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Alcune analisi sull'indipendenza delle banche centrali

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di economia e management

Corso di laurea magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

TESI DI LAUREA

Alcune analisi sull'indipendenza

delle banche centrali

Relatore: Candidato:

Prof. Fabrizio Bientinesi Lorenzo Ceragioli

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Indice

Introduzione...7

1. LE CONSEGUENZE DELLA CRISI...8 1.1 Le sfide alla CBI

1.2 Problemi nel gestire il periodo post-crisi 1.3 Critiche all'operato della Fed

1.4 Un mutato atteggiamento nei confronti della CBI

2. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA CBI...13 2.1 Caratteristiche generali di una banca centrale

2.2 Cosa si intende per indipendenza 2.3 Responsabilità e trasparenza 2.4 Le misure della CBI

2.5 L'indice GMT

2.6 Alcune critiche agli indici di CBI

3. CBI E INFLAZIONE...22 3.1 L'evidenza empirica sulla relazione tra CBI e inflazione

3.1.1 Una premessa volta a difendere gli indicatori di CBI 3.1.2 Friedman e Lucas

3.1.3 L'imposta da inflazione 3.2 Le aspettative razionali

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3.4 Un breve cenno alla dinamica degli attacchi speculativi 3.5 Come ovviare ai problemi degli obiettivi intermedi

3.5.1 Le soluzioni finora individuate 3.5.2 L'inflation targeting

3.5.3 L'output targeting all'interno dell'inflation targeting 3.5.4 La CBI come garanzia di credibilità

3.6 L'indipendenza: caratteristica essenziale di una banca centrale 3.6.1 Una buona governance

3.6.2 CBI e crescita 3.6.3 La tesi di Cukierman

3.7 Il rapporto tra CBI e inflazione nei paesi in via di sviluppo 3.7.1 Considerazioni generali

3.7.2 I paesi socialisti negli anni '90 3.7.3 L'America Latina

3.8 Altre considerazioni in grado di spiegare la relazione tra CBI e inflazione 3.9 Le dinamiche della relazione tra CBI e inflazione

3.10 Un problema nelle misurazioni della relazione tra CBI e inflazione

4. CBI, INFLAZIONE, SALARI E SINDACATI...45 4.1 Il modello di Berger, De Haan e Eijffinger

4.2 Alcune critiche al modello di Berger, De Haan e Eijffinger

4.3 Distorsione inflazionistica, integrazione europea e mercato del lavoro 4.4 Il ruolo dei sindacati

4.4.1 Quello che dice la teoria tradizionale 4.4.2 Ridurre il potere dei sindacati

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4.4.3 E se fosse il sindacato a odiare l'inflazione? 4.4.4 Un banchiere centrale accondiscendente 4.4.5 I sindacati: meglio pochi o tanti?

5. IL MODELLO DI MASCIANDARO E ROMELLI...60 5.1 Alcune osservazioni preliminari

5.1.1 Lo scopo del modello

5.1.2 Come variano le preferenze dei cittadini rispetto alla CBI 5.1.3 Fattori che inducono a rafforzare la CBI

5.2 Il modello: le ipotesi alla base, la schematizzazione e la formalizzazione 5.2.1 Le ipotesi di base

5.2.2 La funzione di utilità sociale (o dei cittadini) 5.2.3 La schematizzazione

5.2.4 La rimunerazione dei policymaker 5.2.5 Un conservative veto-player

5.2.6 La funzione di costo dei policymaker 5.2.7 Come implementare il livello ottimo di CBI

6. COME SONO ANDATE LE COSE NEL MONDO REALE...73 6.1 Come si formano le preferenze di politici e cittadini relative al grado di CBI

6.1.1 Scopo dell'analisi 6.1.2 Prima del 2008... 6.1.3 ...dopo il 2008...

6.1.4 Perché variano le preferenze relative al grado di CBI 6.2 Il modello di Masciandaro e Romelli a confronto con la realtà

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6.2.1 Alcune evidenze empiriche

6.2.2 Il ruolo della crisi nei cambiamenti della CBI 6.2.3 Cosa si può concludere da questo confronto

7. LA POLITICA MONETARIA DOPO LA CRISI...82 7.1 I mutamenti della politica monetaria derivanti dalla crisi

7.2 Le misure della BCE per contrastare la crisi 7.3 L'interdipendenza tra politiche di diversa natura 7.4 L'eredità della crisi

7.5 Alcune osservazioni

7.5.1 La lezione della crisi secondo il prof. Mourmouras 7.5.2 Le considerazioni di Masciandaro e Romelli sulla BCE 7.5.3 Alcuni dati sulle banche centrali

8. IL PRESTATORE DI ULTIMA ISTANZA...91 8.1 Un tema di grande attualità

8.2 Anatomia delle crisi

8.3 Cosa deve fare il prestatore di ultima istanza 8.3.1 Alcune problematiche

8.3.2 Punti di vista divergenti circa il ruolo del prestatore di ultima istanza 8.3.3 Alcune osservazioni circa l'opportunità di un prestatore di ultima istanza 8.3.4 Il contributo di Bagehot

8.3.5 Thornton e Bagehot 8.3.6 L'opinione dei monetaristi 8.4 Considerazioni conclusive

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Conclusioni...105

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Introduzione

Negli ultimi 30 anni, e prima della crisi finanziaria del 2008, il mandato delle banche centrali si è progressivamente ristretto ed in molti paesi si è focalizzato nell'ambito della gestione della politica monetaria, in particolare nel perseguimento della stabilità dei prezzi. Così l'incremento del grado di indipendenza delle banche centrali, in lingua inglese central bank independence (d'ora innanzi CBI), ha finito per essere considerato l'obiettivo fondamentale della governance di tali istituzioni. Tuttavia la crisi del 2008 ha posto in discussione il moderno modello di banca centrale, in cui la politica monetaria viene condotta da una banca centrale indipendente che persegue un obiettivo di stabilizzazione dei prezzi basato sul controllo dei tassi d'interesse.

Negli ultimi tempi molti paesi hanno introdotto riforme nella struttura delle proprie banche centrali volte a concentrare l'attività delle stesse nell'ambito della supervisione. Un maggior coinvolgimento nella supervisione indebolisce la priorità data alla stabilità monetaria e, in conseguenza di ciò, riduce (attraverso un'operazione indiretta, senza cioè intervenire direttamente nella struttura legale della banca) il grado di indipendenza della banca centrale.

Significativa di questa tendenza è stata l'approvazione, negli Stati Uniti, del Dodd-Frank Act del 2010, che ha effettivamente incrementato le responsabilità del Federal Reserve System (Fed) nell'ambito della supervisione prudenziale.

Analogamente, ma a livello mondiale, con Basilea III l'attivazione di misure macro-prudenziali contro-cicliche è stata messa nelle mani delle banche centrali.

Infine in Europa si stanno delineando riforme volte a coinvolgere le banche centrali nella supervisione sia a livello nazionale che regionale. Nel 2010 è stato infatti istituito lo European

Systemic Risk Board (ESRB) per fornire supervisione macro-prudenziale, e questa nuova istituzione

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1. LE CONSEGUENZE DELLA CRISI

1.1 Le sfide alla CBI

Il lascito della grande crisi finanziaria del 2008 ed i bassi tassi d'inflazione osservati pongono principalmente due tipologie di sfide all'indipendenza delle banche centrali:

1. l'indipendenza della banca centrale nella scelta degli strumenti da utilizzare è stata messa in discussione da più parti;

2. anche qualora l'indipendenza nella scelta degli strumenti non fosse apertamente contestata, potrebbe però risultare compromessa come risultato dei cambiamenti che coinvolgono la società e le istituzioni.

Queste due tipologie di sfide sono ovviamente interconnesse. Una banca centrale che deve continuamente far fronte a resistenze provenienti da più parti nel condurre la sua politica potrebbe avere difficoltà nell'adempiere ai suoi doveri, anche qualora fosse dal tutto indipendente dal punto di vista formale. O, analogamente, se la banca centrale vedesse sempre minacciata la sua indipendenza formale finirebbe per non essere più realmente indipendente nello scegliere gli strumenti di cui ha bisogno per implementare le sue politiche.

Oggigiorno grandi sfide per l'indipendenza delle banche centrali nella scelta degli strumenti provengono principalmente dalle pressioni politiche. Negli Usa, per esempio, sono state formulate varie proposte per sottoporre la politica monetaria della Federal Open Market Committee (FOMC) ad illimitate audizioni di fronte ai membri del Congresso; si è poi pensato di adottare una specifica equazione per regolare la politica monetaria e di sottoporre la FOMC a vari interrogatori qualora dovessero riscontrarsi deviazioni rispetto a tale equazione; infine molti propongono di sfruttare il potere di emettere moneta della Fed per finanziare specifiche attività del governo.

