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La fiaba L'usignolo68, pubblicata per la prima volta in Nye Eventyr, I nel 1844, si

apre con una precisa collocazione geografica (la Cina imperiale), la quale, tuttavia, immediatamente assume gli sfumati contorni della dimensione fiabesca, in virtù della propria lontananza temporale («Ormai sono passati molti anni») e culturale, profilandosi come un mondo orientale all'insegna della magnificenza, ma non per questo immune da uno sguardo fortemente ironico, evidente fin dalla prima asserzione rivolta al lettore: «Sai bene che in Cina l'imperatore è un cinese, e tutti coloro che lo circondano sono cinesi». Sono proprio i continui rimandi alle meraviglie del palazzo imperiale («Il castello dell'imperatore era il più sontuoso del mondo, tutto di delicata porcellana, così prezioso, ma anche così fragile, bisognava stare attenti a non toccarlo») e al favoloso splendore dello smisurato giardino, che confina con il bosco e sfocia infine nel mare «azzurro e immenso», a conferire all'impero cinese gli attributi di una rappresentazione fortemente artefatta. La meraviglia di cui l'imperatore e la corte amano circondarsi ha in sé un sentore deliberatamente «ingegnoso», essendo essa contaminata e plasmata dall'uomo, come sottolineano i fiori più «splendidi», a cui «erano legate delle campanelle d'argento che suonavano perché nessuno passasse senza notarli». All'aura luminosa, smisurata e contraffatta del giardino si contrappone l'umile usignolo, il cui armonioso canto è in grado di commuovere «persino il povero pescatore», che di fronte a esso non può che interrompere per un momento il lavoro e, rapito, esprimere il suo «Dio, quanto è bello!», sottolineando in via preliminare la connessione tra il piano del naturale e quello del divino. Da una parte si collocano, dunque, la luminosità dell'oro, della porcellana e delle altre pietre preziose del palazzo imperiale, con la sua immensità, le ricchezze e la rigida gerarchia della corte, sempre avida di nomine ufficiali e nuove cariche da assegnare; dall'altra il mondo naturale simboleggiato dall'uccellino, a cui pertengono gli attributi di piccolezza («piccolo» è l'usignolo, «piccola» è la sguattera che aiuterà i funzionari di corte a scovarlo nel bosco), di povertà e umiltà.

Ci troviamo di fronte alla tematizzazione del conflitto tra natura e artificio, qui rappresentato su due diversi piani: quello più sfumato e indefinito insito nell'opposizione tra i due ambienti della corte e del bosco, rispettivamente sedi della 68 Titolo originale: Nottargalen, in H. C. ANDERSEN, Fiabe e storie, cit., pp. 172-179.

più alta e della più umile creatura, l'imperatore e l'usignolo; e quello esplicitato nella rivalità tra «l'usignolo vero» e la sua copia meccanica, un rivale che è sì «piccolo» ma anche «splendido», poiché risulta animato da «molle» e «rulli» che lo rendono un «congegno definito», ben comprensibile e perfino riproducibile.

Non a caso il contatto tra i due mondi, quello artefatto dell'imperatore e quello dell'usignolo, dominato dalla piccolezza e dalla semplicità, non può avvenire se non per via indiretta, con la mediazione del piano artistico, in sé ibrido, capace di riunire le due dimensioni del naturale e del fittizio. Così l'imperatore, beandosi dei resoconti letterari che narrano lo splendore dei suoi possedimenti, si imbatte in un personaggio che «non è mai stato presentato a corte»:

Quei libri facevano il giro del mondo e un giorno alcuni giunsero anche all'imperatore. Seduto sulla sua sedia d'oro, leggeva e leggeva, annuiva col capo, perché gli piaceva sentire le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. «Ma l'usignolo è la cosa migliore!», c'era scritto.69

