preferenze dei consumatori e le relative variazioni, le regole del mercato, le modalità di scambio con cui sono effettuate le compravendite.

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CAPITOLO SECONDO : LA CRISI E LE CRITICITÀ DI

BASILEA II

II.1 La crisi del 2007

La crisi finanziaria nata nel 2007 si è contraddistinta rispetto alle crisi degli ultimi decenni. Innanzitutto, l’intensità degli shock è stata maggiore di quella di qualsiasi altro evento che abbia interessato i sistemi finanziari dopo la crisi del 1929 negli Stati Uniti4. In secondo luogo, il maggiore livello di interconnessione e globalizzazione dei sistemi finanziari attuali ha fatto in modo che le difficoltà identificate da alcuni intermediari negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito, si siano velocemente diffuse a livello globale, colpendo diversi segmenti del sistema finanziario in tutto il mondo e soprattutto nei paesi più sviluppati. Inoltre la gravità e la profondità della crisi hanno imposto l’adozione, da parte delle autorità di vigilanza, dei governi e delle banche centrali, di misure straordinarie, nonché un forte coordinamento internazionale di tali politiche.

In generale si sostiene che la crisi sia iniziata a causa del dissesto dei mutui subprime, i quali sono un’operazione molto rischiosa per la banca poiché sono mutui concessi a soggetti con un reddito basso e/o insicuro. A partire dal 2003 le banche americane hanno espanso notevolmente i volumi dei mutui e soprattutto dei subprime, per una serie di cause, in particolare:

- la politica di Bush tesa a sviluppare la proprietà dell’abitazione anche tra le minoranze

- l’andamento del mercato immobiliare - i bassi tassi di interesse

- il meccanismo finanziario della cartolarizzazione

- l’assenza di una regolamentazione rigorosa sul leverage.

4

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A partire dal 2000, fino a metà 2006 il prezzo delle abitazione USA è cresciuto moltissimo (15% in media l’anno) creando una cosiddetta “bolla immobiliare” e questi continui aumenti dei prezzi favorivano le istituzioni che concedevano i mutui, rendendo l’attività conveniente e poco rischiosa, in quanto non si interrogavano sulla solvibilità del mutuatario poiché in caso di mancato pagamento potevano prendersi la casa e rivenderla a un prezzo più alto. La bolla è stata inoltre favorita dal basso livello dei tassi di interesse americani tra il 2001 e il 2004, voluto della politica della Federal Reserve in risposta alla crisi della bolla Internet del 2000 e all’attacco dell’11 settembre 2011. I bassi tassi portavano a un basso “costo del denaro” e questo incentivava le persone all’indebitamento e favoriva l’aumento dei prezzi delle case e l’espansione della “bolla immobiliare”.

Un altro elemento chiave è stata la cartolarizzazione cioè il meccanismo finanziario attraverso cui le banche riuscivano a rivendere i mutui subprime trasferendone il rischio ad altri operatori nei mercati finanziari. Le banche passarono dal classico modello “originate and hold” al nuovo modello “originate to distribuite”, cioè da un modello in cui la banca trae profitto dalle rate pagate dal mutuatario durante gli anni di durata del mutuo, a un modello in cui la banca vende il mutuo ad un’altra istituzione finanziaria (Società veicolo), recuperando subito l’esposizione concessa. Recuperare i soldi si traduceva nella possibilità concedere altri mutui, espandendo enormemente le attività in rapporto al capitale proprio e quindi aumentando il leverage. Nelle istituzioni finanziarie americane il leverage ha toccato valori pari a trenta volte il capitale proprio, generando profitti elevatissimi, ma a fronte di rischi altrettanto importanti. Grazie all’aumento dei prezzi delle case che copriva eventuali insolvenze e alla cartolarizzazione che permetteva di ottenere fondi per continuare a concedere mutui, il fenomeno subprime iniziò a crescere esponenzialmente e venivano concessi mutui a chiunque; esemplificativo di questo erano i mutui “No income, No job, nor Asset” (NINJA).

