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Il family-centered service nel contesto del centro St.François d'Assise in Ruanda : documentazione di un'esperienza nell'ambito della cooperazione internazionale

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Academic year: 2021

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Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana Dipartimento Economia aziendale, Sanità e Sociale

Corso di Laurea in Fisioterapia

Bachelor Thesis di

Lara Tacchelli

IL FAMILY-CENTERED SERVICE NEL CONTESTO DEL

CENTRO ST. FRANÇOIS D’ASSISE IN RUANDA.

DOCUMENTAZIONE DI UN’ESPERIENZA NELL’AMBITO

DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Direttrice di tesi: Brigitte Erdmann

Anno accademico: 2012-2015 Luogo e data: Manno, 31.07.2015

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Abstract

Introduzione

Questo lavoro di tesi è la documentazione dell’esperienza svolta dalla studentessa durante il terzo stage, da inizio settembre a fine dicembre, nell’ambito della Cooperazione Internazionale con l’Organizzazione Non Governativa Opera Padre Giovanni Bosco Yilirwahandi presso il centro di riabilitazione St. François d’Assise a Cyangugu, nel distretto di Rusizi, in Rwanda. Nello specifico espone e analizza il lavoro di informazione/educazione dei caregiver degli utenti del centro, il quale ospita bambini affetti principalmente da paralisi cerebrale infantile.

La domanda di ricerca iniziale è la seguente: Quali sono, in un contesto culturale con risorse diverse, le informazioni, gli esercizi e le tecniche fisioterapiche che i genitori di bambini con disabilità fisiche e/o mentali necessitano sapere? E qual’è la modalità più adeguata per trasmettere queste informazioni/nozioni ai caregivers di questi bambini?.

L’obiettivo di questa tesi è quello di approfondire il tema della terapia incentrata sulla famiglia mettendolo in relazione con il lavoro svolto al centro St. François d’Assise, per poi analizzarlo e mettere in evidenza gli aspetti positivi e negativi di quanto messo in pratica, identificando gli aspetti migliorabili e proponendo nuove soluzioni.

Metodologia

La ricerca della letteratura per il background è stata fatta utilizzando le banche dati Pubmed e PEDro. Iniziato lo stage, sono state definite le tematiche e le modalità di svolgimento degli incontri con i caregiver dei bambini in cura presso il centro, in modo tale da rendere i famigliari attivamente coinvolti nella realizzazione di questi momenti di scambio di informazioni. Attività che sono state regolarmente documentate in un “diario di bordo” redatto dalla studentessa, il quale è risultato un elemento fondamentale per svolgere un bilancio e un’autovalutazione del lavoro svolto.

Risultati

Dagli articoli sono emersi i benefici che possono portare un intervento di tipo Family-Centered in quanto i genitori diventano più sicuri nelle loro capacità di prendersi cura delle disabilità dei loro figli, comportando quindi il benessere emotivo, la diminuzione dello stress e una più alta soddisfazione del servizio ricevuto da parte dei genitori. Questo comporta però dei “costi” a carico dei fisioterapisti che devono diminuire il tempo di terapia “hands-on” a favore di un intervento maggiormente Family-Centered.

Durante gli incontri organizzati ogni mamma presente al centro ha partecipato in maniera attiva, mostrando il loro interesse ai temi presentati e arricchendo di conseguenza questi momenti di scambio grazie alla condivisione dei loro pensieri e delle loro esperienze.

Conclusioni

Purtroppo, dato il breve periodo di tempo di permanenza al centro, non è stato possibile verificare se il lavoro svolto dalla studentessa ha permesso alle famiglie di essere maggiormente competenti, permettendogli quindi di prendere delle decisioni in maniera più consapevole ed autonoma. Nonostante questo i risultati ottenuti possono definirsi positivi in quanto l’interesse mostrato dai caregivers può significare che la metodologia messa in atto può essere una buona base per poter continuare in questo senso il lavoro iniziato dalla studentessa al Centro St. François d’Assise.

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1 INDICE

1. Introduzione ... 3

2. Metodologia ... 5

2.1. Svolgimento dei momenti informativi ... 5

3. Contesto indagato ... 7

3.1. La ONG con cui ho collaborato ... 7

3.2. Il centro St. François d’Assise ... 7

3.2.1. L’organizzazione del centro... 7

3.2.2. La condizione sociale delle famiglie ... 9

3.2.3. La casistica presente al centro ... 10

4. La Paralisi Cerebrale Infantile ... 11

4.1. Definizione ... 11 4.2. Incidenza ... 11 4.3. Fattori di rischio ... 12 4.4. Prognosi ... 12 4.5. Classificazione ... 12 4.6. Interventi terapeutici ... 13

4.7. La paralisi cerebrale infantile in Africa ... 14

5. The Family-Centered Service ... 16

5.1. Definizione ... 16

5.2. Storia ... 16

5.3. I Principi del Family-Centered Service ... 17

5.4. Il Family-Centred Service e gli interventi riabilitativi ... 17

5.5. Outcomes d’efficacia ... 20

5.6. The Measure of Processes of Care (MPOC) ... 21

6. Presentazione del lavoro svolto e risultati ... 23

6.1. Primo incontro – La mobilizzazione passiva degli arti inferiori ... 23

6.2. Secondo incontro – La mobilizzazione passiva degli arti superiori ... 25

6.3. Terzo incontro – La paralisi cerebrale infantile (prima parte) ... 27

6.4. Quarto incontro – La paralisi cerebrale infantile (seconda parte) ... 30

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7. Discussione ... 34

7.1. Introduzione ... 34

7.2. Il Family-Centered Service e il Centro St. François d’Assise ... 34

7.3. Analisi dei risultati ottenuti dagli incontri organizzati al centro ... 36

7.4. Nuove proposte di intervento ... 38

8. Conclusioni ... 40 9. Ringraziamenti ... 42 10. Bibliografia ... 43 10.1. Articoli ... 43 10.2. Libri... 44 10.3. Sitografia ... 44

10.4. Relazioni alla classe ... 45

11. Allegati ... 46

11.1. Risultati incontri organizzati ... 46

11.1.1. Primo incontro – La mobilizzazione passiva agli arti inferiori ... 46

11.1.2. Secondo incontro – La mobilizzazione passiva agli arti superiori ... 47

11.1.3. Terzo incontro – La paralisi cerebrale infantile (prima parte) ... 48

11.1.4. Quarto incontro – La paralisi cerebrale infantile (seconda parte) ... 50

11.1.5. Incontro singolo ... 51

11.1.6. Disegni ... 52

11.2. Autovalutazione MPOC-SP ... 56

11.3. Measure of Processes of Care ... 60

11.3.1. MPOC-56 ... 60

11.3.2. MPOC-20 ... 64

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1. Introduzione

Questo lavoro di tesi si basa sull’esperienza vissuta dalla studentessa durante il terzo stage nell’ambito della Cooperazione Internazionale con l’Organizzazione Non Governativa Opera Padre Giovanni Bosco Yilirwahandi presso il centro di riabilitazione St. François d’Assise a Cyangugu, nel distretto di Rusizi. Il centro accoglie bambini e giovani adulti con diversi tipi di handicap fisico e/o mentale. Gli ospiti e i famigliari provengono da tutta la regione e necessitano quindi di vitto e alloggio. La studentessa ha voluto svolgere questo stage in un Paese completamente diverso dalla Svizzera per scoprire una nuova cultura, un nuovo modo di considerare e vivere la vita, per mettersi alla prova sia dal punto di vista personale che professionale e per imparare a diventare sempre più autonoma nelle scelte. Questa esperienza è stata per lei nuova da più punti di vista, ovvero, lavorare in un Paese culturalmente totalmente diverso da quello in cui si è cresciuti e praticare per la prima volta nell’ambito della pediatria, tema che oltretutto non era ancora stato affrontato in classe. Per questi due motivi i primi mesi sono stati abbastanza difficoltosi in quanto l’adattamento a una nuova cultura e a un nuovo ambiente lontano da casa non è stato semplice e inoltre, il fatto di non avere svolto delle lezioni specifiche riguardo la fisioterapia pediatrica è stato un fattore che ha causato, inizialmente, delle difficoltà in più, ma che si sono poi dimostrate positive tenendo conto che questa sua lacuna ha stimolato maggiormente la sua capacità di ragionamento clinico, permettendole quindi di sfruttare le conoscenze apprese durante gli anni di formazione.

