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"Stant uf!": l'epilessia e i suoi rimedi nel Medioevo germanico.

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Academic year: 2021

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INDICE

ABBREVIAZIONI ... 1

1. INTRODUZIONE ... 4

2. BREVE STORIA DELL’EPILESSIA: DAL SAKIKKU AL MEDIOEVO ... 8

2.1. Sumeri e Babiolonesi ... 8

2.2. L’Atharvaveda ... 10

2.3. La Grecia preippocratica ... 12

2.4. Ippocrate e il morbo sacro ... 12

2.5. Il pensiero postippocratico... 14 2.6. Il Medioevo... 15 3. I NOMI DELL’EPILESSIA ... 18 3.1. Il ‘mal caduco’ ... 19 3.2. Divinizzazione ... 20 3.3. Demonizzazione ... 20

3.4. L’epilessia e gli astri ... 21

3.5. Tratti fisici e comportamentali ... 22

3.6. Casi particolari ... 22

3.7. I santi e l’epilessia ... 24

4. CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA DEGLI INCANTESIMI ... 28

4.1. Nozioni storico-culturali: il concetto di ‘magia’ ... 28

4.2. Caratteristiche e tipologie degli incantesimi ... 31

4.2.1. Preghiera ... 36

4.2.2. Benedizione ... 36

4.2.3. Scongiuro ... 37

4.3. Rimedi ... 37

4.4. La ricerca sulla medicina popolare in area germanica ... 39

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5.1. Gli incantesimi ... 41

5.2. I rimedi ... 44

5.3. Gli amuleti e i talismani... 56

5.4. L’invocazione dei Re Magi ... 57

5.5. Gli incantesimi di Merseburgo ... 60

6. ANALISI LINGUISTICA DI DUE INCANTESIMI CONTRO L’EPILESSIA ... 66

6.1. Analisi linguistica ... 68

6.1.1. Contra caducum morbum ... 68

6.1.2. Pro cadente morbo ... 71

6.2. Commento critico ... 75

7. CONCLUSIONE ... 89

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ABBREVIAZIONI aat. Acc Accr acd. adan. afr. Agg ags. aingl. aisl. an. and. anorv. ar. arm. Art as. asv. Avv cap. Card cfr. Comp Con Cong Coord dan. Dat Det Dim et al. etc. F Fin fol. fr. fris. gall. Gen germ.

Antico alto tedesco Accusativo Accrescitivo Accadico Antico danese Antico francese Aggettivo Anglosassone Antico inglese Antico islandese Antico nordico Andaluso Antico norvegese Arabo Armeno Articolo Antico sassone Antico svedese Avverbio Capitolo Carindale Confronta Composto Congiunzione Congiuntivo Coordinativo Danese Dativo Determinativo Dimostrativo Et alii Et cetera Femminile Finale Folio Francese Frisone Gallese Genitivo Germanico

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got. gr. id. ie. Imp Ind Indet Int ingl. it. lat. Loc M mat. m.ingl. m.irl. mlat. mnl. Mod ms. N nl. Nom norv. Nt Num Ott p. es. par. Part Pass Perf Pers Pg Pl port. Pref Prep Pres Pret Priv Prop Poss rad. Raf rut. sb.-cr. Sg Gotico Greco Idem Indoeuropeo Imperativo Indicativo Indeteriminativo Interrogativo Inglese Italiano Latino Locativo Maschile

Medio alto tedesco Medio inglese Medio irlandese Latino medievale Medio nederlandese Modale Manoscritto Nome Nederlandese Nominativo Norvegese Neutro Numerale Ottativo Per esempio Paragrafo Participio Passato Perfetto Personale Paragone Plurale Portoghese Prefisso Preposizione Presente Preterito Privativo Proposizione Possessivo Radice Rafforzativo Ruteno Serbo-croato Singolare

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Sint sl. sp. scr. sv. sw. ted. Temp ucr. V v. yid. Sintagma Slavo Spagnolo Sanscrito Svedese Swahili Tedesco Temporale Ucraino Verbo Verso Yiddish

Laddove non sia espressamente indicato, le traduzioni in italiano dei testi in latino, antico alto tedesco e nederlandese sono state svolte personalmente.

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1. INTRODUZIONE

«[…] Non vi è una sostanza nella materia medica, vi è a malapena una sostanza in tutto il mondo, capace di passare per l’esofago di un uomo, che in un momento o in un altro non abbia goduto della reputazione di essere antiepilettica» (Sieveking 1861: 299).

La storia dell’epilessia viene fatta risalire a tempi molto remoti: si trovano attestazioni riguardanti tale patologia già nel bacino della Mesopotamia, la ‘culla della civiltà’, molto prima della nascita di Cristo. Gli Antichi erano in grado di individuarla, riconscerla e proporre una cura ad hoc, fosse questa in forma di incantesimi o di rimedi erboristici. L’importanza che le veniva attribuita si evince dal fatto che numerose autorità mediche dell’età antica, primo fra tutti Ippocrate di Cos, vi dedicarono interi manuali; impossibile ignorare il peso che ebbe il Περὶ ἱερῆς νούσου, noto con il nome latino di De morbo sacro, miniera di sapere sulla concezione dell’epilessia nella Grecia antica. Se si vuole condurre un’indagine sul trattamento di questa malattia nella tradizione culturale dell’Europa ar-caica, non si può prescindere dal considerare le nozioni contenute in quest’opera. Qui il mal caduco viene inteso non più come una punizione divina, come era avvenuto per secoli prima di allora, bensì come una patologia al pari delle altre; si tratta di un’osservazione di estrema importanza, soprattutto considerando il periodo in cui venne formulata, ancora ra-dicalmente legato all’adorazione di un pantheon molto articolato. Si pensi che i medici della Grecia antica sarebbero addirittura stati in grado di distinguere fra un attacco epilettico e un caso di possessione demoniaca: il fatto che si possedessero strumenti tali da permettere, all’interno ovviamente di un contesto culturale permeato di superstizione, di scindere fra i due fenomeni, è indicativo di quanto l’epilessia fosse diffusa e analizzata nei minimi particolari.

Approdando al periodo medievale, e quindi alla diffusione capillare del Cristianesimo, l’epilessia sarebbe stata sovente confusa con la possessione da parte di un demone, mentre altre volte sarebbe stata concepita come la manifestazione di una sorta di crisi mistica; in ogni caso, non sarebbe più stata una patologia così chiaramente delineata. Esisteva sì una tradizione medica definita, i cui precetti si ritrovano principalmente nei rimedi erboristici, ma persino quelli erano spesso contaminati da scongiuri e preghiere: l’uomo medievale infatti avrebbe acquisito maggiore sicurezza nella riuscita del rimedio, se questo fosse stato accompagnato da una qualche formula di esorcizzazione. Nemmeno l’ambito ger-manico medievale e in particolare antico alto tedesco è immune a tali influenze: vi si trovano numerosi incantesimi, formule di scongiuro di varia natura, talismani, lapidari, amuleti e soprattutto tanti rimedi contro l’epilessia, dai quali si possono ricavare le cono-scenze su quali sostanze fossero ritenute le più efficaci a guarire un attacco epilettico.

Saranno ora esposti i contenuti di questo elaborato suddivisi per capitoli, in modo tale da fornire una panoramica di tutti gli argomenti trattati.

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Il cap. 2 è dedicato a una breve ma fondamentale introduzione storica relativa alla cura dell’epilessia e a come l’attitudine verso di essa sia mutata nel corso dei secoli: partendo dalla Mesopotamia del 1067-1046 a.C., data in cui è stato compilato il documento recante la prima attestazione scritta di un attacco epilettico, si vedrà come il disturbo fosse con-cepito da Assiri, Babilonesi e Sumeri, riportando anche esempi pratici di alcuni brevi incantesimi; anche dal punto di vista giuridico l’epilessia ha conosciuto una certa legitti-mazione, come mostrato dall’esempio del Codice di Hammurabi (1790 a.C.). Segue quindi il caso dell’Ayurveda, noto attraverso le raccolte di Caraka e Suśruta, in cui la patologia viene analizzata da un punto di vista più specificamente fisiologico e terapeu-tico; si vedranno infatti i trattamenti proposti dai medici indiani e quali erbe fossero pre-scritte. Vi sarà anche un accenno alla mitologia antico indiana e alla rappresentazione assunta dall’epilessia in questo contesto. Successivamente due paragrafi saranno dedicati alla Grecia antica, in particolare il discorso ruoterà attorno alla figura di Ippocrate di Cos, come si è accennato assolutamente fondamentale per lo sviluppo della terapia antiepilet-tica dei secoli successivi; nel periodo precedente alla sua carriera di medico, l’epilessia sarebbe infatti stata considerata come una punizione divina, imposta in particolare dalla dea della luna a chi l’avesse offesa. Con l’avvento di Ippocrate, l’approccio alla pratica medica, e quindi anche alla cura del ‘morbo sacro’, cambiò drasticamente, riconoscendo l’origine non divina della malattia; il padre della medicina sarebbe inoltre stato il primo a identificare il cervello come sede fisica del disturbo. Successivamente la maggiore perso-nalità di spicco in questo campo fu Galeno, dei cui metodi si parlerà brevemente. Si apre qui il paragrafo sul Medioevo, con esempi di attestazioni tratti anche da figure importanti come Dante Alighieri, Ildegarda di Bingen e Cassio Felice; è il periodo in cui il Cristia-nesimo sarebbe penetrato a fondo negli strati della società e ciò si rispecchia nell’identi-ficazione dell’epilessia con una manifestazione del Demonio.

