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Space & Emotions: la percezione delle invarianti strutturali come strumento per fare territorio (Autori: Claudio Saragosa, Marina Visciano)

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ANNALI

D’ITALIANISTICA

URBAN SPACE

AND THE BODY

VOL. 37, 2019

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Annali d’italianistica 37 (2019). Urban Space and the Body.

Spazio ed emozioni: la percezione delle invarianti strutturali come strumento per “fare territorio”

Estratto: Il territorio appare oggi frammentato poiché ha perso la sua wholeness, strut-tura di relazione che lega i singoli elementi (Alexander et alii). In risposta a tale criticità

in atto, la ricerca si pone come obiettivo quello di approfondire il tema delle invarianti strutturali derivanti dal punto di vista morfologico e percettivo, sia in ambito urbano che territoriale. Lo studio si concentra sulle relazioni esistenti tra spazio ed emozione in un’ottica di riprogettazione degli spazi dove la ricerca della “bellezza” diventa di nuovo pratica (Hillman).

Parole chiave: Configurazione spaziale, pattern, patrimonio territoriale, sentiment

analy-sis, data mining. Introduzione

La forte crisi che ha caratterizzato i nostri territori in età contemporanea ha posto al centro del dibattito scientifico internazionale la questione della qualità. La ricerca proposta affronta questo tema a livello urbano e territoriale, indagan-done gli aspetti percettivi e le modalità di gestione-intercettazione dei flussi di materia-energia.

Gli insediamenti urbani, nella loro evoluzione, hanno progressivamente perso il valore dello spazio pubblico, sia come luogo di integrazione sociale che come elemento disegnatore della città, saldatore delle varie componenti urbane. Come afferma M. Romano, l’organicità della città europea era data dalla costru-zione di un sistema sequenziale e articolato di temi collettivi che garantivano il movimento del cittadino europeo in altre città grazie al riconoscimento di questi stessi elementi come se si trattasse di una stessa ossatura visibile sotto pelli diverse. I temi collettivi, quindi, potrebbero essere definiti come il rico-noscimento da parte dell’osservatore dei pattern (Alexander), o regole di

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collettivi, le persone percepiscono (come conferma Fronzi) un senso di appar-tenenza: “[. . .] sentire di appartenere a una città significa poter portare ‘dentro di sé’ quella città, quel contesto urbano nel quale i tracciati e gli spazi sono ben identificabili, nel quale si rende possibile ciò che la megalopoli contemporanea nega: l’interiorizzazione, da parte dell’abitante, della mappa strutturale della città, per poi poterla identificare con la propria mappa psichica” (online). Lo stesso principio è applicabile in senso più ampio alla percezione del territorio, quindi al paesaggio. Ciò che in età contemporanea è venuto a mancare è quindi quel senso di luogo che C. Norbert-Schulz ha definito Genius Loci. Sulla

rela-zione luogo-percerela-zione è presente una vasta letteratura scientifico-disciplinare di cui due tra i principali riferimenti teorici sono stati C. Sitte e K. Lynch. Sitte, urbanista viennese, nella sua opera L’arte di costruire la città, pubblicata nel

1889, riporta i risultati di ricerche sulla valutazione qualitativa dello spazio della città tradizionale, concentrandosi in particolare sull’individuazione di quegli ambienti urbani in cui è possibile ritrovare le caratteristiche che Wieczorek defi-nisce “strutture invarianti che sembrano trascendere la diversità delle culture” (162). Lynch, urbanista statunitense, concentra i suoi studi su due aspetti fon-damentali: il primo è quello dell’immagine mentale della città, ovvero come le persone percepiscono la struttura dello spazio urbano e di conseguenza come organizzano le informazioni spaziali in mappe mentali. In questo studio Lynch (1960) definisce come qualità visiva la capacità di leggibilità della città attraverso

l’utilizzo di cinque categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi e riferimenti. Il secondo aspetto è quello della leggibilità dei luoghi (Lynch, 1984).