Il motivo che ha spinto la studentessa a svolgere questo tipo di lavoro di tesi è stato quello di voler continuare il lavoro iniziato dalle sue colleghe che, prima di lei, hanno fatto lo stage in questo centro. Queste ragazze, durante il loro soggiorno, hanno organizzato una serata informativa dove hanno spiegato alle mamme la paralisi cerebrale infantile e hanno creato un opuscolo con tutte le informazioni a riguardo, da distribuire ad ogni mamma arrivata al centro.

La domanda di ricerca da cui è partita e che si è posta è stata:

Quali sono, in un contesto culturale con risorse diverse, le informazioni, gli esercizi e le tecniche fisioterapiche che i genitori di bambini con disabilità fisiche e/o mentali necessitano sapere? E qual’è la modalità più adeguata per trasmettere queste informazioni/nozioni ai caregiver di questi bambini?

L’idea iniziale era quella di continuare il lavoro svolto dalle due ragazze prima di lei, creando un opuscolo che avrebbe descritto alcuni esercizi che le mamme avrebbero potuto mettere in pratica una volta che sarebbero rientrate a casa, così che avrebbero avuto qualcosa di concreto per ricordarsi quali esercizi fare per mantenere i progressi raggiunti dal bambino. In base all’esperienza vissuta durante i primi mesi è stato deciso che la creazione e distribuzione dell’opuscolo non sarebbe stata la scelta più efficace per trasmettere le informazioni e le istruzioni necessarie alle mamme. L’obiettivo è diventato dunque quello di coinvolgere il più possibile i caregivers nella pianificazione e nell’applicazione del trattamento all’interno del centro e, soprattutto, nel trattamento che avrebbero messo in atto una volta a casa, rendendo quindi più attiva la loro presenza al centro. Questo modo di procedere è stato considerato più adatto anche basandosi sul significato di Cooperazione Internazionale ben descritto dalla scrittura di Naiaretti C., Sagramoso A., Solaro del Borgo M.A. (2009):

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4 “Cooperare anziché aiutare vuol dire innanzitutto attribuire un'importanza cruciale al ruolo del partner locale che deve essere necessariamente attivo nel contribuire a risolvere la propria situazione di disagio. […] Il processo di cooperazione dovrebbe contribuire ad un rafforzamento istituzionale locale, in modo che il partner sia in grado di realizzare progetti di auto-sviluppo.”

La volontà di coinvolgere i famigliari in prima persona in questo progetto è nata anche dalla voglia di rispondere alle loro domande, in quanto molte di loro non sapevano o avevano delle idee sbagliate riguardo lo stato del figlio, sia dal punto di vista delle cause, che della possibile evoluzione (sia positiva che negativa) della condizione del bambino e dell’importanza di svolgere costantemente la terapia. La studentessa ha quindi deciso di organizzare dei pomeriggi di formazione e informazione con l’obiettivo di:

- Mettere in pratica le competenze di comunicatore, promotore della salute e insegnante apprese durante la formazione scolastica;

- Sensibilizzare le famiglie dei bambini sulla loro condizione;

- Fornire le basi teoriche e pratiche necessarie alle famiglie per poter continuare a prendersi cura dei propri bambini;

- Permettere loro grazie alle informazioni ricevute di essere in grado di prendere delle decisioni in maniera consapevole e autonoma, dando quindi loro la possibilità di scegliere;

- Svolgere un lavoro di collaborazione tra fisioterapisti e famiglie per determinare i bisogni di queste ultime e pianificare un lavoro d’équipe per soddisfarli.

L’obiettivo di questa tesi è quello di approfondire il tema della terapia incentrata sulla famiglia mettendolo in relazione con il lavoro svolto al centro St. Fraçois d’Assise, per poi analizzarlo e mettere in evidenza gli aspetti positivi e negativi di quanto messo in pratica, identificando gli aspetti migliorabili e proponendo nuove soluzioni per raggiungere gli obiettivi citati in precedenza.

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2. Metodologia

Il presente lavoro di tesi consiste nella documentazione di un esperienza. Nello specifico espone ed analizza il lavoro di informazione/educazione dei caregiver degli utenti del centro St. François d’Assise svolto durante l’esperienza di stage della studentessa in Rwanda da inizio settembre a fine dicembre 2014, in relazione agli articoli scientifici riguardo il Family-Centered Service.

Per quanto riguarda la redazione della tesi la studentessa ha iniziato nel mese di settembre a definire il quadro di riferimento teorico raccogliendo informazioni riguardo la paralisi cerebrale infantile utilizzando la banca dati PubMed e PEDro e il libro di testo “Fuori schema – Manuale per il trattamento delle paralisi cerebrali infantili” di Giannoni e Zerbino (2012). Dal mese di novembre fino a marzo è stata poi fatta la ricerca di articoli scientifici riguardo il Family-Centered Service utilizzando le banche dati citate prima. Iniziato lo stage, sono state definite le modalità di intervento e definite le tematiche e le modalità di svolgimento degli incontri con i caregiver dei bambini in cura presso il centro, in modo che rispondesse alle esigenze date dalla situazione presente e dagli obiettivi pianificati dalla studentessa. Durante lo stage è stato redatto un “diario di bordo” dove la studentessa ha descritto gli incontri organizzati, riportando i concetti teorici e pratici presentati alle mamme, le domande poste dalla stessa, le domande e le risposte date dalle mamme e infine i commenti riguardo i risultati ottenuti ad ogni incontro. Da marzo è stata iniziata la redazione della tesi, iniziando dal background e dall’esposizione dei risultati per poi giungere alla discussione degli stessi correlando le informazioni raccolte dagli articoli riguardo il Family-Centered Service all’esperienza di stage svolta, in modo da fare un bilancio e svolgere anche un’autovalutazione riguardo l’intervento messo in atto e documentato nel “diario di bordo”, proponendo di conseguenza delle possibili modifiche future.

2.1. Svolgimento dei momenti informativi

Per non rubare ore di terapia ai bambini durante il mattino, è stato deciso di organizzare questi momenti di informazione teorica e pratica durante i pomeriggi, anche per dare uno scopo preciso al lavoro che le mamme dovevano fare durante la seconda parte della giornata (vedi capitolo 3.2.1)

Le presentazioni sono state strutturate in modo tale che prima di dare una spiegazione teorica o pratica del tema del pomeriggio venivano poste le domande ai parenti, così da valutare cosa già sapevano a riguardo. Dopo le loro risposte, venivano spiegati i vari concetti e mostrate le tecniche da eseguire. L’obiettivo era quello di lasciare il tempo alle mamme di ragionare e di trovare una soluzione, così da renderle più partecipi alla presentazione e renderla anche un po’ più personale, sperando che così facendo, questo momento di informazione avrebbe dato dei risultati più duraturi rispetto a un passaggio di informazioni strettamente teorico e monodirezionale.

Durante i pomeriggi pratici su ogni mamma è stata praticata la tecnica per far sentire a loro stesse quale era il movimento che dovevano fare sul bambino, in seguito le stesse manovre sono state praticate sul loro figlio.

La scelta iniziale era quella di fare solo dei pomeriggi di istruzione pratica. Come primo pomeriggio è stato deciso di istruire le mamme riguardo la mobilizzazione passiva poiché è una pratica che non richiede l’utilizzo di ausili oltre le proprie mani, quindi sarebbe stato facile per le mamme metterlo in pratica anche una volta rientrate a casa. Dopo la prima presentazione si è notato che le mamme non erano sufficientemente

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6 informate sulla condizione dei bambini, è stato quindi deciso di cambiare il percorso ed è stato introdotto anche un pomeriggio dove si è parlato della paralisi cerebrale infantile, così da chiarire alle mamme questo tema.

In totale sono stati organizzati due pomeriggi di istruzione alla mobilizzazione passiva (uno per l’arto inferiore e uno per l’arto superiore) e due pomeriggi riguardo il tema della paralisi cerebrale infantile.

Durante questi momenti informativi ogni famigliare presente al centro era invitato a partecipare al pomeriggio con il proprio bambino, ma non era obbligatorio, come anche non era obbligatorio restare per tutta la durata della presentazione. In questi pomeriggi non sono state incluse le mamme esterne, perché la sala di fisioterapia ha uno spazio limitato e perché le mamme spesso avevano un lungo tragitto da fare per rientrare a casa.

Dato che le famiglie parlano solo la lingua locale, la Suora responsabile del centro traduceva quello che veniva spiegato in francese.

