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Il parlato racconta: il variare dell'uso dei sostantivi nel parlato dei bambini in base all'interlocutore e a livello regionale

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(1)

LAVORO DI DIPLOMA DI

PAOLA LUTZ

BACHELOR OF ARTS IN PRIMARY EDUCATION

ANNO ACCADEMICO 2010/2011

IL PARLATO RACCONTA

IL VARIARE DELL

'

USO DEI SOSTANTIVI NEL PARLATO DEI BAMBINI IN BASE

ALL

'

INTERLOCUTORE E A LIVELLO REGIONALE

RELATORE

(2)
(3)

Sommario

Introduzione ... 1

1. Quadro teorico di riferimento ... 3

2. Interrogativi di ricerca ... 11

3. Ipotesi di risposta agli interrogativi di ricerca ... 13

4. Metodologia e campione di riferimento ... 15

5. Analisi e interpretazione dei risultati ottenuti ... 19

5.1. Gli interventi a Olivone ... 19

5.2. L'analisi dei protocolli delle tre sedi incentrata sui sostantivi ... 23

5.2.1. Il numero di sostantivi utilizzati ... 23

5.2.2. L'alterazione ... 26

5.2.3. I sostantivi "tutto fare" ... 27

5.2.4. L'uso marcato o sbagliato dei sostantivi ... 27

6. Risposte agli interrogativi di ricerca ... 29

7. Conclusioni e sviluppi ... 31

8. Bibliografia ... 33

(4)
(5)

Introduzione

Come si insegnano parole a scuola? Vi sono ancora oggi poche ricerche scientifiche che si

pongono il problema.

In una recente ricerca, Corno & Janner (2009) hanno evidenziato l'importanza di pensare a

precise ricerche didattiche sull'oralità a scuola che studino come insegnare ai bambini a migliorare e

ad affinare la propria competenza lessicale. L'oralità infatti costituisce la porta di ingresso

principale per l'avviamento alla scrittura e alla testualità. In particolare, in questa ricerca, essi hanno

cercato la conferma dell'esistenza di un preciso registro linguistico, a cui hanno assegnato la

denominazione di "parlato puerile in situazione didattica". La loro convinzione è infatti che, "se

questo "registro linguistico specifico" degli alunni di scuola elementare esiste, esso potrebbe avere

qualche importanza per precisare meglio la programmazione didattica dell'"oralità". Conoscerlo ci

permetterebbe infatti di creare situazioni apprenditive e didattiche mirate a migliorare la

competenza "orale" nei bambini" (p. 24). Grazie a questa ricerca si è dimostrato che esiste una

varietà specifica dell'italiano che potremmo chiamare "parlato puerile", e che il linguaggio infantile

difetta principalmente di definizione lessicale, cioè dell'uso di parole specifiche per designare cose,

eventi e sensazioni del mondo: sembrerebbe emergere che i bambini usino pochi e ricorrenti

aggettivi e facciano invece un impiego abbondante di parole "tuttofare".

Nel lavoro che presenterò ho scelto di inserirmi nel "canale" del libro di Corno & Janner e di

studiare il parlato dei bambini in situazione didattica con la prospettiva di disegnare interventi

didattici mirati a una migliore acquisizione del parlato meno spontaneo. Per farlo ho scelto di

collaborare con due miei compagni di classe: Andreia De Morais Vieira e Jean-Elie Roellin. La

ricerca che presenterò è infatti un lavoro in équipe di tre persone che hanno svolto le stesse attività,

ma analizzato tre aspetti diversi del parlato dei bambini (sostantivi, aggettivi e verbi).

Ho distribuito le pagine seguenti in sette capitoli. Il primo presenta il quadro teorico di

riferimento relativo al parlato dei bambini e i due seguenti gli interrogativi e le ipotesi da esso

scaturiti e alla base della nostra ricerca. Il quarto espone invece la metodologia di ricerca adoperata

per ottenere i risultati esposti e analizzati nel capitolo seguente. Infine l'ottavo presenta una sintesi

dei risultati ottenuti e il nono le conclusioni e i possibili sviluppi di questo lavoro.

(6)
(7)

1. Quadro teorico di riferimento

"La maggior parte di quel che impariamo, l'impariamo attraverso il linguaggio. Ciò è vero

persino per il nostro sapere ordinario, per tutto ciò che impariamo prima e al di fuori della nostra

educazione scolastica; ma è specialmente vero per il sapere educativo" (Halliday, 1992, p. 173).

In questo senso la linguistica contemporanea attribuisce al parlato una "priorità" rispetto allo

scritto: gode di una priorità biologica e viene usato con maggior frequenza (Bertocchi, Brasca,

Citterio, Corno, Ravizza, 2000).

Halliday afferma però che in una cultura alfabeta tendiamo a non prendere seriamente in

considerazione la lingua parlata perché la scrittura non solo ha assunto la maggior parte delle

funzioni del linguaggio di più alto prestigio nella nostra società, ma anche perché i nostri testi più

pregati sono ora tutti scritti. Sostiene inoltre che la linguistica (intesa come grammatica

tradizionale) ha svolto un ruolo significativo nel santificare la lingua scritta: solo dopo che la lingua

viene trascritta diventa oggetto accessibile allo studio sistematico. Dal momento che nella scrittura

conserviamo solo la stesura finale, la grammatica dà un quadro idealizzato di quel che la lingua è e

tende a essere usata in maniera normativa, come un ideale che ciascuno dovrebbe sforzarsi di

raggiungere.

Sempre secondo Halliday, dal momento che la lingua si è sviluppata ed è imparata

dall'individuo come parlato, dobbiamo studiarla in questa forma per poterla capire

appropriatamente. Inoltre impariamo ascoltando e parlando, non meno che scrivendo e leggendo.