Il «grigio usignolo» che canta nel giardino per il solo piacere di farlo, ignaro dei doveri e delle formalità imperiali, è la creatura in grado di suscitare maggiore ammirazione nei viaggiatori stranieri in visita alla «città dell'imperatore», vincendo su ogni ingegnoso stratagemma umano. L'imperatore della Cina rivendica immediatamente il suo possesso sulla «cosa migliore» del suo giardino, ordinando di convocare l'uccellino a palazzo perché canti per allietarlo: «Tutto il mondo sa cosa

possiedo e io non lo so!». Di fronte alla bellezza naturale, primigenia e

incontaminata, l'uomo avanza il proprio diritto a contraffarla, imbrigliandola entro canoni definiti e limitanti, rappresentati in ultima istanza dalla gabbia in cui viene imprigionato l'usignolo, con la «libertà di uscire» due volte al giorno, a patto di avere una zampetta legata a un regale «nastro di seta». L'appartenenza della creatura al piano del reale è data dal suo ingresso ufficiale all'interno dei vincoli burocratici imperiali, al di fuori dei quali essa poteva anche «essere una favola inventata da quelli che scrivevano i libri», una fantasia, una menzogna, addirittura «magia nera»: tutto ciò che non rientra nel limitato orizzonte di corte (e, si potrebbe dire, nel limitato orizzonte umano), dunque, appare come non legittimato a esistere.

Il debutto a corte dell'usignolo presenta gli stessi caratteri artefatti già rilevati nella descrizione del giardino imperiale, in cui si ritrovano ancora una volta gli 69 Ibidem, p. 173.

attributi di luminosità e magnificenza:

Al castello avevano lucidato tutto per bene! Pareti e pavimenti, che erano di porcellana, scintillavano grazie a molte migliaia di lampade d'oro! I fiori più splendidi, quelli che tintinnavano meglio, erano stati messi nei corridoi70.

A ciò si contrappone il «bizzarro uccello» grigio, le cui misere spoglie sembrano cozzare con tanta maestosità, ma che, non appena apre il becco, canta così «splendidamente» con la sua «voce dolce e benedetta» da commuovere lo stesso imperatore. Se le lacrime del sovrano sono per l'uccellino il compenso più agognato, il «tesoro più ricco» che si possa desiderare, nella reazione della corte risulta evidente la profonda incapacità di comprensione di tale «benedetta» melodia. Proprio come cavalieri e servitori, durante la ricerca dell'usignolo nel bosco, avevano dimostrato la loro incapacità di discernere il mirabile canto dai muggiti delle mucche e dal gracidio delle rane, così ora le dame danno prova della propria grossolanità di giudizio e imitano ridicolmente il suono mettendosi «dell'acqua in bocca per chiocciare quando qualcuno parlava con loro: credevano di essere usignoli». L'imitazione risulta intimamente superficiale, parziale e comica.

Altrettanto assurda e limitata ai caratteri più effimeri dell'esperienza canora è la reazione da parte del popolino, il quale, da parte sua, omaggia il nuovo gingillo dell'imperatore attribuendogli un posto d'onore all'interno del proprio lessico quotidiano e della propria vita domestica:

[…] se due si incontravano, uno non diceva che: «Usi!», e l'altro «Gnolo!». E poi tiravano un sospiro e si comprendevano; anzi, undici figli di droghiere furono chiamati col suo nome, ma nemmeno uno aveva la nota giusta71.

È proprio l'assenza della «nota giusta» negli animi e nelle menti dei cinesi a rendere quasi scontata la preferenza accordata dall'impero all'usignolo meccanico rispetto al suo naturale referente: il «piccolo congegno», arrivato come dono all'imperatore sotto l'etichetta di «Usignolo» vanta rispetto all'uccello numerosi pregi, come il suo scintillare d'oro e d'argento, il corpo «incastonato di diamanti, rubini e zaffiri» e un meccanismo ben costruito, che si può aprire e riprodurre, che «sarà così e non altrimenti». L'accoglienza entusiasta da parte del consorzio umano di questo «uccello migliore» del precedente è dovuta in particolar modo alla sua semplicità, al 70 Ibidem, p. 175.

suo funzionamento facilmente fruibile e comprensibile. Anche la limitatezza delle melodie che l'automa è in grado di eseguire è, infine, una qualità, poiché «la corte e tutti gli altri cinesi sapevano ogni gorgoglio del canto dell'uccello meccanico, ma proprio per questo lo apprezzavano di più: sapevano cantare con lui». Il canto naturale è riportato alla dimensione dell'artificio, più umana e rassicurante, nei confronti della quale i cittadini non si pongono più come ridicoli imitatori, bensì come incantati beneficiari. Inoltre l'usignolo meccanico non conosce la stanchezza e può assolvere senza interruzioni alla sua primaria funzione di intrattenimento, senza che nessuno, se non i «poveri pescatori», avverta che «gli manca qualcosa» rispetto all'originale.

