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"Il processo di recovery nelle residenze psichiatriche Italiane: un confronto tra l'abitare supportato e la residenza psichiatrica sul tema della qualità della vita e dello stigma del paziente"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso in Psicologia Clinica e della Salute

Tesi di laurea magistrale

“Il processo di recovery nelle residenze psichiatriche Italiane: un

confronto tra l’abitare supportato e la residenza psichiatrica sul tema

della qualità della vita e dello stigma del paziente”

Relatore:

Prof.ssa Maria Stella Aloisi

Candidato:

Mattia Bronzini

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INDICE

RIASSUNTO ... 4

PARTE I: INTRODUZIONE CAPITOLO 1. Le strutture residenziali psichiatriche in Italia ... 7

1.1 Il Dipartimento di Salute Mentale ... 7

1.2 Le Strutture Residenziali Psichiatriche ... 9

1.2.1. Strutture residenziali psichiatriche di Primo Livello ... 12

1.2.2. Strutture residenziali psichiatriche di Secondo Livello ... 14

1.2.3 Strutture residenziali psichiatriche di Terzo Livello ... 16

1.3 Abitare supportato ... 20

CAPITOLO 2: La recovery ... 22

2.1 Descrizione ... 22

2.1.1 Progetto REFOCUS ... 24

2.2 Lo Stigma ... 30

2.3 La qualità della vita (QoL) ... 40

PARTE 2: FASE SPERIMENTALE 1. Obiettivi e ipotesi ... 49 2. Metodo ... 50 2.1 Partecipanti ... 50 2.2 Procedura e strumenti ... 51 2.3 Analisi statistiche ... 52 3. Risultati ... 53 3.1 Analisi descrittiva ... 53

3.2 test significatività statistica ... 55

4. Discussione ... 56

4.1 Limiti ... 57

4.2 conclusioni ... 58

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4 RIASSUNTO

Le strutture residenziali psichiatriche (SRP) presenti in Italia sono progettate per la presa in carico e la riabilitazione di pazienti con importanti compromissioni della sfera personale e sociale. L’accoglienza è riservata a soggetti diagnosticati con disturbo schizofrenico, dello spettro psicotico, grave disturbo affettivo o di personalità. Il sistema si basa sul concetto di recovery, per cui il paziente è accompagnato verso una maggiore autonomia grazie all’ottimizzazione delle capacità residue e alla compensazione delle carenze, il tutto in un clima di collaborazione attiva.

In Italia, le SRP sono divise in tre livelli di intensità riabilitativa: SRP1, SRP2 ed SRP3 (a sua volta diviso in 3 sottocategorie). Le categorie differiscono per la tipologia di offerta terapeutico riabilitativa e per le fasce orarie in cui è previsto il supporto degli operatori. Le prestazioni sono garantite da un team multidisciplinare composto da psichiatri, psicologi, infermieri ed educatori. Oltre alle SRP, esiste la possibilità per il paziente di essere inserito in un programma di “abitare supportato”. Se il processo di recovery è andato a buon fine, il soggetto può andare a vivere autonomamente in strutture dove solo saltuariamente è prevista l’assistenza di personale sanitario. Il contesto presenta quindi numerose sfide sia di ordine personale che di ordine sociale per il soggetto, ora maggiormente responsabilizzato e autosufficiente rispetto ai precedenti stadi di riabilitazione. Si tratta spesso di una soluzione in caso di impossibilità di reinserimento all’interno del nucleo familiare.

Scopo del presente lavoro di tesi è di valutare i livelli di recovery, qualità di vita e dello stigma tra i pazienti inseriti all’interno del sistema di cure su base residenziale appena descritto. La ricerca si è svolta sul territorio di competenza della USL Toscana Nordovest, in particolare all’interno del centro terapeutico riabilitativo Basaglia di Putignano (PI) e in alcuni appartamenti in provincia di Pisa. I dati quantitativi, ricavati dalle indagini su un campione di pazienti omogeneo per età anagrafica e sotto il profilo diagnostico, sono stati oggetto di confronto tra le due condizioni selezionate. Si ipotizza che, per quanto riguarda la qualità della vita e la recovery, i punteggi registrati siano a vantaggio del

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5 campione in abitare supportato rispetto al campione reclutato nella struttura riabilitativa a intervento più intensivo. Al contrario, l’ipotesi relativa allo stigma è che non necessariamente segua lo stesso andamento degli altri due costrutti. Dato che nell’abitare supportato il soggetto è inserito in un contesto quanto più vicino alla “normalità”, quindi con numerose sfide sia per quanto riguarda la sfera personale, ma soprattutto quella sociale, si ipotizza che possa soffrire maggiormente una etichettatura negativa piuttosto che in fasi precedenti e più “protette” di riabilitazione.

Lo strumento utilizzato per la misurazione della recovery è il test RAS (Recovery Assessment Scale); per la misurazione della qualità di vita abbiamo invece impiegato il questionario WHOQOL breve mentre per lo stigma il questionario QUO (questionnaire on user’s opinion). I tre reattivi citati sono tutti questionari self report del tipo scala likert. Ognuno dei reattivi ha più items suddivisi in sottoscale, sulle quali è stato basato il confronto tra le condizioni sperimentali. Tutti gli strumenti godono di validazione in lingua italiana. I risultati ottenuti dallo studio confermano l’ipotesi relativa allo stigma e alla qualità della vita, effettivamente migliori negli utenti degli appartamenti supportati, ma smentiscono l’ipotesi relativa allo stigma. L’ impatto della discriminazione resta tuttavia molto rilevante in entrambe le condizioni. Sono richieste ulteriori ricerche sul tema, aumentando il campione di riferimento e indagando i possibili effetti di interventi mirati alla riduzione della discriminazione in salute mentale rivolti alla popolazione generale.

Parole chiave: recovery, stigma, qualità di vita, abitare supportato, residenza psichiatrica.

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6 PARTE I: INTRODUZIONE

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7 CAPITOLO 1. Le strutture residenziali psichiatriche in Italia

1.1 Il Dipartimento di Salute Mentale

Nel 1978 l’approvazione della Legge 180, comunemente conosciuta come Legge Basaglia, sancisce la chiusura del manicomio come struttura deputata alla cura della malattia mentale. L’assistenza psichiatrica in Italia subisce un cambiamento radicale, cambiamento che non manca di fare sentire la sua influenza anche all’estero (de Girolamo & Cozza, 2000). Gli ospedali psichiatrici sono stati progressivamente chiusi in favore di una modalità assistenziale di tipo comunitario, attraverso l’attivazione dei Dipartimenti di Salute mentale (DSM).

Un Dipartimento di Salute Mentale comprende tutti i presidi psichiatrici pubblici, ospedalieri ed extraospedalieri per adulti, gestisce tutte le attività atte alla tutela della salute mentale esistenti nel territorio di competenza definito dalla ASL e possiede risorse umane multidisciplinari a direzione unica. In alcuni casi, può includere servizi di neuropsichiatria infantile.

Un DSM comprendere le seguenti unità organizzative: - Centro di Salute Mentale

- Ambulatorio

- Servizio psichiatrico di diagnosi e cura - Day Hospital

- Centro Diurno

- Strutture residenziali

Si tratta del sistema sostituto dell’obsoleto modello manicomiale. Ognuna delle componenti del DSM può essere descritta sulla base dei parametri di: funzioni ed obiettivi, caratteristiche strutturali, livelli di assistenza, risorse umane, attività (Ameddeo et al. 1998).

1) Centro di Salute mentale (CSM): si tratta di una struttura organizzativa, che coordina e svolge le funzioni di programmazione, articolazione, integrazione e verifica degli interventi in un ambito territoriale definito. Le attività di cui si occupa sono di tipo ambulatoriale, ospedaliero, domiciliare, di consulenza e concorre a gestire il Day

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8 Hospital. Può svolgere attività cliniche rivolte al paziente, alla famiglia, attività di riabilitazione, attività socioassistenziale e attività di accoglimento integrate. Costituisce una struttura classificata come “assistenza diurna”. È attivo per 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana e vi lavorano equipe multiprofessionali, con presenza di medici ed infermieri per l’intero orario di apertura.

2) Ambulatorio: è una struttura facente parte dell'unita organizzativa Centro di Salute Mentale, che fornisce in sede prevalentemente attività cliniche per il paziente.

3) Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC): si tratta di un servizio ospedaliero. Eroga trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori in regime di ricovero; esplica attività di consulenza per altri reparti dell’ospedale. Concorre a gestire il Day Hospital (quando collocato in ambito ospedaliero). Ciascun SPDC contiene non più di 16 posti letto ed è dotato di spazi adeguati per le attività comuni. L’assistenza medica e infermieristica è garantita 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana.

4) Day Hospital: tendenzialmente si trova collocato in presidi extraospedalieri (classificata come struttura di assistenza semiresidenziale). Fornisce accoglienza al paziente durante le ore diurne e svolge soprattutto attività diagnostiche e terapeutiche, a breve e medio termine. Attivo per 8 ore al giorno per 6 giorni alla settimana, garantisce la presenza fissa di personale medico, infermieristico e altre figure professionali.

5) Centro Diurno: struttura semiresidenziale collocata nel contesto territoriale. Accoglie i pazienti durante le ore diurne su specifici progetti individualizzati di tipo terapeutico e/o riabilitativo. Le attività erogate rientrano nelle attività di riabilitazione e accoglimento integrato; il servizio può essere rivolto sia al paziente (attività clinica) sia alla famiglia. La struttura è attiva per almeno 8 ore al giorno e per 6 giorni alla settimana; all’interno vi lavorano equipe multidisciplinari supportate occasionalmente da associazioni di volontariato e cooperative sociali. I centri diurni si classificano ulteriormente sulla base dei servizi erogati e della prevalente tipologia di pazienti.

• Centro diurno con finalità risocializzanti: ambiente a bassa stimolazione per pazienti con ridotte abilità e basso funzionamento di tipo sociale. Le attività

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9 proposte sono soprattutto a carattere ricreativo e risocializzante (lettura, conversazione, attività espressive pratico-manuali), a basso coinvolgimento attivo.

• Centro diurno con finalità riabilitative: orientato verso pazienti con capacità meglio conservate e strutturate. Gli obiettivi sono il miglioramento della cura di se (lavarsi, vestirsi, alimentarsi in modo adeguato), il conseguimento di una maggiore autonomia personale e il miglioramento delle abilità sociali. • Centro diurno finalizzato all’inserimento e alla formazione lavorativa: si

prendono in considerazione soprattutto attività artigianali e impiegatizie, con supervisione da parte degli operatori. Le aspettative in merito alle capacità del paziente variano che sia o meno possibile l’inserimento dello stesso sul mercato del lavoro.

• Centro diurno non differenziato come attività: questa categoria è utilizzata qualora la struttura non sia classificabile in nessuna delle categorie sopracitate oppure si caratterizzi per la variabilità dell’offerta.

6) Strutture residenziali

1.2 Le Strutture Residenziali Psichiatriche

Si definisce struttura residenziale psichiatrica (SRP) una struttura extra-ospedaliera in cui si svolge un programma sia terapeutico-riabilitativo che socio-riabilitativo per i cittadini con disturbo psichiatrico. Questi sono inviati dal CSM (centro di salute mentale) con programma di trattamento individuale (PTI) e periodicamente verificato. L’inserimento di un paziente all’interno di una SRP può avvenire solo previa procedura di consenso professionale del CSM. Esistono infatti dei criteri di appropriatezza e condizioni da rispettare prima di procedere. Inoltre, il programma di trattamento individuale deve contenere la sottoscrizione di un “accordo/impegno di cura” tra DSM e utente, che coinvolga anche familiari e rete sociale, al fine di garantire la volontarietà e l’adesione del paziente al trattamento.

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10 Le residenze hanno lo scopo di offrire una rete di rapporti e di opportunità emancipative, all'interno di specifiche attività riabilitative. Non vanno pertanto intese come soluzione abitativa.

Tendenzialmente sono collocate aree urbane e facilmente accessibili per prevenire ogni forma di isolamento delle persone che vi sono ospitate e per favorire lo scambio sociale. Le SRP possono essere realizzate e gestite dal DSM o dal privato sociale e imprenditoriale. In tal caso i rapporti con il DSM sono regolati da appositi accordi ove siano definiti i tetti di attività e le modalità di controllo degli ingressi e delle dimissioni. La residenza psichiatrica si rivolge a soggetti affetti da quadri patologici particolarmente invalidanti, tra i quali: schizofrenia, disturbi dello spettro psicotico, gravi disturbi affettivi, disturbi di personalità con effetti negativi importanti sull’autonomia personale e sul funzionamento sociale. All’interno della struttura, l’organico è composto da una equipe multidisciplinare comprendente medici psichiatri, psicologi, infermieri e operatori sociosanitari (OSS). Per garantire elevati standard di efficacia ed efficienza nelle residenze, ogni membro dell’equipe multidisciplinare ha accesso a percorsi di formazione e aggiornamento volti a potenziare le competenze nella gestione dei singoli casi e nell’intervento di comunità. Almeno una volta a settimana, è prevista la riunione del personale.

Tutte le strutture si impegnano a rispettare le direttive regionali e aziendale, compilate in accordo con le linee guida clinico assistenziali validate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Parallelamente, le strutture sono diverse le une dalle altre per cui sulla carta dei servizi sono elencate le caratteristiche peculiari per ciascuno stabilimento.

Tornando al piano di trattamento individuale, si è parlato di criteri per l’accesso alle SRP. Nello specifico, sono valutati la gravità e la complessità del quadro clinico assieme alla compromissione del funzionamento personale e sociale del paziente. Tali costrutti sono calcolati sulla base di strumenti di valutazione standardizzati (HoNOS, FPS, VADO, BPRS). I risultati della valutazione vanno a definire due aspetti fondamentali per la scelta della SRP più appropriata:

• Il livello di intensità riabilitativa richiesto • Il livello di intensità assistenziale richiesto

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11 Vengono quindi definiti gli interventi di cui necessita il paziente, specifici per durata e qualità delle prestazioni. Se il CSM stabilisce pertanto un PTI globale, l’equipe della residenza declina il percorso clinico assistenziale dell’utente all’interno di un progetto terapeutico riabilitativo personalizzato (PTRP), concordato con il medico responsabile del progetto stesso e dell’invio del paziente in struttura.

Il PTRP deve basarsi su una serie di informazioni e criteri comuni, presenti in una scheda di PTRP, quali:

• Dati anagrafici, diagnosi clinica e funzionale, con informazioni sul contesto familiare e Sociale

• Motivo dell’invio da parte del CSM, tratto dal Piano di trattamento individuale (PTI, che viene allegato)

• Osservazione delle problematiche relative a: - area psicopatologica

- area della cura di sé / ambiente - area della competenza relazionale - area della gestione economica - area delle abilità sociali

• Obiettivi dell’intervento

• Aree di intervento: descrivere la tipologia e il mix di interventi previsti, con riferimento alle seguenti categorie:

- Terapia farmacologica - Psicoterapia

- Interventi psicoeducativi

- Interventi abilitativi e riabilitativi

- Interventi di risocializzazione e di rete per l’inclusione socio-lavorativa

• Indicazione degli operatori coinvolti negli interventi, ivi compresi, quando presenti, gli operatori di reti informali e del volontariato

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12 • Indicazione della durata del programma e delle verifiche periodiche: aggiornamento dell’andamento del PTRP, con indicazione delle date di verifica. (Ministero della Salute, 2013)

Come descritto in precedenza, le SRP si differenziano per garantire un servizio che si adatti il più possibile alle esigenze attuali del paziente. Sulla base delle compromissioni di funzioni, trattabilità e necessità di intervento terapeutico riabilitativo, l’utente viene assegnato ad uno dei tre possibili livelli di SRP. Tali livelli si diversificano in merito alla intensità riabilitativa e intensità assistenziale. Il crescente bisogno di specializzazione ha portato la differenziazione tra le residenze anche sul piano dell’intervento di acuzie, post acuzie, PTRP diversi a seconda che si tratti di disturbo di personalità, comportamento alimentare, utenti afferenti al circuito penale. Nel complesso, il modello su base residenziale è costruito come un unico percorso terapeutico riabilitativo all’interno del quale il paziente è inserito per progredire (in caso di raggiungimento degli obiettivi posti dal PTRP) da situazioni altamente controllate verso una maggiore indipendenza e autonomia. In altre parole, in caso di successo della riabilitazione, il paziente viene dimesso dalla sua struttura e indirizzato verso una struttura più adatta al suo maggiore grado di competenza.