L'apprendimento è essenzialmente un processo di costruzione di significati e la componente

cognitiva dell'apprendimento è un processo di costruzione di significati linguistici. Questi sistemi di

significato incorporano due prospettive complementari: quella sinottica (specifica della scrittura) e

quella dinamica (specifica del parlato). Quando impariamo qualcosa, lo interpretiamo

simultaneamente come un universo di cose (prospettiva sinottica) e come un universo di processi

(prospettiva dinamica), come fare e come accadere. Scritto e parlato sono entrambe forme di un

linguaggio ed è lo stesso sistema linguistico che sottostà a entrambe, ma esse sfruttano diverse

caratteristiche del sistema, e acquisiscono il loro potere in modi diversi.

A questo punto del nostro discorso i termini "parlato" e "parlare" richiedono un chiarimento.

Berretta (1986, citato in Bertocchi et al. 2000, p.111) definisce il "parlato" nel modo seguente:

È "parlato" quanto viaggia attraverso il mezzo fonico (o le sue riproduzioni iconiche come ad esempio le registrazioni) indipendentemente dalla compresenza e dalla possibilità di feedback tra parlante e ascoltatore/i.

(8)

memoria non sono "parlato"), mentre non porrei restrizioni sulla varietà di lingua in gioco né sul grado di pianificazione tematica (per es. una favola, un racconto noti nella struttura, ma narrati e non letti o recitati a memoria sono per me "parlato"; lo stesso vale per una conferenza o un discorso pronunciati sulla base di una scaletta, una traccia contenutistica memorizzata o scritta).

Per quanto riguarda il termine "parlare", secondo De Mauro (1998) può essere usato in un senso

più largo, col significato di "usare e sapere usare le parole e le frasi", o nel senso più stretto di "dire

qualcosa ad alta voce". Per quanto riguarda il primo significato, utilizziamo le parole e le frasi in

modi molto diversi: per produrre frasi dicendole o scrivendole, o per ascoltare o leggere e capire le

frasi prodotte da altri. Abbiamo quindi quattro diverse abilità verbali: il parlare (in senso stretto), lo

scrivere, l'ascoltare (e capire) le parole dette da altri e il leggere (e capire) le parole scritte. Si può

chiamare "uso produttivo delle parole e delle frasi" il dire o parlare in senso stretto e lo scrivere;

mentre "uso ricettivo delle parole e delle frasi" quello che facciamo ascoltando o leggendo. Vi è poi

un terzo importante uso delle parole che è quello che una persona fa quando pensa tra sé. Dunque,

accanto agli usi produttivi e ricettivi delle parole c'è un uso interiore, chiamato anche discorso

interiore o endofasia (termine tecnico composto da due elementi di origine greca: endo- "dentro,

interno" e -fasia "parlare).

La parola è dunque considerata elemento fondamentale del linguaggio, ma questo non significa

che sia facile definirla. Saussure sostiene che il linguaggio non consiste di etichette (le parole)

attaccate a significati preesistenti, mentre Chomsky controbatte che si tratta proprio di questo: le

parole sono etichette, diverse da una lingua all'altra, corrispondenti a significati che sono

fondamentalmente gli stessi per tutte le lingue (Lepschy, 2007). "Ed è interessante che l'importanza

delle parole, all'interno della grammatica, sia progressivamente cresciuta con gli sviluppi recenti

delle teorie chomskiane" (Lepschy, 2007, p. 117).

A livello semantico-lessicale vengono distinte due forme delle parole: le forme piene e quelle

vuote.

Le parole piene (dette da Aristotele "categorematiche" o "capaci di realizzare una predicazione") indicano forme che sono indipendenti dal contesto nell'attuare il riferimento (e per questo sono dette "lessicali"); le parole vuote (o "sincategorematiche" o "capaci di realizzare una predicazione solo in collegamento con forme piene") dipendono, invece, dal contesto, senza il quale il riferimento è vago e solo grammaticale (Corno & Janner, 2009, p. 70).

Nella loro ricerca, Corno & Janner (2009) hanno considerato piene principalmente le categorie

morfologiche del nome, del verbo, dell'aggettivo e in parte degli avverbi (categorie che solitamente

rientrano nel lessico); vuote le categorie dell'articolo, del pronome, degli avverbi deittici e delle

congiunzioni (categorie che di solito rientrano nella grammatica).

(9)

Come abbiamo visto l'oralità costituisce il fulcro delle situazioni didattiche di apprendimento,

ma nonostante ciò abbiamo poche ricerche in letteratura linguistica sul parlato "puerile".

Per definire le caratteristiche del parlato iniziamo quindi con quelle esposte da Bertocchi et al.

(2000), riferite però ad un parlato "generale", che dipendono in buona misura dalle caratteristiche

del mezzo fonico-acustico.

La produzione-ricezione sequenziale del parlato è soggetta a limiti di memoria e da ciò dipende

il carattere meno controllato del parlato rispetto allo scritto, meno pianificato in anticipo, in quanto

la pianificazione procede di pari passo con la produzione. L'impossibilità di correggere il testo

prima della sua emissione determina la frammentarietà del discorso orale, che si manifesta con

pause, esitazioni, cambiamenti di programma, autocorrezioni, frasi incompiute, sintassi fratta. Il

testo parlato viene organizzato in modo da essere facilmente reperibile e comprensibile attraverso la

ridondanza fatta di ripetizioni, autoparafrasi, glosse di commento e spiegazione, riprese lessicali

anziché ellittiche e pronominali.

Altre caratteristiche del parlato sono determinate dalla compresenza degli interlocutori, quali

l'uso contemporaneo di mezzi di comunicazione non verbale (gesti, posture,…) e la possibilità di

fare riferimento diretto al contesto comunicativo. Entrambi questi fattori portano alla produzione di

testi poco espliciti in cui una serie di informazioni risultano sottintese ed è frequente l'uso di frasi

ellittiche e di brachiologie.

