2.3 Una definizione autonoma per il fantastico letterario
2.3.1 Gli statuti del soprannaturale di Francesco Orlando
La classificazione degli statuti di Orlando prende le mosse dal presupposto che «la tematica del soprannaturale in letteratura vada studiata come una serie di formazioni di compromesso»61, che, da un estremo costituito da massimo credito, il
soprannaturale di tradizione, fino al suo vertice opposto, il soprannaturale di derisione, dominato dalla critica, renda conto anche dei «casi intermedi», così da
poterli disporre «in modo graduale o scalare»62.
57 Per il concetto di «logica simmetrica» Cfr. I. MATTE BLANCO, L'inconscio come insiemi infiniti.
Saggio sulla bi-logica [1975], Einaudi, Torino 1982.
58 Ivi.
59 Ibidem, p. 4.
60 F. ORLANDO, Statuti del soprannaturale nella narrativa, cit., p. 203.
61 Ibidem, p. 207. 62 Ibidem, p. 205.
Un primo statuto è quello caratterizzato dal pieno credito accordato al soprannaturale, come avviene, ad esempio, nei poemi epico-religiosi della classicità, o nel mondo del fiabesco e del meraviglioso, dove unanime è la fiducia nei confronti degli eventi narrati, poiché essi si svolgono in una dimensione «altra» rispetto al reale, dominata da sue proprie leggi: «Chiamerei soprannaturale letterario di
tradizione il più forte: accreditato al massimo, convalidato da durevoli reificazioni
dell'immaginario collettivo, limitato unicamente dalle proprie regole»63. È infatti
indispensabile definire in modo esplicito o implicito i «limiti del credibile», in grado di circoscrivere l'infinitezza della fantasia entro spazi deputati a dare un ordine, o un anti-ordine, al caos dell'immaginario:
Nelle sue articolazioni letterarie […] il soprannaturale non può che venire configurato, tratteggiato, ritagliato da regole, al punto da tendere a consistere in esse64.
Nell'ambito della fiaba, le nuove regole della dimensione fantastica sono molto spesso specificate dall'entità magica o detentrice di poteri e conoscenze sovra-umane, che delinea in modo chiaro il quadro d'azione entro cui dovrà agire il protagonista: potrà avere a disposizione tre desideri, oppure tre tentativi, potrà ottenere i benefici richiesti dall'incantesimo a patto di valersene entro la mezzanotte, o in cambio del sacrificio della propria voce, ecc...
All'estremo opposto, quello caratterizzato da critica massima, Orlando colloca il cosiddetto soprannaturale di derisione, «reso storicamente possibile dal superamento d'una razionalità inferiore»65, la quale diviene oggetto di disincantata ironia da parte
della nuova mentalità protesa verso la critica, che subentra alla precedente, più arcaica e superstiziosa. Lo statuto più prossimo a quello di derisione è il soprannaturale di indulgenza, il quale se ne distanzia per la propensione al «sorriso in luogo del riso», nella misura in cui le originarie credenze, ormai superate e depotenziate, non cessano di esercitare un certo fascino proprio in virtù della loro aura immaginifica, tanto da rivelare chiaramente «un compiacimento nella credulità superata, nella regressione irrazionale»66.
Seppure attraverso un percorso non sempre lineare, i diversi statuti possono essere 63 Ibidem, pp. 208- 209.
64 Ibidem, p. 199. 65 Ivi.
inquadrati entro determinati lassi cronologici ed epoche definite, all'interno delle quali prevarrà di volta in volta l'uno o l'altro tipo di soprannaturale, in connessione con il panorama storico, sociale e ideologico del periodo. In questa prospettiva, è con la razionalizzazione laica operata dall'illuminismo che inizia ad affermarsi un nuovo statuto, il soprannaturale di ignoranza, il più vicino al «fantastico» teorizzato da Todorov, all'interno del quale la riduzione di eventi inspiegabili e ignoti alle leggi di natura non riesce tuttavia a esaurire l'apprensione che da essi scaturisce. Il permanere dell'incertezza, al di là dell'esito della storia, è messo in atto attraverso espedienti narrativi che mirano a mantenere il lettore in una posizione di difetto rispetto agli eventi raccontati, filtrati tramite una focalizzazione interna parziale o in sé depotenziata, poiché troppo ingenua o intenzionalmente alterata dagli altri personaggi.