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Figura 1: Evoluzione dei volumi dei mutui subprime

La cartolarizzazione, a causa del funzionamento della Società Veicolo e del comportamento delle istituzioni, ha generato rischi che hanno assunto valenza sistemica, espandendo gli effetti della crisi in tutto il mondo. La Società Veicolo emetteva delle obbligazioni legate ai mutui, cioè raccoglieva denaro sul mercato garantendo il pagamento degli interessi grazie alle rate incassate con i mutui; il guadagno stava nella differenza positiva tra il tasso che pagavano i mutuatari e quello che la Società doveva riconoscere agli obbligazionisti. I titoli cartolarizzati venivano promossi come investimenti sicuri dalle Agenzie di rating, le quali hanno sottovalutato la rischiosità di tali investimenti a causa di:

- un eccessivo ottimismo dovuto alla favorevole situazione economica generale

- complessità e opacità dei titoli cartolarizzati e derivati (MBS, CDO) e quindi incertezza sul loro effettivo valore

- utilizzo spregiudicato di algoritmi matematici per il calcolo del valore di tali strumenti

- creazione di un sistema bancario ombra non regolamentato

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I titoli, essendo promossi come sicuri e comunque redditizi in un’epoca di bassi tassi di interesse, furono comprati dagli investitori di tutto il mondo, causando un elevato rischio sistemico.

Finché tutto funzionava perfettamente le banche e gli investitori facevano enormi profitti e il rischio sembrava distribuito talmente bene da sembrare quasi annullato. Ma a partire dal 2004, i tassi di interesse americani iniziarono a salire come risposta della Fed al ritorno del sistema economico a tassi di crescita elevati in quanto era terminata la fase di recessione di inizio secolo. I mutui di conseguenza diventarono sempre più costosi e qualche cliente, in difficoltà di pagamento, andò in bancarotta. Oltre a questo, a partire dal 2006, l’aumento dei prezzi delle case si fermò e dal 2007 i prezzi cominciarono a calare, facendo registrare perdite sempre più ingenti alle banche che avevano concesso mutui subprime: la “bolla era scoppiata”.

Figura 2: Andamento Indice Case-Schiller

Con i mutuatari che non riuscivano a pagare le case e con la riduzione dei prezzi delle stesse, il flusso dei pagamenti alla base della cartolarizzazione si bloccò in quanto le Società veicolo dovevano pagare gli interessi sui titoli emessi, ma non avevano più entrate con cui farvi fronte. La solidità finanziaria di queste società fu minacciata ed esse furono costrette a svalorizzare i loro titoli per evitare il fallimento. A causa della riduzione del valore di mercato dovuta

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alla diminuzione della domanda di tali titoli, le Società veicolo cominciarono a non guadagnare andando incontro a ingenti perdite. I titoli delle società veicolo erano stati comprati da banche e istituzioni finanziarie di tutto il mondo e quindi la crisi si espanse, poiché la riduzione di valore di questi causò anche per loro ingenti perdite in conto capitale.

L’effetto dei meccanismi sopra descritti si è manifestato già dell’estate 2007, quando la crisi comincia a farsi sentire sui mercati finanziari. BNP Paribas ad esempio sospese il rimborso di tre fondi di investimento di cui non sapeva più calcolare il valore. Le società veicolo, in crisi di liquidità, si rivolsero alle banche creatrici per ottenere le linee di credito loro garantite e anche alcune banche si trovarono in difficoltà e cercarono di finanziarsi ricorrendo al prestito delle altre banche; questo fece salire il tasso di interesse sul mercato interbancario e con esso la sua differenza (Ted spread) rispetto al tasso di interesse sui Titoli di Stato americani. Il Ted spread può essere considerato il termometro della crisi ed infatti salì vertiginosamente dopo l’estate 2007 e rimase costantemente alto per un anno, rialzandosi nel settembre 2008 con il fallimento della Lehman Brothers, evento globalmente considerato come l’inizio della crisi5.

La causa che ha permesso al segmento dei mutui subprime (pari al 3% delle attività finanziarie USA) di provocare una crisi all’intero sistema finanziario mondiale è stata la crisi di fiducia. Con le perdite sui titoli legati ai mutui, il mondo della finanza si è reso conto del fatto che anche titoli comunemente considerati sicuri, potevano in realtà risultare molto rischiosi.

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Figura 3: Andamento del Ted Spread

Questo ha determinato una crisi di fiducia nel sistema finanziario e le banche cominciarono a non fidarsi più tra di loro e smisero di prestarsi i soldi sull’interbancario: si scatenò una crisi di liquidità.