Il legame con il contesto (indessicalità) determina un uso frequente della deissi, cioè il

riferimento a elementi presenti nella situazione, ai parlanti, alle coordinate spazio-temporali del

momento dell'enunciazione.

Sul piano lessicale è frequente l'uso di termini generici e poco espliciti, la riduzione dei tipi

lessicali e la ripetizione degli stessi termini. Nel parlato assume particolare importanza la funzione

interpersonale e sociale. Il parlante è impegnato in una relazione interpersonale con l'ascoltatore che

va continuamente tenuta sotto controllo, negoziata e chiusa soprattutto attraverso strumenti verbali.

Da qui la presenza di fatismi di vario tipo e la sovrapposizione tra fatismi e segnali di articolazione.

Nella seguente tabella (Bertocchi et al., 2000, p. 112) è presente una sintesi delle caratteristiche

del parlato sovraesposte.

Tab. 1 – Caratteristiche del parlato

SCARSA PIANIFICAZIONE Da cui deriva Frammentarietà

Microprogettazione sintattica Frequenti segnali di articolazione

(10)

Ridondanza INDESSICALITÀ Da cui deriva Ellitticità

Brachiologia Implicitezza Deissi

Basso rapporto tipi/occorrenze nel lessico

Povertà lessicale

Fatismi e strategie di cortesia

Grazie alla ricerca di Corno & Janner (2009) abbiamo anche alcune indicazioni più precise sulle

caratteristiche del parlato dei bambini ticinesi.

I bambini ticinesi parlano meno e più lentamente dei bambini italiani.

Esiste un'intonazione specifica del raccontare parlando.

I bambini mostrano una sintassi con dislocazioni e tipicalizzazioni, governate dal principio di

focalizzazione (mettere a fuoco quanto si vuol dire e "appendervi" le informazioni nuove).

Molti bambini mostrano "inversione di progetto" (pensano mentre parlano e non "prima di

parlare").

I bambini mostrano un parlato con scarsissima definitezza lessicale e questo comporta

un'abbondanza notevole di nomi e di verbi "tuttofare" (iperonimi e generici).

I bambini mostrano una tendenza "analitica" nella gestione del parlato (più parole per dire una

cosa che si potrebbe dire con una parola sola).

Esiste una scarsissima definitezza nei connettivi e uno scarso uso degli aggettivi.

I bambini mostrano grande difficoltà nel gestire la concordanza dei tempi verbali e una chiara

preferenza per il passato remoto.

Il parlato puerile mostra un'elevata persistenza di relativamente poche unità lessicali di base.

Per quanto riguarda le osservazioni relative al lessico, i due ricercatori da un lato hanno

considerato l'ipotesi della ripetibilità lessicale, che dipende almeno da due distinti parametri: la

conoscenza del lessico e la variabilità formale di una lingua. Il primo parametro è determinato

dall'insieme dei lemmi (ogni unità lessicale che raggruppa le diverse forme ad esso riconducibili ) di

una lingua, il secondo varia da lingua a lingua a seconda del modo in cui si possono lemmatizzare

le diverse forme. L'italiano è una lingua che presenta un alto tasso di ripetibilità dei lemmi proprio

per il grande carico morfemico (lo testimonia il fatto che il numero di lemmi nel dizionario italiano

(11)

è inferiore a quello di altre lingue con minore pressione morfologica sulle parole piene, come

l'inglese o il tedesco, che sono lingue tendenzialmente più analitiche). Per un parlante italiano è,

dunque, relativamente più semplice ripetere lo stesso lemma.

Dall'altro lato hanno considerato l'ipotesi della definitezza.

Intendiamo per "definita" ogni unità linguistica (di varia ampiezza) che permetta a un parlante x – in una precisa situazione enunciativa y al momento z – di attuare un riferimento chiaro e specifico a quello che vuole dire in termini di rinvio a entità del mondo o del testo (Corno & Janner, 2009, p. 65).

Quindi il "definito" viene considerato ciò che permette di considerare più chiara e precisa

un'informazione rispetto ad un'altra. Sul piano lessicale si può collegare la definitezza alla

precisione lessicale, mentre sul piano dell'elaborazione cognitiva a quello di semplificazione:

Per "semplificazione linguistica", proponiamo di intendere il processo secondo cui a un elemento, forma o struttura X di una certa lingua o varietà di lingua si sostituisce / contrappone / paragona un corrispondente elemento, forma o struttura Y della stessa lingua o varietà di lingua o di un'altra lingua o varietà di lingua, tale che Y sia di più "immediata processabilità", cioè più facile, più agevole, meno complesso, meno faticoso, meno impegnativo cognitivamente ecc. a qualche livello per l'utente (Voghera, 1990, citato in Corno & Janner, 2009, p. 67).

Corno & Janner, nella loro ricerca, hanno così precisato la "definitezza" lessicale con le seguenti

"massime di elaborazione lessicale":

1.

il significato deittico (situazionale) è più semplice di quello contestuale.

2.

il significato iperonimo è più semplice di quello iponimo.

3.

il significato che costruisco con più parole generiche è più semplice di quello con una parola

sola specifica (ad es., quella cosa lì è più semplice di quella cosa che è più semplice di quella

scala).

Schank (1992) afferma che: "la comprensione del linguaggio è il processo per cui una persona

decodifica una frase, letta o sentita, trasformandola in un insieme di concetti che non solo

esprimono il signicato di ciò che è stato letto, ma costituiscono anche gli elementi basilari sui quali

la mente può funzionare" (p. 109).