Nell'area-euro i programmi di Quantitative Easing (QE) sono stati oggetto di forti critiche sia da parte di chi li ritiene troppo estesi, sia da parte di chi li considera limitati. Un simile scetticismo ha

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accompagnato le politiche poste in essere dalla Banca d'Inghilterra.

1.2 Problemi nel gestire il periodo post-crisi

Secondo l'opinione del professor John (Iannis) Mourmouras, Governatore della Banca di Grecia ed ex ministro dell'economia della Grecia, sarebbe opportuno mettere in discussione non il concetto d'indipendenza delle banche centrali, bensì l'attuale mix di politiche economiche: si dovrebbe concentrare meno l'attenzione sulle politiche monetarie per focalizzarsi sulle politiche fiscali. Mantenendo i tassi d'interesse in territorio negativo troppo a lungo, gli effetti di redistribuzione derivanti dalla politica monetaria finiranno per risultare eccessivi. I bassi tassi d'interesse infatti redistribuiscono la ricchezza dai risparmiatori ai debitori. La riduzione dei rendimenti reali sui risparmi ha causato reazioni e critiche da parte di chi rappresenta (anche a livello politico/elettorale) gli interessi dei risparmiatori. Questa dinamica ha riguardato praticamente tutti gli stati europei. Si tratta di una tematica molto importante per la tenuta complessiva dell'unione monetaria, anche perché, data la distribuzione fortemente diseguale della detenzione di asset e strumenti finanziari tra la popolazione, i benefici del QE finiscono per ripartirsi tra la popolazione in modo altrettanto diseguale.

Certamente la CBI sarà messa tanto più in discussione quanto più la ripresa nelle maggiori economie continentali resterà debole, senza contare che il rischio di deflazione non è più una remota eventualità, ma una concreta minaccia.

Riguardo al tema dei bassi tassi d'interesse, basta dare uno sguardo agli ultimi sviluppi internazionali per capire qual è il sentimento dominante.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha criticato il Capo della Fed Janet Yellen per la politica di bassi tassi d'interesse tenuta dalla Fed.

Il primo ministro britannico Theresa May ha detto che la politica di bassi tassi d'interesse portata avanti dalla Banca d'Inghilterra guidata da Mark Carney inevitabilmente priva i risparmiatori dei

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loro interessi dovuti.

Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha criticato il presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Mario Draghi per la sua politica di tassi d'interesse (addirittura) negativi.

1.3 Critiche all'operato della Fed

Ma non sono solo i politici a levare critiche all'operato delle grandi banche centrali del mondo occidentale. Donato Masciandaro, in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore il 7 ottobre 2017, ha criticato il comportamento ambiguo della Fed sia nella politica monetaria, per quanto riguarda i tassi d'interesse, sia in materia di regolamentazione bancaria.

Per cogliere adeguatamente le critiche di Masciandaro occorre innanzitutto aver ben presente la tesi portata avanti dalla Fed in questi anni, e cioè che una banca centrale con due obiettivi macroeconomici – la massima occupazione e la tutela della stabilità monetaria – ha bisogno di certezze dal fronte del mercato del lavoro per poter decidere consapevolmente un'adeguata strategia relativa ai tassi d'interesse. Ora, mentre i dati sull'occupazione mostrano un'economia in salute, quelli sui prezzi appaiono instabili. Di conseguenza, la Fed ritiene di non essere in grado di imboccare con decisione la strada dell'innalzamento dei tassi d'interesse perché la catena di trasmissione che va dall'aumento della domanda di beni e servizi alla crescita dei prezzi sembra non funzionare più a dovere. La causa di questa situazione parrebbe essere il meccanismo delle aspettative: infatti, finché le attese di un andamento dell'economia robusto e duraturo non appaiono solide, la maggiore domanda di beni non trasmette i suoi effetti positivi sulla crescita dei salari nominali e sull'inflazione.

Insomma, sulla base di queste considerazioni, la Fed ritiene di essere vittima dell'incertezza; un'incertezza derivante per lo più dalla rigidità verso l'alto delle aspettative inflazionistiche.

Tuttavia Masciandaro non manca di osservare che esiste anche una tesi opposta, secondo cui la Fed non sarebbe vittima ma carnefice: infatti, ci si può chiedere perché le aspettative sono rigide. Una

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tale rigidità potrebbe essere l'inevitabile conseguenza di una politica monetaria troppo ambigua. La politica monetaria dà stabilità se segue le cosiddette regole flessibili: la banca centrale definisce i suoi target e la loro importanza relativa, e poi li annuncia, vincolando la sua discrezionalità (cioè l'incentivo che avrebbe ad agire in modo diverso a seconda delle circostanze che si presentano). Le regole hanno un'importanza fondamentale nello stabilizzare le aspettative: l'andamento della politica monetaria e quello delle aspettative si condizionano vicendevolmente.

Secondo Masciandaro, non sempre la Fed è stata in grado di dettare delle regole chiare che fossero in grado di stabilizzare le aspettative; anzi, portando avanti una politica monetaria ambigua ha finito per essere via via sempre più condizionata nelle proprie scelte dalle pressioni provenienti dalla politica e dall'opinione pubblica.

Masciandaro ritiene che l'ambiguità sia un difetto grave per la politica monetaria, perché ne indebolisce le difese rispetto ai rischi di ingerenza della politica, che tende ad implementare strategie miopi, cioè che producono vantaggi immediati per i politici che le caldeggiano, ma danni a più lungo termine per l'economia. La difesa dell'indipendenza della banca centrale passa invece dalla capacità di definire regole che tutelino la stabilità macroeconomica, nel perimetro della politica monetaria, e la stabilità finanziaria, nell'ambito della regolamentazione. E proprio per quest'ultimo aspetto, Masciandaro fa notare come la Fed, votando a favore dell'esclusione della Aig (di certo tra i responsabili della crisi del 2008) dal perimetro dei controlli più severi, ha finito per mostrare un atteggiamento condiscendente nei confronti del lassismo finanziario. Una tale scelta è coerente con l'approccio favorevole ad una nuova deregolamentazione finanziaria (che sembra essere l'approccio dell'amministrazione Trump) ma dimostra, in primo luogo, una debole difesa, da parte della Fed, della propria indipendenza dai condizionamenti politici; ed in secondo luogo sembra dimenticare che una banca centrale che segue una regola monetaria può certamente costituire uno strumento efficace per il controllo dell'inflazione, ma di per sé difficilmente riuscirà ad evitare una crescita non controllata della finanza, con tutte le conseguenze negative in termini di

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destabilizzazione del sistema economico che vi possono essere. Ma perché oggi l'indipendenza delle banche centrali – faticosamente conquistata da praticamente tutte le economie industrializzate, ma anche da molte in via di sviluppo, negli anni '80 e '90 del secolo scorso – oggi viene così fortemente posta in discussione?

1.4 Un mutato atteggiamento nei confronti della CBI

Per rispondere a questo importante quesito Masciandaro e Romelli hanno focalizzato l'attenzione sulla relazione che sussiste tra il livello di avversione all'inflazione dell'opinione pubblica di un paese in una certa congiuntura economica ed il grado di indipendenza della banca centrale. Essi hanno evidenziato il fatto che quando si assiste ad un ciclo prolungato di espansione economica dove si riscontra un costante aumento dell'inflazione, l'opinione pubblica finisce per sviluppare avversione all'inflazione e pretende dalla classe politica riforme volte a garantire una maggiore indipendenza della banca centrale; questo sottintende il fatto che vi sia una relazione negativa tra la crescita dei prezzi ed il grado di indipendenza (politica ed economica) della banca centrale rispetto al potere politico: in particolare si ha che quanto più la banca centrale è indipendente e si concentra solo sull'obiettivo della stabilità dei prezzi, tanto più la crescita dei prezzi sarà contenuta, e viceversa. D'altro canto, quando l'economia sta sperimentando un ciclo recessivo, magari con seri rischi di entrare in una spirale deflattiva, l'opinione pubblica risulta maggiormente disposta ad accettare, entro certi limiti beninteso, l'imposta da inflazione, o comunque un aumento temporaneo del tasso d'inflazione, se in questo modo si dà al governo (ed alla banca centrale) una maggior flessibilità per affrontare problemi quali, ad esempio, degli shock finanziari, o aumenti rapidi del tasso di disoccupazione. In tale contesto l'opinione pubblica dunque spingerà i politici eletti per una riforma della struttura della banca centrale volte a ridurne il grado di indipendenza. La relazione tra inflazione e CBI merita di assere adeguatamente approfondita, anche perché questa relazione spiega l'utilità sociale della CBI.