La sequenza conclusiva della fiaba, quella in cui fa il suo ingresso il soprannaturale, prende avvio improvvisamente, «nel bel mezzo del canto», in corrispondenza con gli stridori di rottura dell'usignolo meccanico: i suoi «svup!» e «surrr!» segnalano la fine del vitalismo automatico, sottolineandone la natura artificiale che né l'archiatra né l'orologiaio riescono a risanare. Nel palazzo dell'imperatore entra improvvisamente un ospite mai visto prima, il silenzio, che sovrasta con un'aura di morte melodie e schiamazzi, risate e ordini, riducendo lo splendore del sovrano a un corpo malato «freddo e pallido», inutilmente circondato dai suoi orpelli regali (il «lussuoso letto con le grandi tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati»). Agli attributi di splendore e vitalità si sostituiscono il pallore mortuario dell'uomo, il silenzio della corte e l'immobilità, mentre su tutto aleggia un senso di pesantezza e oppressione. È qui che fa il suo ingresso la Morte, che si siede ammantata dei simboli regali sul petto dell'imperatore:

Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; aprì gli occhi e vide la morte che gli sedeva addosso; si era messa la sua corona d'oro e in una mano teneva la sciabola d'oro dell'imperatore, nell'altra il suo sontuoso vessillo; e tutto intorno, fra le pieghe delle grandi tende di velluto, facevano capolino singolari teste, alcune orride, altre di una beata dolcezza; erano le cattive e buone azioni dell'imperatore che lo guardavano ora che la morte gli sedeva sul cuore. […] La morte continuava a guardare l'imperatore con le sue grandi orbite vuote e c'era tanto silenzio, tanto terribile silenzio.72

Una descrizione intrisa di simbolismo ma non per questo svilita nei suoi connotati fortemente fisici, di cui le teste che penzolano e fanno capolino tra le tende, pesanti 72 Ibidem, pp. 178-179.

come pesante è la stessa Morte, raffigurano il dettaglio più macabro e perturbante. All'accorata preghiera dell'imperatore non può rispondere l'uccello meccanico, incapace di cantare senza qualcuno che lo carichi, ma accorre, invece, il vero usignolo, che può entrare con la sua leggerezza nella stanza dell'infermo grazie a una salvifica apertura: «in alto c'era una finestra, e la luna entrava illuminando l'imperatore e l'uccello meccanico». Il meraviglioso canto infonde nuova vita nelle membra esangui del sovrano ed è tanto bello da incantare la Morte stessa, tanto che ella «ebbe nostalgia del suo giardino e come una nebbia fredda e bianca si librò fuori dalla finestra».

Il forte simbolismo cristiano insito nella rappresentazione notturna non sembra esaurire del tutto il significato della visione soprannaturale della Morte e del canto liberatore che, in quest'ottica, andrebbe a identificarsi in ultima istanza con la fede rasserenatrice nella Grazia divina, in grado di allontanare dal cuore umano la paura della morte. Non vi è, infatti, alcuna esplicita agnizione dell'usignolo come emissario di Dio, per quanto a esso si riconosca l'attributo di «Celeste»; né il suo canto consolatore preannuncia ciò che, in moltissime fiabe di Andersen, costituisce l'auspicato esito di un'esistenza giunta al suo naturale epilogo e rasserenata dalla fede. L'imperatore, infatti, non soltanto sopravvive all'incubo di morte notturno, ma addirittura sbeffeggia i servitori che, giunti per rendere omaggio al morto, ricevono il suo più vitale: «Buongiorno!», con cui il testo si conclude.

Non ci si dimentichi che siamo in Cina, un paese lontano nel tempo e nello spazio, in cui tutti gli abitanti sono cinesi, nel quale gli usignoli cantano, parlano e possono essere assunti al servizio di un imperatore. Che cosa simboleggia dunque l'umile uccello dal canto divino? Da una parte l'idillio della natura, il riconoscimento, mediato dall'evento soprannaturale, di una superiore bellezza e potenza con cui nessun artificio umano potranno mai competere; dall'altra la bontà d'animo, i valori della libertà e della libera creazione, soli in grado di purificare da ogni affettazione un canto che viene dal cuore ed è perciò capace di avvicinarci al divino. Sia che si voglia identificare il piccolo usignolo con la dimensione naturale, con la bellezza più autentica, la pura creazione poetica e artistica in grado di avvicinare all'immortalità, l'umiltà o la fede, ciò che rimane certo è che «la polemica romantica in favore della pura natura contrapposta a ogni sorta di artificio» è portata avanti, come spesso

avviene anche nei racconti di Hoffmann, su «un piano così concreto, reale» e contraddistinto da una grande «aderenza alla realtà e linearità». È Alda Castagnoli Manghi a segnalare come:

[…] la contrapposizione tra il canto naturale e spontaneo del vero usignolo e i manierati gorgheggi di quello artificiale, che pur tanta gente preferisce, ha il suo presupposto nei giocattoli meccanici, in un primo tempo ammirati da Felice e da Cristina, i due protagonisti di Das fremde Kind, ma che poi, una volta portati nel bosco, sembrano loro addirittura assurdi.73

Nell'accostare la fiaba di Andersen al racconto hoffmanniano, Castagnoli Manghi cita un'altra fiaba scritta «sotto il segno di Hoffmann», La campana, in cui si fondono nuovamente i temi della «contrapposizione tra natura e artificio» e dell'«esaltazione della poesia»74. Molti gli elementi di vicinanza tra L'usignolo e La

campana75 (titolo originale Klokken, pubblicata per la prima volta nel 1845), pur

nelle fondamentali differenze di tono che intercorrono tra i due testi: ironico, quando non apertamente comico, il primo; più astratto e solenne il secondo. Anche in questo caso, il racconto si apre con una precisa indicazione temporale e geografica («La sera, nelle strette vie della grande città»), la quale, proprio come nella fiaba ambientata nella Cina imperiale, si sfuma immediatamente in una dimensione dai contorni fiabeschi e irreali. È in questa atmosfera quasi fatata che, di tanto in tanto, ma sempre al tramonto e sempre solo «per un istante» i cittadini odono «come il suono di una campana di chiesa», subito sopraffatto dal «rombo di carrozze e un tal gridare che disturbavano». La seconda somiglianza con L'usignolo è proprio il nucleo centrale della narrazione, ossia il rapporto contrastivo tra piano naturale e artificiale che qui, però, non viene apertamente esplicitato e risulta celato fino alla fine. A una più attenta lettura se ne avvertono, tuttavia, chiari indizi testuali: il rumore della città contrapposto al solitario silenzio del bosco; la tendenza a riportare al campo del noto il suono inspiegabile, paragonandolo a quello di una «grande campana sconosciuta»; la promessa da parte dell'imperatore del titolo di «Campanaro mondiale» per chiunque riesca a fornire «una specie di spiegazione» razionale; la volontà dei più di soffermarsi agli aspetti più superficiali e rassicuranti nella ricerca 73 A. CASTAGNOLI MANGHI, cit., p. 404. Il riferimento è al racconto di Hoffmann Il bambino

misterioso [1817], pubblicato in italiano nella raccolta I confratelli di Serapione, 1819-1821.

74 Ivi.

dell'origine del misterioso suono.

In tutti questi elementi è possibile rintracciare punti d'unione con la fiaba dell'usignolo vero e della sua copia meccanica, a partire dalla sciocca presunzione dell'imperatore di premiare con riconoscimenti effimeri colui che fornirà in termini razionali una spiegazione all'arcano interrogativo, fino ai tentativi di ricerca, quasi tutti destinati al fallimento, da parte dei confirmandi che, usciti di Chiesa, sentono il forte richiamo della campana proveniente dal bosco e hanno «subito una gran voglia di andare lì». Ben presto la curiosità si potrebbe dire infantile dei bambini si rivela inadeguata ad andare oltre le soglie del bosco, non sufficiente per inoltrarsi in un cammino che si presenta come oscuro, rischioso e soprattutto solitario. Se da una parte, infatti, allontanandosi dalla città è concesso scoprire uno spazio più ampio, dominato da una natura in cui ancora più forte risuona il rintocco; di fronte ai rischi prospettati dal bosco rigoglioso ma al contempo troppo «fitto e folto», molti rinunciano preliminarmente alla ricerca, accampando i pretesti più disparati. Tra essi vi è chi, proprio come nell'Usignolo, arriva a negare al suono perfino il diritto di esistere, per la sola colpa di non palesarsi con immediatezza alla comprensione umana: poiché non si trova, «la campana in realtà non esiste, è solo una cosa immaginaria!».