Un altro filone di ricerca attualmente trattato a livello internazionale è quello che associa alla percezione della qualità degli spazi il concetto di empatia. Quest’ultima viene definita da T. Lipps, filosofo tedesco di fine ’800, come il “godimento estetico che si realizza attraverso una “partecipazione emotiva” alla natura dell’oggetto contemplato” (citato in Franzini e Mazzocut-Mis 41), o più semplicemente, come scrive Lipps, un “entrare in sintonia con”. Negli studi più recenti, il concetto di empatia è stato associato a quello di spazio, formulando nuove teorie sull’empatia degli spazi oggi centro delle ricerche di studiosi come H. F. Mallgrave, il quale afferma che:

l’organismo e l’ambiente sono complementari e reciproci nella loro relazione e la percezione è un’attiva estrazione di invarianti o configurazioni che com-porta sempre la percezione del sé. Si tratta quindi di una psicologia del reali-smo incarnato in cui l’ambiente culturale non può essere separato da quello naturale.

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La ricerca parte quindi da un’analisi percettiva del territorio per poi passare ad uno studio delle forme fisiche fino a valutarne la sua funzionalità e qualità in termini ecologici e ambientali.

Partendo da tale background in questo articolo si cerca di costruire una

possibile lettura della complessità dello spazio sia mediante la interpretazione delle caratteristiche morfologiche dello spazio stesso (le proprie qualità patri-moniali) sia mediante una valutazione percettiva della comunità che abita quel luogo. Infatti la complessità spaziale non è ovunque omogenea. Nelle varie parti della città e del territorio ci sono diversi ambiti con valenza emotiva diversa influenzati dalla qualità morfologica. Rispetto ad una teoria sulla complessità degli spazi urbani e territoriali che verrà trattata successivamente, nella parte che segue si cerca di costruire un metodo di valutazione che si alimenta delle nuove reti sociali in cui ognuno di noi può esprimere valutazioni su ciò che incontra nel muoversi, immersi come siamo nello spazio configurato del mondo. In questa operazione di data mining è possibile ricostruire mappe della diversa valutazione

emotiva dell’ambiente antropico. Confrontare questo processo che fa emergere una valutazione collettiva dello spazio configurato che ci circonda con una ricerca più classica sulla complessità patrimoniale della città e del territorio è la finalità di questo studio.

La percezione del territorio

Al di fuori delle teorie e delle possibili rappresentazioni di quello che ci cir-conda, esiste una sfera della vita quotidiana delle persone che con le loro abitu-dini, passioni e sensazioni vivono un determinato luogo. Nel XXI secolo molti di questi aspetti ci vengono mostrati e/o divulgati via web, con l’utilizzo dei social-network. Ciò fa parte di quello che oggi viene definito Web 2.0 (Scharl, Tochtermann), l’insieme di tutte quelle piattaforme online che pongono in stretta relazione gli aspetti emotivi degli utenti con il web: tali spazi di condi-visione virtuale mettono a disposizione un’infinita quantità di dati e di infor-mazioni che possono essere definiti big data. Di questa ampia categoria, la

ricerca punta in particolare all’utilizzo delle foto che vengono caricate e divul-gate spontaneamente: si tratta di utilizzare le cosiddette Volunteered Geographic Information (Goodchild). Alcuni esempi sono Flickr, Facebook, Twitter, etc.

Queste foto, che costituiscono dati preziosi per analizzare le attività delle persone nello spazio e nel tempo, verranno analizzate sotto due profili:

1. La geo-localizzazione: grazie all’informazione geografica di cui

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sarà possibile fare analisi di spazializzazione delle immagini all’interno di un determinato contesto territoriale. Ciò porterà alla redazione di una mappatura delle foto, quindi della loro concentrazione o densità. Inoltre, le foto conten-gono l’informazione temporale relativa a quando sono state scattate, un dato, questo, ulteriormente utile per redigere analisi spazio-temporali.

2. Sentiment analysis: questo tipo di studio consiste in un’analisi che viene

generalmente utilizzata per estrarre valutazioni soggettive da contenuti testuali. L’analisi del sentiment diventa un metodo fondamentale per estrapolare dalle

foto una valutazione qualitativa delle immagini condivise online, in quanto ad esse sono generalmente associati commenti o hashtag che costituiscono dati

importanti per la valutazione qualitativa delle immagini. Oltre alla determina-zione dell’atteggiamento dell’utente il sentiment analysis permette di capire il

valore espresso in termini di positività, negatività o neutralità.