Egli infatti ritiene che gli esseri umani in grado di comprendere una lingua hanno appreso regole

per mezzo delle quali possono estrarre significati da frasi che sono poi depositati nella loro memoria

in una forma diversa dalla forma originale. Quale che sia la forma lessicale per esprimere un

pensiero particolare, ci sarà una sola rappresentazione del significato concettuale depositata in

memoria.

(12)

Definisce "contenuto concettuale di una frase" l'evento o gli eventi cui rinviano le espressioni di

una frase. La mente riduce ciò che sente in qualche forma basilare, che è sempre la stessa forma e si

chiama forma canonica.

Il punto chiave a proposito delle forme canoniche non è la natura isomorfica delle forme che hanno gli stessi significati, quanto piuttosto la somiglianza delle forme che hanno significati simili. E questo succede perché, anche se le frasi difficilmente risultano identiche per significato nella loro espressione sul mondo reale, somiglianze di significato ricorrono continuamente. … Così dobbiamo essere in grado di riconoscere non solo quando le cose sono identiche, ma anche quando sono simili. Per far questo, è necessario costruire un insieme basilare di elementi concettuali che si possano combinare in modo da preservare le sfumature della lingua. (Schank, 1992, p. 98).

Per quanto riguarda le differenze riscontrate nel parlato dei bambini ticinesi e di quelli italiani

(in particolare di Novara), dobbiamo rifarci a Berruto (2004) e alla sociolinguistica, che

riconoscono tre dimensioni fondamentali di variazione della lingua: diastratica, diatopica e

diafasica.

La variazione diastratica ha alla sua base l'assunto che i modi di manifestazione e realizzazione

della lingua sono sensibili, e quindi variano, attraverso la stratificazione sociale.

L'assunto di base della variazione diatopica invece è che il comportamento linguistico del

parlante è influenzato dalla sua provenienza o ditribuzione geografica, che determina tutto un

insieme di varianti ad essa strettamente connesse. "La differenziazione geografica è di solito

specialmente evidente nel lessico e nella fonetica: è a questi liveli che si situano in primo luogo le

variabili sociolinguisitche sensibili a questa dimensione" (pp. 78-79).

La variazione diafasica ha invece alla base l'assunto che la lingua varia attraverso situazioni

comunicative, contrassegnate da caratteri e fattori che portano, nello stesso parlante, a realizzazioni

linguistiche anche molto diverse "che riflettono il modo in cui i fattori esterni influiscono sulla

caratterizzazione della situazione comunicativa e allo stesso tempo la modalità con la quale il

parlante interpreta e codifica col suo stesso comportamento linguistico una determinata situazione."

(p. 84).

All'interno di questa dimensione, possiamo distinguere la variazione di registro (o stilistica),

connessa con il carattere sociale della situazione, e la variazione di sottocodice (o settoriale),

connessa con il tipo di rapporto esistente, o che si istituisce, fra parlante e interlocutore e con la

sfera contenutistica e l'argomento del discorso.

Sempre in questa dimensione si situa poi un'altra

sottodimensione di variazione, legata al mezzo o canale "fisico" attraverso cui passa la

comunicazione verbale (differenziazione fra uso parlato e uso scritto della lingua): la "variazione

diamesica".

(13)

Queste tre dimensioni di variazione della lingua sono tutte sincroniche: ogni lingua in un certo

momento temporale e periodo storico conosce fatti di variazione diastratica, diatopica, diafasica (e

diamesica, ammesso che la lingua abbia una forma e un uso scritti). Le lingue variano infatti

attraverso il tempo, ed esiste quindi la "variazione diacronica", che viene peraltro a confluire con il

grande fenomeno del cambiamento o mutamento linguistico.

(14)
(15)

2. Interrogativi di ricerca

Domanda 1)

In che modo i bambini riescono ad adattare il proprio parlato in funzione dell'età

dell'interlocutore?

Domanda 2)

Come varia l'uso dei sostantivi in relazione al variare dell'età dell'interlocutore?

Domanda 3)

Quali sono le differenze a livello regionale nell'uso dei sostantivi nelle produzioni orali dei

bambini?

(16)
(17)

3. Ipotesi di risposta agli interrogativi di ricerca

D1)

A proposito della varietà diafasica della lingua, Corno & Janner (2009) affermano:

In realtà il inguaggio dei bambini non è quasi mai spontaneo, almeno nel senso che possiamo dare a questa parola per un adulto. Esso avviene sempre in situazione perché, come è stato dimostrato, ad esempio da Carl Bereiter e Marlene Scardamalia, i bambini parlano avendo in mente l'unico modello possibile della conversazione che è quello della interazione in presenza di interlocutore (e non quello della scrittura "in assenza di interlocutore"). Per i bambini parlare è sempre conversare con qualcuno (p. 17).

La nostra ipotesi è che il bambino, messo di fronte al compito di narrare una fiaba a

interlocutori di età diverse, modifichi il suo parlato. In particolare crediamo che cambi il livello di

definitezza lessicale, in base al principio che il significato iperonimo è più semplice di quello

iponimo, e che quando ci si rivolge a bambini piccoli si tende ad utilizzare un linguaggio

semplificato. Ci aspettiamo quindi di riscontrare nel parlato rivolto a bambini piccoli, un maggior

numero di verbi e sostantivi "tuttofare" rispetto al parlato rivolto ad adulti.

D2)

Per quanto riguarda l'uso dei sostantivi in particolare, crediamo che variando l'età

dell'interlocutore cambi sia il livello di definitezza (con i bambini piccoli saranno usati nomi

"tuttofare", mentre con gli adulti nomi con un maggior livello di definitezza), sia il grado di

presenza del fenomeno di alterazione (con i bambini piccoli saranno usati maggiormente diminutivi

e vezzeggiativi), sia il tipo di registro (maggiormente colloquiale con i bambini piccoli e i coetanei).