Già in precedenza qualcuno, allettato dalla ricompensa imperiale, aveva offerto la sua opinione riguardo all'origine del misterioso suono:

Nessuno si era inoltrato abbastanza, e nemmeno lui, ma disse che il suono di campana proveniva da un fugo molto grande in un albero cavo, uno di quei gufi saggi che sbatteva continuamente il capo contro l'albero, ma se il suono provenisse dalla testa del gufo o dal tronco cavo non poteva ancora dirlo con certezza, e così fu assunto come Campanaro mondiale e ogni anno scrisse un piccolo trattato sul gufo.76

Proprio come gli uomini e le donne di corte andati in cerca dell'usignolo avevano dato prova di scarsa sensibilità, confondendo muggiti e gracidii col canto melodioso dell'uccello, allo stesso modo la maggior parte dei piccoli esploratori cede alla tentazione di confondere ciò che trova con ciò che sta cercando:

[…] la fresca acqua di fonte stillava emettendo un singolare: «glu glu!».

«Non sarà questa la campana?» disse uno dei confirmandi, e si sdraiò in terra ad ascoltare. «Bisogna studiarlo seriamente!» e così rimase lì e lasciò andare gli altri. Giunsero a una casa di corteccia e rami […] i rami si posavano proprio sul frontone al 76 Ibidem, p. 247.

quale era appesa una piccola campana. Che fosse quella la campana che avevano sentito?77

Soltanto un bambino diverge dall'opinione del gruppo, affermando che quella campana è troppo piccola per emettere un richiamo così potente e che, inoltre, essa suona «note ben diverse»: non si tratta stavolta dell'opinione degli umili pescatori, i soli ad avvertire nel canto dell'usignolo meccanico una qualche inspiegabile mancanza, bensì di quella del «figlio di un re», il quale viene perciò tacciato di superbia e lasciato proseguire da solo. Durante il tragitto, disseminato di spine ma anche di straordinari idilli di natura, egli si imbatte nel più povero dei confirmandi, «un bambino con gli zoccoli di legno e una maglietta così corta che lasciava vedere bene quanto erano lunghi i suoi polsi», che tuttavia rifiuta l'invito a proseguire insieme, inoltrandosi «nella parte più buia, più fitta del bosco, dove le spine gli strappavano i miseri vestiti e gli facevano sanguinare il viso, le mani e i piedi». Il principe, da parte sua, pur andando incontro a dei «bei graffi» segue una strada illuminata e scintillante di fiori e di frutti, la cui unica minaccia è rappresentata dalle «orride scimmie» che «ridevano di lui con tutti i denti». Il riferimento agli animali esotici e ai loro minacciosi sorrisi, qui appena accennato, richiama il racconto La zia

Maldidenti, tra i più tetri di Andersen, la quale «aveva degli splendidi denti bianchi.

E li risparmiava anche, di notte quando dormiva se li toglieva, diceva il birraio Rasmussen. […] C'era un sorriso di dolore sulla sua bocca; i denti splendevano così bianchi»78.

Benché lontana dall'asprezza naturale della via percorsa dal bambino povero, anche quella del principe non appare estranea a pericoli che qui, lungo la strada più luminosa, su cui «splendeva il sole», si presentano non sotto forma di ostacoli e difficoltà materiali, ma nelle vesti delle più impalpabili tentazioni a cedere all'incanto paesaggistico:

[…] crescevano i fiori più meravigliosi, c'erano candide paradisie coi pistilli rossi come il sangue, tulipani azzurri come il cielo che sfavillavano al vento, e meli dove le mele sembravano grandi bolle di sapone scintillanti; pensa a quanto quegli alberi brillavano al sole. Intorno c'erano i più splendidi prati […] dove crescevano querce e faggi magnifici; 77 Ibidem, p. 248.

78 La zia Maldidenti, in H. C. ANDERSEN, Fiabe e storie, cit., pp. 849-858. Il testo, difficilmente

ascrivibile al genere della fiaba, risente fortemente dell'influsso hoffmanniano. In particolare, i denti si presentano nelle vesti di «oggetto mediatore» dai risvolti fortemente perturbanti nel racconto Berenice [1835] di E. A. Poe.

[…] c'erano anche grandi tratti di bosco con laghetti tranquilli in cui i cigni bianchi nuotavano e sbattevano le ali. Spesso il principe si fermava ad ascoltare, spesso gli sembrava che la campana riecheggiasse da uno di quei profondi laghi, poi però si rendeva

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