In condizioni normali se una banca ha bisogno di pagare dei creditori e non ha fondi, può risolvere la carenza di liquidità prendendo soldi sul mercato interbancario o sui mercati finanziari. A causa della crisi di fiducia però, negli anni della crisi, le banche si ritrovarono senza soldi e la carenza di liquidità si trasformò in una crisi di liquidità e per risolverla e continuare ad operare regolarmente gli intermediari cominciarono a vendere le attività liquidabili, cioè le azioni e le obbligazioni, determinando un abbassamento del loro valore, causato dell’eccesso di offerta. La caduta del prezzo delle attività causò un crollo delle borse, il quale peggiorò ulteriormente i bilanci delle banche. Oltre allo smobilizzo dell’attivo le banche in crisi cominciarono a ridurre i prestiti alle famiglie e alle imprese, così la crisi da finanziaria divenne anche reale6.

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Le perdite legate ai mutui subprime e la spirale della crisi di liquidità hanno messo in ginocchio molti istituti finanziari, alcuni anche molto importanti, tra questi:

- Lehman Brothers che è fallita

- Merrill Lynch che è stata inglobata da Bank of America

- AIG, Fannie Mae & Freddie Mac sono finite in amministrazione controllata dello Stato

- Bear Stearns è stata acquisita da JP Morgan - Fortìs è stata salvata dai governi del Benelux - Northern Rock è stata salvata dal Governo inglese

Di quest’ultimo andrò ad analizzare, nel seguente paragrafo, le cause che hanno portato alla crisi di liquidità e al conseguente e necessario intervento del Governo.

II,2 Un caso particolare: Northern Rock e la crisi di liquidità

Northern Rock nacque, a Newcastle, dalla fusione di due building societies (Northern e Rock) e dalla incorporazione di istituzioni omologhe di taglia minore, per un totale di 53. Le building societies erano una forma istituzionale di tipo cooperativo, con un modello di business focalizzato sul finanziamento ipotecario dell’acquisto dell’ abitazione per classi sociali meno abbienti. Nella cooperativa dunque si associavano i risparmiatori desiderosi di acquistare la proprietà della casa, i quali si impegnavano a sottoscrivere un piano pluriennale di accumulo di risparmio al termine del quale maturavano la facoltà di richiedere un mutuo ipotecario proporzionale al risparmio accumulato. I tassi di interesse pagati sui risparmi accumulati e quelli applicati sui mutui, andavano a definire uno spread sufficiente a coprire i costi operativi aziendali e il costo della raccolta ulteriore, necessaria per il funding dei mutui. La tipologia di cooperativa, prescindendo da finalità di profitto, si prefissava come attività di interesse sociale e quindi era assistita da incentivi pubblici. Nel 1997 la Norther Rock, compì la scelta di abbandonare la forma mutualistica ritenendo di poter più rapidamente

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sviluppare un diverso modello di business, pur sempre elettivamente mirato al finanziamento ipotecario delle abitazioni, ma in condizioni di maggiore efficienza dinamica. La banca assunse la forma istituzionale di private limited company, e si quotò sul mercato regolamentato. A posteriori tale scelta appare influenzata da alcune tendenze di fondo, come l’orientamento politico favorevole alla privatizzazione e alla forma istituzionale della società per azioni. L’azionariato della banca era molto diffuso, circa 180 mila soci, di cui molti dipendenti e questo ha avuto una certa influenza nella crisi che colpì l’istituto.

Fin dai primi anni ’90 Northern Rock perseguì un duplice obiettivo di crescita dimensionale (totale attivo e quota mercato) e di redditività per l’azionista, pur configurandosi sempre come una banca specializzata nel segmento del credito a lungo termine, prevalentemente in forma ipotecaria. Inoltre il top management della banca perfezionò il modello di business con formule di franchising che si realizzarono sia con l’apertura di canali esterni (brokers), sia con la raccolta di depositi mediante canali terzi (il sistema postale) e, in conseguenza del fatto che il funding risultava essere il vincolo più stringente alla crescita, i manager misero in atto una politica di raccolta fondata su un’innovativa ingegnerizzazione del passivo. Infatti, molto rapidamente, la raccolta diretta e indiretta dei depositi venne integrata con operazioni sistematiche di cartolarizzazione, con l’emissione di covered bonds e il ricorso a forme di finanziamento wholesale (all’ingrosso) sul mercato interbancario e in altri segmenti del mercato monetario, prevalentemente con scadenze a breve. Il periodo 1997-2006 per la banca fu un periodo di successi, infatti riuscì ad occupare la quinta posizione tra le banche che finanziavano le proprietà dell’abitazione. Inoltre la qualità del credito era elevata in quanto la banca escludeva tassativamente il segmento subprime e adottava criteri prudenziali; infatti il rapporto medio, nel 2007, fra nuovo credito concesso e valore della garanzia ipotecaria era il 79%. La struttura del passivo presentava un rilevante impiego dello strumento della cartolarizzazione degli attivi creditizi, peraltro secondo modalità molto trasparenti e tradizionali e inoltre gli amministratori dichiararono precise modalità e procedure di controllo del liquidity risk secondo