Nel cap. 3 si effettuerà una panoramica dal punto di vista linguistico dei numerosi appellativi utilizzati per riferirsi al mal caduco, dall’origine greca del termine fino a casi isolati e molto peculiari. Gli epiteti sono divisi in categorie, a ciascuna delle quali è dedi-cato un paragrafo: termini descrittivi dell’atto del cadere, altri legati alla divinizzazione o alla demonizzazione della malattia, nomi che evidenziano il legame dell’epilessia con gli astri e in particolare con la luna, altri che mettono in rilievo determinate caratteristiche fisiche del malato, casi particolari riscontrabili solo in poche lingue e infine forse i più variegati, ossia gli appellativi legati all’agiografia dei patroni del mal caduco.

Il cap. 4 è dedicato alla classificazione tipologica degli incantesimi. Questo argomento è di fondamentale importanza, poiché offre gli strumenti necessari per poter comprendere e analizzare correttamente le formule che verranno proposte nei due capitoli successivi, nonché per poterli inquadrare correttamente all’interno delle diverse categorie; ogni tipo-logia individuata (preghiere, scongiuri, benedizioni, rimedi, amuleti, talismani) ha delle caratteristiche precise che permettono di distinguerla dalle altre. Il capitolo si apre con un’introduzione storico-culturale sul concetto di magia, anche questa molto utile per poter entrare pienamente nello spirito degli incantesimi e di come essi funzionassero. Si è de-ciso inoltre di presentare brevemente alcune figure di spicco della scienza medica inglese

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(Gilberto Anglico, Giovanni di Gaddesden, John Arderne, Thomas Fayreford) e del loro approccio con incantesimi e rimedi, al fine di inquadrare questi ultimi all’interno del con-testo socio-culturale medievale e comprendere quale rilevanza avessero per chi esercitava il mestiere di medico. Il par. 2 è il più importante dell’intero capitolo e tratta appunto della classificazione tipologica degli incantesimi; qui saranno prese in considerazione al-cune suddivisioni proposte da diversi studiosi, in base a criteri come il contesto socio-culturale, la struttura testuale e le tipologie di verbi utilizzati. Si procederà quindi con l’elencazione delle caratteristiche specifiche di preghiere, benedizioni e scongiuri, in modo da acquisire le nozioni necessarie per poterle distinguere. Il paragrafo successivo è dedicato ai rimedi e prende in considerazione i principali manuali di contenuto medico-popolare del Medioevo germanico: Læcebōc, Lacnunga e Peri Didaxeon per l’ambito anglosassone e il ms. AM 655 XXX 4TO per l’area nordica. L’ultimo paragrafo offre un resoconto molto conciso della ricerca sulla medicina popolare sul territorio germanico, in modo da fornire alcune nozioni su come tale argomento sia stato affrontato in loco negli ultimi secoli.

Le attestazioni relative alla cura dall’epilessia riportate nel cap. 5 permettono di trac-ciare delle linee di tendenza per quanto riguarda la scelta delle erbe curative: p. es. dalle testimonianze risulta essere stato molto diffuso l’utilizzo della peonia, il che può solo indicare che fosse ritenuta particolarmente efficace. Anche fra gli incantesimi esistono delle particolari corrispondenze: poteva capitare, infatti, che una tradizione comune si diffondesse in zone diverse del territorio germanico, così che la stessa formula si poteva trovare in diverse lingue, senza significative differenze di contenuto. I talismani riportano quasi esclusivamente iscrizioni relative ai Re Magi, venerati come patroni degli epilettici, e le loro reliquie venivano considerate come amuleti. L’ultimo paragrafo è invece dedi-cato agli incantesimi di Merseburgo; sebbene si tratti ufficialmente di formule destinate a liberare dei prigionieri da lacci o vincoli e a sanare una slogatura di un cavallo, in questo elaborato si sostiene l’ipotesi, già avanzata da Battaglia (2008), che esse venissero impie-gate per guarire attacchi epilettici.

In ultimo, ma non meno importante, il cap. 6 è costituito dall’analisi linguistica di due incantesimi antico alto tedeschi contro l’epilessia, ovvero Contra caducum morbum e Pro

cadente morbo; si tratta di due versioni dello stesso testo, la prima in francone-renano e

la seconda in bavarese. A un’approfondita analisi parola per parola dei due incantesimi seguirà un paragrafo dedicato al commento critico, in cui saranno esposte le teorie dei maggiori esperti che si sono occupati dello studio delle due versioni, cercando di guidare il lettore verso quelle che si ritengono essere le considerazioni più pertinenti; i testi delle due formule presentano infatti alcuni termini ambigui, i quali hanno alimentato la fantasia degli studiosi, producendo teorie a volte alquanto bizzarre. Il contenuto delle due formule sarà scandagliato da un punto di vista stilistico, metrico, morfologico e semantico, in un tentativo di offrire un’analisi il più possibile completa e accurata; si approfondiranno inol-tre i problemi interpretativi offerti dai due testi, in particolare cercando corrispondenze con altri incantesimi, per poter provare l’esistenza di una tradizione comune e non di un caso isolato. Per questo motivo certe espressioni di Contra caducum morbum e Pro cadente

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morbo saranno messe al confronto con il secondo incantesimo di Merseburgo e si cercherà

di dimostrare la presenza della trasmissione di determinati temi attraverso le attestazioni di lingue e culture diverse.

L’obiettivo che questa trattazione si pone è quello di fornire in primis al lettore una serie di chiavi di lettura, in particolare il contesto storico e socio-culturale del modo in cui l’epilessia è stata considerata e trattata nel corso dei secoli, per poi approdare alla varietà di rimedi verbali ed erboristici volti a curare gli attacchi epilettici sul territorio germanico, con speciale riguardo per l’area occidentale (antico e medio inglese, medio nederlandese, antico e medio alto tedesco), e l’analisi di due casi particolari scelti ad hoc da questo vasto campionario. Tutto ciò che viene trattato prima di questi due capitoli non è stato dettato da una scelta casuale, bensì dalla consapevolezza dell’importanza e della necessità di fornire una serie di nozioni utili per compendere a fondo le dinamiche delle concezioni mediche e popolari del periodo medievale.

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2. BREVE STORIA DELL’EPILESSIA: DAL SAKIKKU AL MEDIOEVO

1. Sumeri e Babilonesi

Le testimonianze scritte sull’epilessia di cui si dispone al giorno d’oggi risalgono a tempi molto antichi. Inizialmente si pensava che l’attestazione più arcaica fosse costituita dal trattato ippocratico Περὶ ἱερῆς νούσου (lat. De morbo sacro), datato intorno al 400 a.C.; tuttavia, nel 1990 Kinnier Wilson e Reynolds pubblicarono la traduzione di un testo cu-neiforme comprendente le tavolette XXV e XXVI del Sakikku, opera accadica risalente al 1067-1046 a.C., facendo in questo modo retrocedere di mezzo millennio la datazione delle prime testimonianze sull’epilessia. Nei due reperti la malattia è contrassegnata con i termini antašubba e miqtu (acd. mqt “cadere”) e sembra essere stata attribuita alla pos-sessione del corpo del malato da parte di una forza sovrannaturale (Eadie 1995:156).

Kinnier Wilson (1956, 1957) ha individuato diverse tavolette che mostrerebbero come i Babilonesi avessero una buona comprensione di quella che al giorno d’oggi viene defi-nita ‘psicosi epilettica’. I testi in questione sono identificati come AMT 96,7 e KAR 26 e risalirebbero alla prima metà del II millennio a.C. Già nelle prime righe del testo si tro-vano tracce della sua rilevanza per l’epilessia:

«Šumma amēlu antašubbû bēl ūri … qāt etimmi qāt māmîti … eli-šu ibašši alû lemnu ireddi-šú …

Se un uomo soffre di antašubbû, bēl ūri, qāt etimmi o qāt māmîti, e un alû lemnu inizia quindi a infliggergli idee di persecuzione […]» (Reynolds 2008: 1489).

Il termine antašubbû è comunemente interpretato come “mal caduco” e si tratta di un prestito sumero; bēl ūri significa letteralmente “signore del tetto”, chiamato così per via della rotazione degli occhi nel momento di incoscienza, che si pensava fosse causata da un demone appostato nella stessa posizione del tetto di una casa; qāt etimmi ha come significato “mano di uno spettro” e si riferisce probabilmente all’epilessia notturna; la parola māmîti significa letteralmente “giuramento”, ma in ambito medico era usata per indicare disturbi comprendenti ossessioni o azioni ripetute, come se il paziente avesse giurato di svolgere una determinata azione e non potesse essere dissuaso dal farlo; infine

alû lemnu va inteso come “demone malvagio” (Reynolds 2008: 1489).

Sembra che fosse comune la credenza che particolari rumori, come ronzii e fischi nelle orecchie percepiti dai pazienti, fossero prodotti da degli spettri; di conseguenza la dia-gnosi di “mano di uno spettro” veniva applicata anche a casi di otite, emicrania o altri disturbi (Paulissian 1991: 20). Vi sono ovviamente anche esempi dell’impiego di questa espressione per contrastare gli attacchi epilettici:

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«13.169 DIŠ NA ina KI.NÁ-šú LUH-LUH-ut

GIN7GÙ ÙZ GÙ-si i-ram-mu-um i par-ru-ud

ma-galDUG4.DUG4-ub/GÙ.GÙ-siŠUII

be-en-nid ÀLAD šá-né-ed anaTI-šú... (BAM202

r.5’-7’ / / BAM311:51’-53’)

**Se una persona si muove continuamente a scatti nel suo letto, strilla come una capra, ronza, sussulta, (e) urla/parla molto, “mano” di bennu, un šedû deputato da Sîn; per curarlo…» (Scurlock, Andersen 2005: 315).