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2. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA CBI

2.1 Caratteristiche generali di una banca centrale

Generalmente si ritiene che un livello sufficientemente alto di CBI costituisca un fattore altamente desiderabile per le istituzioni che si occupano di gestire la politica monetaria. Per poter afferrare il senso di queste considerazioni è utile innanzitutto capire bene cosa si intenda per CBI e come si misuri.

Come prima accennato, la principale responsabilità di una banca centrale è quella di assicurare la stabilità dei prezzi e, conseguentemente, la stabilità finanziaria. A condizione che non si allontani da questi obiettivi, la banca è tenuta anche a supportare le politiche economiche del governo.

Per realizzare i suoi obiettivi principali la banca dovrebbe disporre di un adeguato grado di indipendenza, ma anche questo è un concetto da approfondire, perché vi possono essere diverse accezioni di indipendenza. Si distingue in particolare l'indipendenza nella scelta degli obiettivi da perseguire (indipendenza politica) dall'indipendenza negli strumenti da adottare (indipendenza economica).

2.2 Cosa si intende per indipendenza

L'indipendenza politica fa riferimento al grado di discrezionalità della banca centrale nel delineare ed attuare politiche coerenti con l'obiettivo della stabilità monetaria. L'indipendenza economica invece è correlata alla libertà della banca centrale di decidere gli strumenti da adottare che siano coerenti con la politica monetaria definita. In generale, un maggiore coinvolgimento della banca centrale nell'attività di supervisione indebolisce l'attenzione per la stabilità monetaria, ed in questo modo si abbassa (indirettamente) il grado di indipendenza della banca centrale. Ecco allora la spiegazione delle recenti riforme del sistema bancario adottate in molti paesi che hanno lo scopo di concentrare l'attività della banca centrale nella supervisione bancaria.

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In altre parole, vi sono casi in cui gli obiettivi operativi della banca centrale sono variabili esogene, determinate cioè esternamente dal legislatore o da altre istituzioni come il ministro delle finanze, ma essa è libera di scegliere, senza interferenze esterne, i mezzi (cioè gli strumenti di politica monetaria) più adatti per realizzare gli obiettivi stabiliti; la Banca d'Inghilterra è un esempio di applicazione concreta di questa forma d'indipendenza.

In altri contesti invece la banca può delineare liberamente la politica monetaria che ritiene più idonea in una certa congiuntura economica (pur rispettando il generico obiettivo di utilità sociale di garantire la stabilità dei prezzi), e di scegliere i mezzi per realizzarla, come nel caso della BCE e della Banca Centrale del Cile, che possono determinare autonomamente (cioè lo decidono loro) il tasso d'inflazione obiettivo e i modi in cui conseguirlo.

Un'altra caratteristica fondamentale dell'attuale concezione di banca centrale è che non può (non deve) prestare denaro al governo. Questa proibizione serve più che altro per permettere alla banca centrale di resistere alle pressioni del governo per aiutarlo a finanziare i deficit di bilancio.

Le persone che svolgono ruoli di guida della banca centrale, poi, dovrebbero avere un mandato sufficientemente lungo, e non dovrebbero rivestire altri ruoli nel governo o nel settore privato; questo per evitare l'insorgere di possibili conflitti d'interesse.

2.3 Responsabilità e trasparenza

Il fatto di delegare la politica monetaria ad una banca centrale indipendente, cioè in definitiva ad una burocrazia non eletta, non può non generare importanti interrogativi riguardanti la “democraticità” di questa istituzione, e circa le garanzie che è in grado di fornire alla società: diventa allora necessario che essa si concentri nello sviluppare un elevato livello di responsabilità e di trasparenza. Tuttavia in passato ciò non è sempre accaduto... Infatti poiché non vi era una responsabilità separata della banca centrale, i governi e i ministri delle finanze non avevano incentivo a porsi il problema della trasparenza nella gestione della politica monetaria.

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La responsabilità di una banca centrale, in particolare, è un tema che va discusso con riferimento ad almeno due aspetti, che sono:

• in primo luogo, il tipo indipendenza: quanto maggiore è l'indipendenza della banca centrale nella scelta degli obiettivi che intende perseguire, tanto più diventa necessario garantire responsabilità e trasparenza;

• in secondo luogo, il numero di obiettivi che una banca centrale indipendente intende realizzare: la responsabilità che la banca si assume tende a decrescere rispetto al numero di obiettivi che essa si pone. Infatti, se il numero di obiettivi che la banca si pone è molto alto, è probabile che diventi sempre più difficile assicurare che verranno tutti conseguiti, in quanto alcuni potrebbero persino risultare incompatibili tra di loro. La Fed, il cui mandato prevede sia l'obiettivo della stabilità dei prezzi che quello della piena occupazione (oltre a quello di moderati tassi d'interesse di lungo periodo), costituisce un'eccezione.

2.4 Le misure della CBI

Per quanto riguarda il delicato problema della misurazione della CBI, a causa della sua natura multidimensionale, non esiste una singola modalità per misurarla. La maggior parte della letteratura accademica degli ultimi vent'anni si è focalizzata sull'aspetto della struttura giuridica e legale della banca centrale per costruire degli indici di indipendenza legale.

Ma l'indipendenza effettiva è anche influenzata da tutta una serie di rapporti (difficilmente classificabile) più o meno formali che corrono tra il governo e la banca. In conseguenza di ciò vi sono normalmente delle discrepanze tra l'indipendenza legale e quella effettiva di una banca centrale; la dimensione di queste discrepanze varia tra i paesi in modo inversamente proporzionale al generale rispetto della legge. Poiché la forza della legge è solitamente maggiore nei paesi sviluppati rispetto ai paesi in via di sviluppo, gli indici di indipendenza legale forniscono delle

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migliori approssimazioni dell'indipendenza effettiva nel primo piuttosto che nel secondo gruppo di paesi.

La letteratura sulla CBI usa tendenzialmente due differenti strategie per individuare il grado di indipendenza di una banca centrale:

a) indici basati sulla legislazione della banca centrale (de jure);

b) indici basati sulla frequenza di sostituzione, o turnover, del governatore della banca centrale (de facto).

Il primo punto è forse il più intuibile: si va concretamente a leggere lo statuto della banca centrale e si valuta l'efficacia degli strumenti giuridici e legali previsti a tutela dell'indipendenza della banca stessa da qualsiasi tipo di ingerenza esterna.

Relativamente alla seconda strategia, si ritiene che quanto maggiore è il tasso di sostituzione dei governatori (e quindi più breve è il loro mandato), tanto meno la banca centrale sarà indipendente; questo perché se il governatore ha un mandato breve e non è sufficientemente in grado di incidere sulla gestione della politica monetaria, il governo in carica riuscirà più facilmente ad influenzare le scelte della banca centrale in modo che volgano a suo favore.

Come considerazione aggiuntiva si potrebbe dire che, al fine di valutare il grado di indipendenza della banca centrale, può essere utile tener conto anche del cosiddetto livello di “vulnerabilità politica della banca centrale”, cioè la frequenza dei casi in cui un cambiamento del contesto politico è seguito, entro un breve periodo di tempo, da una sostituzione del governatore della banca centrale. Infatti è chiaro che se ogni volta che cambia un governo, o termina una legislatura, viene sostituito il governatore della banca centrale, tale istituzione sarà poco indipendente. Quest'ultima considerazione vale in particolare per i paesi in via di sviluppo, dove non di rado, purtroppo, a seguito di un cambiamento di governo (o, nei casi peggiori, di un colpo di stato) si assiste ad una completa sostituzione dei vertici della banca centrale.

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se si adotta il criterio della frequenza di sostituzione del governatore della banca centrale si assume implicitamente che l'indipendenza della banca centrale dipenda dall'autonomia del loro governatore. Occorre anche notare che la stessa crisi finanziaria ha significativamente aumentato la probabilità che vi sia una maggior frequenza di sostituzione dei banchieri centrali, soprattutto per l'instabilità e la confusione che derivano necessariamente dalle crisi.

