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Sull'automa e l'animarsi dell'inanimato. Un percorso nelle fiabe di Hans Christian Andersen

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTODI

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ILOLOGIA

, L

ETTERATURAE

L

INGUISTICA

Corso di Laurea Magistrale in Italianistica

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NDERSEN

RELATORE CANDIDATA Prof. Sergio ZATTI Alessia PELLEGRINI CONTRORELATORE

Prof. Stefano BRUGNOLO

(3)

I

NDICE

INTRODUZIONE...

CAPITOLO I. STATUE, GIOCATTOLI, AUTOMI: DALMIRABILEALL'ARTIFICIO... 1.1 L'automa da mito a storia... 1.2 Orologi, automatismi e giocattoli tra XVIII e XIX secolo... 1.3 Robot e androidi, nuovi automi del XX secolo...

CAPITOLO II. L'ANIMARSI DELL'INANIMATOINLETTERATURA... 2.1 Un nuovo tipo d'inquietudine, il Perturbante di Freud... 2.2 L'aspetto rassicurante dell'irrazionale: Il mondo incantato di Bettelheim... 2.3 Una definizione autonoma per il fantastico letterario... 2.3.1 Gli statuti del soprannaturale di Francesco Orlando...

CAPITOLO III. SIRENETTE, SOLDATINIEUSIGNOLIMECCANICI.

EPIFANIEDELSOPRANNATURALENELLEFIABEDI HANS CHRISTIAN ANDERSEN... 3.1 «La vita è la fiaba più bella». Pregiudizi e poetica dell'ibridazione... 3.1.1 Alle soglie del meraviglioso. Tre tipi di animazione nelle fiabe... 3.2 Tra natura e artificio... 3.3 In bilico tra sogno e realtà... 3.3.1 Nel cuore del fiabesco... 3.3.2 La tentazione di esistere... 3.4 Vite impossibili... 3.4.1 La Sirenetta... 3.4.2 L'ombra... CONCLUSIONE... BIBLIOGRAFIA...

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C

APITOLO

I. S

TATUE

,

GIOCATTOLI

,

AUTOMI

:

DALMIRABILEALL

'

ARTIFICIO

1.1 L'automa da mito a storia

Il mito dell'automa è uno dei più antichi e fecondi, in grado di entusiasmare l'uomo fin dai primordi della civiltà e, allo stesso tempo, di perpetuare il proprio fascino nei secoli, arrivando a varcare le soglie della modernità e dell'immaginario contemporaneo. Nelle sue variegate sfaccettature, il complesso di statue semoventi, mirabili congegni e strumenti meccanici, anima vivacemente la mitologia greca, che può vantare una ricca tradizione di automi e marchingegni: dal mito di Pigmalione, che inaugura il tema dell'animarsi della statua, alle stupefacenti creazioni di metallo del fabbro Efesto1, tanto eccezionali da sembrare dotate di vita propria, fino alle

invenzioni di Dedalo e degli Argonauti, che fabbricano un cane artificiale a guardia alla propria nave. L'animismo dei primi automi si colloca a metà tra l'artificiale e il naturale, oscillando tra una connotazione puramente meccanica e una più ambigua, che rimanda al campo della physis. In questa seconda accezione, la statua o il congegno semovente appaiono dotati di vita propria non in virtù dei meccanismi che in essi operano, ma grazie a una scintilla intrinseca alla materia stessa da cui sono plasmati:

Le immagini conservano costantemente un certo grado di ambiguità che le fa apparire da un lato come semplice oggetto materiale, dall'altro tende ad assimilarle all'oggetto rappresentato.2

Questa ambiguità dell'automa, che lo pone in bilico tra prodotto artificiale e creatura naturale, costituisce una costante che trascolora dal mondo mitico a quello della realtà storica, fornendo un fondamentale paradigma interpretativo del fenomeno. Tale oscillazione ricalca a sua volta due divergenti atteggiamenti di fronte al folto panorama mitico e storico che vede come protagonisti gli automi: da una parte l'interesse dal punto di vista filosofico, fecondo e costante attraverso i secoli; dall'altro l'attenzione per i risvolti tecnici, spesso tralasciati o sottovalutati. Molto diffusa, infatti, è la tendenza a classificare questo prodotto dell'ingegno umano alla 1 Agli straordinari automi partoriti dalla fucina di Efesto è dedicato un intero capitolo in M.

PUGLIARA, Il mirabile e l'artificio. Creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli

antichi, L'«Erma» di Bretschneider, Roma 2003, pp. 79-113.

2 C. BRILLANTE, Metamorfosi di un'immagine: le statue animate e il sogno, in Il sogno in Grecia, (a

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stregua di una sterile astrazione, un divertimento fine a se stesso, che, a volte, anziché costituire un tassello sulla strada del progresso tecnologico, ha anzi ritardato il cammino della macchina, corredandola di inutili orpelli, quali l'aspetto antropomorfo o a imitazione di creature naturali, dal momento che:

[…] nell'oggetto artificiale pensato, progettato, voluto e trascritto si coagulano e si cristallizzano origini mitiche e valori simbolici, elaborazioni filosofiche e ideologiche, finzioni economiche e sociali.3

Una voce fuori dal coro è quella di Lucio Russo, che, nel saggio La rivoluzione

dimenticata4, mette in evidenza i rilevanti apporti scientifici del mondo greco e della

civiltà ellenistica, veri antesignani di quella rivoluzione scientifica che sarà detta tale soltanto a partire dall'affermarsi del metodo galileiano e della fisica di Newton. Una prudente via di mezzo è auspicata, invece, dal giurista e filosofo Mario G. Losano, che afferma:

Gli automi non sono né ferrivecchi da soffitta, né anticipazioni dirette dell'odierna robotica: sono le radici della nostra cultura tecnica, inscindibili da quelle della nostra cultura generale.5

Sostenitore di tale posizione è anche Attilio Zanca, il quale riconosce agli automi, accanto a «un'innegabile funzione ludica», una non secondaria «funzione scientifica e tecnica»6.

Tuttavia, come sottolinea Gian Paolo Ceserani, alla base della diffusa diffidenza vi è anche «la tentazione di dividere le invenzioni in «serie» e «non serie»»7,

atteggiamento biasimevole di chi, con troppa superficialità, scinde di netto la teoria dalla pratica, il passatempo «inutile», dalla funzionale creazione meccanica, che pure spesso convissero nella figura del medesimo inventore8. Un discredito storico che ha

influenzato la ricezione della figura degli automi e dei loro creatori tanto da oscurare 3 G. A. FERRARI, Macchina e artificio, in Il sapere degli antichi, (a cura di) M. VEGETTI, Boringhieri,

Torino 1985, p. 164.

4 L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna,

Feltrinelli, Milano 1997.

5 M. G. LOSANO, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Époque, Einaudi, Torino 1990, p.

XIII.

6 A. ZANCA, Il mondo degli automi tra manierismo e secolo dei lumi, in Il mito dell'automa. Teatro e

macchine animate dall'antichità al Novecento, (a cura di) U. ARTIOLI e F. BARTOLI, Artificio,

Firenze 1991, p. 37.

7 G. P. CESERANI, op. cit., p. 12.

8 Si pensi, ad esempio, a Jacques de Vaucanson (1709-1782), inventore e artista francese celebre per aver ideato il primo telaio meccanico, ma costruttore anche di molti automi privi di finalità strettamente pratiche.

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talvolta la fama di ingegni ammirevoli e innovativi, rei soltanto di non aver dato alle proprie invenzioni una destinazione d'uso pratica. È il caso dell'affascinante meccanica araba, erede della Grecia classica e del sapere tecnico alessandrino, in gran parte andato perduto, la quale si concretizza in divertissement che sfruttano giochi d'acqua e di contrappesi, atti a suscitare meraviglia: fontane, barche semoventi per allietare i conviti e orologi meccanici9. Proprio questi ultimi, collocabili a metà

tra l'utile e il desueto, avranno una sorridente fortuna in tutta la lunga tradizione degli automi e, in particolare, nel fervore di innovazione tecnica, pratica e teorica, del XVIII secolo.

Anche in seguito al suo debutto nella storia delle costruzioni meccaniche, l'automa non cessa mai di esistere come potente e affascinante mito, in virtù della sua ambiguità, che lo fa continuamente oscillare tra il piano del naturale e quello dell'artificiale. A dimostrazione di ciò si possono citare non soltanto le frequenti condanne nei confronti dei costruttori, accusati prima di magia e, in seguito, di impostura, ma anche e soprattutto la meticolosa cura posta dagli inventori nel nascondere il meccanismo e le cause tecniche dell'animazione, al fine di preservare l'aura di indefinito stupore che circonda la creazione. Scintilla d'incertezza che anima e nutre la fertile immaginazione letteraria attraverso i secoli, dall'antichità fino ai giorni nostri, anche dopo che il progresso tecnico sembra ormai aver dissipato ogni dubbio sulle dinamiche che stanno alla base dell'automazione.