Un’altra parola legata alle manifestazioni convulsive è ḫayyattu; questa deriva dal verbo

ḫaṭu, usato per descrivere lo stato comatoso delle vittime di colera, i cambi di stato

men-tale o le convulsioni dovute a malattie febbrili e comprende anche lo stato confusionale tipico delle crisi epilettiche:

«13.171 DIŠ LÁ-šú -šum-ma ina KA-šú ÚH DU-ak AN.TA.ŠUB.BA (DPS XXVI:15’ [AOAT 43.279]).

13.172 DIŠ [L]Á-šú -šum-ma ŠUII-šú u

GÍRII-šú ana GU-šú ik-tab-ba AN.TA.ŠUB.BA

(DPS XXVI:16’ [AOAT 43.279])

**Se il suo ḫayyattu lo prende e la saliva scorre dalla sua bocca, AN.TA.ŠUB.BA

**Se il suo ḫayyattu lo prende ed egli piega le sue mani e i suoi piedi verso il collo, AN.TA.ŠUB.BA» (Scurlock, Andersen 2005: 315).

Come si può notare, i casi in cui è citata l’epilessia sono numerosi. Si riportano ancora un paio di esempi degni di nota:

«13.195 šum4-ma U4-ma UD.DU-[šú] IGIII

-šú tar-ka i-ḫar-ru-ur UH ina KA-šú DU

AN.TA.ŠUB.BA DIB-šú šum4-ma U4DIB-šú IR

ina IGI-šú DU-ak ku-bu-ut-ta i-ṣa-bat a-aḫ-ka la ta-nam-di (STT89:136b-140 [Stol, Epilepsy 93])

13.245 [DIŠ S]AG.DU-su LÚ.ÚŠ-šú

i-na-aš-su ana 15 u 150 ŠUB.ŠUBEME-šú

it-te-né-biṭ EME-šú it-ta-nak-ṣar! KA-šú[x

x]ta Á.ÚR!.MES-šú tab-ka ina DU-su

ú-sa-kar A.RI.A dSul-pa-è<a> ana MAŠ.EN.KAK DIB HUL [DUG]UD uš-ta-mar!-raṣ-ma ina la-a U4.MEŠ-šú (STT89:187-191 [Stol,

Epi-lepsy 96-97])

«**Se quando [lo] prende, i suoi occhi sono scuri, fa rumori rombanti, (e) la saliva gli scorre dalla bocca, AN.TA.ŠUB.BA lo af-fligge, gli vengono le lacrime agli occhi, sta per attraversare una (fase) difficile; non es-sere negligente» (Scurlock, Andersen 2005: 310).

**[Se] la sua [testa] (e) il suo corpo tre-mano, fa oscillare continuamente il collo da destra a sinistra, la sua lingua è continua-mente stretta, la sua lingua è continuacontinua-mente annodata, la sua bocca […], i suoi arti sono tesi (e) si blocca quando cammina, “prole” di Šulpaea. Per un cliente, (significa) un’af-flizione maligna; un [potente] sarà reso am-malato e (morirà) prima del tempo» (Scur-lock, Andersen 2005: 331).

In quest’ultima formula il disturbo viene chiamato ‘prole di Šulpaea’; si tratta una divinità secondaria legata a Giove, il pianeta del dio Marduk: pare che coloro che lo avessero offeso, sarebbero stati colpiti dalla malattia per mano del suo servo Šulpaea, che avrebbe rovesciato il male sui colpevoli o sui loro discendenti. In altri documenti veniva anche nominato il demone LUGAL.ÙR.RA, responsabile della rotazione anomala degli occhi e dei movimenti a scatti della lingua, tratti tipici degli attacchi epilettici; il suo nome avrebbe significato anche “signore del tetto”, la cui spiegazione è già stata fornita in questo para-grafo (Yuste 2010: 79).

Nel Codice di Hammurabi (1790 a.C.) una legge stabiliva che uno schiavo acquistato potesse essere restituito al venditore e si potesse essere risarciti, se questo entro mese avesse mostrato segni di quella che era chiamata bennu ‘epilessia’. Il carattere epilettico

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della malattia bennu è evidente dal nome stesso: il rispettivo ideogramma sumero è SA-AD-NIM, dove SA significa “muscolo, tendine/nervo”, il che si accorda bene con le con-vulsioni spasmodiche, ed è stata infatti anche tradotta come “malattia muscolare”; bennu però è anche sinonimo di miqtu, che ha precisamente il significato di “caduta”. In una serie di documenti accanto a bennu si trova anche il termine ṣibtu, che si potrebbe tradurre insieme al primo come “malattia muscolare e articolare”. Per bennu si trova molte volte l’ideogramma BAD “cadente”, mentre ṣibtu deve essere inteso come “essere agguantato”, dal verbo ṣabātu “afferrare, agguantare” (Sudhoff 1911: 359-360, 362-363). È interes-sante notare che 600-700 anni dopo i contratti di acquisto assiri in Egitto e nell’Asia Oc-cidentale, vengono nominate due malattie non individuabili al momento dell’acquisto dello schiavo, ovvero ἱερή νοσος ed ἐπαφή; mentre per la prima è generalmente accettato il significato di “epilessia”, ἐπαφή sarebbe a giudizio di Sudhoff (1911: 365) una tradu-zione letterale del termine ṣibtu “toccare, afferrare”.

2. L’Ayurveda

Il termine Ayurveda è un composto formato dalle parole ayuḥ “vita” e veda “conoscere”. Purtroppo questo testo non è disponibile nella sua forma originaria, ma molti dei suoi contenuti permangono nelle saṃhitā “raccolte” di Caraka e Suśruta, considerati rispetti-vamente il padre della medicina e della chirurgia indiana. Negli scritti ayurvedici più an-tichi (ca. 1000 a.C.), l’epilessia è presentata come una delle prime otto malattie allora identificate. Il cap. 8, Nidanasthana “diagnosi”, e il cap. 10, Chikitsasthana “tratta-mento”, della Carakasaṃhitā sono interamente dedicati a questa malattia. Essa si articola in quattro categorie a seconda del doṣa “umore” dominante coinvolto nella sua patogenesi (Brown 2010: 2-3):

Vata: attacchi ricorrenti, recupero della coscienza nei tempi più brevi, occhi bulbosi, pianto eccessivo, schiuma dalla bocca, dita contratte in modo innaturale, colorazione nerastra o rossastra di faccia, un-ghie e pelle, allucinazioni e tremore;

Pitta: recupero della coscienza in periodi brevi, atto di graffiare il suolo, colorazione ramata e giallo-verdastra di unghie, occhi, faccia e pelle e allucinazioni di oggetti sanguinosi, orribili e ardenti;

Kapha: attacchi prolungati con recupero tardivo, schiuma dalla bocca, colorazione bianca di occhi, faccia e pelle e visioni di oggetti bianchi, pesanti e lisci;

Tri doṣa: incurabile; ha origine dall’indebolimento simultaneo delle tre categorie precedenti e porta all’insorgere di una combinazione dei loro sintomi e manifestazioni.

Nei testi ayurvedici sono implicati tre tipi di fattori determinanti per l’eziologia dell’epi-lessia: endogeni (disturbi genetici, congeniti, costituzionali, enzimatici e idiopatici); eso-geni (assunzione di alimenti nocivi, aggravamento del Vata a causa di un trauma, vermi e altri fattori ambientali); psicologici (preoccupazione, dolore, paura, passione, rabbia, ansia ed eccitazione). Il doṣa aggravato si diffonderebbe per il corpo attraverso i nervi e

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porterebbe alla manifestazione dell’attacco epilettico sotto forma di scatti o convulsioni o episodi di breve incoscienza senza tremore (Jain 2004: 58).1

Il panchakarma, costituito da terapie palliative, include i seguenti trattamenti: Vamana: rimozione delle tossine mediante emesi, utilizzando erbe come noci emetiche e liquirizia;

Nasya/Nasyamis: versamento di olio a base di erbe (sesamo, sida, bel o vitex) in gocce nelle narici e inalazione del contenuto, in modo da aprire i canali della testa e permettere agli estratti di erbe di agire direttamente sul sistema nervoso centrale;

Virechanam: assunzione orale di medicine a base di erbe che portano all’eliminazione di scarti tossici per via anale;

Vasthiis: trattamento con clistere, si attua tramite l’introduzione di speciali medicine nel retto per per-mettere l’evacuazione di tossine accumulate e scarti metabolici (Brown 2010: 4-5).2

Nella maggior parte dei testi ayurvedici, l’epilessia viene denominata apasmāra o

apa-smṛti, ossia “perdita della memoria/coscienza”; oltre al mal caduco, questo termine

iden-tificava l’ignoranza, che nella mitologia indiana antica era rappresentata dall’omonimo demone-gnomo Apasmāra, il quale veniva calpestato simbolicamente da Śiva, dio della saggezza. Quando l’epilessia era associata a fattori estrinsechi, sembra che fosse uso co-mune prescrivere gli inni (mantra) come terapia; l’unica misura di primo soccorso racco-mandata sarebbe stato il salasso eseguito sulle vene delle tempie e in alcuni casi anche la cauterizzazione di entrambe le ossa parietali con degli aghi (Jain 2004: 57-58).