Tra gli indici che seguono la prima strategia (senza però necessariamente trascurare l'aspetto del

turnover dei governatori), uno dei più usati è l'indice Grilli-Masciandaro-Tabellini (d'ora innanzi

GMT): si tratta inoltre della sola misura di CBI in grado di differenziare l'indipendenza economica di una banca centrale da quella politica; poi, allo stesso tempo, fornisce informazioni sul coinvolgimento della banca nell'attività di supervisione bancaria.

2.5 L'indice GMT

Tra gli indicatori di CBI più sofisticati che la letteratura in materia fornisce, vi sono senz'altro l'indice di Cukierman (LVAU) e l'indice GMT. Quest'ultimo merita una descrizione accurata, data la frequenza con cui viene impiegato e l'importanza che ha assunto negli studi in questa materia. L'indice GMT è il risultato della composizione di due indici: un indice che va ad identificare l'indipendenza politica della banca centrale ed uno che invece si focalizza sull'indipendenza economica.

L'indice di indipendenza politica è basato su un codice binario che viene assegnato ad otto differenti caratteristiche della banca centrale. Tali caratteristiche, considerate nel loro insieme, permettono di rilevare l'abilità dell'autorità monetaria nel perseguire i propri obiettivi politici in totale indipendenza. Questo indice mira ad inquadrare, in particolare, tre aspetti fondamentali della politica monetaria: il processo con cui vengono formati e selezionati i soggetti che svolgono le funzioni di governo della banca; le relazioni che intercorrono tra questi soggetti e i governi eletti; ed infine le responsabilità formali che ha la banca centrale. Partendo da questi tre aspetti, viene poi

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assegnato un punto a ciascuno dei seguenti criteri ogniqualvolta risulti soddisfatto: 1. Nomina del governatore e del consiglio direttivo

• il governatore è nominato senza coinvolgimento del governo; • il governatore è nominato per più di cinque anni;

• gli altri membri del consiglio direttivo sono nominati senza coinvolgimento del governo; • gli altri membri del consiglio direttivo sono nominati per più di cinque anni.

2. Relazioni con il governo

• non vi sono, all'interno del consiglio direttivo, rappresentanti mandatari del governo; • non è richiesta l'approvazione del governo nella determinazione della politica monetaria. 3. Obiettivi e responsabilità della banca centrale

• la banca centrale è obbligata legalmente a perseguire la stabilità monetaria come uno dei suoi obiettivi primari;

• vi sono disposizioni legali volte a rafforzare la posizione della banca centrale nel caso di un conflitto con il governo.

L'indice di indipendenza economica sintetizza il grado di indipendenza di cui dispongono le banche centrali nello scegliere i propri strumenti di politica monetaria. Esso tiene conto di tre aspetti: l'influenza che il governo è in grado di esercitare nel determinare quanto può prendere a prestito dalla banca centrale; la natura degli strumenti di politica monetaria che sono sotto il controllo della banca centrale; ed infine il grado di coinvolgimento della banca centrale nell'attività di supervisione bancaria. Di nuovo, viene assegnato un punto a ciascuno dei seguenti criteri che risulta essere soddisfatto:

1. Il finanziamento del deficit pubblico attraverso la politica monetaria

• non vi è una procedura automatica che consenta al governo di ottenere credito diretto dalla banca centrale;

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d'interesse di mercato;

• le facilitazioni al credito diretto sono temporanee;

• le facilitazioni al credito diretto sono per un ammontare limitato;

• la banca centrale non partecipa al mercato primario in cui sono emessi i titoli del debito pubblico.

2. Strumenti di politica monetaria

• la banca centrale è responsabile della definizione della politica relativa ai tassi d'interesse;

3. Il coinvolgimento della banca centrale nella supervisione bancaria

• la banca centrale non ha responsabilità nella supervisione sul settore bancario (due punti) o condivide la sua responsabilità con un'altra istituzione (un punto).

2.6 Alcune critiche agli indici di CBI

Talvolta è stata messa in discussione da più parti l'affidabilità e l'utilità della maggior parte degli indicatori di CBI utilizzati. Generalmente si ritiene (come osservano Berger, De Haan e Eijffinger) che la validità di un indicatore di CBI dipenda dai seguenti aspetti:

1) i criteri contenuti nell'indice;

2) l'interpretazione e la valutazione della legge con riguardo a questi criteri; 3) il modo in cui i criteri sono aggregati.

Vari autori hanno rilevato che gli indicatori oggi esistenti di CBI differiscono sostanzialmente in questi vari aspetti. Tutto ciò pone non pochi problemi, in quanto la scelta dei criteri è cruciale per qualsiasi studio si voglia condurre, e la maggior parte degli indicatori ha ricevuto varie critiche. Ad esempio, Mangano (1998) compara l'indice Grilli-Masciandaro-Tabellini e l'indice di Cukierman, e conclude che il 40% dei criteri del primo non sono rilevanti nel secondo (viceversa il livello è del 45%).

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Ci sono poi anche enormi differenze d'interpretazione: secondo Mangano (1998) praticamente un terzo dei valori attribuiti a nove criteri comuni ad entrambi gli indicatori sono soggetti a interpretazioni anche molto differenti.

Neumann (1996) sostiene che di quindici aspetti che caratterizzano l'indice Grilli-Masciandaro-Tabellini almeno sette sono fuorvianti o comunque non rilevanti. Domandandosi quali possano essere i criteri per una valida misurazione della CBI, Forder risponde che non è possibile limitarsi a dire semplicemente che basta rilevare una qualsiasi relazione con l'inflazione, ma serve una ragione obiettiva per scegliere una misura di CBI piuttosto che un'altra. Berger, De Haan e Eijffinger, sebbene trovino ragionevoli molte osservazioni presentate da Forder, non ritengono però che gli indicatori di CBI siano del tutto inutili, in quanto in ogni caso riescono ad approssimare il grado in cui il governo è limitato da strumenti legali nel fare pressioni sulla banca centrale per spingere la sua politica in una determinata direzione. È vero che talvolta certi indicatori possono essere fuorvianti, ma in tal caso la soluzione è quella di non focalizzare le analisi sulla CBI solamente su un unico indicatore, come del resto molti altri studiosi suggeriscono.

Inoltre, sebbene vari indicatori legali differiscano su molteplici aspetti, essi non sono così diversi come Forder sembra sostenere. Parte delle differenze tra gli indicatori non è dovuta tanto a definizioni divergenti di indipendenza legale, quanto a diverse interpretazioni delle leggi nazionali relative alla banca centrale.

Una obiezione più seria che Forder ha mosso contro l'uso degli indicatori legali per misurare la CBI riguarda il fatto che una banca può sì essere indipendente per statuto, ma nondimeno accettare di implementare politiche gradite al governo. Dunque la semplice lettura dello statuto non può essere considerata di per sé una valida misura di indipendenza, almeno non nel senso richiesto dalla teoria: non sono tanto le definizioni statutarie della banca centrale, quanto il suo comportamento, a rivelarne la reale indipendenza. Cioè l'indipendenza effettiva.

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influenza della banca centrale e delle autorità politiche in tutte le possibili contingenze. Ma anche se la legge fosse del tutto esplicita, la pratica effettiva potrebbe essere ben diversa.

Tutto questo ovviamente non significa che gli indici non diano informazioni adeguate; ma non si può nemmeno dire che essi, da soli, diano sempre un'immagine veritiera del livello di CBI.

Come rileva Cukierman, alcuni indici sono più appropriati, per certi scopi, di altri. Per esempio, le misure di indipendenza legale possono essere delle approssimazioni migliori dell'effettiva indipendenza della banca centrale nei paesi industrializzati che non in quelli in via di sviluppo, come già precedentemente affermato.

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3. CBI E INFLAZIONE

3.1 L'evidenza empirica sulla relazione tra CBI e inflazione 3.1.1 Una premessa volta a difendere gli indicatori di CBI

Al di là delle possibili critiche, fondate o meno, che possono essere mosse contro gli indicatori di indipendenza, bisogna però ammettere che la maggior parte di essi confermano l'esistenza di una relazione inversa tra il grado di CBI e l'inflazione. L'evidenza empirica sembra attestare che ad una maggior indipendenza della banca centrale corrispondano più bassi tassi d'inflazione all'interno di un determinato sistema economico; e viceversa.

Ecco perché la CBI appare così desiderabile dal punto di vista sociale: essa è una condizione necessaria per la stabilità dei prezzi in quanto favorisce la riduzione delle distorsioni inflazionistiche che la politica monetaria, talvolta, può provocare.