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3. Contesto indagato

3.1. La ONG con cui ho collaborato

Per svolgere questa esperienza ho collaborato con la ONG chiamata Opera Padre Giovanni Bosco Yilirwahandi. Questa organizzazione ha preso piede già dal 1985 quando un parroco ruandese, ovvero Padre Giovanni Bosco Yilirwahandi, arrivò in Ticino dove suppliva i parroci in vacanza. Durante tutta la sua permanenza in Ticino si è preoccupato di raccogliere aiuti finanziari da inviare regolarmente ai ruandesi in difficoltà. Finiti gli studi a Roma è tornato in patria, dove perse la vita durante il genocidio del 1994. Grazie alle amicizie che Padre G.B. è riuscito a instaurare in Ticino, sono potuti continuare gli aiuti finanziari. Sono state create delle case per orfani e vedove, è stato creato il progetto caprette, 300 padrinati a distanza e acqua potabile per tre colline (Opera Padre Giovanni Bosco Yilirwahandi, n.d.).

Il progetto a cui ho preso parte si occupa di sostenere il Centro di riabilitazione St. François d’Assise a Cyangugu, una località a sud-ovest del paese sul lago Kivu. Questo centro, gestito dalla comunità di Suore penitenti di St. François d’Assise, è stato aperto nel 2010. Il loro obiettivo è quello di facilitare e/o permettere l’accesso alle cure necessarie alla popolazione della prefettura occidentale. Per fare questo accolgono in media 15 bambini, sempre accompagnati dalla mamma o da un altro membro della famiglia, che resteranno al centro per una durata di due o tre mesi (a dipendenza della possibilità economica della famiglia) durante i quali svolgono quotidianamente fisioterapia, per poi tornare a casa in “vacanza” per circa un mese e poi tornare di nuovo al centro. La presenza della mamma o di un famigliare durante la terapia è il punto di forza del centro in quanto l’obiettivo è quello di insegnare a un genitore o a un parente come praticare alcuni esercizi di terapia al figlio per quando rientreranno a casa, così da mantenere in linea di massima il miglioramento ottenuto.

Oltre alle sedute di fisioterapia, i bambini hanno la possibilità di seguire delle piccole lezioni dove viene insegnato loro a leggere, scrivere e a contare in francese e in inglese. Il centro offre anche corsi di taglio e cucito per ragazzi con disabilità. Questi ragazzi, che vivono anch’essi al centro, vengono istruiti su come fabbricare scarpe e vestiti, per poi venderli e guadagnare i soldi per sostenere il centro.

3.2. Il centro St. François d’Assise

3.2.1. L’organizzazione del centro

La seguente descrizione del centro rispecchia ciò che la studentessa ha vissuto durante il suo periodo di stage e non la situazione attuale.

Il Centro St. François d’Assise è gestito dalla comunità di Suore penitenti francescane del distretto di Rusizi. È un centro diviso in tre parti: due parti si occupano dell’istruzione a ragazzi con delle disabilità a fabbricare scarpe e vestiti, mentre una parte è dedicata alla fisioterapia per i bambini. Sono presenti: 2 Suore, una che gestisce il lavoro legato alla fisioterapia, la quale ha ottenuto un diploma in fisioterapia, mentre l’altra è responsabile degli atelier di lavoro, una maestra e un custode che si occupa di qualsiasi problema che si presenti e di mantenere in ordine il materiale e aggiustarlo in caso di rottura. L’obiettivo del centro è quello di permettere l’accesso alle cure necessarie alla popolazione della prefettura occidentale.

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8 Il parente, che può essere la mamma, il papà, il fratello, lo zio o qualsiasi altro membro della famiglia, si reca di sua iniziativa al centro con il bambino durante la mattinata. Mentre i terapisti svolgono la terapia con i bambini, la Suora si occupa di accogliere ed effettuare la prima valutazione del bambino. Dopo questa valutazione la Suora decide se ci sono i criteri per ammetterlo al centro, ovvero: se il bambino ha una disabilità che il centro è in grado di prendersi a carico, se vi sono al momento dei posti letto liberi, se vi è un parente che si trasferirà assieme al bambino per prendersi cura di lui e se la famiglia ha le capacità economiche per sostenere i costi dell’alloggio. Se la famiglia, per motivi di lavoro o altro, non può permettersi di garantire un famigliare permanente al centro, in casi eccezionali il centro offre una badante1. In altri casi dove il motivo per cui il bambino non può restare al centro per cause economiche, una Suora del convento del distretto a volte si offre per prendersi a carico le spese delle cure. Dopo aver accordato la possibilità di trasferirsi al centro, la mamma con il bambino ritornano il giorno accordato, dove vengono accolti e registrati dalla Suora responsabile del centro, la quale si occupa di tutte le questioni amministrative, delle prime valutazioni e di rispondere ai bisogni delle mamme. Nel caso in cui il centro non ha le capacità di prendersi a carico il bambino a causa della sue condizioni la Suora consiglia di recarsi negli ospedali specializzati, come ad esempio per fare delle stecche, gessature o dei plantari, o per fare dei controlli più specifici. Purtroppo il centro non ha molte possibilità economiche quindi il materiale non è sempre in buone condizioni o all’avanguardia, o addirittura adatte a dei bambini. Purtroppo a causa delle scarse possibilità economiche, spesso la famiglia non può permettersi di portare il figlio da uno specialista, o comperargli gli ausili specifici. La difficoltà è dovuta anche al fatto che i centri specializzati sono pochi, quindi, oltre al costo della visita, hanno il costo delle lunghe trasferte.

Al centro vengono accolti in media 15 bambini per 15 letti2 (nello stesso letto dormono mamma, bambino e a volte il fratello o la sorella del bambino). La giornata del bambino si svolge nel seguente modo: al mattino, aiutato dalla mamma, si prepara per la terapia, mentre aspetta il suo turno, o dopo aver fatto fisioterapia, se in età scolare, si reca in un’altra saletta dove la maestra del centro insegna le prime nozioni di base come, i numeri, i calcoli, leggere e scrivere in inglese e in francese.

Come detto durante la mattina il bambino svolge la terapia con uno dei terapisti per circa un’ora o poco meno a dipendenza del numero dei bambini presenti nella struttura e dei pazienti esterni. Il pomeriggio è dedicato alle mamme, ovvero hanno il compito di svolgere loro stesse alcuni esercizi fisioterapici sul loro bambino, questo perché un altro obiettivo del centro è quello di istruire le mamme nella presa a carico del loro bambino. Durante il pomeriggio vengono anche fatte delle passeggiate nell’area circostante al centro, così da fare qualcosa di diverso e ludico durante la giornata e per svolgere allo stesso tempo degli esercizi terapeutici in quanto il terreno è per la maggior parte accidentato e spesso si va verso luoghi adibiti di scale o delle piccole salite collinose, così che i bambini possano esercitarsi anche in questa attività, molto importante per quando torneranno a casa.

Oltre alle famiglie che alloggiano all’interno del centro, vi sono dei bambini esterni che, accompagnati da un famigliare, vengono più o meno regolarmente per svolgere la

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Questo è avvenuto una volta durante la mia permanenza quando il papà della bambina non poteva restare al centro a causa del lavoro e della salute della madre che richiedeva cure costanti in un altro ospedale. Questo è stato anche possibile anche dalle capacità economiche della famiglia. Un altro caso dove nessun famigliare era presente al centro, era con un bambino portato al centro e poi abbandonato dalla famiglia. Questo bambino era dato alle cure a una delle altre mamme presenti al centro. Anche nel caso in cui il ragazzo fosse abbastanza grande (circa 14-15 anni) può restare al centro senza un parente, se abbastanza autonomo nella cura di sé stesso.

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9 terapia. Questi non restano al centro né a dormire né a mangiare e subito dopo la terapia rientrano a casa. Il motivo per cui non restano al centro può essere dato dal fatto che abitano vicino al centro, perché non vi sono letti liberi, perché hanno una famiglia numerosa a casa di cui la mamma deve occuparsi, o perché non hanno i soldi per pagare il soggiorno. Questi bambini nell’ordine della presa a carico durante la mattina hanno la precedenza in quanto al pomeriggio non sarebbero lì, quindi l’ordine viene adattato ogni giorno anche in base alla presenza di pazienti esterni, i quale, salvo alcune eccezioni, non si presentano quotidianamente alla terapia.

Nella presa a carico durante il trattamento i terapisti si sono organizzati creando due gruppi (o quattro da quando le due studentesse sono arrivate al centro) di cui si occupano per tutta la settimana, per poi fare cambio nella settimana successiva. I passaggi di informazione avvengono abbastanza regolarmente a voce, ogni bambino inoltre, ha la propria cartella clinica che viene compilata durante la prima valutazione e che viene poi aggiornata da parte della Suora in quanto i due terapisti sono ipovedenti.