D3)

Per quanto riguarda la varietà diatopica della lingua, ipotizziamo che sul territorio ticinese il

parlato dei bambini cambi in base all'uso del dialetto nelle diverse regioni e alla presenza di

bambini provenienti da altre culture. Ipotizziamo che nelle zone di montagna (dove statisticamente

vi è un uso maggiore del dialetto, vedi allegato 1) vi sia una maggiore influenza del dialetto che

determini un uso marcato o sbagliato della lingua. Pensiamo di ritrovare un uso marcato o sbagliato

della lingua pure nelle zone dove il multilinguismo è maggiormente presente.

(18)
(19)

4. Metodologia e campione di riferimento

Come ho già anticipato, in accordo con i formatori e i colleghi coinvolti, è stato scelto di

formare un'équipe di ricerca formata dalla sottoscritta (Paola Lutz), Andreia De Morais Vieira e

Jean-Elie Roellin. In questo modo abbiamo voluto arginare i limiti della ricerca legati al tempo a

disposizione per raccogliere dati e analizzarli. Lavorando sullo stesso tema (il parlato dei bambini in

situazione didattica) abbiamo infatti scelto di impostare i nostri tre lavori nello stesso modo

presentando alle classi (dello stesso grado scolastico) la stessa attività, per poi analizzare

individualmente i dati raccolti, concentrandoci ognuno su un aspetto specifico e differente dai

colleghi (la sottoscritta si occupa dei sostantivi, la collega De Morais degli aggettivi e il collega

Roellin dei verbi). I tre lavori si completano così a vicenda.

Per quanto riguarda la scelta delle classi, sempre nei limiti della ricerca, si è dovuta

circoscrivere al II ciclo, e in questo caso alla V SE. Lavorando sulle differenze nel parlato dei

bambini a livello regionale abbiamo inoltre scelto di lavorare con classi che provenissero da diverse

regioni del Cantone. Io ho quindi scelto di proporre l'attività nella sede di Olivone (alto Ticino),

Andreia alle Semine di Bellinzona (Ticino centrale) e Jean-Elie nella sede di Castel San Pietro

(basso Ticino).

Nelle seguenti tabelle sono presentati il totale di allievi che ha svolto ciascuna attività e la

lingua parlata in famiglia dai bambini delle varie classi.

Tab. 2 – Numero di allievi

Classe di Olivone Classe di Bellinzona Semine Classe di Castel San Pietro

Attività 1 7 10 6

Attività 2 8 10 6

Attività 3 7 8 10 10 6 6

Tab. 3 – Lingua parlata in famiglia

Totale

bambini Italiano Dialetto Italiano e dialetto Altre lingue

Classe di Olivone 15 4 8 2 1

% 100 27 53 13 7

Classe di Bellinzona Semine 20 7 0 0 15

% 100 32 0 0 68

Classe di Castel San Pietro 12 10 0 1 1

(20)

Per osservare eventuali differenze nel parlato dei bambini in funzione dell'età dell'interlocutore,

abbiamo scelto di mettere i bambini nella posizione di dover raccontare una storia a coetanei, a

bambini di I SE e ad adulti.

Abbiamo scelto di lavorare sulla narrazione per restare nel "canale" del libro di Corno & Janner,

e in particolare abbiamo scelto la fiaba: Il principe che sposò una rana di Italo Calvino (vedi

allegato 2). Questa scelta è stata operata in base alla lunghezza della fiaba, alla sua complessità

linguistica e alla possibilità di essere modificata arricchendola nel lessico. La decisione di lavorare

con la fiaba è invece stata fatta in base alla sua particolare struttura. Già nel 1928, il giovane

studioso russo Vladìmir Propp, nella sua Morfologia della fiaba, fa un’osservazione che è comune

un po’ a tutti i lettori: le fiabe di magia sembrano tutte raccontare una stessa storia. Per dimostrare

che è così, studia, analizza e classifica 101 fiabe di magia russe e scopre che è possibile ricondurle

tutte a uno stesso “schema compositivo unitario”, come esistesse una specie di grammatica mentale

(o paradigma) delle fiabe di magia che i narratori seguono inconsapevolmente (perché hanno udito

le fiabe quando erano piccini)

1

. Margherita Orsolini (1988), afferma che la particolare e ricorrente

struttura narrativa delle fiabe è molto familiare sia agli adulti sia ai bambini e viene utilizzata per

organizzare l'informazione in arrivo nel corso dell'ascolto o della lettura. Inoltre un'ipotesi è che

questa struttura, attraverso l'esperienza di ascolto, venga ricostruita e incorporata in un modello

mentale che guida il processo di comprensione e permette di:

compiere anticipazioni sul tipo di informazione in arrivo;

facilitare il recupero dell'informazione in memoria.

Il meccanismo di comprensione evidenziato viene definito dalla Orsolini: "conoscenza del

genere di discorso". Si tratta di una conoscenza "implicita": i testi sono strutturati secondo qualche

tipo si regola che è ricostruita dai lettori ascoltatori e utilizzata per produrre e comprendere discorsi

del tipo "storia". La presenza di schemi fissi che si ripetono nella fiaba può essere spiegata dal ruolo

della memoria e dell'oralità: la trasmissione della fiaba (intesa come creazione poetica popolare)

avviene per via orale e un ruolo fondamentale è dunque svolto dalla memoria di chi narra e

tramanda racconti di cui è stato, a sua volta, ascoltatore

2

.

1

Informazioni tratte dalle dispense di Corno, D. (AA 2008-2009). MET Linguaggio Comunicazione Narrazione. ASP Locarno.

2

(21)

Gli interventi nella classe sono suddivisi in tre momenti distinti.