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le regole stabilite dal Financial Services Autorities (Fsa). Questo per dire che Northern Rok veniva considerata un caso esemplare e veniva lodata e imitata.

Nell’agosto 2007 cominciarono i primi dissesti nel sistema finanziario britannico: Barclays Bank fu costretta a ricorrere al finanziamento overnight della Bank of England per 1,6 miliardi di sterline, a causa della possibilità di perdere centinaia di milioni sulle sue esposizioni verso investimenti strutturati. Il presidente della Barclays fece pubblicamente appello alla Banca Centrale affinché questa rendesse disponibile agli intermediari una maggiore liquidità, annunciando in questo modo che la banca avrebbe fortemente ridotto la sua esposizione come datore di fondi sull’interbancario. Northern Rock era tra gli abituali prenditori di fondi su questo mercato, infatti il suo non-retail funding (15% del passivo) aveva in prevalenza scadenza a breve e continuo bisogno di rinnovo e c’era chi diceva, non ufficialmente, che proprio la Barclays fosse datrice della Northern Rock.

Gli eventi si successero rapidamente e Northern rock venne colpita da una crisi di liquidità repentina e letale. Il 14 settembre 2007 (un venerdì) la banca, non riuscendo più a mantenere l’equilibrio dei flussi di tesoreria, stipulò con Bank of England un accordo per potersi provvedere di liquidità sia in contropartita di garanzie, sia con linee di credito utilizzabili con la consegna di asset pronti contro termine. Contestualmente la notizia venne rilasciata da Bank of England, la quale si era fino a quel momento dichiarata contraria all’immissione di nuova liquidità nel sistema bancario e la sequenza degli eventi che si creò fu significativa:

Sabato 15: i depositanti di Northern Rock fecero la coda per ore davanti agli sportelli ritenendo che i loro risparmi fossero a rischio di illiquidità.

 Domenica 16: i clienti tentarono di chiudere i conti, trasferendone il saldo, con le procedure online, ma non vi riuscirono perché il sito web della banca venne sopraffatto e bloccato dalla numerosità e dalla frequenza degli ingressi.

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Cancelliere Darling annunciò che il governo avrebbe garantito tutti i depositanti della Northern Rock.

 Martedì 18; diminuirono le code agli sportelli ma non cessò la

propensione al prelevamento poiché la durata indeterminata e discrezionale della garanzia creò non poche perplessità

Mercoledì 19: la Bank of England capovolse la sua precedente

dichiarazione di avversione a una politica interventista e promise di immettere 10 miliardi di liquidità nel sistema bancario.

Giovedì 20: il Governatore della Bank of England, Mervyn King,

giustificò il suo comportamento davanti ad una apposita commissione del Tesoro.

Venerdì 21:il presidente del Financial Services Autorities (Fsa), Callum McCarthy, rese noto che il regolatore avrebbe aumentato la vigilanza e il controllo dei mercati di Londra7.

Nella vicenda descritta è importante sottolineare che la Fsa confermò ufficialmente che Northern Rock era economicamente solvibile, che disponeva di un patrimonio superiore alla soglia richiesta e che aveva un portafoglio crediti di elevata qualità. La garanzia del Tesoro venne estesa a tutte le passività non garantite della banca, come se avesse concesso un credito di firma a scadenza indeterminata, infatti garantiva non solo i depositi in essere al 14 settembre 2007, ma anche le passività future e quelle all’ingrosso compreso il prestito della Banca Centrale. A posteriori è stato rilevato che sarebbe stato più giusto e trasparente nazionalizzare l’intera proprietà e non solo le passività di Northern Rock.