Anche nell’Atharvaveda si trovano riferimenti all’epilessia in forma di incantesimi; tuttavia, qui è preferito l’appellativo Grāhi < rad. ie. *GHREBH- “afferrare”, in quanto la ma-lattia ‘ghermisce’ il malato e lo tiene legato a sé. Si riporta p. es. dall’Atharva-veda II, 9:

«Daśavṛkṣa muñcemaṃ rakṣaso grāhyā adhi yainaṃ jagrāha parvasu |

Atho enam vanaspate jīvānāṃ lokam un naya ||1||

Āgād ud agād ayaṃ jīvānāṃ vrātam apy agāt |

Abhūd u putrāṇāṃ pitā nṛṇāṃ ca bhagavat-tamaḥ ||2||

Adhītīr adhy agād ayam adhi jīvapurā agān |

Śataṃ hy asya bhiṣajaḥ sahasram uta vīru-dhaḥ ||3||

Devās te cītim avidan brahmāṇa uta vīrud-haḥ |

Cītiṃ te viśve devā avidan bhūmyām adhi ||4||

Vaś cakāra sa niṣ karat sa eva subhiṣakta-maḥ |

1. Oh tu di dieci alberi, libera quest’uomo dal demone, dall’attacco (grāhi) che lo ha colpito nelle giunture; quindi, oh albero della foresta, conducilo al mondo dei vivi. 2. Quest’uomo è giunto, è sorto, è salito sul gruppo (vrāta) dei vivi; è diventato di figli il padre e degli uomini (nṛ) il più fortunato. 3. Egli ha raggiunto (adhi-gā) traguardi; ha raggiunto (adhi-gam) le fortezze (-purā) dei vivi; poiché cento guaritori sono suoi, e mille piante.

4. Gli dèi hanno trovato il tuo raccolto (? cīti), i sacerdoti (brahman) e le piante; tutti gli dèi hanno trovato il tuo raccolto sulla terra.

5. Colui che creò, distruggerà; è realmente il migliore dei guaritori; egli stesso, pulito,

1 I metodi di guarigione prescritti nell’Ayurveda riguardano principalmente la dieta, che dovrebbe consistere

di frutta e verdura organica fresca (in particolare riso, latte, cereali, legumi, carote, noccioline, verdura a foglia verde, arance, uva, pesche, pere, ananas e meloni), mentre si dovrebbero evitare cibi forti, fritti, caldi e speziati. Sono inoltre vietati dolci, caffè e the forti e bevande alcoliche (Brown 2010: 3-4).

2 Il Rastayana, terapia nutriente per rinvigorire il corpo e la mente dopo il panchakarma, avrebbe il compito

di mantenere gli enzimi nelle cellule del tessuto nelle loro condizioni ottimali, ripristinare le funzioni cor-poree e mantenere la salute generale dell’individuo per un periodo molto più lungo. Le medicine orali per l’epilessia incluse nel Rastayana sono estratti di erbe medicinali pure, foglie e spezie; pare che possano essere usati anche minerali come argento, mercurio e piombo (Brown 2010: 5-7).

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Sa eva tubhyaṃ bheṣajāni kṛṇavad bhiṣajā

śuciḥ ||5|| creerà per te dei rimedi, con il guaritore» (Whitney 1984: 9-10).

Daśavṛkṣa significa letteralmente “dieci alberi” (daśa PrefNum 10; vṛkṣa “albero”) e in

questa formula indicherebbe appunto un amuleto creato dal legno di dieci alberi sacri utilizzato per combattere il demone Grāhi.

3. La Grecia preippocratica

L’epilessia era nota sotto svariati nomi nei testi greci antichi: σεληνιασμός, malattia sacra, malattia ercolina o demonismo. Il termine stesso ‘epilessia’(ἐπιλεψία) ha origine greca, dal V ἐπιλαμβάνειν “colpire, possedere, affliggere”. Nell’opera Lithica (vv. 474-484), Or-feo descriveva eloquentemente la vendetta di Mene3 (forse figlia di Selene o altro epiteto

di quest’ultima) in forma di attacco epilettico. Tale patologia era inoltre connessa alla dea della luna Selene, poiché chi l’avesse offesa, ne sarebbe stato colpito. Nella cultura greca antica risultano essere stati presenti diversi elementi di superstizione legati all’epilessia: l’apparizione in sogno di animali, collegata a Selene, sarebbe stata considerata un presa-gio di epilessia, così come sarebbe stato vietato l’uso di indumenti neri e pelli di capra e il consumo della carne di questo animale, in quanto caro alla dea della luna e ad Ecate (Temkin 1971: 10-12).4 Il trattamento religioso dell’epilessia nell’Antichità consisteva soprattutto nell’invocazione dell’aiuto di Esculapio, venerato come dio della medicina: il paziente avrebbe dovuto recarsi presso il suo tempio e passarvi la notte; a quel punto il dio si sarebbe manifestato e avrebbe praticato oppure suggerito una cura per il suo male (Temkin 1971: 14-15).

4. Ippocrate e il morbo sacro

L’espressione ‘morbo sacro’ sembra essere attestata per la prima volta nei frammenti del filosofo Eraclito († 475 a.C.) e negli scritti dello storico Erodoto († 424 a.C.):

«Quest’ultimo [Erodoto], raccontando delle azioni malate del re persiano Cambise, afferma che si riporta che egli abbia sofferto dalla nascita di “un certo grande male… che alcuni chiamano sacro. E perciò,” aggiunge Erodoto, “sarebbe improbabile che, se il corpo avesse sofferto di un grande male, la mente sarebbe stata sana”» (Temkin 1971: 15).

3 «Mene (Μήνη), divinità femminile che presiedeva ai mesi. | Selene (Σελήνη), chiamata anche Mene, o

lat. Luna, era la dea della luna o quest’ultima personificata in un essere divino» (Smith 1880).

4I maghi purificavano gli epilettici con il sangue, che sembra essere stato impiegato come rimedio già nel

V secolo a.C.; Orfeo e Archelao prescrivevano di cospargere la bocca del paziente di sangue umano e un’usanza più popolare sarebbe stata quella di berlo, se possibile direttamente dalla ferita. Pare inoltre che fosse diffusa la credenza che un chiodo di ferro piantato nel punto in cui in precedenza un epilettico aveva appoggiato la testa potesse liberare questo dal suo male. Infine, sarebbero stati impiegati anche gli amuleti nella cura dell’epilessia; Ostane, nome d’arte utilizzato da numerosi autori anonimi e identificato con un maestro stregone, consigliava infatti di raccogliere peonia e corallo con la luna calante, di metterli in una pezza di lino e appenderli attorno al collo (Temkin 1971: 12-13).

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Tuttavia, il primo testo di grande importanza nella storia dell’epilessia risulta essere il De

morbo sacro (gr. Περὶ ἱερῆς νούσου) di Ippocrate di Cos († 377 a.C.), considerato il padre

della medicina, o comunque di un membro della sua scuola. Il titolo dell’opera è stato a lungo oggetto di controversie: l’autore infatti avrebbe scelto di usare l’aggettivo ‘sacro’ per dimostrare che in realtà l’epilessia non sarebbe stata né più né meno sacra di altre malattie. È importante notare che Ippocrate non avrebbe rifiutato l’esistenza del Divino, bensì avrebbe condannato l’abuso che ne facevano i ciarlatani con le loro pratiche super-stiziose. Secondo il suo pensiero, ogni malattia, epilessia compresa, sarebbe stata divina, tuttavia le sue cause sarebbero state naturali: queste erano infatti freddo, sole e vento, e tali elementi erano considerati divini; allo stesso tempo erano spiegabili razionalmente, p. es. grazie alla teoria degli umori corporei (Miller 1953: 6).5

L’importanza delle teorie ippocratiche si evince anche dal fatto che egli riconosceva il cervello come sede dell’epilessia e affermava che la malattia avrebbe avuto carattere ere-ditario e avrebbe attaccato coloro che avessero avuto una ‘costituzione mucosa naturale’, causa di tutte le malattie serie; se l’origine fosse stata invece divina, il disturbo avrebbe colpito chiunque indipendentemente dal tipo di costituzione. Il normale funzionamento del corpo sarebbe dipeso quindi dalla ricezione e distribuzione naturale dello pneuma al cervello e successivamente alle vene, ai polmoni e alle cavità. Qualora però il cervello fosse stato imperfetto a causa di eredità o sviluppo, i flussi avrebbero potuto emergere dal cervello e, scendendo nel corpo, impedire il passaggio dello pneuma, interferendo con la distribuzione naturale e il funzionamento di questo; ciò avrebbe prodotto nel corpo i sin-tomi dell’epilessia (Miller 1953: 4).6

5 Le manifestazioni dell’epilessia sembrano essere state attribuite dai maghi a diverse divinità: la ‘Madre

degli dèi’ sarebbe stata considerata responsabile dei versi caprini, del digrignamento dei denti e delle con-vulsioni della parte destra del corpo; Poseidone di provocare urla più violente simili a quelle di un cavallo; Enodia della perdita di feci, mentre Apollo Nomio dell’incontinenza di escrementi più sottili e frequenti; Ares della schiuma alla bocca e lo scalciare; Ecate e gli Eroi di pavor nocturnus, paura e squilibrio mentale. Sembra che Ecate fosse stata spesso identificata con la dea della luna o anche con Artemide e diversi pas-saggi attribuiscono il delirio alla prima e il disturbo maniacale alla seconda (Temkin 1971: 15-16).