Proprio in virtù di questa volontaria percezione dell'oggetto animato come dotato di vita propria, spesso gli esperimenti tecnologici si concretizzano in creazioni in cui la funzionalità è secondaria rispetto all'intrattenimento, anche là dove l'intuizione del novello ingegnere anticiperebbe di secoli princìpi meccanici o chimici alla base di fortunatissime invenzioni10. Svago, diletto e mistero religioso sono i campi d'azione

privilegiati delle macchine semoventi dell'antichità e non solo; una scelta dettata anche dal desiderio di sottrarsi a censure e accuse di magia ed eresia, collocandosi volontariamente in un territorio neutrale e innocuo, come quello del gioco fine a se 9 Per approfondimenti sul sapere tecnico ellenistico, Cfr G. A. FERRARI, op. cit., pp. 26-30; per la

meccanica araba, Cfr. M. G. LOSANO, op. cit., pp. 17-38.

10 Un esempio tra tutti è la figura del raffinato ingegnere e teorico Erone, vissuto nel I sec. a.C., genio della meccanica alessandrina, il quale intuisce la forza del vapore e, nei suoi trattati (Meccanica, Pneumatica), teorizza princìpi fisici e chimici alla base del movimento sorprendenti per la loro attualità.

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stesso. Il primo automa «tecnico» è, infatti, la colomba costruita da Archita di Taranto, vissuto nel IV secolo a.C. e ottavo successore di Pitagora, la quale, madre delle creature semoventi, inaugura con i suoi calibrati voli la tradizione degli uccelli meccanici. Volatili zufolanti popoleranno le officine e le menti dei méchanicien, oltre a quelle di poeti e di scrittori, poiché in grado di coniugare in un'unica figura il desiderio di imitazione mimetica, di suono e di movimento: «Gli uccellini canori sono una variante degli automi a sembiante animale, che compiono un'azione. Collegati a vasi o recipienti particolari, con il fluire dell'acqua essi levano un canto articolato, o un cinguettio continuo»11.

Intimamente privilegiati all'interno dell'immaginario poetico di tutti i tempi, gli uccelli godranno di notorietà anche nella loro versione meccanica, tanto da assurgere a simbolo dell'eterna competizione tra scienza e natura, della lotta tra imitazione e suo autentico referente. Si pensi, a questo proposito, al celebre Canard digérateur12

(1739) di Jacques de Vaucanson e alla fiaba L'usignolo (1843-45) di Hans Christian Andersen, due esempi tratti rispettivamente dall'ingegneria meccanica e dal patrimonio fiabesco, che testimoniano, pur nelle loro peculiarità e differenze, il fervore suscitato da un dibattito così complesso e dalle mille sfaccettature filosofiche.

L'aura di fascino misto a terrore che circonda i congegni semoventi raggiunge il suo apice durante il Medioevo, popolato da una folla di automi o presunti tali, miracoli, statue animate e creature esoteriche e affascinanti:

Nelle opere letterarie del Medioevo sono frequenti i riferimenti ad automi prodigiosi. È quasi impossibile dire se si tratti di pura fantasia ispirata a modelli letterari antichi, oppure di esagerate descrizioni di automi effettivamente osservati, oppure ancora di descrizioni fondate su indirette conoscenze degli automi arabi.13

Gran parte di queste mirabolanti invenzioni (mosche di ferro, serpenti meccanici, arcieri capaci di fermare con una freccia l'eruzione del Vesuvio) sono attribuite a un non identificato Virgilio, vescovo di Napoli, probabile fioritura leggendaria che 11 M. PUGLIARA, op. cit., p. 29.

12 L'invenzione è uno dei più famosi e duraturi inganni nella storia degli automi meccanici, poiché sembrava aver riprodotto, con inspiegabile acume per l'epoca, il «mistero» della digestione, ai tempi ancora oscuro in termini scientifici e anatomici. L'ingegnoso bluff venne svelato soltanto un secolo più tardi, nel 1868, grazie allo sguardo acuto di Robert Houdin, durante il restauro

dell'anatra meccanica. 13 M. G. LOSANO, op. cit., p. 51.

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prende le mosse dal poeta latino Publio Virgilio Marone. Altro prodigio della tecnica è considerato l'androide costruito dal filosofo Alberto Magno (1193-1280), una testa parlante che «non stava mai zitta» e che, proprio per questo, sarebbe stata distrutta dall'austero allievo Tommaso d'Aquino14.

Estendendo anche a questo periodo la classificazione che Monica Pugliara presenta in apertura della propria ricerca sulla ricezione letteraria, mitica e iconografica degli automi nell'antichità, è possibile individuare quattro tipologie di animazione degli idoli inanimati:

Ad un primo livello si disporranno quei manufatti che sono considerati e definiti «animati» per la loro perfetta conformità mimetica al modello reale, opere alle quali è attribuita una vita immaginaria e apparente, derivante dalla loro natura di copie fedelissime ai modelli di natura; l'insieme seguente, il secondo, sarà costituito invece dalle cosiddette «statute viventi», idoli che all'improvviso e inaspettatamente possono, per così dire, perdere l'immobilità, e per effetto di un miracolo inspiegato manifestare fenomeni prodigiosi di movimento e di suono. Ad un terzo gruppo appartengono i simulacri che vengono fatti muovere o parlare grazie a espedienti rudimentali, con il solo scopo di ingannare lo spettatore e di indurlo a credere a fenomeni di magia. I cosiddetti automi, infine, le statue semoventi, occupano il grado più alto di questa scala progressiva: […] in essi la ricerca di animazione è compiuta e realizzata in maniera concreta e manifesta.15

Secondo questa prospettiva, gli idoli e le statue animate si appropriano gradualmente di un sempre maggiore grado di mobilità e di più complessi meccanismi interni, in virtù dei quali gli automi abbandonano, secondo un iter progressivo benché non lineare, il campo dei fenomeni soprannaturali e illusori, per approdare a quello delle scienze esatte.

Alle origini della fortuna medioevale dei meccanismi sta proprio la forza del mito, in grado di mettere in relazione i prodigi tecnici col campo della magia e della sacralità. Se, da un lato, infatti, i costruttori dovettero spesso scontrarsi con le accuse di eresia e la minaccia costante della Chiesa, d'altro canto è proprio questo il periodo in cui più che mai l'automa è vivo e fecondo in quanto simbolo. Questi due aspetti, del resto, anziché essere in contraddizione, sono piuttosto intimamente connessi, in quanto è la stessa società medioevale, con le sue paure e superstizioni, a imporsi di mascherare la tecnica con la simbologia. Nella logica di un ritorno del represso ante

litteram, è proprio in un contesto in cui corporalità e materia sono denigrate, in

14 Cfr. M. G. LOSANO, op. cit., pp. 51-53.

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quanto partecipi di istanze diaboliche, che si moltiplicano le richieste di creature artificiali, atte a suscitare nei fedeli terrore e, insieme, insopprimibile ammirazione.

Caso esemplare è quello delle cosiddette «teste parlanti», o «sufflatores»16,

consegnate alla storia a metà tra prodigio tecnico e leggenda. Il mistero esoterico delle teste costruite in ottone, dalle guance gonfie e la bocca nell'atto di soffiare, in grado di emanare terrificanti mormorii, si spiega in realtà, dal punto di vista tecnico, con teorie che risalgono al principio dell'eolipìla di Erone, di cui parla anche Vitruvio. Si trattava, di fatto, di antesignani della macchina a vapore, il cui parlare altro non era che il caratteristico borbottìo emesso dall'acqua che bolle. Isolata dal suo meccanismo, la testa parlante vivrà però di «vita propria», alimentando il simbolo della creatura demoniaca e la fantasia di scrittori e artisti. Parallelamente, il principio fisico che la anima troverà fortunate applicazioni in campo tecnico e sarà sperimentato a più riprese nei secoli successivi. Sintomatico notare come, perfino dopo l'estinzione del loro valore simbolico, tali realizzazioni non rinuncino a una caratterizzazione antropomorfa, con i mantici rappresentati a forma di testa umana.

Altro campo in cui la tecnica può esprimersi al riparo da censure e accuse di blasfemia è quello degli orologi medioevali e dei loro raffinatissimi automi, protagonisti di rappresentazioni e complesse allegorie allo scoccare di ogni ora17.