1.2.1. Strutture residenziali psichiatriche di Primo Livello

Si tratta di strutture residenziali per trattamenti terapeutico riabilitativi ad alta intensità. Sono destinate ad utenti caratterizzati da gravi compromissioni del funzionamento personale e sociale, per cui gli interventi devono essere appropriati per una vasta gamma di situazioni diverse, dagli esordi psicotici alle fasi post acuzie. Le indicazioni maggiori sono per i casi in cui le compromissioni sono importanti ma considerate trattabili, specialmente nelle aree della cura del sé e dell’ambiente, della competenza relazionale e della gestione economica. Anche utenti con bassi livelli di autonomia ma disponibili ad affrontare un percorso di cura e riabilitazione, oppure con necessità di osservazione/accudimento in ambiente idoneo sono indicati per le SRP ad alta intensità riabilitativa. Le situazioni più comuni vedono un disturbo cronico o caratterizzato da numerose ricadute nonostante gli sforzi del personale sanitario, spesso associate a grande

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13 difficoltà di inserimento lavorativo parallele a problematiche di inserimento nel nucleo familiare. Schematizzando, nelle strutture residenziali di primo livello si evidenziano:

• condizioni psicopatologiche che portano a frequenti ricoveri e/o necessitano di ulteriore stabilizzazione, anche dopo un periodo di ricovero in SPDC o in programmi di post-acuzie;

• compromissione di funzioni e abilità di livello grave, specie nelle aree funzionali suddette, di recente insorgenza in soggetti mai sottoposti a trattamento residenziale intensivo;

• problemi relazionali gravi in ambito familiare e sociale;

• aderenza al programma terapeutico-riabilitativo almeno sufficiente.

Le aree di intervento all’interno delle SRP di primo livello sono: area psichiatrica, psicologica, riabilitativa, risocializzazione e coordinamento.

• Area clinico psichiatrica: monitoraggio della condizione psicopatologica del paziente attraverso colloqui (anche con la famiglia) e periodica revisione del trattamento farmacologico. Interventi finalizzati alla stabilizzazione del soggetto.

• Area psicologica: sono previsti colloqui clinico/psicologici, psicoterapie, terapie di gruppo e psicoeducazione.

• Area riabilitativa: riabilitazione intensiva di impronta psicosociale, tramite attività strutturate individuali e di gruppo. Il fine è il reinserimento del soggetto all’interno del suo nucleo socio-familiare e possibilmente lavorativo. Previste attività che coinvolgano attivamente l’ospite all’interno delle mansioni di vita quotidiana della struttura.

• Area risocializzazione: attività comunitarie di tipo espressivo, ludico e motorio, anche fuori sede.

• Uso di strumenti scientificamente accreditati per la verifica del raggiungimento degli obiettivi contenuti nel PTRP.

• Area di coordinamento: incontri periodici e frequenti con il CSM che ha in carico il paziente, al fine di monitorare il progetto riabilitativo fino alla dimissione.

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14 Le SRP ad alta intensità riabilitativa prevedono un massimo di 12 posti letto. Il personale sanitario garantisce la presenza nell’arco delle 24 ore; tra le professioni coinvolte, il maggior numero di ore è completato dagli OSS e dagli infermieri. La durata massima del percorso riabilitativo in queste strutture è di 18 mesi, estendibile di 6 mesi previo accordo con il CSM di riferimento. I programmi post acuzie hanno durata massima di 3 mesi.

1.2.2. Strutture residenziali psichiatriche di Secondo Livello

Si tratta di strutture terapeutico riabilitative a carattere estensivo (diversamente dalle strutture di primo livello che sono a carattere intensivo). Le SRP di secondo livello accolgono pazienti con compromissioni del funzionamento personale e sociale di gravità moderata ma persistenti e invalidanti. Tali disturbi richiedono pertanto programmi di assistenza/ tutela a media intensità riabilitativa (quindi anche di consolidamento di abilità residue).

Le situazioni più comuni all’interno di queste strutture comprendono pazienti con importanti difficoltà nella gestione economica, nelle abilità sociali e nella cura di sé. Nel dettaglio, si possono evidenziare:

• condizioni psicopatologiche stabilizzate;

• compromissione di funzioni e abilità di livello grave o moderato, con insorgenza da lungo tempo e/o con pregressi trattamenti riabilitativi, nelle attività di base relative alla cura di sé, oltre che nelle attività sociali complesse;

• problemi relazionali di gravità media o grave in ambito familiare e sociale; • aderenza al programma terapeutico-riabilitativo almeno sufficiente

Esistono due tipologie di SRP per la riabilitazione estensiva.

SRP2-A ad alta intensità assistenziale (24 ore)

Si caratterizzano per la presenza 24 ore al giorno di almeno un operatore sanitario nella struttura. I programmi prevedono una attività clinica meno enfatizzata e una maggiore presenza di attività di riabilitazione. Il numero massimo di posti letto è fissato a 12. Nelle ore notturne è garantita la presenza di un OSS.

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15 • Monitoraggio periodico delle condizioni cliniche da parte dello psichiatra, al fine di mantenere o raggiungere la condizione di stabilizzazione della patologia;

• Interventi strutturati di supporto psicologico e attività di gruppo;

• Attività riabilitative e coinvolgimento del soggetto in mansioni di vita quotidiana;

• Risocializzazione per mezzo di attività espressive, ludiche, motorie di comunità;

• Incontri periodici con il CSM come previsto dal PTI.

La durata massima del programma non può essere superiore a 36 mesi, prorogabile di 12 mesi se concordato con il CSM.

Secondo il progetto PROGRES, incaricato di censire le strutture residenziali psichiatriche italiane e di operare analisi in merito alla loro tipologia, ai servizi offerti, al personale, ai posti letto, alla distribuzione territoriale ed altri aspetti, le SRP ad alta intensità riabilitativa sarebbero di gran lunga le più comuni sul territorio italiano. Infatti, il 73% delle SRP disporrebbe di personale 24 ore su 24, classificandosi come unità ad alta intensità riabilitativa (de Girolamo et al. 2002). Sotto questa classificazione rientrano pertanto le SRP1, SRP2-A (appena descritte) e le SRP3 con personale presente 24 ore al giorno che vedremo in seguito.

SRP2-B a bassa intensità assistenziale (12 ore)

In queste strutture, il personale sanitario garantisce la presenza solo durante le ore diurne. Gli ospiti, pertanto, devono avere adeguate capacità a gestire gli eventi della quotidianità notturna. Come tipologia di offerta si caratterizza per l’attuazione di programmi a media intensità riabilitativa, quindi sia l’attività clinica che di riabilitazione sono ridotte rispetto alle attività di risocializzazione. Il numero massimo di posti letto è fissato a 6. La struttura garantisce i noti interventi di monitoraggio, supporto psicologico e attività di risocializzazione. La differenza maggiore rispetto alle altre SRP di livello 2 risiede in un coinvolgimento più attivo del paziente nelle mansioni di vita quotidiana (dato che è prevista una maggiore autonomia degli ospiti in una struttura a bassa intensità

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16 assistenziale) e la predisposizione di un protocollo per la gestione delle eventuali urgenze notturne.

1.2.3 Strutture residenziali psichiatriche di Terzo Livello

Sono strutture definite a bassa intensità riabilitativa, orientate verso la socio-riabilitazione Accolgono soggetti con diversi gradi di autosufficienza e di compromissione del funzionamento personale e sociale, i quali non possono essere assistiti nel loro contesto familiare. La durata della presa in cura è stabilita nel PTRP non superiore ai 36 mesi (prorogabile in accordo con il CSM di riferimento). In base ai bisogni sanitari e socio assistenziali si individuano tre sotto tipologie di struttura.