Le possibili soluzioni per la gestione della crisi erano tre: la nazionalizzazione di Norhern Rock, l’acquisto della stessa da parte di nuovi soggetti economici e la liquidazione della banca. La prima, anche se invocata da molti, non fu giudicata realistica alla luce di considerazioni politiche e regolamentari. Il Governo laburista non voleva esporsi alla critica dei conservatori e inoltre tale provvedimento avrebbe dovuto superare non pochi

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ostacoli in sede comunitaria, stante il principio fondante dell’Ue che i singoli stati non devono sussidiare l’attività di impresa. La seconda, cioè la vendita a nuovi soggetti economici, apparve poco realizzabile fin dall’inizio, in quanto l’interesse all’acquisto si rilevò tiepido e subordinato a condizioni inaccettabili. La terza, cioè la liquidazione, non è mai stata presa in considerazione e i motivi non si comprendono. Alla luce delle dichiarazione delle autorità sul valore positivo del patrimonio netto della banca, una liquidazione mediante la cessione, anche graduale, di asset di buona qualità avrebbe generato introiti adeguati al rimborso delle passività e al pagamento di un valore residuo agli azionisti. Gli effetti negativi di una liquidazione sarebbero stati: l’aumento della disoccupazione, la distruzione di un valore di avviamento e la distruzione dell’infrastruttura finanziaria in una regione bisognosa di una specifica attenzione sociale. Dopo svariati tentativi di soluzione della crisi e dopo che l’impegno pubblico aveva raggiunto la cifra stratosferica di 25 miliardi di sterline di finanziamento e circa 30 miliardi di garanzia del Tesoro (corrispondenti a 1000 sterline per cittadino), il 17 febbraio 2008 il Governo britannico decise di nazionalizzare la Northern Rock, dichiarando esplicitamente che la nazionalizzazione sarebbe stata temporanea e che l’azionista pubblico non avrebbe interferito nella gestione. Sul prezzo da riconoscere agli azionisti c’era chi diceva che il Governo non avrebbe dovuto pagare nulla poiché senza l’intervento pubblico la banca sarebbe fallita mentre altri pensavano che un prezzo doveva essere riconosciuto poiché il valore del patrimonio netto non era distrutto e la banca si trovava in una insolvenza tecnica e non economica8.

Il Governo, scegliendo tardivamente la soluzione della nazionalizzazione si era messo in grande difficoltà e la temporaneità rendeva ancora più complicata la sua posizione, in quanto alla fine del periodo temporaneo lo Stato si sarebbe trovato nuovamente a scegliere tra vendita e liquidazione e quest’ultima non sarebbe stata percorribile poiché non sarebbe stato facilmente sostenibile l’intento di un governo che nazionalizza per liquidare. La vendita quindi sarebbe

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stata l’unica strada percorribile. Nel 2010 la banca fu divisa in due, una parte raggruppò i titoli tossici e l’altra quelli buoni e nel 2011 il Governo di Londra cedette il ramo “buono” della Northern Rock a Virgin Money per un totale di 897 milioni di sterline (747 subito e 150 in sei mesi). La cifra fu quindi di circa 650 milioni in meno rispetto a quanto fu pagato dallo Stato e questo fu duramente criticato dai contribuenti9.

Le cause del dissesto della banca inglese si trovano anche e soprattutto nel modello di business che aveva intrapreso. Northern Rock aveva infatti realizzato una particolare architettura del passivo, al fine prioritario di allentare i limiti che il funding tradizionale imponeva alla strategia di sviluppo rapido dell’attività di finanziamento. La crescita dei depositi retail non era in grado di mobilitare risorse adeguate quindi la banca fece ampiamente ricorso alla tecnica della cartolarizzazione, alle emissione dei covered bonds e sopratutto alla modalità del

non-retail funding, cioè di tecniche di finanziamento all’ingrosso e

prevalentemente a breve in contropartita di banche di altri soggetti del mercato monetario. Poiché la cartolarizzazione e i covered bonds presupponevo l’esistenza di crediti già erogati, l’erogazione di nuovi crediti doveva necessariamente essere finanziata mediante tecniche di funding come i depositi al dettaglio e l’indebitamento all’ingrosso. L’errore del top management della banca si innescò proprio su quest’ultima forma di raccolta: confidando nella stabilità del non-retail funding a breve, ampiamente confermata dal continuo rinnovamento delle posizioni debitorie, il top management non ha rispettato le condizioni tecniche dell’equilibrio fisiologico della trasformazione delle scadenze e ha fatto ricorso crescente al finanziamento a breve per uno stabile finanziamento di crediti a lunga scadenza. I finanziamenti all’ingrosso sono per definizione meno stabili di quelli al dettaglio e infatti i finanziatori sono stati tempestivi nel revocare il credito riducendo i depositi retail a una condizione di liquidità, con l’aggravante che la maggior parte degli assets era stata