I risultati ottenuti dai due metodi proposti, presenteranno inevitabilmente una percentuale di errore, per esempio legato alla quantità di foto a disposizione (una grande città conterà su una mole di dati superiore rispetto ad una più pic-cola), oppure alla presenza di foto poco significative all’indagine che però ven-gono ugualmente conteggiate.

Questo rumore di fondo non potrà essere mai del tutto eliminato, ma solo ridotto, e non si potrà non tenerne conto; questi dati ci permetteranno comun-que di muovere riflessioni interpretative sui risultati raccolti. L’incrocio delle informazioni ottenute consentirà di capire quali siano le aree più fotografate, quindi che suscitano più interesse, e quale sia il sentimento predominante ad esse associato. Inoltre, sarà possibile determinare se il tipo di utente è un cit-tadino o un turista attraverso un’analisi statistica sui luoghi principali in cui lo stesso utente generalmente fotografa.

Ovviamente il metodo proposto è ancora molto sperimentale e deve essere vagliato con molta attenzione. Nonostante ciò qualche prima esperienza com-piuta ci permette di leggervi elementi di criticità — interpretazione del sentiment

collegato alle foto postate in rete, rumore di sottofondo per concentrazioni spu-rie di foto in parti del territorio magari in cui semplicemente è presente un servi-zio urbano come una scuola, difficoltà nel reperimento di un dato omogeneo su cui lavorare in maniera statistica — , ma anche elementi di grande interesse spe-rimentale. Fra le esperienze su cui si è potuto lavorare in maniera pionieristica si annovera lo studio sulla città di Livorno di V. Alampi Sottini e altri studiosi. In questo articolo è riportata anche una descrizione metodologica confrontata con una bibliografia scientifica di tipo internazionale.

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Una volta individuati i luoghi accentratori di interesse, ottenuti con il data mining, la ricerca si avvarrà di un’indagine sulle morfologie urbane e territoriali

per capire se vi sia una relazione con esse, ed eventualmente capire a quali forme siano associati determinati sentimenti.

Le forme del territorio

La fase di studio delle configurazioni spaziali comincerà con un’indagine sulle aree a cui sono associati sentimenti positivi, a sostegno della tesi che vede i luo-ghi più empatici come quelli che attivano un interesse non intenzionale.

Tra i principali fondamenti concettuali su cui si basa il metodo di lettura urbana della ricerca vi è quello di tipo, di cui Quatremère de Quincy fu uno dei primi studiosi, riflettendo sulla differenza tra tale concetto e quello di modello: mentre quest’ultimo si presenta come la riproposizione di un elemento definito e concluso, il tipo si caratterizza per la sua natura dinamica ed operativa, nonché la capacità di evolversi nel tempo in risposta ad una o più necessità. Su questo pensiero si fonda negli anni ’50 la filosofia della scuola di Saverio Muratori che affonda le sue radici nell’idea del tipo inteso come ente evolutivo, il prodotto cioè di un processo tipologico influenzato dai cambiamenti dettati dal tempo e dallo spazio, nonché dal rapporto diretto con il contesto (Saragosa, 2016). Secondo il pensiero muratoriano, il tipo è anche sintesi a priori, “un’astrazione

che sta già nella mente di un artefice prima di realizzare una casa, e non è una prefigurazione di uno o pochi aspetti che saranno assunti dal prodotto costru-ito, ma di tutti insieme: è un vero e proprio organismo, inverante l’intera realtà prima che questa esista fisicamente” (Caniggia e Maffei, 50). Dal tipo astratto si passa allo spazio organizzato che, tenendo conto del contesto, acquista la sua unicità, risolvendo i problemi che emergono proprio in quel luogo; questo processo adattivo, sviluppandosi, conserva la struttura fondamentale esistente, rendendola più complessa e arricchendola passo dopo passo (Saragosa, 2016). La scuola di Muratori applica il concetto di tipo nell’architettura: analizzando la struttura di un edificio, individua quattro categorie di componenti collegate organicamente e gerarchicamente, cioè elementi, strutture di elementi, sistemi di strutture, organismo di sistemi. La stessa classificazione è possibile utilizzarla per definire le forme della città : edifici, tessuti, quartieri, città nel loro com-plesso (Saragosa, 2011).