Tra fine Settecento e inizio Ottocento sorgono due nuovi «statuti postilluministici del soprannaturale», in cui a rinnovarsi non sono gli elementi fantastici in sé, attinti ancora una volta dal patrimonio immaginifico della tradizione, bensì i significati che essi veicolano e le dinamiche attraverso cui essi si rapportano al piano del reale, così che «non si dubita tanto, o non più, se il soprannaturale sia o non sia; piuttosto si ignora che cosa sia, perché sia e che cosa significhi»67. Se entrambi gli statuti si
caratterizzano per la totale assenza di dubbio intorno alla natura oltre-umana del loro manifestarsi, il primo, quello di trasposizione, dà voce a concreti referenti tematici, dal contenuto a volte profetico, in cui il soprannaturale è chiamato a colmare l'insufficienza della semplice spiegazione razionale. Tutt'altro che velati o nascosti, qui gli elementi di rottura dell'ordinario sono evidenziati e lasciati liberi di esprimersi in tutta la propria autenticità, così da attuare una ri-definizione di sé, conferendosi attributi attuali ben lontani da quelli tradizionali: «le antiche motivazioni, indebolite o perdute» sono «sostituite da rimotivazioni efficaci»68, che possono riguardare realtà
storiche e sociali, ma anche entità psichiche.
L'ultimo statuto teorizzato da Orlando, che si potrebbe definire in un certo senso pienamente novecentesco, è quello di imposizione, che si contraddistingue per la totale assenza di dubbio di fronte al fatto straordinario, il quale non provoca nei 67 Ibidem, p. 222.
protagonisti alcuno sconcerto o esitazione riguardo alla sua esistenza ontologica. È in questa categoria, che condivide col soprannaturale di ignoranza la collocazione in ambienti e situazioni narrative quotidiane, che si inscrivono La biblioteca di Babele di Borges e La Metamorfosi di Kafka, opere nelle quali non si tematizza alcuna incertezza, non c'è spazio per nessun tipo di perplessità verso la «lacerazione» fantastica, né in essa si possono individuare ormai referenti unitari, storici o psichici, che esauriscano appieno il suo significato, come avveniva, invece, nel soprannaturale
di trasposizione:
Rispetto al soprannaturale di trasposizione, il nuovo non è più soltanto assoluto e aggressivo […] Non si individuano più referenti unitari, determinati, tanto meno storici, né ci sono più, del resto, entità che definiscano se stesse. Attenzione, però. Non che, in assenza di precisi referenti, si trascorra nel non senso o in un senso qualunque. C'è qualcosa fra le estremità.69
Perfino là dove «il soprannaturale è gettato davanti al lettore, subito e tutto, con totale violenza e nella sua integralità»70, la narrazione non sfocia mai nell'assurdo del
nonsense, ma è disseminata di significati e costantemente delimitata da regole, i
limiti imprescindibili per l'esistenza stessa del fantastico. Nell'interpretare la letteratura come sede di un ritorno del represso socialmente istituzionalizzato, Orlando intende conferirle anche questa sfaccettatura, identificandola come luogo privilegiato per il ripresentarsi di istanze psichiche e storiche formalmente superate, ma ancora vivide a livello sociale e individuale: si può dunque parlare a ragion veduta di una «formazione di compromesso puramente letteraria»71.
La letteratura dunque possiede «il valore di un negativo fotografico della positività delle culture da cui emana»72, configurandosi come ricettacolo di tutto il
«ciarpame rigettato» dalla dominante prospettiva razionalistica, nella quale permane sempre insopprimibile la fascinazione per ciò che trasgredisce i due principali imperativi che la dominano, quello funzionale e quello razionale. Il fantastico risponde a questa esigenza di trarre piacere dall'immaginario, anche là dove esso sia storicamente e culturalmente rigettato a favore dei lumi della ragione. Viene esplicitato da Orlando:
[…] quel postulato generale che fa della letteratura, pur non ignorando il suo versante 69 Ivi, p. 223.