6 Fra i fattori predisponenti nella teoria ippocratica vi sono: cambiamenti dei venti e della temperatura;

esposizione della testa al sole; pianto; paura. I venti del Nord e del Sud interesserebbero maggiormente il cervello, perché più forti; in particolare il vento del Sud scioglierebbe e diffonderebbe l’aria densa, renden-dola calda e umida. Mentre quindi il vento del Sud rilasserebbe il cervello, allargando le ve+ne, quello del Nord separerebbe l’elemento più malato e umido e lo ripulirebbe, producendo i flussi ai cambiamenti del vento. Un altro elemento importante che veniva chiamato in causa anche nel caso dell’epi-lessia era l’Aria: essa conteneva l’intelligenza e la coscienza del corpo sensibile e intelligente; Ippocrate non operò una chiara distinzione fra Aria, pneuma e pneumata, sebbene giocassero dei ruoli non totalmente identici. Dal mo-mento che l’autore concepiva l’Aria come fonte di movimo-mento, intelligenza e coscienza nell’uomo, sembra ragionevole credere che pneuma e Aria, non meno di pneumata, sole e vento, fossero concepiti come “di-vini”; in questo senso Divino e Natura non sarebbero da considerare come categorie separate. Le conside-razioni di Ippocrate sull’Aria sono le stesse di Diogene: quest’ul-timo credeva infatti che l’Aria fosse la sostanza primaria che conteneva l’intelligenza e che fosse veicolo di tutte le sensazioni e fonte di movi-mento. La concezione di Diogene tuttavia trascende quella del De morbo sacro, in quanto questi equipara l’Aria a Dio, esprimendo un nuovo concetto del Divino (Miller 1953: 5-10).

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5. Il pensiero postippocratico

Durante i secoli successivi sarebbe stato riconosciuto che l’epilessia raramente inizia dopo i 20 anni (per questo motivo veniva anche definita ‘malattia dei bambini’), che spesso vi è una tendenza ereditaria, che le sue manifestazioni variano, che a volte cessa spontaneamente, che gli attacchi avvengono nel sonno e in particolare al risveglio e che, se associate a danni a un emisfero cerebrale, le convulsioni si potrebbero limitare al lato opposto del corpo. I rimedi utilizzati avrebbero spaziato dalla flebotomia alla cauterizza-zione (Holmes 1946: 1).7

Sembra che, durante il periodo romano, i verbali del Senato venissero interrotti o po-sticipati, se un senatore fosse stato colpito da epilessia nel corso di una seduta, poiché questa eventualità sarebbe stata considerata un cattivo segno degli dèi; per questo motivo la malattia era definita anche morbus comitialis, dal momento che un attacco epilettico poteva rovinare il giorno dell’assemblea popolare (comitia). Il Liber Medicinalis (LVI, vv. 1006-1009) di Quinto Plinio Sammonico riporta questa usanza particolare:

«La malattia si manifesta improvvisamente, come il nome stesso dice, impedisce che avvengano i giusti voti.

Spesso, infatti, la caduta orrenda dei membri interruppe

l’assemblea del popolo per il funesto mal caduco […]»8 (Brakeman 1997: 81).

Come misura precauzionale, dato il presunto carattere contagioso dell’epilessia, sarebbe stato impiegato lo sputo; questa sorta di rimedio superstizioso, in voga ancora oggi, era già molto diffuso fra gli Antichi: Plinio avrebbe infatti sostenuto che eruzioni cutanee, lebbra, infiammazioni degli occhi e cancro si potessero prevenire con lo sputo; in parti-colare, sarebbe stato preferito quello di una persona a digiuno, in quanto più salato per la scarsa presenza di acqua rispetto a quello di qualcuno che avesse mangiato da poco. L’uso di sputare su un individuo epilettico o sul proprio petto alla sua vista, attestato da diversi passaggi negli scritti antichi, non avrebbe avuto la funzione di un rimedio curativo, bensì sarebbe stato un atto puramente simbolico (Nicolson 1897: 30-31).

Successivamente a Ippocrate si formarono tre importanti correnti di pensiero: i dog-matisti, che credevano nella necessità della ricerca scientifica; gli empirici, che furono fondati alla fine del III secolo a.C. e si limitavano all’esperienza e all’osservazione di ‘cause evidenti’; i metodisti, che si formarono all’inizio del I secolo d.C. e classificavano le patologie secondo caratteristiche comuni. Queste differenze di approccio chiaramente si riflettevano anche nella classificazione dell’epilessia (Temkin 1971: 29).

7 L’influenza dell’insegnamento ippocratico è evidente nel pensiero di Platone, il quale affermava che

l’epi-lessia era dovuta ad un misto di muco bianco e bile nera, che ostruiva la circolazione dell’aria alla testa; inoltre, come già nel Codice di Hammurabi, suggeriva una punizione specifica per chi avesse venduto schiavi epilettici. Aristotele affermava che l’unica funzione del cervello era quella di raffreddare e purifi-care il sangue, o meglio l’aria o il vapore condotti ad esso tramite le vene e attribuiva l’epilessia a questi, che erano troppo condensati dal cervello freddo; inoltre rifiutava la credenza nella magia e nell’intervento di enti divini e demoniaci (Holmes 1946: 2).

8 «Est subiti species morbi, cui nomen ab illo / Haesit, quod fieri prohibet suffragia iusta. / Saepe etenim

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Persino nel De rerum natura III (vv. 487-496) di Lucrezio si trova una descrizione dettagliata di un attacco epilettico:

«Anzi, d’improvviso, costretto da violenza di morbo dinanzi ai nostri occhi qualcuno, come per colpo di fulmine,

cade, sputa, schiuma, geme, trema, vaneggia, tende i muscoli, si contorce, ha respiro irregolare, e tra convulsioni affatica le membra:

è evidente che per forza del morbo, dilaniata attraverso le membra l’anima è sconvolta e sputa schiuma, come nel salso mare

sotto le valide forze dei venti ribollono l’onde

Si traggono allora gemiti, perché le membra sono provate dal dolore, e in generale perché gli atomi della voce sono gettati fuori, e dalla bocca in masse escono fuori,

per la via che conoscono e che è già preparata»9 (Milanese 1992: 198).

La seconda tappa fondamentale nella storia dell’epilessia è rappresentata dal pensiero di Galeno (ca. †199 d.C.), il quale avrebbe affermato che il cervello fosse l’organo della mente e del movimento e che l’epilessia fosse sempre dovuta a disturbi che lo affligge-vano, anche se in alcuni tipi il cervello avrebbe potuto essere colpito simpateticamente da malattie di altri organi come lo stomaco. Egli osservò inoltre che gli spasmi avrebbero potuto essere arrestati legando una fascia attorno all’arto in cui questi iniziavano, com-primendo quindi i nervi, e quando le convulsioni raggiungevano la testa, generalmente il malato avrebbe perso conoscenza. Areteo di Cappadocia, di poco successivo a Galeno, fornì inoltre descrizioni eccellenti dei fenomeni epilettici e sosteneva che gli attacchi si originassero nel cervello di conseguenza alla cattiva circolazione degli spiriti animali. Egli scoprì che aprire il cranio e cauterizzare il cervello poteva arrestare momentaneamente gli attacchi (Holmes 1946: 2).10

6. Il Medioevo

In epoca medievale e nel Rinascimento sarebbe stata diffusa la convinzione che la pos-sessione demoniaca fosse un fenomeno reale; ciò avrebbe quindi portato a dover operare una distinzione fra essa e un attacco epilettico e non sempre si trattava di un compito

9 «Quin etiam subito vi morbi saepe coactus / ante oculos aliquis nostros, ut fulminis ictu, / concidit et

spumas agit, ingemit et tremit artus, / desipit, extentat nervos, torquetur, anhelat / inconstanter, et in iactando membra fatigat. / Nimirum quia vi morbi distracta per artus / turbat agens anima spumas, [ut] in aequore salso / ventorum validis fervescunt viribus undae. / Exprimitur porro gemitus, quia membra dolore / ad-ficiuntur et omnino quod semina vocis / eiciuntur et ore foras glomerata feruntur / qua quasi consuerunt et sunt munita viai».

10 Alla fine del IV secolo d.C. i trattamenti per la cura dell’epilessia erano di tipo dietetico, chirurgico e

farmacologico. Dioscoride menziona quarantacinque sostanze antiepilettiche, diciotto delle quali non hanno connessioni immediate con la magia (cardamomo, frutti di abete balsamico, fichi secchi, siero di latte, Dorema ammoniacum, elleboro nero, hippophaiston, brionia, piantaggine, senape, funghi arboricoli, Tordylium, frutti di pastinaca, silfio, Sagapenum, galbano, oxymel, vino di lavanda), mentre almeno tredici sono decisamente superstiziose (caglio di lepre, stomaco e sangue di donnola, fegato di asino, zoccolo di asino, lichene di cavalli, fegato di caprone, amuleto di pietre trovate nello stomaco di rondine con la luna crescente, caglio di foca, sangue di tartaruga di terra, sterco di cicogna, raschiature di selenite trovata di notte con la luna crescente, limature di ferro affilate su cote di Nasso) (Temkin 1971: 79-80).

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semplice. Nell’Antichità non sembrano esservi state tracce di confusione fra epilessia e possessione, anche perché quest’ultima pareva rivestire un ruolo minore; si è visto quanta attenzione si prestasse allo studio del ‘morbo sacro’, fatto che implica una certa compe-tenza nel saperlo riconoscere. A giudizio di Ildegarda di Bingen († 1179), il Diavolo avrebbe esercitato il suo potere quando il corpo fosse stato ‘sbilanciato’, gli umori corpo-rei fossero aumentati e il cervello fosse stato colpito. Persino nell’Inferno di Dante (XXIV, 112-117) si trovano tracce della descrizione di un attacco epilettico:

«E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira,

o d’altra oppilazion che lega l’omo, quando si leva, che ’ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch’elli ha sofferta, e guardando sospira» (Chiavacci Leonardi 1991: 720-721)

laddove il termine oppilazion (cfr. lat. oppilatio “ostruzione”) sarebbe stato comunemente usato dai medici medievali per designare il blocco dei ventricoli del cervello.