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Maisano L., Norher Rock torna privata, passa a Virgin Money per un milardo di sterline, Il Sole 24 Ore, 17 sett 2011

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formalmente segregata, cioè separata e riservata a favore dei sottoscrittori delle notes derivanti dalla cartolarizzazione e dei covered bonds. Lo shock esogeno di illiquidità (market liquidity risk) di cui ho parlato precedentemente non ha consentito il rinnovo o il rifinanziamento delle posizioni debitorie all’ingrosso e a breve (funding liquidity risk) e Norhern Rock fu costretta a ricorrere al rifinanziamento della Bank of England. In conclusione la crisi di liquidità irreversibile della banca è nata dal concorso di quattro cause:

 la fragilità della struttura del passivo, anche in relazione all’attivo

 l’eccezionalità dello shock esogeno

la limitatezza degli asset utilizzabili per la richiesta di finanziamento alla Banca Centrale

 la pubblicità dell’intervento di quest’ultimo che ha causato la crisi di fiducia

Il salvataggio delle banche e delle istituzioni finanziarie in generale è stato necessario per salvaguardare l’esistenza del sistema finanziario stesso e di conseguenza per evitare il collasso dell’intero sistema economico. Le Banche Centrali, con la crisi di liquidità in atto, sono intervenute riducendo i tassi di interesse e mettendo in atto espansioni monetarie importanti per facilitare la concessione del credito. Questa politica ha contribuito a stabilizzare il sistema finanziario e creditizio ma non è stata sufficiente in quanto le banche hanno trattenuto presso di loro la liquidità immessa, senza destinarla all’economia reale. Questo fatto, insieme alla ben nota incapacità della politica di stimolare la domanda in fase di recessione, ha reso necessario che i governi intervenissero nei mesi in cui la crisi si è aggravata (2008). I Governi sono intervenuti fornendo garanzie ai depositanti e ai possessori di titoli bancari e ricapitalizzando le banche in difficoltà o addirittura nazionalizzando. Il piano di salvataggio del Governo italiano è stato di dimensione relativamente minori rispetto ai piani del Governo Usa e Inglese, poiché le perdite sono state minori e le nostre banche hanno cartolarizzato pochi mutui subprime.

Uno dei fattori che ha incrementato gli effetti della crisi è stata anche la regolamentazione e la vigilanza che operavano in quegli anni. Basilea II si è

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mostrata inefficace a fronteggiare periodi di tensione dei mercati. Nel seguente paragrafo andrò ad analizzare le debolezze di Basilea II e dove Basilea III è intervenuta per cercare di colmare tali lacune.

II,3 Le debolezze di Basilea II

La profonda crisi scoppiata nell’estate del 2007, che ha colpito in modo devastante i mercati finanziari internazionali e l’economia reale, ha posto in evidenza la stringente necessità di una completa revisione del sistema di regolamentazione.

A livello globale il sistema regolamentare inerente l’attività bancaria e la gestione dei rischi non è stato in grado di scongiurare il pericolo di crisi sistemiche né di attenuare, almeno parzialmente, gli effetti da queste derivanti. In particolare, la normativa di vigilanza prudenziale allora vigente, conosciuta come Basilea II, è stata identificata come una della cause principali che hanno portato allo scoppio della crisi e al propagarsi dei suoi effetti all’economia reale.

In realtà Basilea II e il suo sistema di requisiti patrimoniali imposti alle banche costituiva un valido impianto regolamentare e ha prodotto effetti positivi fino allo scoppio della crisi. La ragione della fragilità è da ricercare in una serie di fattori intervenuti sul mercato finanziario negli anni immediatamente precedenti la crisi finanziaria. Essi possono essere individuati nell’eccessiva fiducia delle banche circa il buon andamento del mercato, nella smisurata assunzione di rischi derivanti dall’operatività nel settore dei mutui subprime e nella valutazione errata della rischiosità delle attività in portafoglio. Inoltre le Autorità di vigilanza statunitensi non esercitavano un controllo severo ed efficace sull’attività finanziaria condotta dagli intermediari operanti sotto la loro giurisdizione.