70 F. ORLANDO, La letteratura fantastica, cit., p. 80.
71 F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 17.
ufficiale o conformista, la sede immaginaria di un ritorno del represso. In altre parole, la presume apertamente o segretamente concessiva, indulgente, parziale, solidale o complice verso tutto quanto incontra distanza, diffidenza, ripugnanza, rifiuto o condanna fuori dalle sue finzioni.73
Appare quindi più complesso fissare netti limiti di demarcazione tra una letteratura per adulti, in cui lo squarcio soprannaturale assume spesso le sinistre sembianze del perturbante freudiano, e una letteratura per l'infanzia che indulge, invece, al meraviglioso e al fiabesco senza inquietudini e titubanze. Sarà più opportuno abbandonare la distinzione per generi, insieme a qualsiasi altro tipo di classificazione esterna e a priori, al fine di evidenziare le forme particolari che il soprannaturale assume nei testi di volta in volta presi in analisi. Da non escludere, infine, la possibilità di individuare, dietro l'esigenza di etichettare come «infantili» opere che si dimostrano maggiormente permissive e aperte al mondo dell'immaginario, un'ulteriore presa di distanza da quei contenuti rimossi avvertiti come inattuali e inaccettabili da parte della mentalità adulta. In tal senso, fiabe e racconti fantastici destinati a un pubblico di lettori bambini si configurerebbero come la più innocua manifestazione del ritorno del represso, sublimato e depotenziato a un triplice livello: quello della finzione letteraria, della trasposizione fantastica e della circoscrizione dell'istanza irrazionale al regno dell'infanzia.
C
APITOLOIII. S
IRENETTE, S
OLDATINI EUSIGNOLIMECCANICI.
EPIFANIE DELSOPRANNATURALENELLEFIABEDIH
ANSC
HRISTIANA
NDERSEN 3.1 «La vita è la fiaba più bella». Pregiudizi e poetica dell'ibridazioneAll'interno del vasto e variegato panorama critico dedicato alla favolistica andersaniana è possibile individuare in via preliminare due costanti di giudizio che, nel corso dei secoli, ne hanno influenzato e a volte pregiudicato la ricezione da parte di narratologi e teorici della letteratura: da una parte il mito di uno scrittore eternamente bambino, un «poeta dal cuore di fanciullo»1 che trova nei suoi racconti il
più roseo coronamento d'una vocazione poetica spontanea e fortemente autobiografica; dall'altra la rigida delimitazione dell'opera di Andersen entro i confini di genere della fiaba, di cui egli a più riprese fu definito «il re»2. Se pur breve e di
maniera, il richiamo al favoloso scrittore danese, di umili origini e dotato di un'ostinata perseveranza lungo la via del successo artistico, ansioso al limite della nevrosi e instancabile viaggiatore, è avvertito come obbligo imprescindibile per chiunque si trovi a trattare la materia favolistica o, più in generale, la letteratura per l'infanzia. La menzione si limita spesso, tuttavia, a mero omaggio formale, arrivando talora a coniare accostamenti critici illegittimi e fuorvianti, come quello, segnalato da Gianni Rodari nella sua presentazione delle fiabe (Einaudi 1970), riscontrabile nella coppia «Grimm-Andersen»:
Un'altra coppia arbitraria è «Grimm e Andersen». […] I Grimm raccolsero le loro fiabe dalla bocca del popolo tedesco, in un particolare momento del Romanticismo, anche se per fortuna non si comportarono da freddi scienziati del folklore. Andersen raccontò, a sua volta, qualcuna delle fiabe ascoltate da bambino, nella libera traduzione della sua memoria: ma il «corpus magnum» delle sue fiabe se lo è tirato fuori, pagina per pagina, dalla sua fantasia e dalla sua vita.3
Non appare casuale che, accennando alle principali fonti della produzione favolistica di Andersen, Rodari ponga al primo posto la «fantasia», ovvero la libera creazione e rielaborazione personale non soltanto di motivi fiabeschi tradizionali, ma anche e soprattutto di temi attinti dalla propria esperienza quotidiana, nonché da
1 H. C. ANDERSEN, Racconti e fiabe, (a cura di) E. POCAR, UTET, Torino 1931, Introduzione di
Ervino Pocar, p. 20. 2 Ibidem, p. 5.
3 H. C. ANDERSEN, Fiabe. Scelte e presentate da Gianni Rodari, (trad. it.) A. M. CASTAGNOLIE M.
«nuove sorgenti del meraviglioso»4. Si deve a Max Lüthi, nel saggio La fiaba
popolare europea5, la primaria distinzione del genere in «fiaba popolare» e «fiaba
d'arte» o «d'autore», nel cui solco sono stati collocati i racconti di Andersen, Hoffmann, Perrault e altri scrittori le cui specifiche letterarie vengono spesso definite in negativo, nella misura in cui essi si discostano dai motivi tradizionali e strutturali della fiaba propriamente detta (tra questi si ricordano: aspazialità e atemporalità del racconto, ricorrenza di funzioni chiave e simboliche, origini popolari e orali della storia). Altre caratteristiche del genere favolistico sono state individuate da Calvino sul piano non strutturale ma tematico:
[…] la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale, la persecuzione dell'innocente e il suo riscatto come termini d'una dialettica interna alla vita; l'amore incontrato prima di conoscerlo e poi sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d'essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d'umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l'infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.6
In questa sede sarà tuttavia opportuno tralasciare entrambe le posizioni teoriche, sia la definizione di «fiaba letteraria» proposta da Lüthi, sia la più ampia disamina dei motivi del fiabesco operata da Calvino, a favore di un maggior spazio riservato ai testi, nelle loro peculiari realizzazioni.