3.1.2 Friedman e Lucas

L'interesse della teoria economica rispetto al tema dell'indipendenza delle banche centrali è emerso soprattutto in relazione al contributo di Milton Friedman, ed in seguito di Robert Lucas, con la rivoluzione delle aspettative razionali, introdotte con spirito pionieristico dalla Scuola di Chicago negli anni '70. Le aspettative razionali hanno giocato un ruolo vitale nel superare il grande ostacolo intellettuale rappresentato dal fenomeno della stagflazione.

A livello di semplificazione, il loro pensiero può essere sintetizzato come segue: i politici eletti tendono ad utilizzare gli strumenti monetari in una prospettiva di breve periodo e, per smorzare gli shock macroeconomici che dovessero presentarsi (molto inopportunamente, per la popolarità del governo in carica) durante il loro mandato, sarebbero ben felici di usare l'imposta da inflazione (sfruttando il trade-off che sussiste tra profitti reali e costi da inflazione).

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3.1.3 L'imposta da inflazione

Questa 'imposta' si presenta quando, allo scopo di stimolare gli investimenti e la crescita economica (specie in periodo di crisi), la banca centrale acquista titoli del debito pubblico di nuova emissione (ma anche altri titoli detenuti dalle banche); così facendo, essa immette notevoli quantità di moneta nel sistema economico e, di conseguenza, produce inflazione.

In questo modo però si riduce, o addirittura si annulla, il potenziale effetto espansivo di tale manovra. Infatti se questo modo di finanziare il disavanzo pubblico (che avviene mediante l'aumento dell'offerta di moneta) produce inflazione, allora il potere d'acquisto della nuova moneta, appena messa in circolazione, risulterà parzialmente o totalmente neutralizzato: infatti, se i prezzi aumentano, la capacità di acquistare beni e servizi che deriva dall'avere a disposizione una maggiore quantità di moneta sarà ridotta in misura corrispondente all'aumento dell'offerta di moneta. Dunque, la riduzione del potere d'acquisto della moneta, dovuta all'aumento dell'inflazione, diminuisce l'effetto espansivo che il disavanzo potrebbe (magari in altre circostanze) avere; essa si presenta dunque come una vera e propria imposta, l'imposta da inflazione, appunto. È bene osservare che una tale imposta risulta quasi sempre assai sgradita ai cittadini (che sono anche dei risparmiatori). Questo perché in una società democratica le nuove imposte vengono sì decise dal governo, ma la decisione deve essere sempre confermata e ratificata dal parlamento. L'imposta da inflazione viene evidentemente decisa solo dal governo nel momento in cui questo si accorda con la banca centrale per far acquisire a quest'ultima i nuovi titoli del debito pubblico appena emessi (chiaramente la banca centrale in tal caso esprimerà un comportamento sostanzialmente accondiscendente nei confronti del governo, e ciò è indicativo del fatto che non è indipendente), ma il parlamento non ha modo di pronunciarsi su di essa.

Tale imposta viola dunque il ben noto principio del no taxation without representation (che risale almeno alla Rivoluzione Americana), secondo cui in una democrazia le imposte possono essere

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decise solo dalle istituzioni che rappresentano la volontà popolare (e che hanno ricevuto dal popolo un esplicito mandato per questo scopo).

Proprio da questo principio deriva l'esigenza di introdurre regole di natura costituzionale che impediscano all'autorità monetaria di assecondare il possibile (e frequente) desiderio di un governo di ricorrere all'imposta da inflazione.

Ma perché il governo avrebbe convenienza a ricorrere all'imposta da inflazione? Può essere utile, per chiarire tale dubbio, dare una rapida occhiata ai vantaggi che i policymaker possono conseguire: • innanzitutto, vi potrebbero essere molti vantaggi, sia per ragioni elettorali che ideologiche, ottenibili perseguendo una politica inflazionistica (è quello che Masciandaro e Romelli chiamano partisan bias);

• in secondo luogo, il governo potrebbe cercare di aumentare il livello di occupazione ricorrendo all'imposta da inflazione (employment bias);

• in terzo luogo, il governo potrebbe usare la politica monetaria per rendere meno onerosi i costi in termini economici e politico-elettorali di politiche fiscali più restrittive (fiscal bias); • in quarto luogo, il governo potrebbe essere tentato di salvare esternamente le banche in difficoltà attraverso un'iniezione di liquidità o la monetizzazione dei loro debiti o almeno di parte dei loro debiti (banking bias);

• infine, il governo potrebbe avere l'incentivo ad usare una politica monetaria accomodante per affrontare i problemi relativi alla bilancia dei pagamenti (foreign exchanges bias). Tuttavia è evidente che quanto più i mercati sono (o diventano) efficienti, tanto più cresce il rischio che tali politiche monetarie poco lungimiranti finiscano per provocare solo inflazione, senza favorire la crescita (anzi danneggiandola).

3.2 Le aspettative razionali

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decidono i loro comportamenti sulla base di aspettative razionali. Tale teoria, elaborata da Lucas, Sargent e Barro, implica che il settore privato 'guardi avanti' (cioè abbia un comportamento forward

looking) e formi le proprie aspettative sulle politiche monetarie future usando in modo efficiente,

senza cioè compiere errori sistematici, il set di informazioni di cui dispone. Ciò conduce inevitabilmente alla conclusione di inefficacia di qualsiasi politica monetaria che sia attesa (e prevista) dal settore privato: la politica monetaria avrà i consueti effetti “keynesiani” di non neutralità (favorirà cioè la crescita economica) solo nel caso in cui riesca a ‘sorprendere’ il settore privato.

Ma gli agenti economici conoscono l'incentivo che i politici hanno ad usare l'imposta da inflazione e così aggiustano per intero (e continuamente) le variabili nominali con cui operano. Se una espansione monetaria è attesa, infatti, il settore privato ne anticiperà gli effetti inflazionistici: ecco allora che il livello dei salari, prima, e quello dei prezzi, poi, si adegueranno immediatamente al livello atteso dell’offerta di moneta, così da impedire qualunque riduzione dei tassi di interesse, che sono legati, come è noto, da una relazione negativa con l’offerta reale di moneta (anche se su quest'ultima affermazione non sempre Keynes sarebbe d'accordo, visto che l'economista britannico definì il tasso d'interesse come il premio per la rinuncia alla sicurezza della liquidità). In tale situazione, la mancata riduzione dei tassi di interesse non consentirà, dunque, alcun effetto espansivo sull’economia. L’unico risultato sarà semplicemente quello di un aumento del livello dei prezzi, generando così una distorsione inflazionistica. Tale distorsione inflazionistica (causata dal comportamento inopportuno della classe politica) può generare una sempre più grande incertezza nel sistema economico, nonché delle esternalità negative. Come risultato di tutto ciò, l'imposta da inflazione finisce per essere sistematicamente usata in modo inefficiente, creando così sempre distorsioni economiche.

Inoltre i lavori di Kydland e Prescott (1977) e di Barro e Gordon (1983) hanno mostrato che sotto una politica monetaria discrezionale (cioè senza una regola prefissata, magari nello statuto della

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banca centrale) l'interazione tra agenti privati razionali ed un governo egualmente razionale, il quale mira a minimizzare una propria funzione di perdita i cui argomenti sono le deviazioni dell'inflazione e della produttività dal livello obiettivo socialmente desiderabile, genera un equilibrio di Nash; questo, a sua volta, porta ad una distorsione inflazionistica senza che sia stato conseguito alcun obiettivo di produttività e di crescita soddisfacente.

3.3 Come evitare l'imposta da inflazione

Tutte queste considerazioni mettono in luce, ancora una volta, i problemi dell'imposta da inflazione: stando così le cose, bandire l'uso della politica monetaria per perseguire l'imposta da inflazione diventa un obiettivo di grande utilità sociale. In questo senso assicurare la separazione tra i politici eletti, responsabili della determinazione della politica economica, e la banca centrale, che è responsabile della politica monetaria, è cruciale per evitare l'insorgere di distorsioni inflazionistiche. Inoltre, per gestire adeguatamente tale problema, la politica monetaria dovrebbe essere condotta sotto un impegno credibile a mantenere basso il tasso d'inflazione: in tal modo, le aspettative inflazionistiche dei privati sarebbero ancorate a livelli piuttosto bassi. Inizialmente, questo impegno avrebbe la forma di obiettivi intermedi di politica monetaria.