Particolarmente interessanti le figure degli Jacquemart o Jaquemart18, personaggi o

allegorie costruiti in legno o in metallo, solitamente armati di martello, con cui battere periodicamente la campana dell'orologio, che, a partire dalla metà del XIV secolo, vengono posti sulla sommità di orologi e di cattedrali. A colpire l'immaginazione popolare non sono tanto il gioco di leve e contrappesi che anima queste figure, né la raffinatezza e finalità pratica di una più precisa misurazione del tempo, quanto piuttosto, ancora una volta, il simbolo che gli Jacquemart incarnano. Essi diventano ben presto detentori di qualità superumane, sia fisiche, grazie alla capacità di sopportare imperterriti caldo, freddo e intemperie, sia morali, facendosi 16 Cfr G. P. CESERANI, op. cit., pp. 28-31.

17 Cfr. M. G. LOSANO, op. cit., pp. 54-62.

18 Il nome, di origine incerta, è composto da «Jaque» (Giacomo) e dal verbo «marteler» (martellare) e trova corrispondenza anche in altre culture (Giacomo in Italia; Jack in Inghilterra; Hans nei paesi germanici). Quanto alla simbologia dell'uomo armato, essa sembra far riferimento all'usanza dei soldati di ronda di scandire le ore con richiami e formule fisse.

Cfr. F. BONICALZI, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell'anima, Jaca Book, Milano

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emblema di pazienza, coraggio e perseveranza e, nei secoli successivi, arrivando a essere investiti perfino di virtù patriottiche. A testimonianza della grande fortuna di questi primi complessi automi vi è il loro perpetuarsi nei secoli successivi, a partire dal Rinascimento, periodo in cui i suonatori di campana, miniaturizzati, diventano raffinato ornamento per gli orologi da tavolo. Ma il fascino esercitato dagli

Jacquemart sarà ben più duraturo della loro complessità a livello tecnico, tanto da

venire amichevolmente chiamati per nome dai cittadini e divenire oggetto di canti e filastrocche popolari che arrivano fino ai giorni nostri19.

Se è vero che l'automa in quanto simbolo sopravvive all'obsolescenza delle sue concrete realizzazioni, perpetuandosi attraverso i secoli fino all'immaginario artistico e letterario odierno, d'altra parte è possibile notare come, a partire dal XV secolo, una netta rivalutazione delle arti tecniche accompagni il progredire delle creazioni meccaniche, sempre più svincolate dal loro valore simbolico. È nel '400, infatti, che architetti e inventori riescono ad affrancarsi da censure e travestimenti antropomorfi o zoomorfi, teorizzando e progettando apparati che trovano in se stessi la propria legittimazione a esistere: «L'automa, oggetto di meraviglia perché simula la vita, si fa criterio di scienza e fa svanire ogni sorpresa quando mostra le parti di cui si compone e il meccanismo che «nasconde»»20.

In quest'ottica di rivalutazione del sapere pratico e tecnico, che controbilancia il disprezzo per ogni attività artigianale, di stampo platonico, leve, ruote dentate e meccanismi di ogni genere non devono più celarsi dietro allegorie e sovrastutture filosofiche, ma sono liberi di palesarsi perfino agli alti gradi della società. Accanto alle più note figure di inventori, tra le quali spiccano Leonardo da Vinci, Bartolomeo Campi, Leon Battista Alberti e Brunelleschi, si affacciano ammirati al variegato mondo del progresso tecnico personaggi come Carlo V, grande amante di giocattoli meccanici di ogni genere21, e il Granduca di Toscana Francesco I, nella cui corte

opera Bernardo Buontalenti, autore di raffinate opere d'ingegneria idraulica, tra le 19 Il riferimento è alla filastrocca infantile francese «Frère Jacques», corrispondente al nostro «Fra

Martino». Altro nome degli Jacquemart, infatti, quando essi appaiono in coppia, è quello di

«Martin et Martine». 20 F. BONICALZI, op. cit., p. 37.

21 «[...] passava molto del suo tempo a guardare automi. Dopo pranzo, un esercito di soldatini meccanici marciava sul tavolo, mentre per la stanza volavano uccelli meccanici», M. G. LOSANO,

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quali spiccano le celebri grotte del complesso di Pratolino, nei pressi di Firenze, con i loro raffinatissimi automi e giochi d'acqua22. Per quanto «la metodologia scientifica

rimaneva ben al di là delle possibilità di comprensione degli intellettuali rinascimentali»23, è proprio questo il periodo in cui vengono studiati e in parte

emulati molti elementi della tecnologia alessandrina, penetrati in Europa soprattutto grazie alle opere di Filone ed Erone, o ricostruibili attraverso le illustrazioni contenute nei manoscritti bizantini.

La mimesi della vita e del movimento si svincola completamente da ogni accezione magica o esoterica, per concentrarsi su un rifacimento dettato da metodi analitici e più consapevolmente scientifici. È da questo cambio di prospettiva che hanno progressivamente origine le teorie meccanicistiche della realtà, che, da Cartesio in poi, danno avvio a una graduale dissoluzione del binomio antitetico natura-artificio:

Il XVII secolo sostituì in misura sempre maggiore alla spontaneità della natura le regole del meccanismo, e pervenne così per la prima volta alla vera e propria concezione di una natura retta da leggi, con le quali anche la creazione tecnica deve scontrarsi.24

Fenomeni naturali e macchine artificiali non sono più considerati in competizione tra loro, appartenenti a due ambiti d'indagine distinti e inconciliabili, ma sono anzi intimamente connessi e animati dai medesimi meccanismi. Così Cartesio, ne Les

principes de la philosophie, arriva ad affermare:

Al che l'esempio di molti corpi composti dall'artificio degli uomini mi ha molto servito: poiché non riconosco alcuna differenza tra le macchine che fanno gli artigiani e i diversi corpi che la natura sola compone25.

Unica divergenza è il fatto che, benché sia «uguale [...] il funzionamento, […] nella macchina è visibile e comprensibile ciò che non lo è nel corpo umano»26.

La teoria dell'animale-macchina, che porta, come sua naturale estensione concettuale, a considerare l'uomo stesso, nella sua corporalità, in tutto assimilabile a un automa, si riscatta dal pericolo di censure e condanne, se inserita nella più ampia

22 Cfr E. BATTISTI, L'antirinascimento, Nino Aragno Editore, Torino 2005.

23 L. RUSSO, op. cit., p. 293.

24 F. KLEMM, Storia della tecnica, Feltrinelli, Milano 1959, p. 177.

25 R. DESCARTES, I princìpi della filosofia (1648), Laterza, Roma Bari 1986, p. IV 203

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ottica del dualismo cartesiano27. Col Traitè de l'homme (1664) e la sua celebre

immagine dell'uomo come statua animata, che prospetta più chiaramente la figura di un uomo-macchina, si scatena, però, oltre a una partecipata disputa filosofica, la polemica dottrinale, in accesa difesa del dualismo metafisico anima-corpo.

È a metà del Settecento che il meccanicismo cartesiano torna ad animare il fervido dibattito scientifico e filosofico degli intellettuali e, in particolare, dei materialisti francesi, riportato in auge da L'Homme machine di Julien de La Mettrie, un'opera capace di suscitare, fin dalla sua prima pubblicazione a Leida, in Olanda, nel 1747, grande scandalo. Nella sua opera, La Mettrie unifica res cogitans e res extensa, riducendo entrambe a mera organizzazione della materia. Egli sostiene inoltre che Cartesio avesse già intuito questa verità, limitandosi a teorizzarla per il solo regno animale soltanto per prudenza nei confronti dei teologi. Dal punto di vista sostanziale, dunque, l'uomo non può vantare nessuna superiorità nei confronti di tutti gli altri esseri viventi, dai quali si distingue solamente per una più articolata conformazione anatomica, che lo rende capace di parlare28 e fare filosofia.

Poste le basi per un materialismo che investe ora non soltanto il corpo, ma anche la sensibilità e le passioni, l'uomo non differisce ormai più da una statua dotata di mobilità, sensi e pensiero e ciò sembra essere confermato dalle tante scoperte e teorizzazioni scientifiche del periodo. Parallelamente alla nascita e allo sviluppo di ambiti d'indagine scientifica organizzati con assetti sempre più razionali (come la matematica, la fisica newtoniana, la meccanica celeste, l'elettricità e il magnetismo), sempre più complesso si fa anche il dibattito filosofico, che, dalla fine del XVII secolo in poi, si sposta gradualmente dal pianto ontologico a quello gnoseologico.

Momento imprescindibile nella demolizione del concetto di idee innate e del dualismo cartesiano è la riflessione filosofica di John Locke (1632-1704). Nel suo

Saggio sull'intelletto umano, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1690, il filosofo

britannico riconosce all'esperienza un ruolo fondamentale all'interno del processo 27 Cartesio stesso aveva già difeso le sue teorie dalle accuse di ateismo mosse dal professore di

filosofia Libert Froidmond (Fromondus), amico di Giansenio, nella lettera a Plempius del 3 ottobre 1637. Qui egli precisa come il meccanicismo teorizzato nelle sue opere si possa applicare

esclusivamente ai bruti, poiché, al contrario, le anime (mentes) degli uomini non possono essere ricondotte alla semplice potenza materiale.