Quanto al secondo pregiudizio di ricezione, quello che vede nei racconti di Andersen l'incessante eco delle proprie umilissime origini, tanto da attribuire spesso alla stessa città natale, Odense, e alla vita dell'autore un'«origine favolosa» e «l'andamento di una fiaba»7, esso rivela subito, a un'analisi più profonda, la propria
parzialità e un'inammissibile imprecisione metodologica, poiché non fa distinzione tra l'Andersen uomo, autore e personaggio, ibridando con troppa superficialità tre piani tra loro intimamente distinti. Se da un lato è condivisibile l'assunto secondo cui nelle fiabe «le orme autobiografiche sono più evidenti che nelle opere teatrali e nelle
4 Ibidem, p. XIX.
5 M. LÜTHI, La fiaba popolare europea, Mursia, Milano 1979.
6 I. CALVINO, Sulla fiaba, Einaudi, Torino 1988, pp. 19-20.
poesie»8, d'altro canto sarebbe ingenuo avvalerci del solo dato biografico per una
indagine critica esaustiva dell'opera di Andersen, ricca di sfaccettature su molteplici livelli di lettura. Posizione che risulta tanto più inammissibile qualora si consideri cogente, da un punto di vista interpretativo, la produzione autobiografica dell'autore stesso, «romanticamente convinto dell'importanza che la conoscenza della vita di un poeta ha per la comprensione della sua opera»9. Fin dal suo debutto nel panorama
letterario europeo nel 1835, con il romanzo L'improvvisatore, dai tratti ampiamente autobiografici, dietro i personaggi delle opere andersaniane sono state lette numerose «rappresentazioni fittizie di sé […] - dal Compagno di viaggio all'Improvvisatore, dal
Violinista all'Ombra al Brutto anatroccolo, passando per tutta una serie di personaggi
delle fiabe e dei romanzi»10, che operano la messa in scena di temi cari al poeta,
come «la storia dell'individuo di umile nascita che attraverso varie peripezie riesce -perché baciato dal destino o perché possiede un talento naturale- ad affermarsi nel mondo e a cogliere i frutti migliori della vita11.
Il ricorrere di alcune costanti contenutistiche, come la solitudine, la povertà, la morte, il riscatto dell'umile protagonista grazie alla fede e alla bontà d'animo, la fiducia in una divina Provvidenza in grado di accogliere nella sua luce gli individui più «fortunati» sono, a mio avviso, solo un aspetto della produzione di Andersen, intessuta su diversi livelli di rimandi letterari, colti o tratti dal repertorio popolare, riassumibili, con le parole dell'autore stesso, in tre macro-aree della sua formazione e, forse, della sua personalità: «Mio padre, Hans Andersen […] spesso ci leggeva
L'originale di Lafontaine, Holberg e Le Mille e una notte»12. A questi aperti rimandi a
tre matrici culturali interne all'opera di Andersen (il repertorio favolistico, quello folklorico e popolare danese e scandinavo e il meraviglioso mondo orientale di Sherazad, dotato di un enorme potere affabulatorio) sembra opportuno aggiungerne un quarto, più implicito, insito nel narratore stesso, ovvero il padre Hans, umile 8 F. BACCHETTI, Andersen e la fiaba: un classico tra letteratura e pedagogia, in Itinerari nella fiaba.
Autori, testi, figure, (a cura di) F. CAMBI, ETS, Pisa 1999, p. 88.
9 A. CASTAGNOLI MANGHI, Presenza di E. T. A. Hoffmann nell'opera di H. C. Andersen, in
Miscellanea di studi in onore di Bonaventura Tecchi, (a cura di) Istituto Italiano di studi germanici
Roma, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1969, Vol. II, p. 395.
10 H. C. ANDERSEN, La fiaba della mia vita, (a cura di) B. BERNI, Donzelli Editore, Roma 2015,
Introduzione di Bruno Berni, p. XI.