In un primo intervento a metà classe viene presentato un video (vedi allegato 3) in cui una

persona racconta la fiaba di Calvino (è stato scelto di presentare la narrazione con un video in

maniera che in tutte le sedi lo stimolo iniziale fosse lo stesso). Una volta verificata la

comprensione della storia, ai bambini viene consegnata la trascrizione del racconto (ai bambini

viene quindi presentato un adattamento della fiaba di Calvino sulla base della narrazione del

video, vedi allegato 4) e assegnato il compito di preparasi a raccontare individualmente la storia

a un loro compagno dell'altra metà classe. Durante il momento del racconto, ogni bambino ha a

disposizione unicamente degli oggetti inerenti la storia (fionda, focaccia, rocchetto di filo, rana

di pezza, canapa, cane di pezza, guscio di lumaca), in modo da facilitare il recupero delle

informazioni in memoria.

Nel secondo intervento l'altra metà classe svolge la stessa attività presentata sopra, ma con la

consegna di prepararsi a raccontare individualmente la storia a un bambino di I SE.

Nel terzo intervento tutti i bambini della classe raccontano individualmente la storia a un adulto

(metà classe ad Andreia e metà classe a Jean-Elie).

Durante i racconti da parte dei bambini il loro parlato è stato audio registrato e in seguito

trascritto in protocolli (per le convenzioni di trascrizione utilizzate vedi allegato 5) e analizzato.

L'analisi è stata svolta sia quantitativamente, presentando dati numerici relativi al numero di

sostantivi utilizzati, sia qualitativamente, confrontando i vari parlati dei bambini.

(22)
(23)

5. Analisi e interpretazione dei risultati ottenuti

5.1. Gli interventi a Olivone

Gli interventi nella classe di Olivone si sono svolti nell'arco di due settimane, in tre giornate

separate. Ai bambini sono stati dichiarati fin da subito gli obiettivi del nostro lavoro: osservare

come avrebbero narrato una storia a bambini della stessa età, a bambini di I SE e ad adulti, miei

colleghi al DFA. Quest'ultimo punto sembrerebbe aver suscitato un po' di timore nei bambini, che

infatti hanno subito cercato rassicurazioni sull'età dei miei compagni ("sono grandi come te?").

Durante il primo intervento, dopo la visione del video, si è proceduto con la spiegazione del

lessico che non era compreso dai bambini, secondo l'analisi del compito della fiaba (vedi allegato

2). In seguito è stato esplicitato agli alunni che avrebbero dovuto raccontare la storia ai loro

compagni di classe, senza poter leggere il testo, ma avendo a diposizione degli oggetti. È quindi

stato chiesto loro quali modalità di apprendimento della fiaba avrebbero potuto mettere in atto. Le

proposte sono state: l'apprendimento mnemonico (scartato dalla maggior parte degli alunni a causa

della lunghezza del racconto), la lettura del testo e la narrazione a un compagno per allenarsi a

raccontare la storia con parole proprie (con intervento sul testo per sostituire le parole difficili) e

l'uso degli oggetti per ricordarsi i punti fondamentali della storia. Inoltre, in relazione agli oggetti, è

stato pure proposto di utilizzarli come marionette durante la narrazione. Durante il secondo

intervento si è invece esplicitato ai bambini che avrebbero dovuto raccontare la storia ai bambini di

I elementare. Gli alunni hanno proposto le stesse modalità di apprendimento esposte sopra, con

l'unica aggiunta di cercare di modificare il tono di voce per i vari personaggi. Per quanto riguarda il

terzo intervento invece, si è esplicitato a tutta la classe che il venerdì seguente avrebbero dovuto

raccontare la fiaba ai miei colleghi, e si è quindi suggerito loro di ripassare la storia.

Osservando i bambini durante il momento di apprendimento della fiaba, è risultato che molti di

loro non hanno proceduto con una rilettura del testo, ma sono passati direttamente alla narrazione a

un compagno. Pochi invece si sono isolati e hanno studiato il testo in maniera indipendente.

Solamente tre bambini sono intervenuti sul testo (vedi allegato 6). Per quanto riguarda invece il

ripasso prima del terzo intervento, un bambino ha detto di non essere riuscito a svolgerlo, otto

bambini l'hanno riletta da soli e sei l'hanno riletta da soli e poi l'hanno narrata a un compagno o a un

famigliare. Quattro bambini hanno aggiunto di aver cercato di imparare delle parti a memoria e una

bambina di aver cercato di riassumere il testo.

(24)

Durante il momento di narrazione al compagno di classe o al bambino più piccolo, ho osservato

che, sebbene tutti abbiano scelto di posizionarsi di fronte a esso, alcuni di loro non hanno mai

posizionato lo sguardo sul viso del loro interlocutore (guardavano il muro o il banco con gli

oggetti).

Nel primo intervento, solamente due bambine toccano gli oggetti: una per farsi aiutare dalla

compagna a trovare il giusto termine da utilizzare per nominare la fionda e la fornaia; l'altra tocca

gli oggetti mentre li nomina durante la narrazione. Gli altri bambini si limitano a guardare gli

oggetti, e in un caso è parso che sia avvenuto per ricordarsi il proseguimento della storia. Nel

secondo intervento, sei bambini toccano gli oggetti: tre quando li nominano durante la narrazione,

uno per farsi aiutare dall'interocutore a trovare il giusto termine per nominare la fionda e due per

mimare il gesto del lancio del sasso con la fionda. Nel terzo intervento nessun bambino tocca gli

oggetti: tutti si limitano a guardarli. Sembrerebbe quindi che l'uso degli oggetti sia proporzionale

all'età dell'interlocutore: più l'interlocutore è piccolo, maggiormente i bambini scelgono di

accompagnare la loro narrazione con questi sussidi.

Per quanto riguarda il parlato, solamente due bambini hanno utilizzato toni diversi per

riprodurre le voci dei vari personaggi, e solamente durante il secondo intervento.