Il periodo di permanenza al centro dura dai due ai quattro mesi e viene decisa discutendo con la Suora. La durata del soggiorno dipende dal bisogno del bambino, dalla disponibilità dei letti e dalle capacità economiche della famiglia. Infatti alcune mamme lasciano il centro, oltre che per tornare a badare al resto della famiglia, anche per poter lavorare così da poter guadagnare i soldi necessari per pagare l’alloggio o per coltivare i campi (necessario per l’autosussistenza della famiglia), per poi ritornare, a dipendenza della disponibilità dei letti, dopo uno o due mesi.

Il centro oltre ad offrire dei letti, dà ad ogni mamma una quantità di cibo giornaliero, che comprende della farina di vario tipo, fagioli, patate e altro; per ogni pietanza che vogliono in più sono loro stesse che devono andare a comprarsela al mercato. Ogni mamma a turno cucina per se e per il proprio bambino, una di loro ha anche il compito di cucinare anche per i ragazzi che lavorano nei laboratori, mentre i bambini che non hanno dei parenti che cucinano per loro vi è il custode che si occupa di loro. Inoltre a turno, ognuno ha un compito preciso all’interno del centro, ovvero chi deve tenere pulita la cucina, chi tenere in ordine la sala di fisioterapia, chi la sala pranzo.

In caso di malattia, ogni mamma ha la possibilità di recarsi nel Centre de Santé posizionato a fianco del centro.

Come già detto, ogni bambino, interno o esterno, ha il diritto a un’ora di terapia ogni giorno (dal lunedì al venerdì), tranne quando un terapista è assente e vi sono tanti bambini, allora si diminuisce di poco la terapia per permettere a tutti di ricevere il trattamento. Vi sono due sale di fisioterapia: una più piccola alto dove solitamente vengono effettuate le valutazioni iniziali o dove vengono trattati i bambini che necessitano di un ambiente più tranquillo così da evitare troppe distrazioni; l’altra invece è più grande, dove sono posizionati per terra sei materassini dove viene effettuata la terapia, vi sono numerosi cuscini di varia forma, peso e consistenza, giochi di diverso genere per stimolare il bambino, delle spalliere, un tavolo da fisioterapia e 3-4 standing costruiti dal centro. Poi vi è un magazzino dove vi sono delle sedie a rotelle, stampelle e altri ausili più o meno funzionanti.

3.2.2. La condizione sociale delle famiglie

La condizione economica delle famiglie spesso non dà loro la possibilità di comperare gli ausili come dei tutori o delle semplici stampelle o attrezzi per svolgere la terapia a casa, ma nonostante le difficoltà economiche vi sono dei famigliari che si impegnano per trovare le soluzioni migliori per aiutare il figlio nelle sue difficoltà della vita quotidiana, costruendo dei bastoni con dei rami o creando altri ausili o facilitazioni

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10 con tutto ciò che possono trovare in natura. Un altro fattore ambientale che non è di aiuto per l’integrazione sociale di questi bambini è la geomorfologia del Ruanda, tutta la nazione è caratterizzata da colline con strade sterrate che rende difficoltoso lo spostamento per le persone con handicap come anche per le persone che devono aiutare i bambini a spostarsi su questo tipo di terreno. Purtroppo l’accettazione della condizione del figlio da parte dei genitori non è scontato. Nonostante le giornate di promozione e di sostegno per le persone con disabilità delle associazioni adibite a integrare sempre di più nella società e nel mondo del lavoro, la persona disabile fisicamente o mentalmente è ancora vista da molte persone in modo negativo. Questo si vede bene in alcune famiglie del centro dove ci sono delle mamme con i loro bambino che sono stati abbandonati dal papà a causa della condizione del figlio. Data questa visione sociale della persona disabile è spesso difficile per i famigliari accettare la condizione del figlio. Purtroppo spesso una volta rientrati a casa le mamme non praticano gli esercizi di fisioterapia mostrati al centro, questo a causa del lavoro che devono fare per badare alla famiglia e per guadagnare i soldi per comperarsi il mangiare, come anche perché non hanno veramente capito l’importanza di svolgere regolarmente gli esercizi per far si che il loro figlio sia il più autonomo possibile.

3.2.3. La casistica presente al centro

Durante il periodo di stage sono stati trattati al centro circa 30 bambini (20 pazienti interni e 4-5 pazienti esterni) di età compresa tra i 7 mesi e i 14 anni, la maggior parte dei quali era di età inferiore ai 6 anni, ogni bambino tranne tre erano accompagnati da un parente, di età compresa tra i 17 e i 40 anni. Nessuno dei bambini aveva una diagnosi medica precisa. In base alla valutazione effettuata al centro si è notato che la maggior parte dei bambini aveva una paralisi cerebrale infantile. Data l’assenza di dati precisi riguardo l’evento che ha determinato la disabilità non è possibile stabilire con certezza l’epoca dell’evento che ha portato alla condizione attuale, ma in base ai racconti delle mamme si è potuto constatare che la maggior parte dei bambini ha avuto dei problemi durante il momento del parto o subito dopo il parto, solamente il papà di una bambina ha riferito che le problematiche sono iniziate all’età di 2 anni dopo un periodo in cui la bambina ha avuto una febbre molto alta. Come già detto, nessun bambino ha una valutazione medica approfondita riguardo la sua condizione, questo è dovuto principalmente alla condizione economica della famiglia. La maggior parte delle famiglie che si sono recate al centro non sono benestanti, per cui non è stato per loro possibile effettuare tutti i controlli necessari per avere una diagnosi medica precisa.

I casi riscontrati durante il periodo di stage della studentessa comprendono prevalentemente bambini con paralisi cerebrale infantile: forme spastiche, dispercettive, atoniche, tetraplegie, emiplegie, diplegie, bambini con disturbi cognitivi, visuopercettivi, autonomici (epilessia). Inoltre alcuni casi di: ritardi motori, lesione ostetrica del plesso brachiale, artrogriposi, piede torto e problematiche legate alla malnutrizione.

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4. La Paralisi Cerebrale Infantile

4.1. Definizione

Il termine paralisi cerebrale infantile (PCI) viene definito dalla Linea guida per la riabilitazione dei bambini affetta da paralisi cerebrale infantile (2005-2006) come:

“una turba persistente, ma non immutabile, dello sviluppo della postura e del movimento a group of disorders of development of movement and posture (Bax 1964, Mutch 1992, Goldstein, Rosenbaum, Leviton et al. 2005), dovuta ad alterazioni della funzione cerebrale, per cause pre-, peri- o post- natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo. […] La paralisi cerebrale infantile si distingue dalla paralisi dell’adulto in quanto mancata acquisizione di funzioni, piuttosto che perdita di funzioni già acquisite. Il fatto che sia una condizione considerata permanente non esclude la sua mutabilità, ovvero sono possibili cambiamenti migliorativi o peggiorativi, spontanei o indotti. La lesione di per sé non evolve, ma divengono sempre più complesse le richieste dell’ambiente al sistema nervoso, con conseguente aggravamento della disabilità in funzione sia del danno primitivo, sia dei deficit accumulati strada facendo in ragione della mancata acquisizione di esperienze e di nuove capacità.”

La paralisi cerebrale infantile è dunque una patologia complessa con: “un danno primario della struttura (del sistema nervoso centrale) in rapporto alla sede della lesione; un danno secondario come mancata acquisizione di competenze motorie, cognitive, comunicative e relazionali; e un danno terziario dato dagli effetti dell’utilizzo “particolare” degli strumenti a disposizione” (Bigioggero, 2015). Dato che non è possibile intervenire sul danno primario, l’obiettivo è quello di agire a livello secondario e terziario per trovare le giuste strategie e soluzioni così da permettere al bambino di apprendere o modificare il proprio comportamento in base alle sue esigenze e alle richieste date dall’ambiente che lo circonda.

4.2. Incidenza

Con il passare degli anni la prevalenza di paralisi cerebrale infantile nei paesi più sviluppati continua ad aumentare (Stokes, 2000) con un’incidenza del 2.0 – 3.5 per 1000 bambini nati vivi (Colver, Fairhurst, Pharoah, 2014). “Questo può essere spiegato dall’aumento della percentuale di sopravvivenza, dal momento che l’incidenza di nati prematuri e la prevalenza di paralisi cerebrale tra prematuri sotto i 2500 g sembrano essere relativamente stabili. […] Si può quindi attribuire la consistente tendenza all’aumento di casi di paralisi cerebrali parallelo alla diminuzione di mortalità delle nascite premature” (Stokes, 2000).