Sempre legato all’idea di tipo, nello stesso periodo, ma in un contesto spa-zio-culturale ben diverso, C. Alexander sviluppa negli Stati Uniti il concetto di

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il primo si intendono tutte quelle azioni che avvengono quotidianamente, cioè i comportamenti comuni. Il secondo, invece, racchiude tutte quelle forme e geometrie che compongono lo spazio fisico. Entrambi i tipi di pattern mostrano

delle invarianze strutturali, ma allo stesso tempo si presentano in maniera diversa a seconda del luogo e dell’ambiente culturale in cui si manifestano. Nei pattern of space ciò che rimane invariante è uno scheletro strutturale che organizza la

forma a partire da un elemento assunto come parte essenziale e privilegiata: lo scheletro strutturale, nonostante si dispieghi in contesti profondamente diversi, mantiene i caratteri identitari di fondo (Saragosa, 2016). C. Alexander individua 253 pattern in tre categorie secondo un preciso ordine gerarchico, inter-scalare e

lineare (towns, buildings, costruction).

I riferimenti concettuali e metodologici riportati costituiscono il fonda-mento dello studio delle configurazioni spaziali che caratterizza questa fase della ricerca. Lo scopo è quello di definire quali siano gli interlocking pattern

(Alexander) che compongono la città a diversi livelli di scala, studiarne le com-ponenti negli specifici aspetti morfologici e dimensionali e, infine, capirne le relazioni spaziali che ne definiscono il linguaggio costruttivo. Lo studio si arti-cola principalmente in tre parti: in una prima fase si individuano le configura-zioni spaziali che danno forma al territorio; nella seconda, si effettua un’opera di “scomposizione” delle stesse, cercando di individuarne le componenti da un punto di vista morfologico e dimensionale. Una volta “smontati” i pattern, gli

stessi verranno ricomposti per capirne le regole di composizione dello spazio, quindi le relazioni spaziali (e.g., assi prospettici, simmetrie, gerarchie) nonché

i loro rapporti geometrici e dimensionali. Le configurazioni spaziali così indi-viduate, una volta dispiegate nella città e nel territorio, compongono territori talvolta molto densi che fanno emergere una qualità intrinseca. Tale qualità è data da un’imbricazione inter-scalare complessa che sostiene le qualità identita-rie del territorio e le sue caratteristiche ecologiche e formali, quest’ultime capaci di attivare percorsi percettivi ed emotivi (rispecchiamento empatico), accennato sopra. Queste qualità della città e del territorio possono essere definite come patrimonio.

Dispiegamento delle configurazioni spaziali e generazione del patrimonio: il corpo immerso nello spazio

Il concetto di risorsa è legato, secondo C. Raffestin, all’utilità che emerge quando si scopre che cosa fare di una certa materia: “[. . .] la materia (o sostanza), tro-vandosi alla superficie della terra o accessibile da quest’ultima, è assimilabile a

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un ‘dato’, poiché essa preesiste ad ogni azione umana” (Raffestin, 225). È l’in-dividuo quindi che, scoprendo le proprietà della materia, individua una pratica per trasformare la materia stessa in un qualcosa di utile. Una risorsa non è quindi una cosa, ma “una relazione che fa emergere alcune proprietà necessarie alla soddisfazione di bisogni” (Raffestin, 22). La materia che si estende di fronte a