28 La capacità di parola, strettamente legata alla facoltà di pensiero, sarà un criterio di distinzione privilegiato nel discrimine tra uomo e automa, all'interno della riflessione teorica e della produzione letteraria.

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conoscitivo. Quest'ultimo, infatti, non si svolge più, come avveniva in Cartesio, interamente nell'ambito dell'intelletto, attraverso l'intuizione e la deduzione di idee «chiare e distinte», ma avviene in modo progressivo, mano a mano che il soggetto entra in contatto con la realtà esterna.

Questa prospettiva rivoluzionaria si apre dunque a uno sguardo in senso lato pedagogico, nella misura in cui considera l'intelletto come un «foglio bianco» su cui vengono registrate di volta in volta nuove esperienze29. Dopo aver confutato il

concetto di «idee innate» nel libro I, in quello successivo, intitolato «Delle idee», leggiamo: «Da dove [lo spirito] si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall'ESPERIENZA»30. Locke fa poi

distinzione tra due fonti delle idee: la sensazione31, che riguarda le idee che

provengono dai sensi, e la riflessione32, inerente a quelle che derivano, invece, dalle

operazioni dello spirito (percezione o pensiero e volizione o volontà): lo spirito «non si scosta di un briciolo al di là delle idee che il senso o la riflessione gli hanno offerto per la sua contemplazione»33.

La dissertazione lockiana sull'intelletto umano sarà ripresa nell'ambito dell'illuminismo francese da Condillac (1715-1780), considerato il maggior teorico del sensismo, a partire dal Trattato sulle sensazioni, pubblicato nel 1754. Qui Condillac si svincola dal magistero dell'empirista inglese, di cui aveva condiviso le posizioni, invece, nel Saggio sull'origine delle conoscenze umane, del 1746. La grande innovazione del sensismo francese sta nel considerare i sensi come unico fondamento della conoscenza, incorporando anche la fase della «riflessione» all'interno della «sensazione»:

Locke distingue due fonti delle nostre idee, i sensi e la riflessione. Sarebbe più esatto riconoscerne una sola, sia perché la riflessione non è altro, al suo principio, che la sensazione medesima, sia perché essa non è tanto la fonte delle idee quanto il canale per il 29 Da parte dei sostenitori delle impressioni innate, infatti, «si suppone che agli uomini non si

insegna, né che essi apprendono nulla de novo» mentre invece «noi acquistiamo idee e nomi per

gradi e apprendiamo la loro reciproca connessione appropriata». Cfr. J. LOCKE, Saggio

sull'intelletto umano, (a cura di) Marian e Nicola Abbagnano, UTET, Torino 1971, p. 82.

30 Ivi, p. 133. I formati corsivo e maiuscoletto sono nel testo.

31 «In primo luogo, quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, trasmettono allo spirito molte percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui nostri sensi. […] Chiamo questa grande fonte […] SENSAZIONE». Ibidem, p. 134.

32 «Ma come chiamo l'altra sensazione, chiamo questa RIFLESSIONE, perché le idee che essa ci dà

sono soltanto quelle ottenute dallo spirito quando riflette in se stesso sulle proprie operazioni». Ivi. 33 Ibidem, p. 148.

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quale queste scaturiscono dai sensi.34

Poco dopo leggiamo: «La sensazione, dopo essere stata attenzione, comparazione e giudizio, diventa quindi ancora la riflessione stessa»35. Per dar conto di questo

processo gnoseologico che parte dai sensi, Condillac ricorre all'immagine della statua che si anima, acquisendo uno per uno i vari sensi (odorato, udito, gusto, vista e infine tatto).

Rappresentazione affine è quella ideata da Buffon (1707-1788) nel paragrafo intitolato Des sens en général36, dove viene descritto il risveglio del «premier homme

au moment de la création […] dont le corps et les organes seraient parfaitement formés, mais qui s'éveillerait tout neuf pour lui-mȇme et pour tout ce qui l'environne». L'intero passo è una parodia della genesi della Bibbia, che Buffon considera alla stregua di un mito. Egli stesso propone un racconto mitologico filosofico, una «récit filosophique», all'interno della quale la fonte di conoscenza non è più l'anima, ma sono bensì i sensi. Il primo uomo, infatti, inizia a percepire la sua «singulière existence» quando apre gli occhi e vede gli oggetti naturali intorno a sé. In un primo momento egli crede che «tout ces objets étaient en moi et faisaient partie de moi-mȇme» e solo attraverso la graduale esperienza degli altri sensi (udito, olfatto e, infine, tatto) si accorge dei «limites» di quella «existence» che prima gli era parsa «immense en étendue». La sensazione tattile dunque assume un'importanza fondamentale non soltanto in quanto permette all'individuo di entrare in contatto col mondo esterno, ma anche perché gli consente di autodefinirsi in qualità di soggetto senziente, svincolato dall'oggetto delle sue percezioni. A sottolineare il ruolo primario del tatto, Buffon scrive: «ma main me parut être alors le principal organe de mon existence».

Il dibattito filosofico e, in particolare, le teorie sensiste sviluppate da Locke e dai materialisti francesi forniscono spunti e suggestioni che verranno ampiamente ripresi in letteratura e nelle arti figurative, con immagini che si arricchiscono di volta in volta di prospettive nuove e aperture al campo del soprannaturale. Tra le riprese letterarie del XVIII secolo basti citare l'opera di Andre-François Deslandes (1689-34 É. B. DE CONDILLAC, Trattato delle sensazioni (1754), parte I, in Aa.Vv., Gli illuministi francesi, (a

cura di) P. ROSSI, Loescher, Torino 1971, p. 246.

35 Ibidem, p. 248.

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1757), Pigmalion, ou la statue animée, del 1741, dove il filosofo francese immagina di costruire una statua animata che vive e attraversa varie fasi e modificazioni di sé. Se l'immagine della statua semovente non è una novità nel panorama teorico e artistico del periodo, inedita è, invece, l'affermazione conclusiva di Deslandes, secondo cui, se l'uomo è macchina, se egli cioè è animato da meccanismi del tutto analoghi a quelli di un automa, anche la statua stessa potrebbe rivelarsi dotata delle medesime facoltà di sensazione e pensiero. Una prospettiva che, fin qui soltanto accennata in toni tra il serio e il faceto, pone le basi di un ben più radicale ribaltamento del paradigma interpretativo, che vede invertirsi i concetti stessi di verità e finzione, copia e originale, uomo e automa. Ciò alimenterà, in letteratura, il fortunatissimo tema delle statue che prendono vita, rispondendo a dinamiche interne del tutto assimilabili a quelle umane: innamorandosi, soffrendo e, nelle più estreme conseguenze, vendicandosi per le offese subite37.

La statua animata, che si lega da un lato al dibattito filosofico sulla conoscenza e dall'altro al versante fantastico della rielaborazione letteraria, gode di una fortuna tale da varcare le soglie del XX secolo, guadagnandosi una menzione nel Manuale di

zoologia fantastica di Borges, nella sezione dedicata ai «Due animali metafisici», in

cui l'autore cita Cartesio e Condillac:

La prima [creatura] è la statua sensibile di Condillac. Descartes professò la dottrina delle idee innate; Etienne Bonnot de Condillac, per confutarla, immaginò una statua di marmo, organizzata e conformata come il corpo di un uomo, e abitazione di un'anima che mai avesse percepito o pensato. Condillac comincia col conferire alla statua un solo senso: l'olfattivo, forse il meno complesso di tutti. […]

L'autore conferirà poi al suo uomo ipotetico l'udito, il gusto, la visione, e infine il tatto. Quest'ultimo senso gli rivelerà che esiste lo spazio e che, nello spazio, lui è in un corpo; i suoni, gli odori e i colori gli saranno sembrati, prima di questo stadio, semplici variazioni o modificazioni della sua coscienza.38

37 Il riferimento è all'opera di Prosper Mérimée, La Vénus d'Ille (1835-1837), racconto fantastico in cui la statua di una Venere, sentendosi investita del ruolo di moglie, prende vita, rendendosi protagonista di un macabro quanto misterioso epilogo, sospeso tra l'amore e il desiderio di vendetta. Nessuno spazio al dubbio, invece, nella ripresa del motivo letterario di Alberto Savinio, nel racconto Flora, all'interno della raccolta Casa, «la Vita» (1943), in cui la storia d'amore tra uomo e statua è autentica, vitale e consapevole. Ripresa maggiormente razionalistica e

introspettiva è, invece, quella operata dalla tragedia di Pirandello, Diana e la Tuda, composta tra il 1925 e il 1926.