La normativa di Basilea II non può essere considerata responsabile della recente crisi finanziaria in quanto se non ci fosse stata, le istituzioni bancarie sarebbero fallite molto tempo prima e le dimensioni della tensione monetaria sarebbero state maggiori. Al contrario, il requisito patrimoniale imposto

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dall’Accordo si è rivelato troppo sottile per salvaguardare un sistema finanziario in rapida espansione.

L’Accordo, approvato nel giugno 2004 ed entrato definitivamente a regime dal gennaio 2008, era stato concepito con l’intento di non discostarsi troppo dalle precedenti disposizioni e prevedeva un esteso periodo di uniformazione fra i Paesi firmatari.

Per di più la sua applicazione non aveva ricevuto la necessaria omogeneità in quanto gli Stati Uniti, origine della crisi e centro di propagazione degli effetti recessivi, si sono mostrati alquanto riluttanti verso una disciplina molto più rigorosa del tradizionale ordinamento riservato agli intermediari finanziari operanti nel loro territorio e hanno limitato l’adozione dei nuovi provvedimenti a un ambito ristretto del settore. Non a caso, tre dei più eloquenti episodi di dissesto bancario, verificatisi a monte della crisi, hanno riguardato istituzioni finanziarie di grande rilievo internazionale, quali Lehman Brothers, Northern Rock e Bear Stearns che non facevano uso dei principi regolatori di Basilea II.

Potrebbe quindi risultare assai semplicistico imputare a un impianto normativo in via di sviluppo e ancora in fase di applicazione, le responsabilità di un evento dalla genesi molto più complessa.

Le uniche mancanze eventualmente riconducibili all’operato del Comitato per la vigilanza bancaria e al risultato del suo lavoro, potrebbero essere rintracciate nella tempistica di produzione e pubblicazione dell’Accordo di Basilea II, che poteva essere approvato e reso operativo con largo anticipo rispetto a quanto avvenuto, anche alla luce dell’accresciuta complessità dei mercati finanziari dovuta alla comparsa di nuovi e articolati strumenti finanziari. In questo modo gli operatori finanziari avrebbero dovuto dotarsi tempestivamente di tecniche efficaci di misurazione e monitoraggio del rischio, con cui contrastare a monte l’insorgere di situazioni di difficoltà soggettive e sistemiche.

In aggiunta, Basilea II limita la trattazione di alcuni rischi bancari, tra cui il rischio di liquidità, a un livello meramente qualitativo senza giungere a prescrizioni regolamentari di tipo quantitativo.

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Il Comitato per la vigilanza bancaria, preso atto del problematico contesto di difficoltà e incertezza, ha provveduto, attraverso l’intensificazione della sua continua attività di consultazione ed elaborazione di proposte, alla stipulazione di un nuovo Accordo regolamentare nell’ottica di un incremento dell’affidabilità delle singole banche e dell’intero sistema e della promozione di un equilibrio solido tra progresso finanziario e crescita sostenibile. Basilea III, approvato il 12 settembre 2010 dal Comitato dei Governatori delle Banche Centrali ed entrato in vigore l’1 gennaio 2013, si propone, in seguito al sopraggiungere della crisi, di ridefinire gli aspetti fondamentali della struttura normativa vigente e di sviluppare un sistema finanziario più prudente, capace ad affrontare le crisi da una posizione di maggiore solidità.

Come ho già scritto Basilea III nasce come rimedio alle lacune normative di Basilea II che sono hanno riguardato questi argomenti che andrò di seguito ad analizzare:  capitale  leverage  prociclicità  rischio di mercato  rischio di liquidità

Per quanto riguarda il capitale le debolezze non riguardavano la quantità di capitale o il rapporto tra esso e le attività ponderate per il rischio, ma la qualità. Molte delle banche che hanno sofferto durante la crisi, da un punto di vista formale di rispetto del requisito di vigilanza, non erano accusabili di inadempienza circa il coefficiente patrimoniale complessivo (Patrimonio di vigilanza(PV)/Risk Weighted Assets(RWA)>=8%10) e questo significa che il problema stava nella composizione del capitale. Gran parte del PV era infatti costituito da strumenti ibridi o innovativi i quali erano strumenti di debito a medio-lungo gravati da particolari clausole che, nell’ottica della vigilanza, erano assimilabili al capitale, ma che nella pratica rimanevano strumenti di debito.