Confrontando i vari protocolli (vedi allegato 7), è emerso che solamente quattro bambini hanno

scelto di esplicitare il titolo della fiaba (tre nel terzo intervento e uno nel secondo). Interessante

notare che nella sede di Bellinzona sono invece 25 i bambini che scelgono di esplicitarlo, tra cui 20

scelgono pure di nominare l'autore. Sarebbe interessante indagare sui metodi di insegnamento della

docente di Bellinzona per osservare se questi dati sono dovuti a un frequente lavoro di

memorizzazione, magari di poesie.

Per quanto riguarda le narrazioni, solo tre bambini hanno riscontrato dei problemi (sia nella loro

prima narrazione, per tutti e tre a un coetaneo, che nella seconda, all'adulto). In un primo caso un

bambino si è spesso interrotto, affermando di non ricordarsi più la storia. Nel primo intervento

(O5104N) è riuscito comunque a evocare tutte le sequenze narrative principali, mentre nel terzo

(O5304N) non ha spiegato che la prova della filatura della canapa è stata vinta dal terzo figlio. Nel

secondo caso una bambina si è pure spesso interrotta e in entrambe le narrazioni (O5106N;

O5306N) ha modificato il racconto (dicendo che la prova della filatura della canapa è stata vinta dal

terzo figlio e non considerando l'episodio dei cani come una prova) e non è riuscita a terminarlo.

Inoltre ha narrato diversi episodi senza relazionarli l'uno con l'altro e dando origine a una

produzione poco coesa e coerente. Nell'ultimo caso una bambina (O5101N; O5301N) non ha

evocato la prova dell'allevamento dei cani e l'episodio della carrozza di foglia di fico trainata da

(25)

lumache. I primi due casi sono originati probabilmente da problemi nella memorizzazione (infatti è

frequente che i due bambini dicano "non mi ricordo più"), mentre il terzo caso da problemi di

lingua, essendo la bambina di origini croate e giunta da poco in Ticino. In questo caso si osservano

infatti alcuni problemi sia nel lessico che nella sintassi. Gli altri bambini hanno inserito tutti gli

elementi principali del testo di base, e in alcuni casi vi sono state delle aggiunte. La più frequente è

l'espressione "e vissero felici e contenti", presente in 11 narrazioni.

Confrontando i protocolli dei tre interventi, abbiamo osservato che la spiegazione di alcuni

termini risulta più frequente quando l'interlocutore è un bambino di I SE. Abbiamo infatti

riscontrato questo fenomeno solamente una volta quando l'interlocutore era un coetaneo o un

adulto, mentre per ben sei volte quando l'interlocutore era un bambino più piccolo. In tre di questi

casi, inoltre, i bambini si sono preoccupati di verificare la comprensione del racconto con domande

del tipo: "sai cos'è?", "hai capito tutto?".

O5105N:

il sasso e è arrivato davanti a una porta di una: (-) di una cucitrice (-) che è quella

che cuce (--) poi (--) il più piccolo (-) ha tirato (-) il sasso (-) è arrivato davanti a un

fosso (-) che è uno stagno … ha trovato una: una ragazza bella (-) con il vestito

di: verde smeraldo (-) che è una pietra preziosa

O5208N:

il sasso cade su un tetto di un forno ) dove c'è una fornaia -) sai cos'è? ) dopo

(-) il secondo tira (-(-) il sasso cade sul: tetto di una: tessitrice (--(-)

sai:? … trova: una:

ragazza (-) una donna (-) molto: smorta (-) nel senso (-) bianca in faccia … le tre

mogli devono (-) filarlo (--) cioè: tesserlo

O5209N:

quello più grande tirò il sasso e: cadde sul tetto di una fornaia (-) una che fa il

pane (--) il secondo figlio (-) tirò il sasso (-) e cadde sul

tetto di una tessitrice (-) che

tesse

O5210N:

lui prende: la panettiera (-) no? la fornaia (-) come sposa … dopo il re dice (-)

allora (-) prendete questo filo di canapa no? (-) che è un erba … il re la apre (-) e

salta fuori un barboncino (-) che sono quei cani bianchi … con un vestito verde

smeraldo (-) che è una pietra preziosa … la t'è piasüda? … hai capito tutto? …

ci sono parole che non hai capito bene?

O5213N:

arrivò (-) sul tetto di una tessitrice (-) che sarebbe una che fa: i vestiti i tappeti e

(26)

che sarebbe uno stagno … la rana era su una foglia di fico (-) che è grande (-)

trainata (-) vuol dire tirata o fatta tirare da: quattro lumache

O5214N:

il più piccolo andò in un fosso (-) cioè uno stagno (--) allora il: più grande si prese

la fornaia (-) la panettiera … quello della panettiera (-) era bello (-) il filato (-) la

tessitura … fino che invase tutto il salotto (-) cioè adesso il salotto è pieno di filo

tessuto … dentro la carrozza d'oro è fatta di: velluto /;/ di seta

O5215N:

però siccome le lumache erano lente (-) giusto? le lumache erano lente … sai

cos'è la tessitrice e la panetteria eh? lo sai? sì?

O5305N:

arrivò davanti a un fosso (-) che è come un pozzo

È interessante osservare che i termini che i bambini si sono preoccupati di spiegare sono

prevalentemente quelli che sono stati trattati assieme durante la preparazione della narrazione

(fornaia, tessitrice, filare, canapa, barboncino, fosso, verde smeraldo, velluto). Molto interessante è

inoltre l'intervento della bambina (O5210N) che per verificare la comprensione della storia si è

rivolta all'interlocutore in dialetto ("la t'è piasüda?").