me diviene risorsa quando costruisco una relazione, una delle infinite relazioni possibili. Il mondo di fronte a me, da questo punto di vista, è un mondo di possi-bili. La materia che si presenta è carica di qualità nascoste, di cui potranno dive-nire utili solo in un momento specifico. Per iniziare a distinguere queste risorse dobbiamo saper essere capaci di leggere entro l’incessante divenire dei flussi che ci scorrono davanti. Sebbene si costruiscano filtri interpretativi (schermi protettivi e selettivi), questi schermi non dovrebbero ridurre eccessivamente la complessità del mondo e dovrebbero essere in grado di ri-definirsi di volta in volta, quando necessario. Anche se con il disvelamento di poche qualità è pos-sibile produrre mondi pressoché infiniti (pensiamo agli elementi chimici), la eccessiva riduzione della complessità mediante schermi abbassa notevolmente i possibili virtuali che potrebbero diventare reali: tali filtri, sebbene utili, dovreb-bero, quando possibile, essere superati per permettere nuove e più profonde immersioni nel mondo.

La forma che assume la materia, in questo gioco delle qualità, non è un fat-tore marginale. È, infatti, fondamentale sapere come la materia mi in-forma di se stessa. La forma è quella qualità speciale che potremo chiamare, come scrive Merleau-Ponty, “l’essenza: ciò senza cui non ci sarebbe né mondo, né linguaggio, né alcunché” (127). La forma si palesa nell’invarianza che, durante le trasfor-mazioni, assume, con il processo morfogenetico, lo scheletro strutturale che dà identità ed espressione a ciò che ho di fronte. Con l’arte e la scienza andiamo a disvelare, del mondo che mi circonda, la forma che fluisce e ciò permette di tra-sformare il mondo stesso in una risorsa. Il gioco è complesso poiché si tratta di un gioco in cui entrano i miei filtri sensoriali, neurali e culturali, di paradigma. In questo gioco entra anche il linguaggio di cui dispongo quale struttura culturale che libera le qualità o, al contrario, le imprigiona. Vi entra in gioco anche il mio occhio che, come osserva Nelson Goodman, non sarà mai un occhio innocente: le qualità emergono sempre in relazione ad un occhio interprete che raccoglie ed elabora.

Queste qualità che rendono il mondo una risorsa si mischiano, si amalga-mano, si fondono, generando sempre nuovi creati. Si tratta quindi di una danza complessa che gioca sulle qualità disvelate e quelle ancora latenti, profonde, cto-niche, le quali, ancora non in evidenza, quando lo diverranno si mischieranno

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con quanto è conosciuto producendo, teoreticamente, rivoluzioni impensabili. Questo è il gioco della vita, dei viventi in cerca della sopravvivenza nel mutare infinito di forme e flussi: filigrane di vita, anch’esse cangianti, che cercano risorse nel tentativo di legarsi ad un mondo perpetuamente fluttuante.

Queste qualità di forme e flussi compongono quella interezza (quella who-leness di C. Alexander) che ci sostiene nello sviluppo: sostanza, quindi, che

rap-presenta la carne del mondo il patrimonio di cui godiamo e che mantiene la vita nel suo scorrere. È Merleau-Ponty che ci invita a riflettere sul mondo come carne,

intendendo come carne non la materia ma “l’avvolgimento del visibile sul corpo vedente, del tangibile sul corpo toccante” (161), carne non come contingenza o caos che ci circonda ma come “trama che ritorna in sé e si accorda con se stessa” (162). È questa la trama che connette, questa carne che costituisce il mondo in cui il corpo senziente è immerso, è patrimonio. Un insieme di forme, flussi, relazioni, che appartengono all’antecedente, al pater, e che sono consegnate ai

presenti in eredità.

Non tutto ciò in cui sono immerso è o potrà essere una risorsa. Non tutti i flussi potranno attraversare la mia carne, non tutte le forme saranno per me per-cepenti comprensibili o attiveranno le mie emozioni. La trama che mi sostiene è una lunga teoria di selezioni in una danza apparentemente senza scopo: è quella folle partita di croquet giocata con fenicotteri e ricci a cui assistette l’Alice di

Lewis Carroll (82–83). Per selezionare ciò che mi sostiene agisco, ibridando, combinando, selezionando, sintetizzando, unendo, trasformando, trasmutando le qualità che ho ereditato, cercando sempre più risorse, costruendo sempre più patrimonio, in un processo senza fine. Per selezionare combino valutando la mia capacità di essere attraversato da flussi (mi accoppio strutturalmente) o la mia possibilità di vibrare con le forme (mi accoppio empaticamente), in un processo con cui costruisco lo spazio fuori da me, plasmando le qualità della materia-energia (la materia come la parte più densa, come la pietra, e l’energia come la parte più fluida, come la luce) in modo da generare quell’emozione che trasforma l’ambiente che mi ospita in quel luogo nutriente per il corpo e per lo spirito: il mio abito avvolgente.