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Infatti raramente gli intermediari esercitavano queste clausole, in quanto tali strumenti erano principalmente sottoscritti da investitori istituzionali che quindi non volevano rimanere “prigionieri dell’investimento”. Inoltre, se una banca avesse esercitato le clausole avrebbe potuto subire un danno alla reputazione con la conseguenza di creare ostacoli alla raccolta futura. Il patrimonio di vigilanza delle banche era quindi formato in buona parte da strumenti non equity.

Un’altra debolezza è stata quella della leva finanziaria. Per gli intermediari finanziari e in particolar modo quelli bancari sembrava un problema minore perché le banche si sono sempre mosse con un elevato grado di indebitamento. Solitamente gli intermediari bancari hanno una struttura finanziaria fortemente sbilanciata verso l’indebitamento, cioè tutta quella raccolta presso il pubblico e quindi il passivo ha carattere meno permanente ma fortemente incentrato su quelle che sono le risorse acquisite a titolo di debito. Molte banche però, non essendoci vincoli alla leva finanziaria, si sono indebitate in maniera eccessiva e durante la crisi questo ha causato grande instabilità.

Basilea II era fortemente prociclica, cioè accentuava le fasi del ciclo economico. L’ impianto regolamentare di Basilea II era costruito in modo tale da prevedere che l’adeguatezza del capitale delle banche fosse fortemente risk sensitive, come nel caso dei modelli di rating, e le banche infatti potevano calcolare il requisito patrimoniale avvalendosi di più metodologie: quella standardizzata, basata sui rating esterni, cioè fatti da agenzie apposite, o quella avanzata, basata sui rating interni, cioè determinati in modo autonomo dalle banca stessa. Le metodologie avanzate erano fortemente risk sensitive, ovvero in grado di comprendere l’effettiva esposizione al rischio dell’intermediario, capire in modo più dettagliato quale fosse l’esposizione al rischio dell’intermediario e dunque determinare con maggiore precisione quale fosse il capitale adeguato ai rischi che si sarebbero potuti manifestare. Un impianto normativo così determinato era portato ad assecondare il ciclo economico, indicando dotazioni patrimoniali ingenti in periodi di crisi e minori in momenti di congiuntura positiva. A livello microeconomico e quindi di singolo intermediario questa ottica può risultare valida perché mantiene la sana e prudente gestione. Ma livello

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macroeconomico un impianto fortemente risk sensitive può portare al credit crunch cioè al blocco del credito. Questo perché in momenti di congiuntura economica negativa la banca inizia a percepire un alto rischio che porta ad accantonare più capitale. Ai momenti negativi l’intermediario poteva reagire in due modi: accettare il rischio, ma doveva necessariamente aumentare anche il capitale per mantenere l’indicatore PV/RWA maggiore o uguale all’8% oppure ridurre i volumi di credito concessi e se tutte le banche utilizzassero questa seconda modalità si determinerebbe il blocco del mercato con una forte ripercussione sull’economia reale. Basilea II dunque non guardava al sistema bancario ed economico nel suo complesso.

I rischi di mercato sono quelli che si legano all’attività di intermediazione finanziaria, una componente dell’attività bancaria che è finalizzata a garantire esigenze di liquidità e di redditività e può essere posta in essere dall’intermediario per accrescere i propri risultati economici piuttosto che monetizzare e quindi a far fronte a quelle che sono le esigenze di liquidità. Nell’andare a sviluppare un’attività di intermediazione finanziaria la banca si espone a determinate opportunità ma anche a determinati rischi i quali devono essere valutati e quantificati e la crisi ha mostrato che la metodologia di quantificazione non era appropriata. Una delle cause di questa inappropriatezza è stato il framework regolamentare, in quanto Basilea II non ha portato migliorie o adattamenti, ma si è limitata a rispettare l’emendamento sui rischi di mercato del 1993. Questo si è dimostrato inadeguato alle caratteristiche del mercato e alle innovazione finanziarie presenti negli anni della crisi.

Il rischio di liquidità è già stato descritto in altre parti di questo scritto e nel prossimo paragrafo andrò ad analizzare come Basilea II trattava il rischio di liquidità e le debolezze che hanno portato al profondo cambiamento che si è verificato con Basilea III.

Basilea II prevedeva una politica di governo del rischio di liquidità nel II pilastro, dove vi erano delle disposizioni che richiamavano l'attenzione degli intermediari ad una sana e prudente gestione della liquidità attraverso due strumenti: uno di quantificazione della posizione finanziaria netta, e uno

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