Nei Paesi in via di sviluppo la maggioranza di bambini affetti da paralisi cerebrale per eventi avvenuti postparto sono maggiori rispetto ai Paesi più sviluppati, questo è data dalla ridotta opportunità di prevenzione e trattamento di infezioni e traumi (Colver et al., 2014) e dalla mancanza di interventi tempestivi che potrebbero migliorare fin da subito e a lungo termine la condizione del bambino (Donald et al., 2014).

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4.3. Fattori di rischio

L’articolo di McIntyre et al. “A systematic review of risk factors for cerebral palsy in children born at term in develop countries” del 2013 ha identificato dieci fattori di rischio significativi associati alla paralisi cerebrale infantile: “anomalie della placenta, difetti alla nascita più o meno importanti, basso peso alla nascita, aspirazione del liquido amniotico, intervento cesareo di emergenza, sindrome da distress respiratorio, ipoglicemia e infezioni neonatali (Colver et al., 2014). In generale il rischio di sviluppare una paralisi cerebrale aumenta con il diminuire dell’età gestazionale e con il peso del neonato quando questo è inferiore ai 2500 grammi (Pavone L., Pavone V., Ruggieri, 2006). Altre cause che possono portare alla paralisi cerebrale sono traumi alla testa (accidentali e non) che comprendono il 10% delle cause postparto insieme alle infezioni (Colver et al., 2014).

4.4. Prognosi

Come già detto nella definizione, la paralisi cerebrale infantile non è una condizione mutabile nel tempo, ciò significa che la lesione a livello del sistema nervoso centrale non può aggravarsi. Nonostante questo, a dipendenza della severità della disabilità e della presa a carico, la condizione del bambino può migliorare o peggiorare andando a influenzare la qualità e l’aspettativa di vita (MyChild, 2015). Attraverso degli interventi mirati è possibile quindi migliorare la motricità e le attività della vita quotidiana, per questo è dunque importante intervenire tempestivamente ed effettuare un piano di cura adatto ad ogni singolo caso (Cerebral, n.d.).

Nei Paesi in via di sviluppo la mortalità in età giovanile è maggiore a causa della malnutrizione, delle infezioni e dalle limitate possibilità di accedere a centri di cura, cosa che porta la maggior parte delle famiglie a curare i propri figli con le loro poche risorse casalinghe. (Colver et al., 2014).

4.5. Classificazione

La paralisi cerebrale infantile viene classificata in base ai seguenti criteri:

- Quadro neurologico, che coincide con la sede della lesione: forme spastiche (lesione piramidale), forme discinetiche (lesione extrapiramidale), forme atassiche (lesioni prevalentemente cerebellari e delle vie cerebellari), forme dispercettive, forme atoniche, forme miste (Colver et al., 2014; Pavone et al., 2006; Bigioggero 2015);

- Localizzazione/distribuzione, ovvero: tetraplegia (coinvolti tutti e quattro gli arti), diplegia (gli arti inferiori sono maggiormente colpiti rispetto gli arti superiori), diplegia reversed (gli arti inferiori sono maggiormente colpiti rispetto gli arti superiori), emiplegia (coinvolgimento di un solo emilato), doppie emiplegie, monoplegie (raramente è colpito un solo arto) (Pavone et al., 2006; Bigioggero, 2015);

- Disturbi associati: seizure, disturbi autonomici, cognitivi, disprassici, visuopercettivi, di senso (Bigioggero, 2015);

- Causa e periodo in cui si sospetta sia avvenuta la lesione: periodo pre- peri- o postparto (Colver et al., 2014);

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13 Uno strumento utilizzato per valutare la funzione motoria dei bambini affetti da paralisi cerebrale infantile è il Gross Motor Function Classification System (GMFCS). Questo strumento è stato creato in base al concetto di disabilità e di limitazione funzionale definito dal International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps. Il GMFCS ha un sistema di classificazione della funzione motoria basato su cinque livelli per quattro gruppi di età: prima dei 2 anni, tra 2 e 4 anni, tra 4 e 6 anni , e tra 6 e 12 anni (O’Shea, 2008), dove il livello di GMFCS è proporzionale al livello di disabilità (livello 1: minima limitazione, livello 5: gravi limitazioni). L’attenzione viene portata maggiormente sulle capacità motorie del bambino come la capacità di mantenere la posizione seduta, il cammino e la capacità di utilizzare la sedia a rotelle (Palisano et al., 1997). La distinzione tra un livello e l’altro si basa sulle abilità funzionali, sulla necessità di assistenza tecnologica (incluso il bisogno di ausili come deambulatori, stampelle o sedia a rotelle) e sulla qualità del movimento, valutandolo nel conteso di casa, scuola e società (CanChild, 2015).

4.6. Interventi terapeutici

Durante gli anni sono stati sviluppati diversi tipi di interventi terapeutici, ma l’obiettivo finale resta sempre quello di “favorire l’inserimento dei bambini con paralisi cerebrale in un ambiente sociale, tramite l’acquisizione del massimo grado possibile di autonomia fisica, affettiva e relazionale. […] Indipendentemente dal metodo utilizzato esso deve essere proseguito durante tutto il periodo della crescita, con ritmi e obiettivi adeguati ai problemi del momento” (Pavone L., Pavone V., Ruggieri, 2006). Al fine di poter iniziare al più presto la riabilitazione è necessario svolgere una valutazione completa fin da subito così da poter definire una prognosi di recupero, per poi programmare un intervento terapeutico adatto alla singola situazione e iniziare precocemente il programma riabilitativo al fine di inibire fin da subito gli schemi motori patologici. Gli obiettivi terapeutici devono essere definiti anche in base alle risorse del bambino, alla sua motivazione e alla sua capacità di apprendimento (Bigioggero, 2015) e deve considerare il bambino nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale, coinvolgendo il suo contesto familiare, sociale e ambientale (Pavone et al., 2006).

Secondo l’articolo del 2014 di Colver, Fairhurst e Pharoah “Cerebral Palsy” vi sono due punti fondamentali nella presa in carico del singolo bambino con paralisi cerebrale: 1) ogni intervento deve essere pianificato, eseguito e validato da un team multidisciplinare mettendo al centro la volontà del bambino e della famiglia; 2) l’intervento non deve essere mirato a un singolo deficit ma bisogna considerare le comorbidità che caratterizza questa condizione, facendo sempre attenzione al contesto di vita del bambino e delle persone che lo circondano.

Vi sono diversi tipi di interventi che hanno strategie diverse come: il Metodo Vojta, la Conductive education, il Neurodevelopmental treatment (NDT), l’Infant Health and Development Program (IHDP), l’Infant Behaviuor Assessment and Intervention Program (IBAIP), il Coping with and Caring for infants with special needs (COPCA), che verranno brevemente spiegate nel capitolo successivo riguardo il Family-Centered Service; ma nonostante i differenti approcci si basano sul principio di neuroplasticità, sui pattern motori, sul controllo posturale, sul rinforzo muscolare e/o sull’allungamento muscolare (Colver et al., 2014). In parallelo agli interventi riabilitativi vi sono gli interventi chirurgici e le terapia farmacologica.

Come già detto la valutazione è un elemento importante per impostare il piano di trattamento così che si possa intervenire in base alle abilità funzionali, alla gravità, al

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14 pattern motorio, ai dolori associati e in base alla fase di sviluppo. Per ottenere un quadro più completo e intervenire in maniera globale è dunque necessario svolgere un lavoro multi- e interdisciplinare che comprenda un esperto in riabilitazione neurologica, uno psicologo, un fisioterapista, un ergoterapista, un logopedista, un assistente sociale e una maestra di scuola (Colver et al., 2014). Per essere un lavoro di team efficiente tutti i terapisti devono collaborare, coordinare i loro interventi e comunicare regolarmente le loro osservazioni (Lipson Aisen et al., 2011). L’approccio terapeutico a livello di team deve comprendere i seguenti interventi: educare il paziente e la famiglia riguardo la promozione delle attività funzionali a casa e/o nella comunità, riguardo gli aspetti positivi e negativi dei vari trattamenti, come anche riguardo le comorbidità e le possibili complicazioni; pianificare con la famiglia e la scuola un programma di educazione e di adattamento agli strumenti di comunicazione in caso di deficit comunicativi legati al linguaggio (Lipson Aisen et al., 2011).