• SRP socioriabilitative con personale nelle 24 ore giornaliere: rivolte a pazienti clinicamente stabilizzati. Ci si può concentrare maggiormente sulla sfera del supporto e della riabilitazione di mantenimento dei risultati piuttosto che sull’attività clinica e terapeutica della patologia. Ciò detto, si tratta di casi in cui la cura del sé/ambiente, la competenza relazionale e la gestione economica sono così compromesse da rendere impossibile l’autogestione anche solo per alcune ore. Imprevisti ed emergenze risultano del tutto incontrollabili. Tendenzialmente, giungono in tali strutture soggetti i cui precedenti tentativi di riabilitazione non sono andati a buon fine. È naturalmente richiesta una disponibilità ad aderire al programma terapeutico riabilitativo, come per i servizi descritti in precedenza. Il numero massimo di posti previsti è di 10. Le prestazioni di assistenza sono erogate direttamente dal personale, le attività riabilitative proposte non sono necessariamente strutturate e il paziente non è largamente coinvolto nelle attività quotidiane. Previsti interventi di risocializzazione comunitari ed i canonici processi di monitoraggio sia delle condizioni cliniche del paziente da parte dello psichiatra, sia del PTRI da parte del CSM di riferimento.

• SRP socioriabilitative con personale nelle 12 ore giornaliere: Molto spesso (ma non sempre) i soggetti inseriti in queste strutture hanno avuto precedenti esperienze di successo in SRP con personale 24 ore al giorno. Le carenze nella gestione della propria persona, igiene, alimentazione, parte economica e relazionali sono ancora importanti ma compatibili con un’assistenza garantita solo

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17 nelle 12 ore diurne. Naturalmente, come in precedenza si fa riferimento a condizioni psicopatologiche stabilizzate. Il numero massimo di posti previsto è pari a 8. Rispetto alle strutture con personale presente anche nelle ore notturne, le attività riabilitative erogate sono di tipo assistenziale ma si prevede un maggiore coinvolgimento attivo del soggetto nelle attività quotidiane. Sono previste nell’offerta anche attività comunitarie per la socio-riabilitazione prevalentemente fuori sede. Come nel caso delle SRP2-B, è predisposto un protocollo per la gestione di eventuali emergenze notturne. Il CSM opera periodicamente il progetto socioriabilitativo.

• SRP socioriabilitative con personale a fasce orarie: La tipologia di offerta è caratterizzata dall’attuazione di programmi a bassa intensità riabilitativa. Generalmente, ma non esclusivamente, si tratta di soggetti sottoposti con successo a percorsi in strutture SRP con personale presente nelle 24 ore e nelle 12 ore. Il numero di posti massimo è di 6. In questo caso, l’assistenza è orientata soprattutto alla supervisione nella pianificazione delle attività di vita quotidiana. Le situazioni più comuni vedono infatti soggetti con una buona autonomia, sviluppata in funzione di competenze che richiedono assistenza solo in determinate fasce orarie diurne. Gli imprevisti sono gestiti generalmente in modo autonomo e adeguato. Le attività garantite dall’offerta della struttura sono: monitoraggio psichiatrico della condizione clinica dei pazienti, proposte di risocializzazione, supervisione della gestione del quotidiano e protocollo predisposto per le emergenze notturne, controllo periodico del CSM in merito al progetto socioriabilitativo.

Il progetto PROGRES (citato in precedenza) si è occupato di censire ed analizzare le SRP presenti in Italia, portando alla luce i seguenti dati.

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18 Figura 1. Le caratteristiche delle strutture residenziali censite dal progetto PROGRES

(2001)

Nel 2001, sono stati raccolti dati in merito a 1370 strutture residenziali (con almeno 4 posti letto) diffuse su tutto il territorio nazionale. La fig.1 mostra alcuni dei risultati più interessanti. Come già precisato, la maggioranza delle SRP si classifica come ad alta intensità riabilitativa, vale a dire con personale presente in struttura per 24 ore al giorno. Un altro aspetto significativo è il dato sulle dimissioni annuali. Nel 1999, risulta infatti che circa il 38% delle residenze non ha dimesso alcun paziente e solo il 30.8% del campione ha dimesso più di 2 pazienti nello stesso anno. Secondo una approfondita analisi dei fattori potenzialmente legati a questo dato, emerge che la presenza di pazienti ex degenti in ospedali psichiatrici, l’età media avanzata e la gestione privata della residenza sono correlati positivamente con il basso turnover. Tralasciando il riscontro controverso in merito alle SRP private, in generale una buona percentuale di pazienti a lungo termine risulta poco responsiva alle terapie, restando praticamente a vita all’interno del sistema comunitario (de Girolamo et al. 2004). Questo risulta essere un aspetto importante in quanto si pone in contrasto con il modello teorico caratteristico del sistema stesso. Come accennato durante la descrizione dei vari livelli di intensità riabilitativa che

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19 distinguono le SRP, il paziente dovrebbe essere inserito all’interno di un “continuum” terapeutico; un percorso in cui sia previsto il passaggio da una struttura a maggior intensità di riabilitazione/minori gradi di libertà ad una con intensità di riabilitazione decrescente e maggiori gradi di libertà (Drachman D. 1981). L’elevata specializzazione delle strutture garantisce che la progressione sia graduale e non traumatica per gli ospiti; oltretutto, impedisce che in caso di importanti ricadute il paziente debba regredire a situazioni largamente controllate (potenzialmente sperimentate in precedenza) rispetto al traguardo raggiunto. Il concetto di continuum vuole garantire esattamente questo aspetto. Come ripetuto in più occasioni, il paziente è inserito nelle strutture con un PTRP costantemente monitorato. Il programma terapeutico personalizzato ha delle scadenze (prorogabili) e quando un soggetto mostra progressi soddisfacenti nell’autonomia personale e nelle competenze relazionali, raggiungendo gli obiettivi elencati nel PTRP, viene spostato in una unità supervisionata ma più indipendente. Al termine del percorso, l’individuo viene dimesso per andare ad inserirsi nella comunità. Tuttavia, a fronte di questa impalcatura teorica, talvolta l’applicazione pratica risulta complicata. Il quadro evidenziato da PROGRES mette in luce alcune criticità. La stragrande maggioranza delle strutture deve garantire personale 24 ore al giorno e una buona fetta degli ospiti non progredisce né abbandona la riabilitazione come auspicato. PJ Carling, tra le possibili ragioni del fenomeno, identifica:

- L’inserimento dei pazienti in strutture quando potrebbero essere dimessi dal sistema, questo al solo scopo di aderire ciecamente alla procedura organizzata in step successivi,

- Difficoltà nello spostamento dei soggetti da una abitazione all’altra a causa di mancanza di posti disponibili al momento del trasferimento,

- L’acquisizione di abilità e skill in un ambiente protetto non sempre garantisce le stesse competenze del paziente in ambienti meno protetti.

È altresì importante sottolineare come i dati provenienti dall’indagine siano ormai datati. Inoltre, gli sforzi attualmente profusi per migliorare le applicazioni del modello sono numerosi e in molti casi proficui. Si evidenziano progetti in Italia (tra cui Grosseto) volti ad aumentare il turnover degli utenti il più possibile, riducendo parallelamente il livello di sorveglianza richiesto dalle strutture coinvolte in favore del modello di abitazione supportata.

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20 1.3 Abitare supportato

Il sistema delle strutture residenziali psichiatriche appena descritto risponde precisamente alla concezione di salute come stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, stabilire relazioni soddisfacenti e mature, rispondere efficacemente alle esigenze quotidiane. In quest’ottica, si incentiva il più possibile la dimissione del paziente (nonostante questa non sia sempre facilmente raggiungibile) e il trasferimento verso strutture sempre meno controllate per aumentare l’autonomia dello stesso e rendere possibile un approdo in comunità. Così nasce l’abitare supportato. “Abitare” ha un significato profondo, in quanto è un concetto diverso per ciascun essere umano, legato alla propria identità personale. Ci si oppone ad una medicina spersonalizzante e ci si muove verso una presa in carico che abbia in grande considerazione l’uomo. L’abitare supportato sposa questa filosofia. Per “abitare supportato” intendiamo una soluzione abitativa definita come “abitare in autonomia” o “residenzialità leggera”. Le abitazioni di questo tipo sono frequentemente l’ultimo step di un percorso terapeutico riabilitativo di successo all’interno delle SRP. Si tratta di soluzioni cucite addosso al paziente, quindi molto personalizzate; è difficile pertanto stabilire caratteristiche comuni a queste strutture. In ogni caso, il loro scopo è la promozione di emancipazione e autonomia. Il personale sanitario, infatti, offre servizi a domicilio di carattere riabilitativo a fasce orarie flessibili e aderenti alle esigenze di ciascun utente. All’interno della stessa categoria di abitazioni rientrano anche i “gruppi appartamento”, o case di “auto-mutuo-aiuto”. Ci si riferisce a strutture che ospitano gruppi di pazienti precedentemente inseriti in residenzialità più restrittiva e che si supportano mutualmente. Sono considerate molto utili e proficue in quanto stimolano l’indipendenza e l’autonomia di ciascun individuo in assenza di personale sanitario. Naturalmente, per gli utenti la maggiore indipendenza presenta anche maggiori sfide e responsabilità. Si tratta infatti di contesti abitativi del tutto simili alla realtà quotidiana della maggior parte delle persone, per cui le sfide personali ma anche sociali sono numerose. La persona si trova nella condizione di poter acquisire ed esercitare le necessarie abilità della vita quotidiana e di convivenza. La stessa giornata è scandita e strutturata secondo ritmi di normalità; ritmi legati ad un impiego lavorativo, la gestione