Si potrebbe definire, ad esempio, un obiettivo intermedio relativo al tasso di crescita dell'offerta di moneta, come è stato introdotto tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 dai governi Reagan e Thatcher, rispettivamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito; o si potrebbero individuare degli obiettivi intermedi per quanto riguarda i tassi di cambio, come accadeva nei paesi europei nel contesto del Sistema Monetario Europeo.

Questo procedere attraverso obiettivi intermedi ebbe concretamente successo nell'abbassare l'inflazione, almeno nelle maggiori economie industrializzate (e ciò ha portato alla cosiddetta era della “Grande Moderazione”, cioè ad un periodo di bassi tassi d'inflazione). Tuttavia l'instabilità della domanda di moneta, unita alla scarsa chiarezza circa gli obiettivi relativi all'offerta di moneta,

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resero l'implementazione di questi obiettivi intermedi difficile dal punto di vista operativo. D'altro canto, una volta conseguito il tasso di cambio obiettivo, questo raramente si stabilizzava al livello ritenuto ottimale. Di conseguenza potevano sorgere anche dei problemi di credibilità della banca centrale nel difendere il tasso di cambio. Infatti se la banca centrale appariva poco credibile nel suo proposito di difendere un determinato tasso di cambio, la valuta di un paese poteva essere sottoposta a violenti attacchi speculativi sui mercati delle valute.

3.4 Un breve cenno alla dinamica degli attacchi speculativi

Per chiarire, in modo estremamente sintetico, la dinamica di questi attacchi è sufficiente un semplice esempio: se i mercati sospettano che, qualora la banca centrale del paese X non difendesse l'attuale tasso di cambio, la valuta di X (d'ora innanzi x) subirebbe una svalutazione (ciò significa che il tasso di cambio 'ombra' è più basso di quello che si riscontra effettivamente sui mercati valutari), allora gli speculatori avrebbero convenienza a vendere allo scoperto la valuta di quel paese, sfidare la banca centrale costringendola a smettere di difendere il cambio, ed infine acquistare la valuta svalutata. In questo modo guadagnerebbero dalla differenza, perché venderebbero allo scoperto una valuta forte per poi riacquistare una valuta debole.

Questi problemi si pongono quando la banca centrale è poco credibile, e quindi gli speculatori sospettano che non abbia riserve di valuta estera sufficienti per difendere l'attuale tasso di cambio cui è scambiata x. Quando gli speculatori hanno questo sospetto, inizia l'attacco speculativo. Gli speculatori iniziano cioè ad acquistare grandi quantità di valuta estera, ad esempio la valuta y del paese Y, facendo aumentare la domanda di tale valuta. Come suggerisce la legge della domanda e dell'offerta, se aumenta la domanda di y, anche il suo prezzo aumenterà. Ma il prezzo di una valuta non è altro che il suo tasso di cambio, quindi se i tassi fossero liberi di oscillare y si rafforzerebbe, mentre x subirebbe una svalutazione.

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la domanda aggiuntiva di y con le proprie riserve di y, cioè di valuta straniera. Solo in questo modo è possibile evitare un apprezzamento di y e un deprezzamento di x.

Ma poiché una banca centrale non può stampare valuta straniera, le riserve estere (e quindi di y) non sono infinite.

Dunque maggiore è la disponibilità di riserve valutarie, minore evidentemente sarà il costo del mantenimento della parità valutaria per la banca centrale. È pur vero che in caso di assenza di riserve estere sarebbe sempre possibile ricorrere al mercato, prendendo a prestito temporaneamente le riserve necessarie, ma ciò inevitabilmente comporterebbe costi elevati in termini di tassi di interesse. Dunque non sempre questa via è percorribile.

In generale, potrebbe accadere che, se l'attacco speculativo dovesse prolungarsi nel tempo, la banca centrale potrebbe trovarsi a corto di riserve estere (cioè di y); ad un certo punto potrebbe persino essere costretta a dichiarare il fallimento della propria politica di difesa del cambio.

La conseguenza di ciò è che i tassi di cambio sarebbero a questo punto liberi di oscillare a seconda delle condizioni di mercato, e la banca centrale sicuramente subirebbe un gravissimo danno d'immagine che minerebbe ulteriormente la sua credibilità.

3.5 Come ovviare ai problemi degli obiettivi intermedi 3.5.1 Le soluzioni finora individuate

La teoria economica, nonché le principali istituzioni bancarie e finanziarie del mondo, hanno individuato nell'introduzione dell'inflation targeting e della CBI delle valide risposte ai problemi e ai difetti inerenti al procedere per obiettivi intermedi.

Essendo l'inflation targeting in fin dei conti una forma particolare di CBI, è opportuno descriverne brevemente le caratteristiche.

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L'inflation targeting è una strategia di politica monetaria introdotta inizialmente in Nuova Zelanda nel 1990; in seguito ha riscontrato un grande successo, tanto che oggi sono più di venti i paesi, industrializzati ed in via di sviluppo, che l'hanno adottata.

L'inflation targeting si caratterizza principalmente per tre aspetti:

a) il processo di inflation targeting si avvia annunciando pubblicamente qual è il tasso d'inflazione che la banca centrale intende perseguire;

b) le previsioni relative ai tassi d'inflazione svolgono un ruolo determinante nell'implementazione della politica monetaria;

c) garantisce un elevato grado di responsabilità e trasparenza.

Nella maggior parte dei paesi che adottano l'inflation targeting il tasso d'inflazione obiettivo si aggira intorno al 2% su base annua dell'Indice dei Prezzi al Consumo. Talvolta si stabilisce un tasso obiettivo (ad esempio il 2%) e al tempo stesso si definisce anche un range di valori entro cui il tasso d'inflazione può oscillare. Ad esempio, in Canada e in Svezia si è stabilito che il tasso obiettivo è pari al 2%, ma se il tasso d'inflazione si attesta entro un intervallo di tolleranza di più o meno l'1% (il che vuol dire che il tasso d'inflazione può andare dall'1% al 3%) si ritiene comunque raggiunto l'obiettivo inflazionistico. Ancora, in altri paesi si definisce solamente un unico tasso obiettivo da conseguire, senza che sia previsto un intervallo di tolleranza: è ad esempio il caso del Regno Unito, dove l'obiettivo è avere un tasso d'inflazione del 2%, o della Norvegia, dove il tasso è del 2.5%. Al di là delle definizioni, la differenza tra queste diverse forme non sembra avere molta importanza nella pratica: se la banca centrale deve conseguire un certo tasso d'inflazione per il quale è previsto un intervallo di tolleranza, di solito punterà al centro del range di valori accettabili. Quindi i limiti del range sono generalmente interpretati non in un senso rigoroso ma 'soft': il loro eventuale superamento (sia per quanto riguarda il limite superiore che quello inferiore del range) non comporta cambiamenti drastici della politica adottata. Essere di poco al di fuori del range non è considerato molto differente dall'essere per poco dentro il range.

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In pratica l'inflation targeting non è mai intesa in un senso 'rigido', ma sempre in senso 'flessibile': di conseguenza, le banche centrali che la applicano non ambiscono solo a stabilizzare l'inflazione intorno ad un tasso target, ma attribuiscono anche un certo peso a stabilizzare alcune grandezze che approssimano lo stato dell'economia reale. La libertà di manovra concessa da questo strumento dell'inflation targeting lascia uno spazio adeguato per azioni volte a stabilizzare l'attività economica. In questo modo le 'variabili obiettivo' della banca centrale non sono solo l'inflazione, ma anche altre variabili, in particolare la produttività (o output): ci si focalizza principalmente sul problema del gap tra l'output effettivo e quello potenziale, e sul modo in cui è possibile colmarlo. In linea generale, una politica di inflation targeting flessibile è uno strumento istituzionale che, se congiunto con un'alta credibilità della banca centrale, dà notevoli benefici.

Le recenti strategie monetarie della Banca d'Inghilterra hanno mostrato che, qualora si voglia porre in essere un'adeguata politica di inflation targeting flessibile, è esplicitamente stabilito che la banca ambisca a raggiungere il tasso d'inflazione obiettivo solo dopo due anni a partire dal momento in cui avvia una certa politica. Infatti corre sempre un certo lasso di tempo tra il momento in cui vengono implementate certe azioni di politica monetaria ed il loro impatto sulle variabili target della banca centrale: ecco perché la politica monetaria è più efficace se viene accompagnata da costanti previsioni circa l'andamento di queste variabili. A causa della lentezza con cui le scelte di politica monetaria si ripercuotono sui risultati economici, la politica corrente influenzerà il tasso d'inflazione solo dopo alcuni anni (di solito due) a partire dal momento presente. La Banca d'Inghilterra compie molti sforzi per essere quanto più possibile trasparente sul percorso dell'inflazione verso il suo obiettivo, nonché sulle relative incertezze, e lo fa pubblicando periodicamente dei report che contengono delle proiezioni sull'inflazione.