Il terapista deve essere in grado di “identificare e mettere in atto l’adeguato approccio metodologico ai bisogni funzionali di quella persona, in quel momento evolutivo, inserito nel suo ambiente di vita. Il suo ruolo è quello di partner, di guida, di filtro per ottimizzare l’incontro tra ambiente ed esigenze del bambino, per sostenere la sua iniziativa e la sua attenzione, per guidare la scelta delle strategie idonee nella soluzione di problemi adattivi, per verificare i limiti imposti dalla patologia e per variare i contesti in modo da favorire l’apprendimento” (Bigioggero, 2015). Per fare ciò è utile mettere in atto un tipo di intervento Family-Centered così da poter collaborare con tutta la cerchia famigliare del bambino per raccogliere tutte le informazioni necessarie al fine di pianificare un programma riabilitativo che coinvolga anche la famiglia dato che sono i veri esperti del loro bambino e per avere una continuità del trattamento anche al di fuori della seduta riabilitativa. Questo tema verrà approfondito nel prossimo capitolo.

4.7. La paralisi cerebrale infantile in Africa

Secondo l’articolo di Donald et al. (2014) “Pediatric Cerebral Palsy in Africa: A Systematic Review”, le cause della paralisi cerebrale infantile nei Paesi africani sono principalmente: asfissia, kernittero e infezioni neonatali; la prematurità o il basso peso alla nascita sono proporzionalmente più basse rispetto a Paesi dell’Europa o degli Stati Uniti, questo si pensa sia dovuto al basso tasso di sopravvivenza di queste nascite nei Paesi più poveri. Le comorbidità maggiormente presenti nei Paesi più poveri sono: l’epilessia, la sordità, l’alterazione dell’eloquio, della vista, deficit cognitivi, la malnutrizione e le complicanze ortopediche.

Il termine paralisi cerebrale viene spesso usato in questi Paesi per definire tutte le disabilità motorie; questo è dovuto principalmente alla scarsa possibilità di effettuare uno screening per accertare la condizione del bambino, solo alcune famiglie più benestanti hanno la possibilità di ottenere una diagnosi. Spesso, nonostante la presenza di una diagnosi medica, le famiglie non hanno la possibilità di agire di conseguenza aderendo a un programma di intervento adatto alla problematica del bambino poiché non vi sono dei centri di riabilitazione abbastanza esperti o specializzati nel campo, poiché i centri stessi hanno poche risorse a cui possono attingere. Per le famiglie più povere la scoperta di un problema legato alla salute del bambino viene identificato dai componenti famigliari e solo in un secondo tempo, chi se lo può permettere, si recano dal medico o nei centri di cura per chiedere aiuto, richiesta a cui purtroppo la maggior parte di loro non verrà data risposta a causa dell’impossibilità economica e/o della cultura di queste popolazioni che non riconosce la presenza di una disabilità e di conseguenza non vengono messe in atto né delle cure di base, né degli

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15 interventi adatti alla condizione, che potrebbero rendere migliore, per quanto possibile, la vita del loro bambino e di tutta la famiglia.

Oltre all’accesso limitato alle cure da parte delle famiglie, vi sono degli elementi legati alle infrastrutture che rendono l’intervento non completamente efficace, ovvero: mancanze di attrezzature e ausili, lacune culturali, assenza di un linguaggio specifico, assenza di strumenti clinici di valutazione validi, analfabetizzazione e limitazione all’accesso agli strumenti di riabilitazione, che creano delle lacune nella presa a carico dei bambini affetti da paralisi cerebrale infantile. Un altro aspetto negativo che va a influenzare il trattamento di questi bambini è il forte stigma che tutt’oggi vi è in queste culture riguardo le persone affette da disturbi neurologici o da altri tipi di disabilità. Questa visione del malato porta la famiglia a non cercare nessun tipo di aiuto, togliendo la possibilità al bambino di ricevere, oltre a un trattamento adeguato, un’educazione e in generale un riconoscimento a livello sociale. Per aiutare le famiglie, gli ospedali e i centri di salute vi sono diverse Organizzazione Non Governative che si occupano di promuovere l’utilizzo di materiali a basso costo, di creare dei centri di salute, formare dei gruppi di supporto per le famiglie e dei programmi di lavoro multidisciplinari (Donald et al., 2014).

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5. The Family-Centered Service

5.1. Definizione

L’articolo “Family-Centered Service for children with cerebral palsy and their families” definisce così il Family-Centered Service (King, Teplicky, King, Rosenbaum, 2004):

“Il Family-Centered Service è un intervento basato su una serie di valori, atteggiamenti e approcci nei servizi offerti ai bambini con vari tipi di deficit e alle loro famiglie. Il Family-Centered Service riconosce che ogni famiglia è unica, che la famiglia è la costante nella vita del bambino, e che loro sono i veri esperti riguardo le capacità e i bisogni del loro bambino. La famiglia lavora insieme agli operatori socio-sanitari nel prendere le decisioni riguardo il servizio e il supporto che il bambino e la famiglia ricevono. Nella Family-Centered Service i punti di forza e i bisogni di tutti i membri della famiglia sono presi in considerazione.”

In questo senso, la famiglia viene coinvolta nel piano di intervento dando informazioni uniche riguardo il bambino e le loro preferenze rispetto gli interventi terapeutici. La famiglia riceve un servizio di educazione e informazione così da sensibilizzarli riguardo la condizione del loro bambino e ridurre loro lo stress creato dalla situazione che devono affrontare giornalmente. Il compito del terapista è quello di sviluppare un piano di intervento in modo tale da motivare il bambino a partecipare alla terapia e soddisfare le aspettative della famiglia, coinvolgendoli contemporaneamente nella formulazione degli obiettivi. Gli interventi dovranno avere una continuità nella vita quotidiana del bambino, è necessario quindi renderli il più funzionale possibile all’ambiente di vita (McGibbon Lammi & Law, 2003).

5.2. Storia

Il primo ospedale creato esclusivamente per i bambini è stato L’Hopital Des Enfants-Malades fondato nel 1802 a Parigi, mentre negli Stati Uniti è stato fondato nel 1855 il Children’s Hospital a Philadelphia. Inizialmente i genitori avevano il ruolo di semplici accompagnatori o visitatori. Solo nel ventesimo secolo vi è stato un cambiamento nel considerare l’importanza della presenza dei genitori a seguito delle scoperte riguardo le conseguenze traumatiche per il bambino che veniva separato dalla propria famiglia. Vennero così introdotte delle camere apposite per i genitori, degli orari di visita liberi (anche da parte dei fratelli) e il permesso di accompagnare il proprio figlio alla sala operatoria (Kuo et al., 2011).

Il primo a introdurre il termine “family-centered practice” è stato lo psicologo statunitense Carl Roger’s nel 1940, il quale lavorava insieme alle famiglie con bambini problematici. A metà del 1960 è stata fondata l’associazione “Association for the Care of Children in Hospitals” negli Stati Uniti, la quale aveva come obiettivo la promozione di un approccio più olistico con i bambini ricoverati negli ospedali, mettendo l’accento in modo particolare sui problemi psicosociali e il coinvolgimento della famiglia (King et al., 2004). Grazie a tutti questi primi interventi, la consapevolezza dell’importanza del ruolo della famiglia nel processo di riabilitazione con bambini con vari tipi di deficit è aumentata durante queste ultime due decadi, valorizzando le intuizioni dei parenti riguardo le capacità e i bisogni del loro bambino (Dirks & Hadders-Algra, 2011).

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5.3. I Principi del Family-Centered Service

Ancora oggi non è stata data una definizione unica e condivisa del concetto di Family Centered Care, ma in comune accordo tra associazioni come Family Voices, the Maternal and Child Bureau, the American Academy of Pediatrics e the Institude for Patient- and Family-Centered Care, sono stati definiti i seguenti principi su cui si basa questo approccio terapeutico (Kuo et al., 2011):

 Condivisione delle informazioni: Lo scambio di informazioni è “aperto”, obiettivo, e imparziale;

 Rispetto delle differenze: Il lavoro svolto, come anche la relazione che viene instaurata, è basato sul rispetto della diversità individuale, culturale, linguistica e sulle scelte di cura;

 Collaborazione: Le decisioni riguardo gli interventi più appropriati devono essere decisi collaborando con la famiglia, definendo insieme quali sono i bisogni, i punti di forza, i valori e le capacità del bambino e delle persone attorno a lui;

 Negoziazione: Gli obiettivi degli interventi devono essere flessibili e non necessariamente assoluti;

 Cura nel contesto famigliare e della comunità: Gli interventi di cura e la presa di decisioni devono essere formulati in base al contesto famigliare, di casa, di scuola, in base alle attività giornaliere, come anche in base al concetto di qualità di vita all’interno della comunità.