Lo spazio anisotropo che mi ospita viene scoperto nelle sue qualità e accop-piato con i nervi del mio corpo in una trama indissolubile che mi dà il senso della ricchezza e della bellezza. Mi lego a quel tessuto e ne divengo parte; è un tessuto che eredito e arricchisco mutandolo con trasformazioni guidate dalle forze generate dal contesto. Le forze morfogenetiche guidano organicamente le metamorfosi secondo linee di un ordito e di una trama ineludibili. Questo processo genera, in una continua trasformazione, patrimonio: il patrimonio che

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eredito muta ma in questa continua mutazione diviene sempre più profondo, sempre più denso, sempre più vischioso. È una trama resistente anche se l’agire inorganico la può distruggere irrimediabilmente. È la trama della vita che si pro-duce nella lunga durata delle prove e della correzione degli errori. È la trama che

per rigenerarsi richiede il tempo lungo dell’evoluzione.

La lunga selezione dei memi nel rapporto fra corpo e spazio

Nella combinazione delle qualità che disvelo confrontando il me con il mondo, costruisco il mio territorio denso di patrimonio, di risorse per la mia vita. Nella lunga durata seleziono quei memi (quelle configurazioni dello spazio) che mi generano quel ricco e mutevole abito ambientale. È un processo continuo in cui mischio qualità per trovare quelle configurazioni dello spazio che mi garanti-scono, oltre ad un buon funzionamento nella gestione dei flussi, quel materiale formale che attiva il processo empatico in me (la mia coscienza più il mio corpo) che stimola il senso profondo di equilibrio che la parola abitare poeticamente

sug-gerisce. H. F. Mallgrave, nel suo L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze,

chiama questo selezionare memi spaziali tesi a risolvere i problemi dell’abitare

l’accordo empatico che farà percepire anche ad altri che usufruiranno dello spazio

configurato il senso profondo dell’abitare attraverso cui ognuno “rinvigorisce il proprio mondo vissuto con la sua immaginazione” (211).

È evidente che la modifica continua nel mio abito ambientale modifica anche il mio modo di percepire, come direbbe E. Hall, nel testo La dimensione nascosta, affermando che “sia l’uomo sia l’ambiente sono attivi modificandosi

reciprocamente” (11). La modificazione di un qualcosa dell’ambiente si riper-cuote sul mio modo di vedere e percepire il mondo, in continue modificazioni sia nella struttura fisica delle cose e dei corpi, sia nel modo in cui quella struttura viene percepita dalla mia rete neurale così come si è andata configurando come individuo e come parte di una collettività dialogante. L’ambiente modificato è poi attivo, gettandosi di fronte a noi e mostrandosi con altre qualità che in ori-gine aveva solo latenti. In questo processo caratterizzato da una continua modifi-cazione riconosco quei lunghi processi di trasformazione dell’ambiente così ben descritti dalla scuola territorialista il cui maestro è A. Magnaghi (Magnaghi). Il sedimento (materiale e cognitivo) viene continuamente rielaborato in un ciclo continuo, perenne. Il rinnovamento si ha per la fluttuazione nel tempo del flusso, per il disvelamento di nuove qualità della materia-energia, per il raffinamento delle forme per raggiungere maggiore efficienza e migliore accoppiamento empatico e per mille altri motivi. La costruzione di questo rapporto è sempre

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dinamica e continua ed è sottoposta a quella regola che lo studio dell’evoluzione genetica ha fatto emergere: tentativi, confronto, eliminazione di errori (Popper 184–98). Con questo processo morfogenetico seleziono il modo con cui modi-ficando l’ambiente in cui sono immerso consolido quella trama fondamentale che il patrimonio mi consegna. In questo processo imparo e memorizzo memi che mi aiuteranno a consolidare il mondo della mia vita nella vita del mondo. In questo mondo della vita che fiorisce dominato dall’organico, i memi che ricono-sco si sorreggono l’uno con l’altro: connessi strutturalmente l’uno accanto all’al-tro o anche l’uno denall’al-tro, costituiscono una struttura intimamente connessa.