Sebbene vi siano molti meriti in un approccio così trasparente, è importante sottolineare che l'inflation targeting lascia alcune questioni irrisolte e che, così com'è applicata in Inghilterra, potrebbe non essere del tutto appropriata per altri paesi. In particolare le banche centrali di

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economie con una lunga storia di inflazione elevata e variabile (come Israele e molti paesi dell'America Latina) non possono dare per scontato che le aspettative sull'inflazione rimangano insensibili agli sviluppi inflazionistici che si stanno manifestando nel paese, in un dato momento storico, per lo stesso periodo di tempo in cui invece rimangono insensibili in un paese come il Regno Unito, che non ha mai sperimentato alta inflazione, se non per brevi intervalli di tempo. Poiché coloro che concorrono a determinare i prezzi reagiscono ai cambiamenti nelle aspettative, è ragionevole pensare che, nei paesi con un passato di elevata inflazione, la politica monetaria riesca ad avere effetti sull'inflazione con un ritardo decisamente più breve di due anni. Questo ritardo, molto probabilmente, diventa tanto più corto quanto più espansionista è la politica monetaria. Questo accade perché, nei paesi con una storia d'inflazione alle spalle, è più facile che gli agenti economici si formino delle aspettative di tassi d'inflazione elevati (è un po' il fardello del passato). Il grado di flessibilità nell'inflation targeting finisce per essere ristretto dalla velocità con cui la credibilità viene meno quando si permette all'inflazione di stare al di sopra del tasso obiettivo per un certo periodo di tempo. Questa velocità dipende da quanto il pubblico, nel lungo periodo, ha memoria dell'instabilità del tasso d'inflazione. Tale memoria varia a seconda della storia inflazionistica di ciascuna nazione e, di conseguenza, il tasso di flessibilità adeguato nell'inflation

targeting varia da paese a paese; è da sottolineare inoltre il fatto che esso può variare persino

all'interno di uno stesso paese con il passare del tempo e con il susseguirsi delle generazioni.

3.5.3 L'output targeting all'interno dell'inflation targeting

Un altro tema molto importante, sempre relativo all'inflation targeting, riguarda l'output

targeting, ossia il processo di implementazione di un determinato livello di produttività.

Come precedentemente accennato, da una buona politica di inflation targeting ci si aspetta che sia sempre trasparente. Ora, per essere trasparente, la banca centrale che porta avanti politiche d'inflation targeting non può non esplicitare il suo livello di produzione obiettivo. Ovviamente, il

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livello di produzione che le autorità vorrebbero implementare dovrebbe essere vicino all'output potenziale, cioè al livello di produzione raggiungibile da un determinato paese impiegando in modo efficiente tutte le sue risorse (risorse nel significato più ampio del termine) disponibili. Sfortunatamente, a tutt'oggi vi è ancora poca chiarezza circa l'output potenziale. Ciò è dovuto al fatto che, sebbene non manchino dei modelli volti a determinarlo, gli economisti ancora non sono stati in grado di sviluppare un metodo chiaro ed universalmente accettato per misurare l'output potenziale di un paese.

Se è difficile calcolare l'output potenziale, ne consegue che sarà molto difficile individuare l'output gap (ossia la differenza tra il livello di produzione che un paese potrebbe raggiungere, almeno potenzialmente, ed il livello di produzione effettivamente conseguito).

In una lettera inviata il 3 maggio 2017 al Vice Presidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis ed al commissario agli affari economici e finanziari Pierre Moscovici, i ministri delle finanze di Francia, Italia, Portogallo e Spagna hanno sottolineato il fatto che l'output gap non è veramente 'osservabile', poiché la sua dimensione dipende dalla stima del Pil potenziale che viene effettuata. La difficoltà di stimare l'output potenziale comporta tutta una serie di problemi per le banche che pongono in essere politiche di inflation targeting: durante dei periodi di inusuali cambiamenti nell'output potenziale, le banche centrali possono commettere dei gravi errori nella scelta delle politiche da adottare, con conseguenze anche di lungo periodo.

Ad esempio Orphanides (2001) sostiene che gli alti tassi d'inflazione negli Stati Uniti negli anni '70 siano dovuti in gran parte ad errori di valutazione commessi dalle autorità monetarie, che si sono accorte solo in ritardo della persistente riduzione dell'output potenziale.

Si possono poi scorgere gravi pericoli legati a valutazioni erronee dell'output potenziale osservando la situazione attuale dei paesi che fanno parte dell'area dell'euro.

Come ben argomentato da Andrea Boitani in un articolo apparso su Repubblica il 22 maggio 2017, gli 'sforzi fiscali' che vengono richiesti ai diversi paesi europei al fine di correggere gli squilibri di

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finanza pubblica (deficit e debito eccessivi) che più o meno tutti hanno, dipendono dalla situazione ciclica che i singoli paesi stanno attraversando. Quindi ai paesi che sperimentano un ciclo di crescita economica si chiederanno sforzi maggiori rispetto ai paesi in recessione, o comunque in una fase di crescita modesta.

Il problema però è capire come si misura la 'situazione ciclica' di ciascun paese. Se si prende come misura l'output gap, e se si dice che un paese con un gap di produzione negativo ad esempio del 5% (perché il Pil potenziale è 100 ma quello effettivo è 95) è in una situazione ciclica debole, si possono fare errori.

Infatti se il Pil potenziale stimato risultasse ad esempio pari a 97 anziché a 100 (per via di differenti calcoli econometrici, quando non di veri e propri errori!), l'output gap (con un Pil effettivo ancora di 95) sarebbe -2%. Questo vorrebbe dire che la situazione economica è decisamente migliore rispetto al -5% di prima. Allora il paese dovrebbe farsi carico di uno sforzo fiscale maggiore. Ma ciò senza che il tasso di disoccupazione sia più basso o che i cittadini abbiano un reddito da spendere realmente più alto di quando l'output gap risultava pari a -5%, semplicemente perché sono stati effettuati dei calcoli diversi!

Vi è poi un'ulteriore problema, non meno serio: il Pil potenziale tende a seguire l'andamento di quello effettivo e, se questo si riduce, anche quello potenziale diminuisce più o meno nella stessa misura. Infatti la capacità produttiva che rimane inutilizzata per troppi mesi finisce per essere distrutta; gli investimenti non effettuati determinano una riduzione della produttività; mentre i disoccupati di lungo periodo diventano ad un certo punto 'inoccupabili'.

Tutto ciò porta ad una riduzione del Pil potenziale e, molto spesso, anche del potenziale di crescita. È quindi chiaro a tutti che decidere la politica di bilancio di un paese in base ad una misura sbagliata dell'output gap avrebbe conseguenze molto gravi, specialmente per le economie che hanno sperimentato una lunga crisi ed il cui Pil potenziale, di conseguenza, si è sensibilmente ridotto. Questo senza contare poi che qualora delle politiche fiscali restrittive, volte ad assicurare un

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consolidamento fiscale consistente, fossero inopportunamente applicate ad un paese sulla base di una errata misurazione della posizione ciclica, costituirebbero un nuovo shock negativo. Inevitabilmente provocherebbero una ulteriore riduzione del Pil effettivo e, conseguentemente, di quello potenziale: così facendo, tali errori di valutazione finirebbero per porre le basi di un più lungo periodo di bassa crescita e di disoccupazione elevata e crescente.

3.5.4 La CBI come garanzia di credibilità

Come detto precedentemente, uno dei problemi che si presentano quando la politica monetaria sceglie di procedere per obiettivi intermedi è quello della credibilità.

Il problema della credibilità lo si può inquadrare sotto due prospettive diverse ma che si influenzano a vicenda: da un lato, si può far riferimento alla credibilità intesa come affidabilità o merito creditizio; dall'altro lato, si pone il problema della credibilità monetaria intesa come capacità della banca centrale di convincere il pubblico di essere in grado di implementare la politica annunciata (ad esempio una politica anti-inflazionistica).