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21 del tempo libero e delle relazioni sociali. Un progetto come l’abitare supportato va quindi inserito in una realtà complessa. Deve tenere di conto delle dinamiche relazionali interne ed esterne dei soggetti, del contesto abitativo, delle risorse attivabili dal contesto socio-culturale della persona, rete familiare, comunità locale. In conclusione, l’abitare è un diritto della persona che va sostenuto e garantito. La domiciliarità si lega con l’attribuzione di senso e significato alla propria vita e al proprio essere in relazione con gli altri, nonché al benessere individuale. È un modo per favorire il processo di guarigione attraverso l’espletamento di ruoli sociali e rappresenta lo strumento principale per l’ultima fase del processo di riabilitazione psichiatrica, ossia quella dell’applicazione negli ambienti reali della comunità delle abilità apprese nei programmi riabilitativi e generalizzazione delle stesse. Il progetto dell’abitare va in questa direzione, cercando risposte e soluzioni creative alle situazioni difficili della psichiatria.

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22 CAPITOLO 2: La recovery

2.1 Descrizione

La recovery (o personal recovery) è un processo il cui scopo è il perseguimento di una vita ricca di significato e lo sviluppo di un ruolo sociale di valore all’interno della comunità nonostante la presenza di sintomi (Slade M., 2009). Si tratta di un processo profondamente personalizzato. Durante il percorso, la persona impara a sviluppare e conservare un proprio senso di identità ed inizia a immaginare la sua vita dipingendola come vorrebbe che fosse, pianificando un modo per raggiungere tale obiettivo cercando il supporto necessario e sviluppando le abilità necessarie (Bejerholm & Roe, 2018). Schematizzando, i principi su cui si fonda la recovery in salute mentale sono i seguenti (Starace):

- Unicità della persona,

- Scelte individuali e indipendenti, scelte autentiche, - Diritti e atteggiamento proattivo,

- Dignità e rispetto,

- Comunicazione e partnership con i servizi,

- Continua valutazione e misurazione della pratica clinica orientata alla recovery.

Sono stati individuati anche alcuni fattori che supportano e favoriscono il processo. Nel dettaglio, evitare comportamenti a rischio per la salute e dipendenze da sostanze, avere un luogo sicuro dove vivere, condurre attività significative come lo studio, il lavoro e lo svago e fare parte della comunità (inclusi e amici e familiari) sono considerati aspetti favorevoli alla recovery.

La “personal recovery” deve essere distinta dalla “clinical recovery”. Infatti, la prima non fa riferimento ad un recupero di tipo clinico o alla remissione sintomatica, ma piuttosto alla possibilità di costruire una vita ricca di significato in accordo con i propri valori. Proprio in virtù del suo aspetto “soggettivo”, è difficile trovare una definizione univoca di recovery, motivo per cui ne sono state proposte diverse. Quella più citata risale ad

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23 Anthony William (1993), che descrive la recovery come “un percorso di cambiamento

profondamente personale delle proprie attitudini, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e/o ruoli così da poter vivere una vita soddisfacente nonostante le limitazioni causate dalla malattia. La recovery coinvolge lo sviluppo di nuovi significati e scopi nella vita dell’individuo nel momento in cui cresce attraverso gli effetti catastrofici della malattia mentale”.

È in rapida crescita la letteratura relativa alle esperienze di recovery in prima persona. Numerosi pazienti offrono il loro punto di vista su cosa ha significato per loro il percorso e ciò ha permesso di riunire ed enucleare gli aspetti della recovery maggiormente rappresentati nelle storie raccolte. Nasce l’acronimo inglese CHIME (Leamy L. et al. 2011) (Slade M. et al. 2012):

- Connectedness: percezione di supporto ed integrazione nella comunità - Hope/optimism: speranza ed ottimismo verso il futuro

- Identity: il superamento dello stigma e la capacità di ridefinire una propria identità anche all’interno del quadro patologico

- Meaning in Life: il significato dell’esperienza di malattia, qualità della vita, ruolo sociale e obiettivi

- Empowerment: responsabilità personale, controllo, focalizzazione sulle proprie risorse disponibili.

L’empowerment gioca un ruolo fondamentale nella comprensione dell’efficacia della personal recovery (Slade M. 2009). È considerato una priorità chiave dall’OMS per quanto riguarda il futuro dei servizi di salute mentale (WHO, 2010). Storicamente, le persone con malattie mentali non avevano potere o voce in capitolo neanche per quanto riguardava le attività fondamentali della loro vita. L’empowerment muove da questa base; è la sensazione di avere il diritto di prendere decisioni personali in modo autonomo, assumersi le proprie responsabilità e valutare le conseguenze delle azioni compiute, così come chiunque altro. Empowerment significa essere maggiormente autonomi e sicuri di sé, avere il diritto di autodeterminarsi in assenza di coercizioni esterne. Come costrutto, impatta positivamente l’autostima e l’autoefficacia. Dal momento che la malattia mentale, i suoi trattamenti e le sue conseguenze generano un senso di impotenza, i servizi di salute

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24 mentale devono attivare una rete di assistenza sociale per incoraggiare gli utenti attraverso periodi di vulnerabilità e transizione complicate. Supporto, genuino incoraggiamento e condivisione delle aspettative sulla capacità di padroneggiare le varie situazioni di vita si sono dimostrate caratteristiche centrali del processo di recovery.

Il costrutto della recovery può essere valutato quantitativamente tramite l’utilizzo di scale di valutazione standardizzate. Tra questi strumenti, uno dei più utilizzati è la scala RAS (recovery assessment scale) (Corrigan et al. 1999). Composto da 41 items, va ad indagare 5 costrutti:

- Fiducia in sé stessi e speranza - Disponibilità a chiedere aiuto

- Orientamento ad obiettivi ed al successo - Fiducia negli altri

- Non sentirsi dominati dai sintomi

Ognuno dei 41 items prevede risposte lungo una scala likert a 5 varianti. All’interno del percorso sperimentale della tesi, il test RAS viene impiegato per valutare il grado di recovery raggiunto dai soggetti residenti all’interno del sistema residenziale, valutando l’andamento del costrutto in relazione alla quantità di assistenza fornita e al quadro clinico.

2.1.1 Progetto REFOCUS

L’associazione Rethink Mental Illness, fondata nel 1972 da John Pringle, crede che le persone con malattia mentale dovrebbero essere incoraggiate a raggiungere i propri scopi ed obiettivi personali in ogni ambito della loro vita. All’interno degli oltre 300 servizi offerti dall’associazione, si lavora per implementare il più possibile i precetti della recovery, cercando di estendere un modello centrato sulla persona anche ad altri servizi di salute mentale. Lo studio REFOCUS (Mike Slade, 2011) nasce con questo scopo, ovvero la sperimentazione di un nuovo approccio finalizzato ad aiutare i servizi di salute mentale a diventare maggiormente orientati alla recovery. È un intervento basato su strategie specifiche, tra cui condivisione di informazioni, riflessione in equipe e formazione.

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25 L’intervento REFOCUS si propone di raggiungere 2 obiettivi:

- Ridefinire il modo di lavorare dell’equipe terapeutica verso gli utenti del servizio di salute mentale,

- Stabilire quali attività terapeutiche saranno discusse con l’utente e realizzate operativamente.