11 H. C. ANDERSEN, Peer Fortunato, Iperborea, Milano 2005, Postfazione di B. BERNI, pp. 119-120.
calzolaio il cui «più profondo desiderio» era quello di «frequentare il ginnasio»13.
L'amore per la cultura e la necessità di adeguarsi a un mestiere in cui «non si sentiva felice» si fondono in questa figura amata eppure costantemente assente, o forse amata in virtù della sua assenza, dipinta nell'atto di costruire marionette e giocattoli e di raccontare storie, immortalata in un'eterna aura infantile a causa della morte precoce.
È proprio da una mancanza che sembra aver origine la fantasiosa produzione delle fiabe, di cui Rodari individua un fondamentale meccanismo generativo nella dialettica tra «sofferenza e risarcimento», il quale «non consiste semplicemente nel «prendere spunto» dal vero, ma nel prendersi, sul vero, la sue vendette»14. Ma tale
mancanza non è da ricercarsi in un bisogno di natura personale (d'affetto, di fama, di riconoscimento artistico), bensì in una consapevolezza viva a livello teorico e ideologico, in grado di plasmare tutta la produzione di Andersen e di costituire forse il più potente nucleo unificante delle centocinquantasei fiabe, insieme di testi che, data l'eterogeneità degli esiti narrativi, spesso è sembrato improprio definire corpus. Più ancora che la rasserenante fede in una spiritualità cristiana dai risvolti magici e fantastici (non a caso Rodari parla di «fiabe cristiane»), il centro ideologico che anima i racconti di soldatini innamorati, fiori parlanti e mute sirene è lo stesso che spinge l'autore alla costante messa in scena di se stesso nei suoi personaggi: la continua ricerca, sofferta e inquieta, dell'«ibridazione tra finzione e vita»15, auspicata
e, allo stesso tempo, avvertita come impossibile.
Una simile tesi sembra trovare sostegno anche in una delle ultime rappresentazioni ideali di sé che Andersen delinea nel romanzo del 1870 Peer
Fortunato, dove il talentuoso protagonista, di umilissima famiglia eppure posto «in
alto» dal destino , essendo nato in una soffitta, vive una parabola ascendente di gloria e onori artistici, incontrando il plauso di chiunque fruisca della sua arte e guadagnandosi il titolo di «genio». In quest'epopea di ottimismo e predestinazione, Peer si rivelerà «davvero fortunato», poiché incontrerà la morte all'apice del suo trionfo. Più che dettato «dall'amara consapevolezza dello scrittore dei lati d'ombra 13 Ivi.
14 H. C. ANDERSEN, Fiabe. Scelte e presentate da Gianni Rodari, cit., Introduzione di Gianni Rodari,
p. XV.
della fama e del carattere incostante della fortuna»16, il finale sembra corrispondere
all'esito più naturale di una storia in cui ogni male e sofferenza sono come epurati, in cui la genialità che si esprime in musica, canto e composizione basta, sola, ad appagare l'animo sensibile del bambino prima e del fanciullo-poeta poi. La morte rappresenta, proprio come in molte fiabe, il riscatto o la salvezza di un'esistenza che viene in tal modo preservata da ogni contaminazione con la realtà, immortalandosi nel rigoglio di un momento di gioia e pace. Così accade alla piccola fiammiferaia, che «sedeva con le guance rosse, il sorriso sulle labbra: morta, morta di freddo»17, al
tenace soldatino di stagno, il quale si ritrova «tutto illuminato» e in preda a un gran calore, ma «non sapeva se fosse per il fuoco o per amore»18, o alla muta e sofferente
Sirenetta, che si congiunge infine con le eteree figlie dell'aria.
Il passaggio dalla vita alla morte, o meglio a una nuova e più autentica vita, è avvertito e descritto «solo nei suoi tratti esteriori -così come l'evento viene, di consuetudine, vissuto dai bambini»19. Ciò non risponde alla volontà di epurare dagli
elementi più crudi un avvenimento sentito come tragico, per premura nei confronti di lettori che, si ricordi, Andersen non identificava col solo pubblico infantile20, ma
obbedisce a un'esigenza d'ordine interno: l'auspicata «unione indissolubile di fantasia e realtà»21 può compiersi soltanto in una dimensione ibrida, in cui finzione e verità
coesistano e si fondano in una pienezza estranea alla vita reale, ma congeniale, invece, a quella oltre la morte e al mondo della fiaba. Proprio come la fama