Il tema del pigmalionismo, con i suoi risvolti perturbanti e al limite della blasfemia, sarà ricorrente nella letteratura fantastica ottocentesca, inaugurato dall'Elisir del diavolo (1815) di Hoffmann. Cfr. P. PELLINI, Il quadro animato. Tematiche artistiche e letteratura fantastica, Edizioni dell'Arco,

Milano 2001, pp. 15-30.

38 J. L. BORGES, Manuale di zoologia fantastica (1957), (a cura di) F. LUCENTINI, Einaudi, Torino

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Così la letteratura dà il suo personale contributo all'interno di dibattiti teorici e tecnici che, per la loro intrinseca vitalità, si prestano a estendere il proprio campo di indagine ben oltre i confini delle rispettive discipline, aprendosi a rielaborazioni artistiche capaci di riportare in auge, ben oltre i suoi confini cronologici, il lato più esoterico e misterioso dell'animarsi dell'inanimato.

1.2 Orologi, automatismi e giocattoli tra XVIII e XIX secolo

La discussione ideologica che aveva progressivamente esteso il concetto cartesiano di animale-macchina anche all'ambito del comportamento umano trova nel corso del XVIII secolo un riverbero quanto mai fecondo, che arriva a estendere tale modello meccanico non soltanto all'uomo, ma all'intero universo, mosso da un Dio che ne è il ««sublime Orologiaio»39. Sebbene l'espressione leibniziana miri a

descrivere il funzionamento della materia secondo una prospettiva finalistica e non più semplicemente meccanicistica, individuando in Dio la «ragione ultima delle cose» e la «ragione sufficiente» del loro esistere e concatenarsi, più in generale è possibile affermare come:

[…] l'orologio sottrae il paragone con la macchina a qualunque suggestione di finalismo e sottolinea un funzionamento del corpo che nulla deve ad un principio esterno, tanto meno all'anima.40

Ancora una volta è l'orologio, dotato di infallibile e scientifica precisione, ad assurgere a simbolo dell'universo meccanizzato, guadagnandosi un posto d'onore tra le realizzazioni tecniche e avvicinandosi sempre più all'ambito della creazione artistica. Posizione di rilievo che si accompagna a una graduale defunzionalizzazione dell'oggetto in sé, nella misura in cui esso, da semplice strumento di misurazione del tempo, diviene sempre più un elegante cimelio fine a se stesso, spesso ornato di decori e animazioni atte a suscitare raffinata meraviglia.

È nel Medioevo che l'orologio inizia «a essere interpretato come simbolo del meccanismo e, perfino, dell'universo meccanizzato»41, in un contesto storico in cui,

39 L'espressione è leibniziana e si ricava dalla Lettera del 1696, in La monadologia preceduta da una

esposizione antologica del sistema leibniziano, (a cura di) E. COLORNI, Sansoni Editore, Firenze

1935, pp. 120-121. 40 F. BONICALZI, op. cit., p. 17.

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all'esigenza di una più precisa misurazione del tempo, non si accompagna «la necessità di considerare l'orologio un vero strumento scientifico»42. Così l'interesse

verso i costruttori di automatismi in questo campo del sapere tecnico coinvolge profondamente anche la moltitudine dei cittadini, una folla di non professionisti che, anche in seguito, si rivelerà particolarmente sensibile a questo genere di creazioni meccaniche in grado di emulare la vita in modo tanto sorprendente, al punto che è lecito chiedersi «se veramente quel che colpiva lo spettatore di tanti prodigi fosse il fatto tecnico o non piuttosto la rappresentazione»43.

Legittimo dubbio che è possibile estendere, anche a distanza di secoli, alla ricezione di alcuni degli automi meccanici che entusiasmarono il pubblico del XVIII secolo, invenzioni spesso in grado di coniugare sperimentazione scientifica, in particolar modo della medicina e dell'anatomia, con la sempre più diffusa richiesta popolare di raffinati congegni e automatismi. Se da un lato, infatti, un ruolo di spicco nel panorama settecentesco spetta proprio a uno scienziato, il «mécanicien de

génie»44 Jacques Vaucanson (1709-1782), che, con i suoi tre celebri automi, il

flautista, il tamburino e l'anatra meccanica, insieme al più ambizioso e mai realizzato progetto di costruire un uomo artificiale, si colloca all'interno dell'animata querelle fra medici e chirurghi45; d'altro canto il successo di tali «anatomie mobili»46 non è

spiegabile soltanto nei termini di un semplice contributo alle conoscenze scientifiche dell'epoca. Lo stesso Vaucanson, infatti:

Pur volendo costruire delle «anatomies mouvantes», riesce a creare automi spettacolari, che sorprendono per le loro strutture complicate. Se lo spirito è sorprendentemente scientifico, i risultati sono acclamati per la loro capacità di stupire, quasi fossero delle «macchine da baraccone»47.

Ciò è confermato dal trattamento che l'inventore in persona riserva alle sue creature, esibite in vere e proprie mostre e tournée, dal momento che «questi androidi 42 Ivi.

43 Ibidem, p. 42.

44 L'espressione si ricava da A. DOYONE L. LIAIGRE, Jacques Vaucanson, mécanicien de génie,

Grenoble 1967. Per ulteriori approfondimenti sulla figura dell'inventore e scienziato settecentesco Cfr. G. P. CESERANI, op. cit., pp. 61-86 e M. G. LOSANO, op. cit., pp. 86-95.

45 La disputa, scoppiata nel 1730 con la creazione della Società Accademica di Chirurgia, pone tra i suoi massimi interrogativi quello sulla circolazione del sangue e sul funzionamento dell'apparato digerente, che l'anatra di Vaucanson sembrava aver rivelato.

46 A. DOYONE L. LIAIGRE, op. cit., p. 110.

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eran prima di tutto una fonte di guadagno, venivano pensati e progettati tenendo ben presente il gusto del pubblico»48. Fama analoga investe anche altri tre celebri automi,

le bambole meccaniche degli orologiai e meccanici svizzeri Pierre e Henri-Louis Jacquet-Droz, realizzate tra il 1770 e il 1773 e tutt'ora ammirabili nel Musée d'Art et Histoire di Neuchâtel49.

Che il gusto per lo straordinario da parte del pubblico settecentesco non sia limitato soltanto alle creature artificiali, frutto del rapido progredire scientifico, lo dimostra, inoltre, il successo destinato ad altri prodigi dell'epoca, niente affatto o solo in parte ascrivibili al mondo della tecnica. A riprova di ciò basti citare il gabinetto anatomico dell'olandese Frederik Ruysch (1638-1731), il celebre protagonista dell'operetta leopardiana, che, con le sue mummie che «conservano il colorito del volto, senza inaridimenti e senza rughe della pelle, creando così l'illusione di un prolungamento della vita, di una specie di vittoria dell'uomo sulla morte»50 riesce ad

affascinare spettatori di ogni dove, perfino lo zar Pietro I, e a colpire il più ricettivo immaginario letterario e filosofico51.

Altro caso celebre nella storia degli automi «da baraccone» è il cosiddetto «Turco», imbattibile giocatore di scacchi esibito alla corte di Vienna nel 1769 dal barone transilvano Wolfgang von Kempelen (1734-1804), in grado di battere facilmente qualsiasi avversario, correggendone perfino le mosse sbagliate, e di rispondere educatamente in forma scritta, se interpellato52. Nonostante la natura non

meccanica, bensì illusoria, dell'abile musulmano fosse sottolineata dallo stesso von Kempelen, non di meno, intorno all'esotico giocatore, si svilupparono le più svariate congetture, alimentate anche dalla messa in scena del barone stesso che, da parte sua, si premurava di ricaricare periodicamente l'automa e di dargli una parvenza di creatura meccanica. Così, perfino quando, alla fine del Settecento, il trucco venne svelato, rivelando la presenza di un giocatore in carne e ossa nascosto nel meccanismo, la consapevolezza dell'inganno «non diminuì l'entusiasmo che lo 48 G. P. CESERANI, op. cit., p. 110.

49 Cfr. V. MARCHIS, op. cit., pp. 184-188.

50 L. FELICI, L'Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche» e «disperati affetti», Marsilio

Editori, Venezia 2005, p. 158.

51 Cfr. G. LEOPARDI, Operette morali (1827), (a cura di) G. FICARA, Mondadori, Trento 2015, pp.

154-160.

52 A conclusione del capitolo dedicato al «favoloso Turco», Ceserani rileva come esso rappresenti «la prima apparizione storica delle macchine in gara con l'uomo». G. P. CESERANI, op. cit., p. 143.

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circondava», ma anzi «si finì con l'additare nel più tardo scritto di Poe il testo che aveva dissolto il mistero»53.