Se il trattamento covenzionale impiegava dieta e droghe, laici e medici avrebbero in-vece suggerito l’uso di rimedi superstiziosi.11 Arnaldo di Villanova (†1311) sosteneva la dipendenza della malattia dalle costellazioni e in modo particolare dalla luna (Temkin 1971: 103-104). Costantino l’Africano (ca. †1087) avrebbe notato la somiglianza fra epilessia, pazzia e possessione demoniaca e per stabilire la natura della malattia propose di pronun-ciare nell’orecchio del paziente una formula che comandasse al demone di ritirarsi; se egli fosse stato pazzo o posseduto, sarebbe rimasto in stato catatonico per un’ora e dopo sarebbe stato in grado di rispondere a qualsiasi cosa gli venisse posta, mentre se non fosse caduto, si sarebbe trattato di epilessia (Temkin 1971: 107).

Nel corso del Medioevo si sarebbe sviluppato uno stretto rapporto fra cristianità e cre-denze popolari, tanto che persino gli incantesimi contro l’epilessia avrebbero impiegato frequentemente preghiere e riferimenti a Cristo e ai santi; a questo periodo risalgono an-che gli incantesimi Contra caducum morbum e Pro cadente morbo, di cui si avrà modo di parlare dettagliatamente al cap. 6. In quest’epoca si diffuse la convinzione che l’epi-lessia fosse una malattia trasmissibile: Berthold di Ratisbona, predicatore tedesco del XIII secolo, attribuiva l’infezione del mal caduco al carattere contagioso del fiato del paziente; sembra essere infatti stata diffusa la convinzione che durante un attacco epilettico, il ma-lato dovesse essere isoma-lato, per non entrare in contatto con il suo alito infetto. L’epilessia venne inclusa fra le malattie contagiose elencate dalla Scuola Salernitana, da cui fu chia-mata pedicon, variante del gr. paidion, nome dato alla malattia da Galeno e da altri autori antichi con significato “malattia dei bambini”; è interessante notare che molti autori me-dievali, non conoscendo il greco, avrebbero ricondotto il termine al lat. pes, alcuni addi-rittura lo avrebbero messo in relazione con lo scalciare tipico degli epilettici, altri con il fetore dei loro piedi. La credenza nel carattere contagioso dell’epilessia sarebbe stata

11 Antonio Guainerio (inizio XV secolo) affermava che tutte le malattie causate da un qualche agente

vele-noso richiedevano una qualità occulta contraria ad essi; nel caso dell’epilessia, sarebbe quindi stato necessa-rio impiegare rimedi come fegato di rana, sangue di cane o urina umana.

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scongiurata solo nel XVI secolo, quando le malattie infettive furono studiate più appro-fonditamente (Temkin 1971: 115-117).

Cassio Felice (V secolo d.C.) avrebbe distinto due varietà di epilessia: una caratteriz-zata da convulsioni, l’altra dal sonno. Allo stesso tempo avrebbe suddiviso la malattia in tre forme patologiche a seconda del luogo di origine: il cervello, dove tutto il sistema nervoso avrebbe sofferto di un umore malinconico e di muco freddo; lo stomaco; qualsiasi parte inferiore del corpo. Il termine generale ‘epilessia’ avrebbe connotato la malattia in quanto tale, e in senso stretto avrebbe indicato anche la forma idiopatica localizzata nel cervello; la forma originaria dello stomaco sarebbe stata chiamata ‘analessi’, mentre quella che fosse formata in qualsiasi altra parte del corpo avrebbe preso il nome di ‘cata-lessi’ (Temkin 1971: 119-120).

La traduzione di molti testi arabi fondamentali e l’organizzazione degli studi medici in scuole e università segnarono un passo importante nella storia della medicina medie-vale. In questo modo si diffuse anche in Occidente la dottrina medica dello scolasticismo, già presente in Alessandria nel 500 d.C. Il lavoro degli insegnanti alessandrini consisteva soprattutto nell’interpretazione dei testi medici classici dal punto di vista di Galeno e fu quindi questa la concezione dell’epilessia che fu tramandata (Temkin 1971: 121).

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3. I NOMI DELL’EPILESSIA

In questo capitolo saranno riprese e ampliate le osservazioni contenute in Kanner (1930), dove viene presentata una lista approfondita dei diversi appellativi per questa patologia utilizzati nell’Antichità.

‘Epilessia’ (gr. ἐπιληψία) < gr. ἐπιλαμβάνομαι “essere sopraffatto”, in questo caso da un dio o un demone. Tale termine ha avuto una grande diffusione a discapito di altre denominazioni, probabilmente perché queste ultime erano spesso composte da più di un’unità lessicale e di conseguenza sarebbero state di uso meno immediato. Sembra che in greco fossero utilizzate due espressioni diverse: ἐπιληψία e ἐπιλημψία; la seconda è la forma ionica usata da Ippocrate, che l’avrebbe intesa come attacco convulsivo isolato, piuttosto che come patologia vera e propria. Mentre in Grecia l’epilessia sarebbe stata attribuita all’ira di diversi dèi a seconda delle sue manifestazioni, a Roma furono gli spiriti maligni ad essere accusati di provocare la malattia; uno dei nomi impiegati si riferiva direttamente a questa presunta origine: morbus daemoniacus o morbus daemonius. Nella mitologia indiana antica vi era un demone in particolare che aveva la funzione di provo-care le convulsioni: la sua etimologia è molto simile a quella di ‘epilessia’, ovvero Grāhī “colei che afferra”;12 la presenza maligna avrebbe infatti afferrato il malato e lo avrebbe tenuto nelle sue grinfie, provocando così l’insorgere la malattia (Kanner 1930: 112-113). Così come si è visto per il Medioevo, anche nella cultura africana sembra essere diffusa la credenza della contagiosità dell’epilessia. In Tanzania, fra i Wapogoro, sarebbe inoltre comune la convinzione che la malattia sia legata alle fasi lunari (Jilek-Aall et al. 1999: 382-384). È molto interessante notare come le stesse tradizioni fossero diffuse in aree così vaste e culturalmente differenti; è tuttavia molto probabile che queste credenze co-muni siano state in realtà ereditate dalla cultura giudaico-cristiana con cui gli Africani erano e sono tuttora in constante contatto.13 A testimonianza di ciò, si vuole evidenziare

12 Il nome deriva naturalmente dall’ie. *GHREBH-, la stessa radice dell’ingl. to grab e più in generale del

germ. *grab-, con significato “afferrare”.

13 Nell’Africa orientale il nome dell’epilessia in sw. kifafa significa “piccola morte” o “mezzo morto”,

mentre fra gli Yoruba in Nigeria l’appellativo attribuito a un bambino epilettico, abiku, si traduce con “nato per morire” (Schachter, Andermann 2008: 39). Anche in questo caso, la credenza di base sarebbe che il soggetto sia posseduto da un’entità superiore, sia essa un demone o una divinità. In Marocco, gli epilettici sono chiamati tradizionalmente mejnun, ovvero “afflitto da un jinni”; quest’ultimo è un essere incorporeo che, secondo Avicenna, sarebbe stato creato molto prima di Adamo. In Senegal, invece, si pensa che essi siano posseduti da entità chiamate djinné.

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la corrispondenza fra la credenza che un epilettico sarebbe potuto cadere nel fuoco cuci-nando e che avrebbe rischiato di annegare nell’atto di raccogliere l’acqua con il seguente passo del Nuovo Testamento (Matteo XVII, 14-15):

«E quando furono arrivati alla folla, si avvicinò a lui un uomo, che si inginocchiò dinanzi a lui e disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio, poiché è un lunatico e molto dolorante: poiché sovente cade nel fuoco e spesso nell’acqua» (Kanner 1930: 124).

In base a tale analogia si può quindi a mio avviso sostenere la tesi di Jilek-Aall et al. (1997: 788), secondo cui tale insieme di credenze sarebbe derivato dal contatto con la cultura giudeo-cristiana presente da secoli in Africa.

1. Il ‘mal caduco’

Un termine molto diffuso è il nome descrittivo dell’epilessia: lat. morbus caducus, ted.

Fallsucht o fallende Sucht, ingl. falling sickness, nl. vallende ziekte, sl. padanica (da pad-

“cadere”); curiosamente i Greci non sembrano aver conosciuto un termine corrispon-dente. L’utilizzo della parola per ‘cadere’ è chiaramente dovuto al fatto che un epilettico in preda a un attacco crolla al suolo. I nomi scandinavi antichi sono anorv. brotfall, asv.

brutfall e adan. brotfælling < brôt “convulsione”;14 in norv. si usa nefallssott.