Infatti, sarà un caso, ma il senso del non luogo lo provo quando vedo confi-gurazioni spaziali che si incastrano l’una con l’altra. È come se quella parte di ter-ritorio fosse un testo letterario in cui la sintassi fra le parole fosse assente o par-ticolarmente carente o come se una singola parola fosse urlata quanto la vicina, ma senza che fra esse ci siano né un qualche legame relazionale né una serie di regole sintattiche che leghino le parole in un senso compiuto, un fenomeno che S. Settis definirebbe dismorfofobia (135–37). Questo senso di sconnessione non

lo provo di fronte alla natura quando l’organico la invade con tutta la propria esuberanza dato che nel quadro naturale trovo sempre configurazioni incastrate e imbricate l’una nell’altra. E quando un tessuto del territorio acquisisce la sua dimensione organica, anche allora trovo una penetrazione continua di memi che si perdono l’uno nell’altro: una transcalarità che penetra in profondità come una geometria frattale.

La ricerca porta a dimostrare che nella stratificazione, nella sovrapposizione, nella relazione transcalare, nella manifestazione complessa di configurazioni spaziali trovo un buon indicatore della qualità dei luoghi in cui faccio scorrere la vita. Insomma nei punti in cui trovo ricorrenti più configurazioni spaziali affa-stellate l’una sull’altra, trovo quella qualità riconosciuta dalla comunità che vive in quello spazio e lo sente emotivamente proprio. Parafrasando N. Goodman nel suo I linguaggi dell’arte (1976), quando ragiona sui sintomi dell’estetico e

lega tali sintomi alla densità sintattica, alla densità semantica e alla saturazione sintattica, posso dire che nella immersione del mio corpo nel territorio trovo sintomi emotivi di piacere in uno spazio denso, in cui le configurazioni spaziali si legano l’una con l’altra, in un intersecarsi continuo di forme che gestiscono flussi, verso il micro e verso il macro: un vortice di informazione che attiva i miei processi celebrali e libera l’emozione che, divenendo cosciente, attiva quel sentimento di non-separatezza che mi fa appartenere al mondo. I miei organi neurali, quello strumento corporeo che mi guida nello scorrere del mondo in cui sono immerso, vibrano e si attivano quando quello stesso mondo è fatto di

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forme che si avvolgono l’una nell’altra come se io dovessi riconoscere una preda o un pericolo dentro l’avvilupparsi del fogliame di una foresta primigenia. Quel corpo sensibile e mutabile che è il mio corpo innervato di filamenti attraversati da energia che con la memoria costruisce di continuo immagini che legano i pro-cessi emotivi già vissuti — in un perenne rimescolare dei tempi del presente con quelli del passato per comprendere il futuro che sta per venire — si è appunto evoluto nelle geometrie complesse e frattali della vita. Il corpo diviene attivo non di fronte alla semplicità delle geometrie ripetute fino alla noia, ma di fronte al continuo variare del complesso avvilupparsi delle forme che la vita ci ha con-segnato e nelle quali siamo stati immersi nella lunga storia evolutiva della nostra specie.

In questa rete inestricabile della vita, infatti, si è trasformato, evolvendosi, il sistema percettivo-emotivo della persona. Di un flusso continuo di forme si alimenta il suo sentire cosciente. Nell’immersione del proprio corpo in questo fluire sente emergere quel piacere che poi chiama bellezza. Questa sua attività, che mischia le qualità del mondo al fine di costituire configurazioni dello spa-zio incrostate di forme, apre la strada che conduce al suo sentirsi intimamente immerso nella rete della vita. La densità di queste configurazioni che si affastel-lano l’una sull’altra intersecandosi in modo ingarbugliato fra di sé, che si sovrap-pongono e si mischiano, dà una misura a quel senso, ineffabile e inspiegabile, che alla fine ci fa sentire il senso del bello.