La richiesta indifferenziata, da parte della massa di fruitori non esperti, di prodigi della tecnica e, allo stesso tempo, di fantocci e marchingegni che della vita conservano solo una parvenza illusoria, mette in evidenza come l'attenzione del grande pubblico si lasci attrarre e imbrigliare in misura privilegiata da quelle manifestazioni del sapere scientifico più eclatanti e atte a suscitare meraviglia. In quest'ottica, i curiosi giocattoli di Vaucanson e di padre e figlio Jacquet-Droz godranno di un grande successo tra i loro contemporanei, divenendo delle vere e proprie attrazioni da mettere in mostra, con il proprio seguito di sbalorditi visitatori.

Questa scrematura nella ricezione del sapere tecnico e delle scoperte scientifiche, ravvisabile, pur con le dovute differenziazioni, anche nel panorama odierno, si può motivare solo in parte con la naturale diffidenza che la moltitudine dei fruitori manifesta nei confronti di tutto ciò che appare troppo complesso o impenetrabile. Alla base del successo massivo degli automatismi vi sono, infatti, due fattori onnipresenti nella storia della loro ricezione, sia da parte di scienziati e filosofi, sia da parte del pubblico popolare, digiuno di nozioni tecniche: la paura e la meraviglia.

Tra loro intimamente connessi, i due stati d'animo che si sviluppano intorno a questi prodigi della tecnica accompagnano l'evoluzione dei meccanismi semoventi in tutte le epoche storiche, modificando di volta in volta le proprie motivazioni. Se, al suo debutto nel panorama mitico e simbolico, l'automa, vero o prefigurato, suscita turbamento in virtù del suo statuto ibrido, a metà tra mondo naturale e artificiale, nel corso della storia esso subisce una progressiva e rassicurante riduzione all'ambito del razionale. Con i fondamentali contributi scientifici del XVIII secolo, gli automatismi dismettono una volta per tutte la maschera del simbolo, appropriandosi di una peculiare dimensione tecnica, in sé legittimata. La meraviglia, dunque, non scaturisce ormai più dal possibile, temuto o a volte auspicato, contatto col mondo del soprannaturale, bensì dall'entusiasmo suscitato dalle sempre più affinate capacità umane, che trovano nei congegni semoventi il loro più sublime grado d'applicazione. Già nel mondo classico:

53 M. G. LOSANO, op. cit., p. 109. Nel saggio breve Il giocatore di scacchi di Maelzel (1836), Edgar

Allan Poe fornirà una spiegazione meccanica del Turco che, pur con notevoli inesattezze, postula alla base del funzionamento dell'automa un concetto simile a quello dell'odierno algoritmo.

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La meraviglia dell'automa o dell'opera meccanica si gioca infatti su tre piani: da un lato abbiamo l'«ammirazione» vera e propria, intesa come coinvolgimento emotivo di chi si pone dinanzi all'automa e lo osserva, […] ha la sua origine nella vista e […] provoca una suggestione. […] In seconda istanza […] la «meraviglia» non pertiene […] all'osservatore, ma riguarda la cosa in sé che merita ammirazione.54

Lo stupore dunque si origina dapprima sul piano psicologico soggettivo del singolo spettatore, che assiste incredulo all'animarsi della statua o del macchinario, e, in seguito, sul piano oggettivo della complessità del meccanismo in sé. Nella prima accezione, che è possibile indicativamente circoscrivere in un arco cronologico che va dalla classicità fino alle soglie del XVI secolo, l'automa è «riconosciuto degno di ammirazione non per la scienza che lo ha costruito, ma per l'ignoranza di chi lo esalta».55

Eppure né l'«automa senza meraviglia»56 di Cartesio, né le dissertazioni dei

materialisti e il progredire delle conoscenze scientifiche nel corso del XVIII e XIX secolo, né, infine, il definitivo disvelarsi dei trucchi alla base dell'animazione di alcuni tra gli androidi più celebri bastano a estirpare definitivamente dall'oggetto tecnologico l'aura di indefinita inquietudine che lo accompagna fin dall'antichità. Perfino nel «razionale e loico» secolo dei Lumi, quando ormai «il «diabbolo», o comunque l'intervento magico non era [...] più richiesto per muovere l'automa» e «l'uomo era e veniva riconosciuto più che sufficiente allo scopo»57, permangono i

germi di un ancestrale timore, che si palesano in episodi storici, come la condanna di Pierre Droz da parte dell'Inquisizione spagnola, sotto l'accusa di arti demoniache, oltre che in gran parte della letteratura romantica.

È proprio in letteratura, infatti, «sede immaginaria di un ritorno del represso» in grado di ridar «credito a tutto ciò che la fantasia arcaica o infantile ha di superato»58,

che il binomio diavolo-macchina subisce uno slittamento decisivo, tanto da fondersi, in ultima istanza, in un concetto identitario: l'artificio della tecnica non desta più 54 M. PUGLIARA, op. cit., p. 10. Il terzo piano a cui fa riferimento l'autrice è quello ludico, legato al

campo semantico del gioco e dello spettacolo e, in particolare, alla figura della marionetta. 55 F. BONICALZI, op. cit., p. 33.

56 Cfr F. BONICALZI, op. cit., cap. 3 «L'automa senza meraviglia», pp. 31-39. Qui viene citata anche la

connessione etimologica tra αὐτὁματον e θαὐματον proposta da ESPINAS, L'organisation de la

machine vivante en Grèce, au IV a.C., in Revue de Mètaphysique et de Morale, 1903, pp. 703-715,

(risorsa online).

57 G. P. CESERANI, op. cit., p. 106.

58 F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità,

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stupore e paura in quanto sede di istanze diaboliche, ma si configura di per sé come incarnazione del Diavolo, suo diretto e fascinoso manifestarsi.

Emblematica è l'autodefinizione, che è in realtà anche una ridefinizione di sé, fornita da Mefistofele a Faust nell'omonimo romanzo di Goethe, composto tra il 1770 e il 1832, in cui egli si presenta come «una parte di quella forza che vuole sempre il male, e sempre fa il bene». In questa risposta enigmatica, che si discosta drasticamente dall'immagine del diavolo delle Sacre Scritture e della leggenda medioevale, Francesco Orlando individua uno dei nuclei centrali dell'opera di Goethe, ovvero l'identificazione del Diavolo con l'aspetto distruttivo dell'edipismo, «quello inteso come soppressione anziché come sostituzione»59 del passato. Nel

mutato scenario della seconda rivoluzione industriale, posteriore alla demolizione, al contempo storica e ideologica, dell'Ancien Régime, Mefistofele sembra incarnare l'ambivalenza del progresso stesso, anticipando con parole quasi profetiche uno dei temi portanti del dibattito filosofico otto-novecentesco, incentrato sugli effetti del capitalismo nella società. In quest'ottica, il Diavolo si pone come imprescindibile momento di demolizione del vecchio, distruttivo ma al contempo necessario per costruire il nuovo, simboleggiato, a sua volta, dall'impulso progressivo e attivo di Faust. Questo doppio movimento, di soppressione e sostituzione, è definito da Orlando con la formula di «edipo accelerato»:

Tra padre e figlio c'è già una tale distanza che per il secondo risultano completamente obsoleti, e dunque inutilizzabili, gli strumenti adoperati dal primo. […] Ad apparire antiquati sono gli attrezzi che servivano al padre, non più solo agli avi.60

Per sottolineare tale distanza si fa riferimento proprio al sapere tecnico, ai concreti strumenti di lavoro dei padri, che diventano dunque il referente materiale di un'obsolescenza dalla portata ben più ampia, in cui, a essere superati, non sono solo «gli attrezzi», ma anche i preconcetti ideologici di una generazione sentita ormai come incommensurabilmente lontana e irrecuperabile.

Se questa lettura del Faust di Goethe ci presenta il progresso tecnologico nella sua ambivalenza, sarà nel corso del XVIII secolo che la macchina rivelerà appieno il proprio potenziale distruttivo, andando a minare i concetti cardine di dignità e 59 F. ORLANDO, Il soprannaturale letterario. Storia, logiche e forme, (a cura di) S. BRUGNOLO, L.

PELLEGRINI, V. STURLI, Einaudi, Torino 2017, p. 60.