A prescindere dal punto di vista da cui si osserva il problema, la CBI giova sempre alla credibilità. Secondo Maxfield (1997) i politici sfruttano l'indipendenza della banca centrale per segnalare l'affidabilità (intesa come merito creditizio) della loro nazione ai potenziali investitori stranieri. La probabilità che i governi usino l'indipendenza della banca centrale per segnalare l'affidabilità è tanto maggiore:

1) quanto maggiori sono le aspettative sull'efficacia di una tale segnalazione; 2) quanto più grandi e pressanti sono i bisogni finanziari del paese;

3) quanto più i politici sono fiduciosi circa la tenuta del governo in carica;

4) quanto minori sono le restrizioni che il paese ha sulle transazioni finanziarie internazionali. Per quanto riguarda il problema della credibilità della politica monetaria (e, di conseguenza, della banca centrale), generalmente si ritiene che le misure di politica monetaria annunciate saranno tanto

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più credibili quanto più la banca centrale è indipendente dai condizionamenti del governo. Questo almeno è ciò che i banchieri centrali sembrano credere. Nell'ambito di un sondaggio svolto presso alcuni banchieri centrali, Blinder (1999) ha chiesto loro come si costruisce la credibilità. In una scala da 1 (non importante) a 5 (molto importante), la risposta a favore dell'indipendenza della banca centrale ha ottenuto un punteggio di 4.51, al secondo posto dopo “una storia di onestà” (4.58), ma prima di “una storia di lotta all'inflazione” (4.15).

Secondo Forder affinché la CBI influenzi la credibilità devono essere rispettate quattro condizioni: 1. le aspettative devono essere, almeno in parte, lungimiranti e in grado di guardare al futuro; 2. le aspettative sull'inflazione devono essere effettivamente in grado di influenzare il

comportamento del settore privato;

3. il settore privato deve percepire che il governo ha un incentivo a mentire sulle politiche che terrà in futuro circa l'inflazione (in altre parole, il settore privato deve sapere che al governo conviene ricorrere alla sorpresa inflazionistica);

4. i cambiamenti nell'assetto istituzionale della banca centrale devono influenzare le aspettative.

Ma perché la credibilità è così importante? Un primo argomento è che riduce i costi di disinflazione dell'economia, cioè i costi che una società che sperimenta alti tassi d'inflazione dovrebbe sopportare pur di ridurli. Tuttavia in questo ambito molti studi presentano risultati scoraggianti: sembra che la credibilità nell'annunciare certe misure, come garantire una maggior indipendenza alla banca centrale, non funzioni molto.

Forder suggerisce a questo proposito varie possibili spiegazioni. In primo luogo, il settore privato potrebbe non percepire (adeguatamente) l'incentivo del governo a tentare di ingannarlo con la sorpresa inflazionistica. In secondo luogo, un governo che è stato eletto con il proposito di contenere l'inflazione non si aspetterà certo di ricevere credito se riesce ad ottenere un basso tasso di disoccupazione ma con alta inflazione, anche se questa combinazione, in fin dei conti,

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risulterebbe forse preferita dall'opinione pubblica. Il governo, in questo caso, sarebbe in grado di implementare una politica gradita al pubblico senza alcun bisogno di una maggior indipendenza della banca centrale.

Infine se la determinazione dei salari non è funzione dell'inflazione attesa, non si porrebbe alcun problema di incoerenza temporale. Inoltre se il governo determina l'inflazione una volta che i salari sono già stati contrattati, non si pone neppure alcun problema di credibilità, perché il governo non dovrà rispettare alcuna promessa.

3.6 L'indipendenza: caratteristica essenziale di una banca centrale moderna 3.6.1 Una buona governance

Più i mercati sono razionali ed efficienti, più si rivelano fondamentali delle regole precise per separare il mondo della politica dalla banca centrale.

Una governance ottimale della banca centrale si caratterizza per due aspetti:

1. La banca centrale deve essere indipendente, in particolare deve essere in grado di resistere alle pressioni del governo verso politiche monetarie inflazionistiche;

2. La banca centrale deve essere “conservatrice” o “cautelativa”, nel senso che deve attribuire alla stabilità dei prezzi una priorità rispetto agli altri obiettivi macroeconomici (e un'importanza superiore a quella che le viene attribuita dal governo).

Queste caratteristiche sono essenziali affinché la banca centrale possa implementare politiche monetarie non inflazionistiche credibili. L'indipendenza stessa può essere considerata uno strumento per poter concretamente attuare una politica “conservatrice”, cioè avversa all'inflazione. I privati si fidano della banca centrale solo se riesce a dimostrare di possedere pienamente queste caratteristiche; inoltre, a tal scopo, sono fondamentali l'affidabilità e la trasparenza.

Sia chiaro: dato un obiettivo di lungo termine di evitare il rischio di inflazione, la moderna banca centrale può anche smussare i cicli dell'economia reali usando le regole della politica monetaria, ma

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senza ricorrere all'imposta da inflazione.

Ricapitolando: delegare la politica monetaria ad una banca centrale indipendente, avente mandato formale di raggiungere la stabilità dei prezzi; garantire a questa istituzione piena discrezionalità nella scelta degli strumenti da utilizzare per conseguire i propri obiettivi; sono queste le modalità più efficaci per ridurre la distorsione inflazionistica: si tratta infatti di far sì che la banca centrale operi in modo da minimizzare una propria funzione di costo che utilizza un parametro di avversione all'inflazione più alto di quello incluso nella funzione di costo del governo.

3.6.2 CBI e crescita

Dal punto di vista teorico, questo obiettivo di contenimento dell'inflazione potrebbe essere raggiunto al prezzo di una più alta volatilità della produttività.

Solo pochi studi hanno esaminato l'impatto che la CBI ha sulla crescita economica; eppure questo non sembra un argomento di scarsa rilevanza.

Le principali ricerche in questo campo sono state condotte da De Haan e Kooi (2000), i quali concludono che non vi è una relazione significativa tra la CBI e la crescita economica, quantomeno nel campione di paesi in via di sviluppo analizzati. Neppure Ahkand (1998) è riuscito ad individuare una relazione robusta tra la CBI e la crescita economica.

Ma è proprio questa evidenza empirica circa l'assenza di relazioni tra CBI e crescita a suggerire che la CBI possa essere un 'pasto gratis', nel senso che permette di raggiungere un risultato apprezzabile (minor inflazione) senza necessariamente implicare uno svantaggio (una contrazione della crescita economica e, di conseguenza, maggior disoccupazione).

Più che la crescita economica, sembra che il grado di CBI possa influenzare il modo in cui i paesi reagiscono alle crisi economiche. Secondo Walsh (1997), la CBI ha giocato un ruolo chiave nel determinare le diverse reazioni dei vari paesi industrializzati alla crescita dell'inflazione in occasione del primo shock petrolifero del 1973; invece, sempre secondo Walsh, la deflazione degli

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anni '80 non sarebbe correlata con la CBI.

Per di più, la CBI ha il vantaggio di essere molto utile nell'assicurare la stabilità del debito pubblico. Proprio per questi suoi vantaggi teorici ed empirici, molti paesi, industrializzati e in via di sviluppo, hanno provveduto a rafforzare l'indipendenza delle proprie banche centrali.

Vari studi hanno evidenziato come nei paesi in via di sviluppo, sebbene non vi sia una correlazione diretta tra l'indipendenza legale della banca centrale e il tasso di crescita dell'economia pro-capite, l'introduzione di una maggior grado d'indipendenza della banca centrale abbia avuto un impatto positivo sulla crescita economica del paese.

Si è visto poi, con riferimento a dati degli anni '60 e '80, che una più alta vulnerabilità politica del governatore della banca centrale e un più alto turnover dei governatori sono negativamente correlati con la crescita pro-capite. Una possibile interpretazione di questi risultati può essere che se il banchiere centrale è troppo dipendente dai condizionamenti politici gli investimenti privati saranno più bassi e così si riduce il tasso di crescita di lungo periodo.

Inoltre Alesina, Summers e Cukierman hanno riscontrato che nelle economie sviluppate la variabilità dei tassi d'interesse sia nominali che reali è negativamente correlata con l'indipendenza legale delle banche centrali. Infatti in tutto il decennio degli anni '80 il tasso medio di rimunerazione dei depositi era maggiore nei paesi sviluppati che avevano più alti livelli di indipendenza delle loro banche centrali. Cukierman ha poi rilevato che nei paesi in via di sviluppo la variabilità dei tassi d'interesse sui depositi sia nominali che reali è positivamente correlata con i turnover dei governatori della banca centrale. La conclusione di ciò è che evidentemente la variabilità dei tassi d'interesse sia reali che nominali è più bassa, e il rendimento reale medio dei depositi è più alto, nei paesi con più alti livelli di CBI.

3.6.3 La tesi di Cukierman

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