Piuttosto che costruire un’altra, fra le tante, teorie dell’estetico, forse è più interessante oggi verificare le nuove conoscenze che ci derivano dagli studi delle neuroscienze e della biologia evolutiva. Insomma è più convincente pensare all’individuo e al modo in cui il suo corpo innervato e immerso in un mondo di forme, si eccita mediante le emozioni inconsce che prova, riflettendo sul sistema neurale stratificato nella sua storia evolutiva, pensando, quindi, alla sua qualità genetica ma anche alla accumulazione di memoria, collettiva e individuale, con la quale, confrontando le informazioni che cattura nel presente con quelle rac-colte nelle sue memorie del vissuto passato, si costruisce un’immagine di futuro che lo aiuti ad evitare il dolore e ad incontrare il piacere. La densità di configu-razioni che lo spazio deve assumere garantisce la ricchezza al luogo in cui una persona cerca di abitare emotivamente, poeticamente, empaticamente. Questo spazio configurato con quella sapienza accumulata con le mille prove di adegua-tezza dei flussi e delle forme svoltesi nel passato, più è sedimentato e più è capace di stimolare gli individui e di giocare con il loro spirito, più è sedimentato e più diviene un patrimonio da tramandare, per essere ancor più complessificato, a chi verrà nel futuro.

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Conclusioni

In questo testo si è cercato di tracciare un percorso che intrecci una ricerca più disciplinare e consolidata sulla valutazione patrimoniale delle qualità spaziali — di come cioè un corpo senziente immerso in uno spazio configurato abbia una percezione che genera emozioni — , rispetto ad un nuovo percorso di ricerca che lavori sulle nuove tecnologie legate alle informazioni che sollecitano gli individui, provando un sentiment, a postare materiali descrittivi e di immagine

sui social network. La scommessa riguarda, quindi, la verifica della lettura degli

spazi configurati con i metodi consolidati dell’analisi morfologica urbana e il confronto di tali risultati con la spontanea valutazione della qualità spaziale fatta da una comunità che posta foto di spazi eminenti con relativi commenti di valu-tazione. In qualche prima esperienza sperimentale questo metodo ha permesso di verificare che esistono dei paralleli fra la complessità spaziale patrimoniale, descritta sinteticamente nei paragrafi due, tre e quattro del presente saggio, e la mappa costruita mediante un data mining di materiali di diversa natura postati

da coloro che tali spazi vivono quotidianamente. Dato che questa quantità di informazione è effettivamente rilevante con metodi statistici (si fa qui di nuovo riferimento allo studio di Alampi Sottini e colleghi) è possibile costruire una mappa delle valutazioni emozionali dello spazio da sovrapporre, per verifica, ad una mappa delle configurazioni spaziali urbane lette nella loro relazione sintat-tica. In questo confronto, dalle prime esperienze analitiche sembra emergere un processo di verificazione reciproco in quanto densità sintattica e elaborazione statistica dell’informazione sedimentata in rete costruiscono geografie spa-ziali simili. Queste prime verificazioni sperimentali devono essere ovviamente approfondite; comunque questa metodologia, che cerca di legare oltre ai pro-blemi della lettura ecologica e funzionale della città anche i propro-blemi della per-cezione morfologica dello spazio configurato e del corpo immerso nell’urbano, sembra iniziare a dare risultati significativi.

Opere citate

Alampi Sottini V., Barbierato E., Bernetti I, Capecchi I., Cipollaro M., Sacchelli S., Saragosa C. “Urban Landscape Assessment: A Perceptual Approach Combining Virtual Reality and Crowdsourced Photo Geodata.” Aestimum

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Front Cover. Fotografo: Maraini Fosco | Data dello scatto: 1950 ca. | Luogo dello scatto: Napoli | Collezione: Fosco Maraini/Proprietà Gabinetto Vieusseux ©Fratelli Alinari

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