La teoria del sistema basato sulla famiglia consiste quindi nel riconoscere l’importanza del benessere della famiglia per la salute del bambino. Per questo è necessario coinvolgere i parenti nella presa delle decisioni, collaborare e creare una partnership, rispettando e accettando le scelte dei genitori, supportandoli offrendo un servizio individualizzato e flessibile, condividendo le informazioni e responsabilizzando i parenti, avendo come obiettivo ultimo il migliorare la qualità di vita, per quanto possibile, di tutti i membri della famiglia (King et al., 2004).

5.4. Il Family-Centred Service e gli interventi riabilitativi

Il Family-Centred Therapy (FCT) è un modello clinico che va oltre le semplici capacità individuali del bambino. Il suo intervento si amplia all’ambiente che lo circonda, alle sue abilità fisiche e agli obiettivi funzionali sia del bambino che della famiglia. Questo approccio si fonda sui principi del Family-Centred Service (FCS).

I principi su cui si basa questo tipo di intervento sono:

- La promozione della performance funzionale durante l’intervento;

- L’identificazione dei momenti migliori in cui promuovere l’acquisizione di nuove competenze;

- L’identificazione dei principali vincoli ambientali che non permettono il raggiungimento dell’obiettivo prefissato;

- La pianificazione di un intervento volto a cambiare i vincoli e migliorare l’esecuzione del compito;

- Il fornire opportunità per essere più partecipe in un contesto funzionale.

Lo scopo è quello di raggiungere l’obiettivo funzionale secondo ciò che la famiglia considerano necessario per il bambino. In questo senso i genitori e il bambino sono coinvolti nell’identificare gli obiettivi terapeutici e nel praticare i compiti legati agli obiettivi prefissati in base alle necessità giornaliere della famiglia. L’intervento del terapista si focalizza sulla promozione dell’acquisizione di competenze, dell’adattamento all’ambiente e ai compiti e dell’eliminazione dei vincoli che non

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18 permettono il raggiungimento degli obiettivi, che possono essere legati all’ambiente, al compito e/o ai limiti dati dalla condizione del bambino (McGibbon Lammi & Law, 2003).

Come già accennato nel capitolo sugli interventi per i bambini con paralisi cerebrale infantile, vi sono diversi tipi di approcci che si focalizzano su aspetti diversi e coinvolgono più o meno la famiglia. L’articolo “The role of the family in intervention of infants at high risk of cerebral palsy: a systematic analysis” ha analizzato sei metodi diversi in rapporto al Family-Centred Service con lo scopo di esaminare la natura del coinvolgimento della famiglia nei più frequenti interventi per bambini ad alto rischio di paralisi cerebrale tra i 0 e i 2 anni, includendo anche due recenti programmi di intervento.

Metodo Vojta

Il metodo Vojta “prevede un intervento immediato nei primi mesi di vita e quindi richiede una diagnosi precoce. Si basa sul presupposto che, oltre alle lesioni primarie, che sono all’origine del danno neurologico, esistono delle lesioni secondarie dovute al mancato apporto funzionale delle zone primitivamente degenerate. In questa tecnica viene sfruttata l’evocazione ancestrale degli schemi motori più elementari sino all’acquisizione di schemi progressivamente più complessi” (Pavone et al., 2006). Il trattamento si basa completamente sul bambino; è il terapista che determina il piano di intervento e insegna ai genitori in maniera unidirezionale.

Conductive education

Nella Conductive Education i bambini vengono stimolati ad essere dei “problem-solvers”, così che possano diventare autosufficienti, favorendo così la partecipazione, l’iniziativa, la determinazione, la motivazione e l’indipendenza nella vita di tutti i giorni. Il programma si basa su piano di intervento task-oriented che considera le diverse esigenze di apprendimento che hanno i bambini con paralisi cerebrali (My Child, 2015). Con la Conductive Education si insegna ai bambini ad utilizzare diverse strategie per “cercare di raggiungere ciò che desiderano e li motiva a trovare la strada per farlo. […] È una collaborazione tra il Conduttore e i bambini, per creare le condizioni migliori per l’apprendimento” (Cerchio delle abilità, n.d.), per fare questo i bambini devono essere dei partecipanti attivi nella loro educazione. I genitori sono i benvenuti nel discutere con il “conduttore” i problemi del bambino, ma l’intervento si focalizza sulla realizzazione del bambino. È un sistema di educazione per raggiungere l’orthofunction, ovvero la capacità di partecipazione alla vita quotidiana nonostante la disabilità (Dirks & Hadders-Algra, 2011), diminuendo così la dipendenza da terzi.

Neurodevelopmental treatment (NDT)

L’educazione della famiglia è un elemento importante del NDT, il cui focus di intervento è lo sviluppo funzionale del bambino. Il caregiver viene istruito su come modificare il proprio comportamento così che i compiti giornalieri possono essere usati per migliorare e rinforzare i pattern motori appresi durante la terapia. Il terapista è la persona chiave nell’intervento che viene messo in atto, è suo compito scoprire quale sia il modo migliore per far emergere il potenziale del bambino. Il rapporto con la famiglia è quello di indirizzare i bisogni della famiglia, supportali e incoraggiarli. Educarli e insegnare loro ad individuare quali sono i punti di forza del bambino e le sue esigenze. Coinvolgerli nella pianificazione del programma di trattamento, informali sulle attività svolte e definire con loro degli obiettivi da raggiungere nelle mura domestiche (Dirks & Hadders-Algra, 2011).

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Infant Health and Development Program (IHDP)

È un programma di educazione che si focalizza sull’interazione tra bambino e genitore. Questo metodo combina momenti di istruzione dei genitori riguardo lo sviluppo del bambino e incontri tra più famiglie per dare loro l’occasione di scambiarsi informazioni e esperienze, così da aiutarsi a trovare nuove soluzioni per affrontare la loro situazione. Ogni genitore partecipa in modo attivo alla riabilitazione del bambino giocando e facendo attività specifiche per migliorare i diversi aspetti deficitari del bambino, come ad esempio svolgono dei giochi specifici per migliorare a livello cognitivo, linguistico e nello sviluppo sociale. I genitori sono anche invitati a trovare loro stessi delle soluzioni per far fronte alle difficoltà riscontrate (Dirks & Hadders-Algra, 2011).

Infant Behaviuor Assessment and Intervention Program (IBAIP)

Questo programma riconosce l’importanza del rapporto tra neonato e genitore nel nucleo famigliare. I genitori di bambini nati a pretermine devono imparare a far fronte con i movimenti disorganizzati del loro bambino. Con questo programma i terapisti aiutano e assistono i genitori a imparare a interpretare i segnali del loro bambino e a rispondere di conseguenza con le tecniche più adatte. Ovvero, viene insegnato loro come interpretare le risposte del neonato alle informazioni sensoriali, così da aiutarlo ad autoregolarsi e ad adattarsi all’ambiente. In senso pratico il terapista insegna loro come tenere il bambino e come stimolarlo per raggiungere delle competenze specifiche (Dirks & Hadders-Algra, 2011).

Coping with and Caring for infants with special needs (COPCA)

L’obiettivo del metodo COPCA è quello di aiutare i genitori a prendersi cura del loro bambino in modo autonomo. Il COPCA incoraggia la famiglia a valorizzare le loro capacità nel risolvere i problemi che si presentano nella vita di tutti i giorni. L’operatore non ha un ruolo didattico, ma il suo compito è quello di supportare la famiglia e collaborare per identificare il loro livello di competenza, i loro obiettivi, i loro desideri, le loro speranze e trovare insieme delle strategie. Il motto su cui si basa questo metodo è: “Non dirmi cosa posso fare, cosa dovrei fare o devo fare, ma aiutami a scoprirlo da solo”. Così facendo i famigliari si sentono liberi di provare e discutere nuove strategie per raggiungere i loro obiettivi, scegliendo loro stessi il livello di collaborazione con gli operatori sanitari (Dirks & Hadders-Algra, 2011).

Dalla discussione tratta dall’articolo “The role of the family in intervention of infants at high risk of cerebral palsy: a systematic analysis” di Dirks & Hadders-Algra (2011), vengono messi in evidenza i ruoli che assumono la famiglia e i terapisti nei diversi tipi di intervento. Vojta e Conductive Education si focalizzano principalmente sul lavoro con il bambino; nel NDT l’intervento rimane incentrato sul bambino ma si dà comunque importanza all’ambiente che lo circonda e al contesto in cui vive. Nel IHDP e nel IBAIP il bambino e la famiglia sono messi sullo stesso livello di importanza, in quanto i familiari sono considerati un punto importante nella presa a carico dei bambini. Mentre nel programma di intervento più recente COPCA la famiglia è posta al centro dell’intervento in accordo con la linea di pensiero del FCS.