I due punti del programma terapeutico sono rispettivamente denominati “relazioni che promuovono la recovery” e “prassi di lavoro”. L’intervento risulta così costituito da 2 elementi.

Le relazioni che promuovono la recovery

Le relazioni che coinvolgono gli operatori del servizio di salute mentale e gli utenti del servizio stesso, rivestono un aspetto fondamentale per la recovery. Le relazioni a supporto del processo riflettono i valori pro recovery degli operatori e spesso sfruttano specifiche abilità interpersonali e di coaching. Il raggiungimento di tale scopo implica che l’intera equipe del servizio partecipi alla formazione sulla recovery e sul coaching, agli incontri di discussione e riflessione, alla pianificazione e realizzazione di un progetto di collaborazione con l’utente. I valori dei clinici sottendono il loro comportamento. Durante la valutazione, ad esempio, si sceglie di fare domande su alcuni argomenti e non su altri, si dà priorità ad alcuni obiettivi anziché altri, sulla base dei propri valori. Per questo, il singolo operatore è invitato a seguire i 3 valori fondamentali della recovery:

- Valore 1: il supporto alla personal recovery. Primo e principale obiettivo dei servizi di salute mentale. Fornire un trattamento può rappresentare un contributo importante, ma si tratta di un mezzo e non di un fine. L’intervento in condizioni di crisi dell’utente può senz’altro rivelarsi prioritario, ma comunque orientato al raggiungimento di una autonomia e alla soddisfazione dello stesso.

- Valore 2: identificazione, definizione e sostegno agli obiettivi personali dell’utente. Se le persone devono essere responsabili della propria vita, allora sostenere questo processo significa evitare di imporre significati e supposizioni cliniche su ciò che è importante e offrire invece un supporto che sia in linea con i valori della persona.

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26 - Valore 3: le persone sono o (in situazioni di crisi) saranno responsabili delle loro vite. Il compito primario in salute mentale è sostenere le persone a sviluppare e utilizzare capacità che li rendano autonomi nella loro vita. Tali valori è importante che siano condivisi ed assimilati sia dal singolo operatore, sia a livello di equipe.

Naturalmente, lavorare in modo da supportare la recovery comporta l’acquisizione di conoscenze su di essa. Sono quindi necessari incontri di formazione e di riflessione in equipe. Il professionista deve conoscere la differenza tra personal recovery e clinical recovery, sapere che la personal recovery può avvenire sia fuori che dentro il setting del servizio, ricordare come lo stigma possa costituire una barriera alla recovery (per cui il linguaggio usato deve sottolineare un aspetto di continuità tra salute e malattia e non demarcare confini). Esattamente dalla necessità di un linguaggio appropriato ed efficace nel setting terapeutico, nasce il coaching, uno specifico stile interpersonale che supporta la recovery. Non si tratta di una terapia, ma piuttosto riguarda il modo di aiutare una persona ad utilizzare le proprie risorse. Il coaching per l’approccio alla recovery implica 5 fasi (acronimo REACH):

- Riflessione (Reflect): la riflessione parte dalla capacità di ascolto dell’operatore rispetto al cliente. È un modo per monitorare l’andamento del percorso di recovery, gli aspetti sotto il controllo del paziente e la sua responsabilità per il cambiamento.

- Esplorare (Explore): esplorare le difficoltà, i problemi, i compiti e le opzioni. Le domande utilizzate devono essere mirate.

- Concordare i risultati attesi (Agree outcomes): è una fase del colloquio fondamentale per definire e concordare i risultati desiderati. Può essere che l’operatore “sfidi” l’utente per suscitare maggiore senso di responsabilità verso i propri obiettivi e la propria salute.

- Impegno all’azione (Commitment): fondamentale, aiuta la persona e l’operatore ad individuare le azioni da intraprendere e quando metterle in atto. - Presa di responsabilità (Hold to account): parte finale del colloquio,

concordare come la persona si prenderà responsabilità delle proprie azioni. Infine, come ultimo aspetto utile alla formazione di relazioni che promuovono la recovery, troviamo il progetto di collaborazione. Si tratta di alcune attività che equipe e

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27 utenti possono svolgere in cooperativa. Ad esempio, poiché uno dei più potenti veicoli per acquisire conoscenze sulla recovery è l’ascolto di testimonianze di esperienza diretta, è possibile far gestire un audit o un progetto di formazione proprio dagli utenti.

Prassi di lavoro

1) La prima prassi per un lavoro terapeutico orientato alla recovery è comprendere i valori dell’utente e le preferenze di trattamento. Solo quando i valori della persona sono condivisi e caratterizzano il processo decisionale, il servizio lavora “con” la persona e non “sulla” persona. Si ricerca un progetto di cura sempre più personalizzato e frutto di una collaborazione clinico-paziente. Pertanto, gli operatori sono chiamati a indagare valori e preferenze di trattamento della persona e di registrare tutto in una cartella clinica. Comprendere i valori di un individuo è un processo lungo e delicato. È possibile dover indagare temi sensibili, come esperienze di discriminazione (individui appartenenti a minoranze) oppure raccogliere la storia di vita del paziente. I valori di una persona possono anche modificarsi nel tempo, per cui una sola seduta può non essere sufficiente, anche perché uno scambio autentico sul tema ha come requisito una solida alleanza terapeutica. Il colloquio va gestito secondo i principi del coaching. Serve essere rispettosi, umili e non dare per scontato o considerare poco importante alcun aspetto del discorso. Esistono 3 possibili stili di conversazione (non mutualmente esclusivi); il terapeuta sceglie quello che maggiormente si accorda con le preferenze dell’utente:

- Approccio discorsivo: è la classica conversazione aperta. Per aiutare l’operatore nella raccolta delle informazioni, esiste anche l’intervista VPT (valori e preferenze di trattamento), che inizia con domande relative ai valori personali e in seguito alle preferenze di trattamento.

- Approccio narrativo: il secondo modo per comprendere i valori è sostenere la persona nello scrivere le proprie storie e racconti personali da condividere con l’operatore. L’utente per cui, seguendo delle tracce o la stessa intervista VPT, scrive personalmente quali sono i suoi valori e le sue preferenze di trattamento - Approccio visivo: Il terzo approccio è quello delle mappe visuali. Si assiste il soggetto mentre completa le life maps (mappe della propria vita). I modelli più comuni di life maps sono le mappe delle relazioni, delle origini personali, del chi sono, delle preferenze, delle scelte (mie/altrui) e del rispetto. Spesso,

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28 tutte queste mappe possono essere incluse in una singola mappa, oppure l’attenzione può essere rivolta selettivamente ad un’area alla volta.

2) La seconda prassi di lavoro orientata alla recovery è la valutazione dei punti di forza dell’utente. La salute è qualcosa di più dell’assenza di malattia, pertanto il lavoro non si conclude con il trattamento del sintomo, ma con l’amplificazione dei punti di forza individuali. Con punti di forza si intendono le risorse che la persona ha disponibili e si dividono tra interne ed esterne.

Le risorse interne sono un qualcosa di positivo della persona, come qualità personali, caratteristiche, talenti, competenze, interessi e aspirazioni. Possono essere risorse interne l’ottimismo, la condivisione empatica, strategie che in passato si sono rivelate utili, esperienze di formazione ecc.

Le risorse esterne, invece, comprendono qualsiasi cosa aiuti o possa aiutare la persona nella sua vita. Esempi di risorse esterne sono il denaro, una casa in cui vivere, una famiglia disponibile, amici, un lavoro pagato, gli stessi servizi del centro di salute mentale. Valutare i punti di forza significa sviluppare una comprensione globale della persona. Per aiutarsi nel compito, l’operatore può utilizzare strumenti come la scheda di lavoro dei punti di forza. Copre 6 aree della vita, tra cui: vita quotidiana, finanziaria, occupazionale, supporti sociali, salute e area spirituale-culturale. È annessa una lista dei punti di forza con esempi di domande/suggerimenti per ogni area.