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d'identità individuali. Per la prima volta nella storia della tecnica, le conoscenze di scienziati e meccanici, fin'ora prospettate soltanto in via teorica, o sviluppate a uno stadio ancora embrionale, trovano concreta applicazione nella nuova logica di produzione industriale, che fa della meccanica il proprio motore propulsivo. Si avvia così un processo che vede da un lato la condanna del macchinario in quanto strumento di alienazione dell'individuo, dall'altro la minaccia sempre più incombente della tecnologia applicata all'industria bellica, che mostrerà nel corso del Novecento il suo volto più cruento. Significative sono le parole con cui Marx descrive il funzionamento della macchina, ricorrendo a metafore che si riallacciano alla sua simbologia primaria, quella, cioè, inerente il suo potenziale distruttivo e demoniaco:

All'interno della macchina subentra un mostro meccanico, che riempie del suo corpo interi edifici e fabbriche, e la cui forza demoniaca, dapprima nascosta dal movimento quasi solenne e misurato delle sue membra gigantesche, esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro.61

Sono parole che si concentrano non tanto sull'aspetto tecnico interno al meccanismo, ma sugli effetti che esso produce nella percezione di chi assiste al suo mostruoso movimento, la sua «folle e febbrile danza», capace di suscitare, allo stesso tempo, sconcertata paura e profonda ammirazione per le sue facoltà inumane, che sono, in realtà, anche sovrumane. Proprio i concetti di potenza e di velocità saranno centrali nella celebrazione dell'automobile da parte delle avanguardie artistiche e letterarie del XX secolo, che inaugureranno un nuovo mito della macchina, la cui eco arriva sino ai giorni nostri.

Così, nel fervore d'innovazione tecnica che anima il positivismo ottocentesco, orientato inesorabilmente verso un'ottica di produzione e famelica richiesta di beni sempre nuovi, è legittimo chiedersi quale spazio potessero ancora occupare gli automi, frutto di una tecnologia obsoleta e privi ormai anche della loro originaria legittimazione sul piano simbolico:

Questo lezioso automa ottocentesco […] non è neppur più vissuto con significati di ribellione, demoniaci: non è superamento dell'uomo, non è ricerca tecnica, non ha con sé né folle coraggio né propaggini blasfeme.62

Se al graduale venir meno del successo settecentesco delle creature di Vaucanson 61 K. MARX, Il capitale (1867), trad. it., Einaudi, Torino 1978, libro I, sez. IV, cap. 13.1, pp. 455-456.

Il corsivo è mio.

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e degli Jacquet-Droz sembra accompagnarsi «il declino sociale dell'automa»63, ormai

esibito non più alle corti dei potenti, ma nelle fiere popolari e nelle pubbliche sale, vero è che, d'altro canto, la scomparsa dell'interesse tecnico per gli automatismi non sancisce il loro tramonto all'interno della società del XIX secolo. Essi inaugurano, infatti, proprio in questo periodo, una nuova fase della propria «vita», che li vede ricoprire un ruolo fondamentale in una sfera della popolazione di cui sarebbe sciocco ignorare la rilevanza: il mondo dell'infanzia.

Bambole automatiche, leggiadre e graziose, bambolotti e soldatini diventano i veri protagonisti di questa dimensione giocosa, in cui al dominante imperativo funzionale si sostituiscono i valori dell'intrattenimento fine a se stesso e dell'inutile quanto innocuo svago fanciullesco. Forse per la prima volta dal loro ingresso nella storia delle invenzioni meccaniche, gli automi-giocattolo destano uno stupore che «è ora imparentato con la tenerezza e col divertimento, non più con l'ammirato timore»64,

collocandosi su un piano intimamente depotenziato, quello infantile e ludico, privo dunque di minacce per l'uomo adulto, razionale e consapevole di sé, nella misura in cui «all'adulto spettava il dovere della ragione, al bambino il piacere del gioco»65.

Nasce dunque un nuovo modo di concepire l'automa, poiché:

Solo se questa copia artificiale dell'uomo è abbassata di livello, è degradata a giochetto quasi infantile potrà essere, se non accettata, almeno tollerata. Perché non farà più paura, perché il soffio vitale che la anima non farà più concorrenza al soffio vitale che anima l'uomo e sarà al massimo la sua parodia scherzosa oppure un gioco tranquillizzante.66

Anche un'altra caratteristica separa, inoltre, lo statuto del balocco da quello del mostruoso prodigio tecnico ottocentesco, ovvero il suo legame privilegiato con la dimensione del ricordo, della memoria senza tempo, in netta contrapposizione con la «sempre più vertiginosa accelerazione del tempo di obsolescenza degli oggetti»67

nell'era della macchina.

Così, nel corso dell'Ottocento, la produzione di automi e giocattoli va incontro a una progressiva industrializzazione, motivata dalla crescente domanda popolare, e si dirama tra «bambole animate destinate alla borghesia ricca» e «giocattoli semoventi 63 M. G. LOSANO, op. cit., p. 110.

64 Ibidem, p. 142.

65 F. G. PALLI, La bambola. La storia di un simbolo dall'idolo al balocco, Convivio/Nardini, Firenze

1990, p. 55.

66 L. ALLEGRI, Dal filosofo al folle: la marionetta nel Medioevo, in Il mito dell'automa, cit., p. 25.

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accessibili ad ogni borsa»68. È questo, infatti, il secolo in cui la bambola, diffusa

largamente fin dalle antiche civiltà d'Oriente e Occidente, subisce un definitivo slittamento dal mondo degli adulti a quello del bambino, ereditando alcuni caratteri che le erano appartenuti in quanto idolo investito di valenze magiche e religiose:

Dall'idolo al balocco cambia dunque il contesto, da artistico-religioso a ludico, si trasforma il pubblico, che da adulto diviene infantile, ma non muta la forma che resta rappresentazione di un mondo interiore.69

Parallelamente a questo passaggio dal sacro al profano, la bambola, o, meglio, il bambolotto va delineandosi sempre più come gioco esclusivamente femminile, mano a mano che si specificano e acutizzano le differenze di genere e in connessione con la nascita della pedagogia, grazie a cui, oltre alla semplice funzione ludica, si associa al giocattolo anche quella educativa, in quanto esso costituisce un «mezzo di approfondimento del futuro ruolo adulto»70.

Ancora una volta, quindi, l'aspetto tecnologico dei «raffinati congegni» che permettono alle bambole «di compiere gesti ed azioni»71 e le rendono in grado

perfino di camminare, mandare baci e piangere proprio come un neonato, non costituisce il solo motivo di interesse verso questi nuovi protagonisti del panorama infantile. Essi sono investiti di un fortissimo significato simbolico, che li vede stavolta come trasposizione di istanze interiori, legate alla sfera dell'emotività. Proprio in virtù della loro nuova «vita psichica», bambole e fantocci troveranno largo spazio nella letteratura non soltanto infantile, caricandosi di una fortissima suggestione inconscia. È il caso di Olimpia, la bambola-automa del racconto L'uomo

della sabbia di Hoffmann, citata da Freud nel saggio Das Unheimliche (1919) come

esempio di creatura a metà tra il mondo dell'umano e della macchina e perciò atta a suscitare un senso di perturbamento nel personaggio di Nataniele che la osserva:

Solo ora Nataniele vide il viso meraviglioso di Olimpia. Gli occhi solamente gli parvero stranamente morti e fissi. Ma aguzzando lo sguardo attraverso il cannocchiale, gli parve che gli occhi di Olimpia si illuminassero di umidi raggi di luna. Sembrava che per la prima volta avessero la capacità di vedere; e gli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi.72

68 M. G. LOSANO, op. cit., p. 137.

69 F. G. PALLI, op. cit., p. 9.

70 Ibidem, p. 55. 71 Ibidem, pp. 51-52.

72 E. T. A. HOFFMANN, L'uomo della sabbia e altri racconti (1815), (trad. it.) G. FRACCARI,

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Anche nella sua nuova veste infantile, dunque, la bambola non abbandona l'originaria connessione col mondo del magico e del soprannaturale, perfino là dove la sua natura non appare specificamente meccanica, dal momento che, nella fantasia, «tutto [...] può crescere e proliferare come vuole, anche l'inutile, perfino il nocivo»73.

È ciò che avviene nelle fiabe di Hans Christian Andersen, in cui bambole, marionette e soldatini si animeranno all'interno di un contesto ben più luminoso di quello dei racconti di Hoffmann, ma non per questo del tutto esente da una vena di malinconica inquietudine. È la potente e ineluttabile sensazione di perturbamento che scaturisce dal contatto con gli aspetti più profondi della propria interiorità, capaci di evocare, seppur sotto più innocue e gioiose spoglie, le quiescenti ombre dell'inconscio.

1.3 Robot e androidi: i nuovi automi del XX secolo

Con l'avvento dell'elettronica e dell'informatica sembrano realizzarsi definitivamente le promesse prospettate per tanti secoli dagli automi, relegati ormai nel limbo dell'«archeologia tecnologica»74. La nuova dimensione cibernetica a cui si

applicano adesso le conoscenze scientifiche sposta il campo d'interesse che ruota intorno agli automatismi dal piano fisico a quello delle funzioni nervose, inaugurando una nuova fase storica che ha al suo centro il tema dell'intelligenza artificiale. Così viene meno l'esigenza d'imitazione antropomorfica, avvertita in tanti secoli di storia degli automi, e a essa si sostituisce una più razionale necessità di semplificazione e schematizzazione, in grado di riprodurre gli effetti del processo mentale umano a prescindere dalla conformazione anatomica, dal momento che:

La natura ha trovato un modo solo di organizzare la sostanza vivente. Ma esiste un altro modo più semplice, più comodo, più rapido, che la natura non ha sperimentato75.