Nel Vojta, Coductive Education, NDT, IHDP e nel IBAIP il terapista ha il controllo sul trattamento, vi è dunque un disequilibrio nella collaborazione tra terapista e genitori ovvero, i genitori sono coloro che apprendono e il terapista è l’insegnante. Mentre nel COPCA i componenti della famiglia sono incoraggiati a una collaborazione per aiutarli a

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20 scoprire loro stessi quali possono essere le strategie di intervento migliori e per far decidere loro stessi quali sono le priorità e i tipi di intervento da mettere in atto.

Nel seguente schema vi è riassunto su cosa si focalizzano principalmente i diversi tipi di intervento:

Ogni schema rappresenta il modello della funzione della famiglia nei diversi approcci. La complessità di questa relazione è rappresentata da quattro elementi dinamici che interagiscono tra loro. La relazione bambino-genitori è incorporata nella cerchia famigliare che a sua volta è nidificata nell’ambiente ecologico, che comprende tutto l’ambiente domestico, la scuola e i Family-Centered Service.

b) Vojta e CE: Il bambino è al centro dell’intervento; i componenti della famiglia non sono coinvolti nel programma di presa a carico.

c) L’NDT riconosce l’importanza della diade bambino-genitore; l’approccio si focalizza su due principi: la funzione del bambino e l’istruzione dei genitori per poter integrare la terapia anche nell’ambiente domestico.

d) IHDP: La freccia bidirezionale nello schema rappresenta l’importanza dell’interazione tra genitore e bambino. I genitori vengono istruiti su come sostenere lo sviluppo del bambino.

e) IBAIP: Nell’interazione bambino-genitore la madre è la persona più importante. f) COPCA: La freccia mostra l’importanza che questo processo dà alla relazione bambino-famiglia come punto di partenza in questo tipo di intervento.

5.5. Outcomes d’efficacia

Lo scopo del collaborare con le famiglie è quello di migliorare la qualità di vita di tutti i membri della famiglia, per questo gli outcomes non si focalizzano solamente sul bambino, ma anche sulla soddisfazione rispetto al servizio ricevuto, la diminuzione dello stress e delle preoccupazioni che derivano dalla condizione del bambino. Rispetto alla condizione del bambino non vi sono molte informazioni riguardo i benefici che può

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21 portare un approccio Family-Centred. Gli outcomes principali presi in considerazione sono 1) il miglioramento dello sviluppo e delle abilità: in tre studi presi in considerazione nell’articolo di Law et al. del 2003 è stato rimarcato il raggiungimento di obiettivi mirati, l’acquisizione di compiti funzionali e un progresso nello sviluppo motorio del bambino. Questi miglioramenti sono stati possibili: dando una maggiore importanza al lavoro di team tra professionisti e genitori nel senso di educazione dei genitori, fornendo loro informazioni sia generali che specifiche così da aumentare le loro abilità e conoscenze, individualizzando e adattando al singolo caso il servizio offerto in base ai bisogni e alle priorità della famiglia; collaborando inoltre con i genitori per determinare gli obiettivi; 2) l’adattamento psicosociale nel senso di:

- Aumento della conoscenza riguardo lo sviluppo del proprio bambino grazie a un programma di educazione specifico.

- Aumento della partecipazione/continuazione della terapia da parte dei genitori anche a casa, sempre grazie all’educazione fatta ai genitori.

- Miglioramento del benessere psicologico: riduzione dell’ansia, della depressione e dello stress e aumento della soddisfazione del trattamento ricevuto in relazione agli interventi family-centered, dove al centro si mette il benessere di tutta la famiglia.

- Sentimento di competenza da parte dei genitori in quanto caregiver in relazione a un intervento Family-Centred.

- Aumento del sentirsi coinvolti in maniera attiva sia nel trattamento che nella presa di decisioni, nell’acquisizione di nuove conoscenze e capacità.

- Gli outcomes più positivi sono collegati ai principi determinati dal Family-Centred service ovvero: condivisione della responsabilità e lavoro di team, promozione della capacità e delle competenza, essere responsivi ai bisogni della famiglia, condivisione della presa di decisioni, e condivisione/scambio delle informazioni. (Law et al., 2003)

5.6. The Measure of Processes of Care (MPOC)

Il Centre for Childhood Disability Research CanChild ha creato uno strumento di valutazione per misurare se la famiglia sta ricevendo un servizio family-centred; questo documento si chiama Measure of Processes of Care, MPOC-56. L’MPOC-56 è un questionario con 56 items creato nel 1995. Nel 1999 è stato poi creato una versione più corta con 20 items (MPOC-20), e viene usato a livello internazionale per valutare il servizio family-centered. Lo scopo di questo questionario è quello di valutare la percezione dei parenti riguardo le cure ricevute dal centro di riabilitazione, ovvero viene valutato l’atteggiamento family-centred dei curanti che offrono i loro servizi. Viene utilizzato con genitori che hanno bambini con un’età compresa tra i 0 e i 17 anni che hanno una disabilità a livello di sviluppo neuromotorio.

Contiene 56 items che valutano cinque fattori: - Abilitazione e partnership

- Fornitura di informazioni generali

- Fornitura di informazioni specifiche riguardo il bambino - Cure coordinate e complete fornite al bambino e alla famiglia - Cure rispettose di sostegno

Nel questionario i genitori devono rispondere ad ogni item iniziando la frase con due domande che valutano o il servizio offerto dall’operatore che lavora direttamente con il bambino (psicologo, terapista, operatore sociale, dottore, insegnante…): Fino a che punto le persone con cui lavora il vostro bambino… o l’intero staff del centro che può

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22 essere coinvolto direttamente o meno con il bambino (segretaria, donne delle pulizie, personale dell’amministrazione…): Fino a che punto il centro in cui ricevete le cure… . Nella valutazione viene utilizzata una scala con sette punti, dove 7 significa “in gran parte”, 4 “qualche volta”, 1 “mai” e infine “non applicabile”. Il punteggio viene calcolato in base ai cinque fattori elencati prima, facendo una media dei punteggi degli items.

È stato dimostrato la validità di questo questionario grazie a correlazioni positive tra la scala MPOC e il livello di soddisfazione e a correlazioni negative tra il punteggio della scala MPOC e la misurazione dell’esperienza di stress dei genitori in correlazione al trattamento (CanChild, 2015).

Nel 2008 è stato scritto da Saloojee, Rosenbaum, Westaway e Stewart l’articolo: “Development of a measure of family-centred care for resource-poor South African settings: the experience of using a modified version of the MPOC-20”, dove hanno voluto adattare lo strumento di valutazione MPOC-20 alla realtà presente in Sud Africa, con l’obiettivo di stabilire se fosse possibile applicare l’MPOC-20 anche nei centri più svantaggiati del Sud Africa e in quale modo deve essere modificate per poterlo applicare in questi contesti. L’articolo sottolinea che è il primo studio ad aver cercato di adattare questo questionario a una realtà di centri con risorse povere e limitate. L’articolo si pone di base due domande: in che maniera il setting o il contesto influenzano un intervento Family-Centered e quale strumento può essere utilizzato per valutare se viene messo in atto un comportamento Family-Centered?. Lo strumento di valutazione originale MPOC-20 è stato modificato in modo da semplificare il linguaggio usato, rimuovere le referenze delle informazioni e tenere solo gli items rilevanti per la prassi abituale in Sud Africa; infine è stato tradotto in sei lingue locali. In questo contesto l’home-programme è un punto fondamentale del servizio offerto a questi bambini in quanto spesso sono seguiti solo mensilmente. Per questo sono stati aggiunti due items al modello di base MPOC-20: “Se i terapisti spiegano cosa vogliono che tu faccia tra una visita e l’altra” e “Se i terapisti danno suggerimenti/idee su cosa fare e come rendere più facile la gestione a casa del proprio figlio”. Per l’aggiunta di questi due items questo strumento di valutazione è stato dunque chiamato “MPOC-22”.

Oltre l’MPOC-56 e l’MPOC-20 vi è anche l’MPOC-SP che è un questionario di autovalutazione per le persone che lavorano al centro pediatrico per misurare quanto il servizio offerto è Family-Centered.

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