Durante la raccolta delle informazioni in merito alle risorse dell’individuo, l’operatore deve indagare attentamente ogni area e agire in un clima di collaborazione con la persona per arrivare ad un quadro che ne rifletta la piena identità (culturale, di genere e spirituale). È importante evitare il biasimo e non giudicare, ma piuttosto credere nella persona, scoprire la sua unicità, svelare e comprendere ciò che più desidera e, infine, condividere e concordare i risultati raggiunti.

3) La terza e ultima prassi di lavoro è il sostenere l’impegno a raggiungere gli obiettivi. Raggiungere obiettivi importanti è un’esperienza molto positiva per l’individuo. Ma, cosa forse ancora più importante per la recovery, è il processo di impegno stesso nel raggiungere tali traguardi che risulta determinante nel miglioramento. Aumentare il proprio impegno e le proprie attività è un modo per aumentare la propria speranza, autostima e resilienza. Il soggetto si sente responsabilizzato e cresce l’esperienza su come

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29 gestire ed affrontare le sfide del disturbo mentale. Per l’operatore è importante perciò conoscere gli obiettivi più importanti della persona e lavorare in collaborazione con essa per raggiungerli. Sostenere l’impegno è un processo fondato su 6 principi generali:

• L’impegno a raggiungere gli obiettivi è fondato sul coaching: l’acronimo GROW sta per goal (obiettivi, dove voglio andare?), reality (qual è la situazione attuale?), options (opzioni, quali strade ho per avvicinarmi alla meta?), wrap-up (riepilogo). • Gli obiettivi della persona sono il focus principale su cui pianificare le azioni: ci possono essere target secondari da perseguire, ma comunque rivolti agli obiettivi personali significativi dell’utente.

• Gli obiettivi da perseguire attivamente sono più raggiungibili e sostenibili degli obiettivi di evitamento: anche il linguaggio in questo aiuta. È sempre più utile formulare un desiderio non come fuga da qualcosa (ad esempio, voglio consumare meno farmaci), ma come movimento verso qualcosa (voglio imparare altre strategie, oltre ai farmaci, per gestire i miei sintomi).

• Lo sforzo verso un obiettivo è basato sui valori di una persona e sulle sue preferenze di trattamento: questo è un aspetto fondante in quanto non esiste solo un modo per raggiungere un traguardo. Alcune persone potrebbero richiedere un forte contributo da parte del servizio di salute mentale, altre meno, per esempio. Il livello, la tipologia del supporto preferito, non sono uguali per tutti.

• L’impegno per raggiungere l’obiettivo si basa sui punti di forza: il messaggio è che la persona non è deficitaria o bisognosa di essere guarita, ma piuttosto che ha la capacità nel tempo di autogestirsi.

• Le azioni dovrebbero concentrarsi sul supportare la persona a fare il più possibile per loro stesse: è importante che i progressi vengano prodotti dalla persona insieme all’operatore o in autonomia. Si sconsiglia un approccio passivo, che può risultare più un ostacolo che un vantaggio per la recovery.

Come nei processi standard di programmazione dei progetti terapeutici, anche questo comprende fasi di identificazione degli obiettivi e pianificazione delle azioni. La sfida all’identificazione degli obiettivi è spesso costituita dal passato degli utenti, i quali si sono trovati a dover gestire fallimenti, esperienze di discriminazione e in generale la sensazione di bassa autostima e basso controllo sul loro destino. Per queste ragioni,

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30 l’operatore può avere bisogno di più sedute per instaurare un rapporto di fiducia con la persona e migliorare la sua percezione di autoefficacia. Una volta completata questa fase ancora preliminare, si passa alla pianificazione delle azioni da compiere in collaborazione. A questo scopo, può essere utile suddividere gli obiettivi finali in tanti piccoli step intermedi, assegnare delle priorità e identificare i punti di forza che maggiormente sosterranno l’utente in questo suo percorso.

2.2 Lo Stigma

Trattando di personal recovery, non si può non fare riferimento ai concetti di stigma. Nel seguente estratto dal racconto del 1997 di Patricia Deegan, psicologa e ricercatrice diagnosticata schizofrenica in adolescenza, si evince come la percezione di essere discriminati e la sensazione di essere diversi, “etichettati” dalla malattia, possano essere dolorosi. Ovviamente, il semplice cambiare il modo di riferirsi ai pazienti psichiatrici non basta, serve modificare l’intero paradigma e abbracciare una psichiatria che abbia l’aspetto umano come cardine principale: “Percepiamo adesso come denigratorio se ci

chiamano con l’appellativo di “malati mentali” o “schizofrenici”, “bipolari”, “personalità multipla” ecc. Siamo persone che sono state etichettate con una malattia mentale, persone etichettate con la schizofrenia, persone con disordini dissociativi ecc. Noi vogliamo che la nostra persona sia riconosciuta prima della nostra diagnosi psichiatrica” (Deegan P. 1997).

Come si definisce lo stigma? Storicamente, si sono succedute varie definizioni e concettualizzazioni del costrutto. La definizione classica di stigma nella malattia mentale è quella data da Goffman: “un attributo profondamente screditante…”. Il riconoscere tale attributo da parte della persona stigmatizzata porta ad essere “ridotta da persona normale

ad una rovinata e svalutata.” (Goffman E. 1963).

Jones e colleghi sostengono che lo stigma si verifica ogni volta in cui ad un individuo sono attribuite caratteristiche indesiderabili in grado di screditarlo (Jones E. et al 1984). Hanno proposto 6 dimensioni relative al costrutto:

- Conceability: quanto una caratteristica è evidente o riconoscibile agli altri - Decorso: se la condizione stigmatizzante è permanente o reversibile

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31 - Disturbo: l’impatto dell’oggetto stigmatizzante sulle relazioni interpersonali - Estetica: se l’oggetto stigmatizzante elicita reazioni di disgusto o risulta

repulsivo

- Origine: la causa dello stigma, in particolare se l’individuo è percepito come responsabile della sua condizione

- Pericolo: il grado in cui la causa dello stigma è percepita come una minaccia o un pericolo.

Link e Phelan nel 2001 presentano un’ulteriore definizione di stigma più orientata al contesto sociale e meno focalizzata sull’esperienza individuale. Secondo gli autori, lo stigma sarebbe “La presenza contemporanea dei seguenti elementi: stereotipo, etichetta,

segregazione, perdita di status e discriminazione”. (Link and Phelan, 2001).

Una distinzione molto importante è proposta da Corrigan nel 2005, il quale scinde il costrutto in “self stigma” e “public stigma”. All’interno di queste due aree, si distinguono a loro volta 3 aspetti: stereotipi, pregiudizio e discriminazione (Corrigan P. 2005). Infine, secondo Thorncroft lo stigma sarebbe un problema di: conoscenza (ignoranza e disinformazione), attitudine (pregiudizio) e comportamento (discriminazione) (Thorncroft et al. 2007).

Tornando alla definizione di Corrigan, quando parliamo di public stigma (o social stigma) ci riferiamo al modo in cui la società e la maggior parte delle persone percepiscono gli individui con problemi di salute mentale; il self stigma si riferisce invece al grado in cui la vittima ha internalizzato i contenuti discriminatori. Quest’ultimo aspetto è determinante, infatti la consapevolezza dello stigma da parte del soggetto può condurre a comportamenti disfunzionali, ansia anticipatoria, abbassamento dell’autostima e dell’autoefficacia (Corrigan et al. 2006), andando ad incidere negativamente sulla qualità della vita. Può anche essere indicato come “internalized stigma”.