Ted. Fallsucht è un Comp formato da Fall- < fallen “cadere” (germ. *fallaną “id.” <

ie. *PHŌL-, * PŌL “id.”), e da Sucht; quest’ultimo merita un’analisi più approfondita. Si

tratta del termine antico comune a tutte le lingue germaniche per ‘malattia’ ed è attestato fin dall’VIII secolo nell’aat. suht “malattia” < germ. *suħtiz “id.”; anche in as. e aingl. si rendeva con suht, got. sauhts, aisl. sótt (Pfeifer 1995: 1393). Veniva usato per tutte le patologie, tranne che per quelle provocate da ferite o incidenti; alla parola veniva abbinato un PrefV o PrefAgg, il quale avrebbe avuto la funzione di delimitarne il campo semantico: alcuni esempi sono Miselsucht “lebbra”, Gelbsucht “ittero”, Schwindsucht “tisi”; in que-sto caso particolare, la malattia è specificata dal prefisso Fall-. La rad. ie. della parola è ancora oggetto di discussione; sono state avanzate diverse ipotesi: Lid la fa risalire a una radice che doveva suonare come *SUK-, *SEUK-, poiché farebbe riferimento all’atto dei demoni di succhiare via la vita dal malato (Pfeifer 1995: 1289); Pokorny (1959), invece, considera un collegamento con l’arm. hiucanim “sii infermo” e il m.irl. socht “silenzio, depressione”, ma anche *SEUG- come espansione gutturale dell’ie. *SEW- “gocciolare, succhiare”.

14 «BROT, n. [brjóta, cfr. aat. broti = fragilitas], gener. frammento: […] δ. medic. nel sintagma, falla brot,

avere un attacco epilettico; […]. brot-fall, n. [Ormul. broþþ-fall], un attacco epilettico; lo spelling nell’Or-mulum mostra l’etimologia corretta, cfr. bróð-fall o bráð-fall, caduta improvvisa […]. brot-feldr, agg. epilettico […]» (Cleasby, Vigfusson 1874: 81).

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2. Divinizzazione

Nella Grecia antica e a Roma il nome più comune dell’epilessia sembra essere stato quello di ‘morbo sacro’ (lat. morbus sacer, gr. ἱερή νόσος) oppure ‘malattia divina’ (lat. morbus

divinus, gr. τό θεῖον). Sono state proposte diverse congetture nel corso dei secoli per

spie-gare perché l’epilessia venisse chiamata in tal modo; Areteo di Cappadocia provò a dare diverse motivazioni: perché la parola ἱερή poteva significare anche “grande”; perché la malattia non poteva essere influenzata dall’aiuto umano; perché un demone aveva preso possesso del paziente, che poteva essere assistito solo dall’arte magica. Celio Aureliano aggiunse un possibile motivo: perché la convulsione ‘sporcava l’anima sacra’ e perché il suo fulcro sarebbe stato situato nella testa, la quale secondo molti filosofi era la sede dell’anima (Kanner 1930: 115-116). Una spiegazione più semplice potrebbe essere che questa patologia era chiamata ‘sacra’, perché sarebbe stata mandata da una divinità o per-ché un demone si era impossessato del corpo del malato.

Pare che la gente comune considerasse l’epilessia un disturbo che avrebbe elevato il paziente alla stregua di un dio; per questo motivo prese piede anche il termine morbus

deificus. Aristotele sosteneva che Ercole soffrisse di attacchi epilettici e che per questo

essa venisse chiamata anche morbus Herculeus o morbus Heracleus (gr. Ηράκλεια

νόσος); Galeno e Alessandro di Tralles credevano invece che l’eroe non fosse epilettico,

bensì che il disturbo prendesse il nome dalla sua forza, mentre altri derivavano il nome dal fatto che la malattia era invincibile come lui (Temkin 1971: 20).

3. Demonizzazione

Se da un lato l’epilessia veniva in un certo senso divinizzata, dall’altro vi era anche chi riteneva che fosse una malattia spaventosa e la designava con termini che esprimevano disprezzo e avversione. La passività del paziente, la sua impotenza, l’incurabilità, i risul-tati traumatici della caduta e l’incontinenza frequente di urina e feci avrebbero evocato un senso di compassione, ma allo stesso tempo vi sarebbe stato il timore di venirne con-tagiati (Kanner 1930: 119). Questo secondo gruppo di nomi per l’epilessia trova espres-sione in termini come m.ingl. the gryevouse syckenes, ted. die schwere Not e das böse

Wesen, yid. schlechte krenk, it. brutto male, ucr. čornaja slabost “malattia nera”, sb.-cr. strašná bolesť “malattia orribile”, sv. hjärtspräng “scoppio cardiaco”, dan. slemmesyge

“malattia cattiva”. Anche in Grimm (1835) si trovano dei termini simili, ovvero Jammer,

Elend, böses Wesen, Staupe, Unkraut.15

15Gli abitanti tedeschi della Boemia settentrionale la chiamano soltanto das Ungelücke, la sventura per

eccellenza. In ambito latino si trovano ancora i termini morbus foedus e morbus detestabilis, quest’ultimo utilizzato da Lucio Apuleio, che fu il primo a descrivere il manifestarsi degli attacchi epilettici negli animali (Kanner 1930: 119).

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Che l’epilessia fosse presente nella vita di tutti i giorni si evince grazie al diritto ro-mano: essa avebbe infatti escluso il malato dalle imposte e di conseguenza avrebbe as-sunto il nome di morbus sonticus; il significato originario dell’aggettivo era “pericoloso, nocivo” e nel linguaggio giuridico includeva tutti quei disturbi che impedivano all’indi-viduo di compiere i propri doveri. Il disturbo prese anche il nome di morbus comitialis, poiché una legge stabiliva che si dovessero interrompere i comitia, ovvero le assemblee popolari romane, nel caso in cui uno dei presenti avesse avuto un attacco, in quanto segno di malcontento degli dèi (Kanner 1930: 119-120).

Come è facile immaginare, una malattia talmente temuta e disprezzata era anche sog-getta a tabù linguistici; agli esempi già riportati si aggiungono ted. ‘s Wesen, impiegato in Franconia Orientale, e port. enfermidade. Un appellativo molto particolare è invece

morbus unicatus: l’epilessia appariva come una malattia senza pari; ciò che è interessante

è che l’aggettivo sembra essere stato creato ad hoc, in quanto non si trova in fonti latine precedenti o nei dizionari latini comuni (Kanner 1930: 121).

4. L’epilessia e gli astri

Il presente gruppo collega l’epilessia alle influenze astrali. A questo proposito è fonda-mentale sottolineare la connessione fra questa patologia e le divinità lunari, in particolare nelle culture greca e babilonese, ma vi sono riferimenti anche in area indiana antica. Esi-stono molti appellativi che si rifanno a questa credenza, p. es. morbus lunaticus, morbus

astralis, morbus sideratus, morbus interlunis e morbus seleniacus (Kanner 1930: 124).16

Per quanto riguarda l’area nordica, a giudizio di Kanner (1930: 124), l’Agg lunaticus sarebbe stato tradotto con aisl. tunglœrr (tungl “luna”, œrr “pazzo”); il termine ted.

mondsüchtig, invece, si riferisce raramente all’epilessia. Aisl. tungl < germ. *tunglą, di

cui non è nota l’etimologia ie.; Pokorny (1959) ha ricostruito una rad. ie. *DENGH- “splen-dere” partendo solo dalla parola germanica e da lit. diñga “apparire, sembrare”. Un’altra ipotesi è stata avanzata da Grimm (1835), secondo cui il termine deriverebbe dal germ.

*tungǭ “lingua”, spiegando che la luna, quando è parzialmente illuminata, ha l’aspetto di

una lingua o di una falce, ma ammette di non conoscere paralleli in altri idiomi. Il signi-ficato di “luna”, già presente nella prosa islandese antica, è secondario, come si può os-servare dal composto aisl. himin-tungl “stella” (ags. heofontungol, aat. himil-zunga, as.

16 «Areteo di Cappadocia racconta che, al suo tempo (I secolo), la gente credeva che coloro che fossero

soggetti ad attacchi [epilettici] avessero peccato contro Febe, la dea della luna, e che lunatico fosse quindi un sinonimo per epilettico. Il cuore di scimmia era un rimedio stimato nel caso dell’epilessia, perché questo animale era sacro alla dea della luna Selene e fra gli Egizi a Toth, che, in origine un dio della luna, in seguito divenne anche patrono di saggezza, istruzione e magia, e l’inventore di numeri e lettere. Gli Antichi crede-vano anche spesso che il paziente avesse ricevuto un soffio da una stella o che fosse stato colpito dall’in-fluenza di un corpo celeste. Spratling crede che la frequenza dell’aura visive, quando il paziente vede lampi di luce, stell o altri corpi luminosi, possa aver contribuito a conferire il nome di morbus astralis» (Kanner 1930: 124).

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himil-tunga).17Ted. mondsüchtig è un aggettivo composto da Mond “luna” e süchtig “ma-niaco, dipendente”: ted. Mond “luna” < germ. *mēnōn, *mēnan, *mænon, *mænan “id.” < ie. *MĒNŌT “mese, luna” < ie. *MĒ- “misurare” (cfr. lat. mēnsis “mese”, gr. μήν “id.” e scr. māsa “luna”), mentre il secondo termine è la forma aggettivale di Sucht.

5. Tratti fisici e comportamentali

Un ultimo gruppo di appellativi, più variegato, mette in evidenza le caratteristiche fisiche e comportamentali degli epilettici. È così che si trovano termini come morbus scelestus e

perditio, che risaltano il carattere violento di alcuni pazienti; morbus viridellus e morbus vitriolatus si riferiscono al mutamento del colore della carnagione durante l’attacco

epi-lettico; morbus mensalis e morbus convivialis alludono alla frequenza con cui le convul-sioni si manifestavano durante pasti sfarzosi.