Queste parole appartengono al «vecchio Rezon» che, all'interno del romanzo di Karel Čapek R.U.R (Rezon's Universal Robots), rappresenta l'ultimo deriso baluardo di una concezione ormai superata della creatura artificiale, impensabile alla luce della ormai affermata «fabbricazione industriale». Sarà così il «giovane Rezon», arrogante esponente di una nuova generazione d'inventori-produttori, a dar vita alle 73 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1976, t. VIII (1915-17), p.

527.

74 M. G. LOSANO, op. cit., p. 148.

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innovative «macchine da lavoro, semoventi e intelligenti», improntate alla semplicità e all'efficienza. Ogni residuo della precedente simbologia del mito dell'uomo-macchina è ora sentito come un inutile ostacolo, sterile nostalgia da debellare in nome del progresso.

Se le nuove frontiere dell'informatica e della programmazione possono dunque affermare che «le macchine saranno alla fine in grado di competere con gli uomini in tutti i campi puramente intellettuali»76, inevitabile è, ancora una volta, una reazione

ostile e diffidente di fronte al nuovo automa novecentesco, che si delineerà sempre più nella figura del robot e dell'androide cibernetico, animando la nascente letteratura fantascientifica e l'immaginario artistico, teatrale e cinematografico. Il terrore suscitato da questo modernissimo frutto della tecnica non scaturisce più dall'oscurità che circonda i meccanismi che lo animano, né dal possibile legame col mondo del magico e del blasfermo, bensì dallo sconcerto di fronte al grado di complessità raggiunto dalla macchina, che prospetta per l'uomo il rischio di un «capovolgimento delle posizioni: da padrone a vittima del terribile creato»77.

Tale paura trova espressione nei molteplici scenari apocalittici e nelle ipotesi catastrofiche di tanti romanzi e film di fantascienza, in cui robot inconsapevoli o mossi da crudeli desideri di vendetta ingaggiano con gli umani una lotta ben più complessa della semplice gara tra uomo e macchina, di cui il «Turco» di von Kempelen fu il giocoso antesignano, e che si configura ora nei termini di una vera e propria guerra tra due razze, tra l'uomo e l'androide. Giunto ormai a un grado di potenza pari o superiore a quella umana, il robot è pronto a rivendicare il dominio sul proprio inventore, prendendo il sopravvento sulla Terra e divenendo unico protagonista di un mondo completamente tecnicizzato.

In contrapposizione a questo panorama distopico improntato sulla ribellione e sulla distruzione, si sviluppa anche una diversa iconografia legata all'automa, quella che Ceserani definisce «sadismo di compensazione»78, secondo cui i rapporti di

predominanza tra uomo e macchina sono nuovamente ribaltati a favore del primo. Nell'ottica di tale rassicurante prospettiva, il robot, in quanto creatura costruita 76 Alan Turing.

77 G. P. CESERANI, op. cit., p. 166. È il tema dell'apprendista stregone, ben esemplificato da

Frankenstein, o il novello Prometeo (1818) di Mary Shelley.

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dall'uomo, è e non può non essere suo eterno subordinato, uno schiavo capace soltanto di obbedire e di vivere in funzione del proprio padrone. Convertito quindi nell'efficiente e mite lavoratore, protagonista della civiltà dei consumi, «l'automa, a parte la nostra opinione sui sentimenti che esso può possedere o meno, è l'esatto equivalente economico dello schiavo»79.

Il processo che porta a considerare il robot da nemico a schiavo è incentrato proprio sui sentimenti, o, meglio, sull'assenza di essi da parte dell'androide, che si trova adesso in posizione di netta inferiorità non in rapporto alle proprie facoltà intellettive, ma in quanto privo di un elemento che è appannaggio esclusivo dell'uomo: l'emotività. Così l'immaginario letterario e cinematografico danno vita a una nuova figura di robot, intimamente lacerato dall'impossibilità di provare sentimenti e dalla sua natura ibrida e parziale. Esemplare è la figura di Andrew, protagonista del film del 1999 L'uomo bicentenario80, tratto dall'omonimo racconto

di Isaac Asimov (1976) e dalla sua prosecuzione, il romanzo Robot NDR 113 (The

Positronic Man) (1993), scritto da Asimov e Robert Silverberg. Il film ripercorre

l'esistenza bicentenaria del robot positronico NDR-114, denominato Andrew, attraverso il coinvolgente percorso di ricerca e affermazione di sé, che lo porta, infine, a essere riconosciuto a tutti gli effetti come essere umano dal «Congresso Mondiale». In questo lungo cammino in cui i confini tra l'umano e il robotico si confondono, fino ad annullarsi, è forse possibile chiedersi se da un'intelligenza artificiale sovra-umana possa scaturire, in ultima istanza, un'umanissima sensibilità. L'interrogativo non coglie, però, il vero significato che il film veicola e che risponde a un'esigenza psicologica e non scientifica. Trasponendolo in un contesto utopico e fantascientifico, L'uomo bicentenario ci affranca da un timore in realtà molto vicino a noi, rassicurandoci sul fatto che, in una società che ci vuole perennemente attivi, efficienti e omologati al sistema di produzione, la qualità più autentica risiede ancora in qualcosa di più profondo, forse obsoleto, ma che nessuna macchina potrà mai toglierci: la nostra umana fallibilità81.

79 F. KLEMM, op. cit., p. 413.

80 Titolo originale Bicentennial man, diretto da Chris Columbus.

81 Emblematiche le ultime parole di Andrew: «Come robot avrei potuto vivere per sempre, ma dico a tutti voi oggi che preferisco morire come uomo, che vivere per tutta l'eternità come macchina». Da notare, inoltre, come l'assistente robotica che pone fine alla vita ora umana di Andrew porti il nome della prima creatura artificiale che si animò per amore, la Galatea di Pigmalione.

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C

APITOLO

II. L'

ANIMARSI DELL

'

INANIMATOINLETTERATURA 2.1 Un nuovo tipo di inquietudine, il Perturbante di Freud

Se nel corso del XVIII e del XIX secolo gli automi meccanici iniziano progressivamente a perdere la propria aura eversiva, che li voleva partecipi di istanze diaboliche e inquietanti, per andarsi a inserire nei più miti scenari della produzione su scala industriale di bambole e balocchi, è tuttavia all'interno della rielaborazione del mito da parte dell'ideologia romantica che l'animarsi dell'oggetto inanimato rivela il suo volto più sinistro e inquietante. Di fondamentale importanza per il riadattamento ottocentesco del mito della statua animata è il Pigmalione di Rousseau, pubblicato nel 1771 e portato in scena l'anno successivo, in cui appare, seppure velatamente, il legame tra narcisismo e pigmalionismo, che vede nel desiderio di vitalismo della statua la proiezione del sé dell'artista, proteso in un sovrumano anelito alla dimensione dell'incorruttibile e dell'immortale:

[…] dall'euforia dell'artista prometeico non è mai assente un risvolto inquietante. […] nella pièce di Rousseau è abbozzato un tema che avrà grande fortuna nella letteratura (non solo) fantastica: quello della trasfusione vitale da una persona umana, pittore, scultore o modella, all'opera d'arte. Il protagonista, al colmo dell'eccitazione, esclama (salvo ricredersi prontamente): «credo di poterle dare la mia vita, e animarla della mia anima. Ah! Che Pigmalione muoia per vivere in Galatea!».1

Inizia così a delinearsi una nuova figura del Pigmalione ovidiano, non più pio artista che implora il miracolo divino, ma un «creatore prometeico in diretta rivalità con dio»2, che ricerca nella perfezione estetica il superamento della corruttibile

essenza umana. Se in Rousseau il binomio artificio-natura pende ancora a favore di quest'ultima, nella misura in cui è proprio nella statua Galatea che rivive il mito della purezza primigenia e incontaminata dell'uomo, nell'immaginario romantico si assisterà a un superamento di quel realismo mimetico che, nella cultura classica e fino al Settecento, aveva veicolato l'illusione di vita dell'artefatto, il quale ormai:

Non dà solo l'illusione della realtà: è la realtà. Incrina lo statuto semiologico della rappresentazione tradizionale, che, pur preconizzando un'imitazione della natura, presupponeva una separazione netta fra arte e realtà, fra opera e modello. […] L'opera deve essere la natura. La finzione è abolita, o è abolita la realtà.3

1 P. PELLINI, op. cit., p. 26.

2 Ibidem, p. 23. 3 Ibidem, p. 44.

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