La ricerca ha individuato nello stigma uno dei fattori che ostacolano il funzionamento sociale e psicologico delle persone che soffrono di un severo disturbo mentale. Nonostante il recente periodo storico abbia visto un progressivo aumento dell’accettazione sociale per disturbi mentali come la depressione e i disordini alimentari, non è stato così per i quadri nosografici comunemente classificati come più gravi, tra cui la schizofrenia (Room R. et al. 2001). In svariati contesti, le persone con questo disturbo sono percepite come imprevedibili, aggressive e pericolose (Dickerson FB et al. 2002)

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32 (Lundberg B. et al. 2007). L’opinione comune che la schizofrenia sia diversa da ogni altro quadro patologico somatico o mentale implica livelli di discriminazione più elevati sia in ambito sociale che lavorativo (Angermeyer MC et al. 2004), un ritardo nell’accesso a trattamenti appropriati e maggiori ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi di vita. Lo stigma non interessa soltanto le persone diagnosticate con un disturbo mentale, ma anche coloro che si prendono cura degli stessi e stanno loro vicino (Sideli L. et al. 2016). Il fenomeno prende il nome di “stigma dell’affiliato” ed è stato associato ad un aumentato carico da parte dei familiari nel prendersi cura del loro caro e ad un’aumentata consapevolezza da parte del paziente stesso sulla sua condizione di emarginato (Van Zels C. et al. 2014) (Phelan JC et al. 1998). Gli effetti dello stigma da affiliazione sono pervasivi ed incidono pertanto sia sulla qualità della vita dei familiari che dei pazienti. Considerata la rilevanza che assume il fenomeno dello stigma in tutte le sue sfaccettature, è importante avere a diposizione strumenti validi di assessment per misurarlo. In Italia, è stata sviluppata la scala QUO (questionnaire on user’s opinion) (Magliano L. et al. 2009), questionario composto da 50 items, contenente sia domande aperte sia items con scala likert a 4 punti, utilizzato nella fase sperimentale della presente tesi.

Nel 2010 è stata prodotta una review sistematica da Livingstone e Boyd sul tema particolare del self stigma nelle patologie mentali, con lo scopo di riconoscere i fattori predisponenti/causativi del fenomeno e i suoi effetti negativi. In totale sono stati presi in considerazione 127 articoli, la maggior parte dei quali pubblicati dopo il 2000 (a testimonianza di quanto l’interesse per il tema sia un fenomeno piuttosto recente). I soggetti coinvolti sono stati circa 6000. Si indagano eventuali relazioni tra il self stigma e:

- Varabili sociodemografiche - Variabili psicosociali

- Variabili cliniche-psichiatriche

Dai risultati emerge che le variabili sociodemografiche considerate non sembrano essere strettamente legate al costrutto analizzato. Per cui genere, età, etnia, disponibilità economica, stato civile e impiego non correlano in modo statisticamente significativo con lo stigma percepito dal paziente. Le variabili psicosociali prese in considerazione, tra cui

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33 speranza, autostima, empowerment, auto-efficacia, qualità della vita, supporto sociale e integrazione, sono invece tutte più o meno correlate con il self stigma. Ad esempio, l’autostima è stata esaminata in 34 articoli ed è risultata fortemente legata allo stigma in ben 30 di questi, quindi in quasi il 90% dei casi. Si tratta di un pattern consistente ed indica come il self stigma sia inversamente proporzionale ai valori di un ampio ventaglio di variabili psicosociali. Per quanto concerne le variabili cliniche, tra cui la severità dei sintomi, la diagnosi, le ospedalizzazioni, durata di malattia, consapevolezza, aderenza al trattamento, funzionamento globale ed effetti collaterali dei farmaci, i risultati sono stati incerti. Alcune relazioni con lo stigma tuttavia emergono chiaramente. La severità dei sintomi è la variabile più studiata all’interno del materiale raccolto, 60 studi su 127. Tra questi, ben 50 riescono a dimostrare una relazione statisticamente valida tra la gravità dei sintomi e lo stigma percepito dai soggetti. Lo stesso (ma con campioni analizzati più piccoli) sembra valere per l’aderenza ai trattamenti. Tra gli 11 studi dove si è indagato questo legame, 7 hanno dimostrato proporzionalità inversa tra le 2 dimensioni.

La figura 2 mostra in cifre i risultati dello studio.

Figura 2. La relazione tra variabili psicosociali, sociodemografiche e psichiatriche e lo

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34 Interessanti sono anche i dati relativi agli studi longitudinali, 22 quelli inclusi nella review. Le domande a cui si cerca di rispondere sono: come si comporta lo stigma nel tempo? Dinamicamente o staticamente? Oppure, che tipo di outcome predice un alto self stigma nel contesto di malattia? Per quanto riguarda la prima domanda, solo 2 studi hanno evidenziato un cambiamento (positivo in questo caso) della situazione e in entrambi i casi solo a seguito di un intervento mirato (Griffiths et al. 2004) (MacInnes and Lewis, 2008). Contrariamente alle aspettative, nessuno dei due studi citati ha evidenziato una fluttuazione del costrutto né a seguito di esperienze discriminatorie, né al momento dell’esordio della malattia. Sono dati che sembrerebbero andare contro l’ipotesi sperimentale della tesi per cui lo stigma sarebbe influenzato da circostanze ambientali come il livello della SRP e le interazioni con i vicini di casa. Invece, in relazione alla seconda domanda, un alto stigma percepito al tempo T1 correla a T2 con un maggiore utilizzo dei servizi sanitari, un più elevato livello di insoddisfazione dei bisogni medici, maggiore disagio emotivo, maggiori sintomi depressivi, minor integrazione sociale e minore aderenza terapeutica.

Tornando alla dimensione longitudinale dello stigma, sembra esserci un rapporto di proporzionalità diretta tra il public stigma e il self stigma. Numerose ricerche della psichiatria americana hanno dimostrato con successo come un forte public stigma sia spesso associato a valori di stigma internalizzato altrettanto elevati (Link & Phelan, 2001), anche nella popolazione generale. In altre parole, il self stigma sarebbe spiegabile in gran parte come una forma di assimilazione della maldicenza (Vogel et al., 2007). Tuttavia, trattandosi di studi per la maggior parte cross-sectional (ovvero privi di follow-up) i risultati possono essere contestati come poco solidi. È importante perciò capire l’andamento nel tempo di questo legame tra i due fenomeni. Uno studio di David L. Vogel del 2013 ha indagato questo aspetto partendo dall’ipotesi per cui un alto public stigma alla baseline dell’indagine (T1) predica un aumento dopo 3 mesi (T2) anche dello stigma internalizzato.

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35 Figura 3. Modello teorico per cui il public stigma influenza anche lo stigma

internalizzato (da Vogel et al. 2013)

Sono stati reclutati 448 studenti di psicologia da una grande università americana, sottoposti a due interviste standardizzate, una sul public stigma e uno sul self stigma, entrambe relativamente alla patologia psichiatrica. Dopo 3 mesi, gli stessi soggetti hanno ripetuto il test. I risultati, sono stati coerenti con l’ipotesi di partenza, cioè che lo stigma pubblico si internalizzi. I soggetti con un maggiore public stigma a T1 mostravano una maggiore crescita del self stigma a T2. Non è stato possibile invece dimostrare il fenomeno contrario, ovvero gli effetti del self stigma sul public stigma. Sempre secondo le ricerche dello stesso autore, sussiste un rapporto di proporzionalità inversa tra lo stigma pubblico e la ricerca di aiuto o supporto sociale da parte dei soggetti affetti da patologia psichiatrica. I pazienti infatti, potrebbero evitare di chiedere aiuto per la paura di ricevere un’etichetta negativa. Se a questo dato sommiamo la possibilità che l’opinione sociale si tramuti (o enfatizzi) quella soggettiva, il quadro diventa ancora più debilitante per il soggetto con diagnosi, il quale va incontro ad un circolo vizioso di questo tipo: percezione dello stigma pubblico, aumento del self stigma, peggioramento dell’autostima e dell’ottimismo, minor ricerca di aiuto e cure, peggioramento del quadro. Il processo è anche denominato “why try effect”.

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36 Figura 4. Effetto “why try”, ostacolo al raggiungimento degli obiettivi della persona

(da Corrigan et al. 2012)

Il why try effect è l’interferenza che lo stigma internalizzato produce nel raggiungimento degli obiettivi di vita di una persona (Corrigan et al. 2009). Un’autostima più bassa correla con la sensazione di avere poco valore, di non essere meritevole di opportunità, cosa che può minare l’impegno verso l’indipendenza attraverso la ricerca di un lavoro. “Perché dovrei ricoprire una carica così importante? I miei difetti mi impedirebbero di fare un buon lavoro, ci sono persone che se lo meritano di più”: possono essere affermazioni di un individuo con alto stigma percepito e bassa autostima.

Numerosi tentativi sono stati fatti al fine di creare dei trattamenti efficaci nella riduzione dello stigma percepito dagli utenti dei servizi di salute mentale. Sempre secondo Corrigan, un potente antidoto contro lo stigma è fornito dal personal empowerment. Un alto livello di empowerment (manifestato anche attraverso indignazione nei confronti

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