6. Casi particolari

Si citano qui due termini la cui origine oggi risulta ancora incerta: i medici arabi parlavano di mater puerorum, mentre gli Spagnoli di mal de corazón; in francese esiste mal de terre, spiegabile probabilmente con il fatto che l’epilettico cade a terra durante gli attacchi.

Mater puerorum è un termine utilizzato nei trattati pediatrici arabi per indicare sia

l’epilessia che il pavor nocturnus:

«Mater puerorum, la madre dei bambini, è una traduzione del gr. hysteria, riferito all’utero o matrice, presumibilmente la sede di questa malattia. In tutta la letteratura inglese si legge de ‘la madre’, che infine fu soppiantata dai ‘vapori’. Ippocrate l’ha chiamata pathos paidon, la malattia infantile, un termine usato a lungo per l’epilessia nei bambini» (Radbill 1971: 371).

Kottek (1981:75) ha dimostrato che la traduzione latina del termine deriverebbe dal ter-mine corrispondente ar. umm as-sibyan; Rhazes descrisse la malattia inizialmente sotto forma di convulsioni accompagnate da una febbre acuta e urina bianca e i bambini ne avrebbero sofferto maggiormente per via dell’umidità dei loro nervi. Questa descrizione viene collocata nel capitolo riguardante l’epilessia. Altri autori arabi del IX e X secolo chiamavano la patologia ‘malattia dei bambini’ (‘illat /marad as-sibyan); nel XII secolo, invece, mater puerorum era usato come sinonimo di epilessia. Sembra essere stata cre-denza comune fra gli Arabi che le malattie fossero portate dai demoni e ciò sarebbe stato applicato anche a intere categorie di persone, come indovini o i poeti; un sinonimo di epilessia era infatti ‘malattia degli indovini’ (marad al-kahini). Dietro a mater puerorum

17 «TUNGL, n. [got. tuggl in una glossa, Gal. IV 9; as. tungol; el. tungal; aat. zungal; sv. tungel; cfr. tingl]

:-- prop. luminare (= lat. sidus), il cui senso rimane nel composto himin-tungl; […] II. Luna (= sved. tungel); […] B. Composti: […] tungl-sjúkr, m. malattia lunare, […] tungl-sýki, f. epilessia, […] tungl-ærr, agg. lunatico […]» (Cleasby, Vigfusson 1874: 644). «ærr, i.e. œrr, agg. [órarj, pazzo, furioso]» (Cleasby, Vig-fusson 1874: 759).

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si sarebbe nascosta quindi un’entità femminile relativa alla nascita, Lamashtun, originaria del pantheon sumero; in territorio arabo era conosciuta come umm as-sibyan “madre dei bambini”, rih as-sibyan “vento dei bambini” qarina “compagna”, tabi’a “seguace”, etc. Questa figura demoniaca, oltre ad occuparsi della nascita dei bambini, avrebbe potuto provocare in essi anche attacchi epilettici (Kahle 1982: 321).

Per quanto riguarda mal de corazón, non sono ancora state formulate ipotesi soddisfa-centi. Gade (1999: 229) riferisce brevemente che gli Spagnoli potrebbero aver acquisito l’espressione dal Nuovo Mondo, nello specifico dalla regione delle Ande.

Anche Temkin (1971: 99-100) contribuisce a completare la lista di appellativi dell’epi-lessia: così si hanno ted. schweres Gebrechen, rut. nuzda “afflizione” e male passion nel

Roman de Renart; alla lista dei tabù si aggiunge fr. le beau mal, in cui viene usato un

aggettivo positivo per scongiurare il manifestarsi della malattia ed esorcizzarne gli in-flussi negativi. Gebrechen sarebbe stato impiegato a partire dal XIII secolo come sostan-tivazione di gebrechen, che soppiantò mat. gebreche “carenza, malattia”; agli albori del nuovo alto tedesco si impose come unico significato quello di “malattia”.

Dall’Acc lat. vertiginem sarebbero derivate le forme a.fr. Avertin ed Esvertin, che fu-rono introdotte nel vocabolario patologico; un esempio si trova nel romanzo Aucassin et

Nicolette:

«L’aute jour vis un pelerin Natif de Limousin, Couché dedans son lit

Du mal de l’Esvertin (Du Cange 1883-1887: 99).

L’altro giorno vidi un pellegrino Nativo di Limousin,

Sdraiato nel suo letto Del mal de l’Esvertin».

Mlat. gutta cadiva o gutta caduca “epilessia” è un termine con un trascorso alquanto interessante, che Temkin (1971: 99-100) non manca di riportare:

«Gutta, in latino, originariamente indicava una goccia. Poi, nell’alto Medioevo il suo signi-ficato fu esteso a quello di piccolo fiume e come termine medico designava un flusso di catarro. Allora era usato come designazione per ogni sorta di malattia, inclusa la gotta in senso moderno. Al fine di distinguere fra queste malattie diverse, a volte venivano aggiunti degli aggettivi qualificativi e una di queste forme era gutta cadiva o gutta caduca, che signi-ficava epilessia. […] La stessa espressione fu introdotta nel vernacolo inglese, dove apparve come falling gout».

L’ultimo appellativo degno di nota citato da Temkin (1971: 100) è un termine genuina-mente germanico: si tratta dell’equivalente di ‘gotta’, ovvero (Ver)Gicht; in origine que-sto termine sarebbe stato connesso a tremore e paralisi, ma successivamente sarebbe pas-sato a connotare diverse patologie, incluse epilessia e convulsioni di ogni genere. L’ap-pellativo è collegato a un’altra espressione tedesca nota sotto varie forme: Frais, Fraisch, etc., che includeva attacchi epilettici nei bambini, pertosse e malattie della pelle.18

18 «Gli antichi Germani credevano che un demone maligno notturno provocasse paura (Eiss) nei bambini e

che l’attacco in forma epilettica fosse una conseguenza di questa paura (Vereissen = Fraisen). Un qualche spirito maligno o un demone oscuro deve essere anche stato incolpato dai Ruteni, quando questi chiama-vano l’epilessia la “malattia nera” (cornaja boljiźń o čornaja slabost)» (Temkin (1971: 100).

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7. I santi e l’epilessia

In epoca cristiana anche i nomi di certi santi potevano essere utilizzati per creare nuovi appellativi dell’epilessia; i due più rilevanti sono san Valentino e san Giovanni. Il termine

St. Valentins (o St. Veltins)-Sucht sembra essersi originato in Germania e pare dovuto a

un caso di analogia fonetica: Lutero sosteneva infatti che ted. fallen suonasse identico al nome del santo; si noti l’assonanza fra Valentin e l’espressione fall-net-hin! “non cadere!” (Höfler 1899: 764). Esistevano due san Valentino in Germania, entrambi martiri romani giustiziati nel 269 d.C.: uno sarebbe stato un prete e medico imprigionato durante le per-secuzioni ad opera di Claudio ‘Gotico’ e successivamente picchiato con delle mazze e decapitato, mentre l’altro sarebbe stato vescovo di Terni, ed entrambi sarebbero stati sep-pelliti sulla via Flaminia; è quindi molto probabile che si trattasse in realtà della stessa persona. Un altro Valentino, questa volta di Passau, è stato associato ai due martiri romani come protettore degli epilettici (Murphy 1959: 305).

Per quanto riguarda san Giovanni, in Francia è diffuso il termine mal de Saint-Jean; non è chiaro se si tratti del Battista o dell’Evangelista, tuttavia le leggende sul secondo narrano delle guarigioni di zoppi e paralitici, quindi forse si pensava che avesse un potere simile sull’epilessia. Sono state formulate diverse teorie sul perché venga usato il nome di questo santo per indicare il disturbo: alcuni sostengono che si debba risalire alla storia secondo la quale la testa di san Giovanni Battista cadde al suolo quando venne decapitato, mentre a giudizio di altri sarebbe stato il patrono originario della danza maniacale, per cui migliaia di uomini e donne ballavano fino a crollare a terra stremati; questo ruolo fu assunto successivamente da san Vito. Nelle Fiandre esiste la convinzione che Dio punì san Giovanni con l’epilessia, perché quest’ultimo avrebbe chiesto impudentemente che gli fosse mostrato il tuono (Kanner 1930: 121).19

Nel Sud Italia (specialmente in Puglia, Abruzzo e Campania) il disturbo è noto come ‘male di san Donato’; il motivo di questa denominazione potrebbe essere il fatto che il santo venne decapitato, quindi divenne patrono di svariate patologie relative alla testa. A Montesano Salentino, dove il 6 e il 7 agosto si festeggia san Donato, numerosi epilettici accorrerebbero alla chiesa del paese per ricevere la grazia; secondo Puce (1988: 44), all’ingresso verrebbero colti da violente crisi convulsive, interpretate come un martirio imposto dal santo in occasione della sua commemorazione:

«Le crisi ricalcano, generalmente, con limiti individuali di aderenza, l’eccesso convulsivo dello stato di grande male cercando di soddisfare in questo modo ciò che la tradizione intende per Male di San Donato. Alla prima repentina caduta al suolo segue un momento di immobi-lità durante il quale il malato, occhi chiusi, assume la posizione supina con le braccia allargate perpendicolari al corpo. A questo stato, che dura in genere pochi minuti, fa seguito quello più

19 Fra i numerosi rimedi e incantesimi antiepilettici ve ne sono alcuni che si riferiscono direttamente o

indirettamente al santo: balzare sopra il fuoco di san Giovanni; farina di grano mista a rugiada raccolta la mattina del giorno di celebrazione del santo e messa in una torta; erba di san Giovanni assunta internamente o in forma di amuleti (Kanner 1930: 121).

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