Lo stesso fenomeno si è riscontrato pure nella sede di Castel San Pietro, dove nel secondo

intervento quattro bambini su sei si sono preoccupati di verificare la comprensione e due di loro

anche di spiegare alcuni termini, mentre non si è verificato nella sede di Bellinzona.

Nel terzo intervento abbiamo invece osservato sei casi in cui è l'adulto (sempre Andreia) a

formulare interrogativi, e interessante è notare che in tutti e sei i casi sembra che l'adulto valuti le

risposte del bambino attraverso espressioni come "perfetto", "bravissimo" o "va bene".

Sembrerebbe quindi che il fenomeno spiegato sopra sia qui invertito e che il ruolo del bambino

narratore sia diverso: con coetanei e bambini più piccoli deve preoccuparsi di far comprendere la

storia, con l'adulto deve preoccuparsi di rispondere alle sue aspettative per essere valutato

positivamente. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che l'adulto scelto come interlocutore è visto

come un'insegnante, a causa della sua formazione professionale (di cui i bambini sono a

conoscenza) e si comporta come tale assumendo una modalità di comunicazione tipica

dell'interrogazione (uno dei tipi di parlato che si realizza più frequentemente a scuola).

(27)

5.2. L'analisi dei protocolli delle tre sedi incentrata sui sostantivi

5.2.1. Il numero di sostantivi utilizzati

La tabella 4 presenta il numero di sostantivi usato dai bambini durante le loro narrazioni (per

approfondimento vedi allegato 8). In particolare essa indica:

- in colonna 1 la sede in cui si è registrato il parlato

- in colonna 2 l'intervento in cui si è registrato il parlato

- in colonna 3 la quantità di sostantivi utilizzata in media dai bambini

- in colonna 4 la quantità di sostantivi del testo base utilizzata in media dai bambini

- in colonna 5 la quantità di sostantivi nuovi (non facenti parte del testo base) utilizzata in media

dai bambini

- in colonna 6 la quantità di sostantivi del testo base (diversi tra loro) utilizzata in media dai

bambini

- in colonna 7 il numero totale di parole utilizzate in media dai bambini

- in colonna 8 la percentuale media di sostantivi utilizzati rispetto al numero di parole

- in colonna 9 la percentuale media di sostantivi del testo base (diversi tra loro) utilizzati rispetto

al numero di sostantivi (diversi tra loro) totale del testo base (92)

Tabella 4 – La frequenza dei sostantivi nel parlato dei bambini

Classe Intervento Sostantivi Sostantivi testo base Sostantivi nuovi Sostantivi testo base* Totale parole % Sostantivi % Sostantivi testo base* Olivone Ai coetanei 89 68 21 33 569 15.6% 36.3% Ai piccoli 136 112 25 43 769 17.8% 46.7% All'adulto 107 91 16 40 602 17.4% 43.4% Media 111 91 20 39 638 16.9% 42.2% Castel San Pietro Ai coetanei 122 94 28 39 622 19.4% 42.4% Ai piccoli 105 78 27 37 547 19.3% 39.7% All'adulto 105 88 17 37 525 19.8% 40.3% Media 109 87 22 37 554 19.5% 40.8% Bellinzona Semine Ai coetanei 83 67 15 33 507 16.6% 35.5% Ai piccoli 90 75 15 34 478 18.4% 36.5% All'adulto 92 76 16 35 525 17.9% 37.8% Media 89 74 15 34 509 17.6% 36.6% * Diversi tra loro

(28)

Osservando la tabella sovrastante si può costatare che la classe di Olivone è quella che ha

utilizzato un maggior numero di sostantivi. È anche vero però è quella che ha utilizzato più parole.

In proporzione, quindi, risulta che il parlato dei bambini di Castel San Pietro è quello che presenta

una maggior frequenza di sostantivi (19.5%), seguito da quello di Bellinzona (17.6%) e da ultimo

da quello di Olivone (16.9%). Il dato di Castel San Pietro è quello che si avvicina maggiormente a

quello del testo di base (22%). I bleniesi sembrerebbero però attenersi maggiormente al testo

originale per quanto riguarda il tipo di sostantivi utilizzati, in quanto si assiste a un uso maggiore

dei sostantivi del racconto di base.

La classe di Bellinzona è quella che ha utilizzato il minor numero di parole, come pure il minor

numero di sostantivi. È inoltre quella che ha usato un numero minore di sostantivi del testo di base,

ma anche di altro tipo. La nostra ipotesi è che questo sia dovuto al fatto che la maggior parte dei

bambini (il 68%) non è di madrelingua italiana, e che quindi abbia avuto più difficoltà sia a

imparare la storia che a raccontarla. Questa ipotesi è supportata anche dall'impressione che abbiamo

avuto, durante il racconto di questi bambini, che essi abbiano cercato di imparare la storia a

memoria, nonostante nella consegna non fosse stata esplicitata una simile necessità. Tale modalità

di apprendimento non risulta infatti adeguata per il compito richiesto, a causa della lunghezza della

fiaba, e quindi, dopo le prime frasi recitate a memoria, occorre forzatamente cercare di usare parole

proprie, strategia che risulta maggiormente complessa se il vocabolario di base dei bambini è

ridotto.

Quanto esporrò di seguito sono possibili ipotesi di spiegazione dei dati raccolti. I differenti

risultati impediscono di formulare un ipotesi di spiegazione generale valida per tutti i casi presi in

considerazione.

Se ci concentriamo sulle differenze a livello di età dell'interlocutore, osserviamo che nella sede

di Olivone è stato utilizzato un maggior numero di parole e di sostantivi quando l'interlocutore era

un bambino più piccolo piuttosto che quando si trattava di un coetaneo o di un adulto. Inoltre anche

la percentuale di sostantivi utilizzati risulta maggiore, come pure la percentuale di sostantivi del

testo di base. Si potrebbe quindi ipotizzare che con gli interlocutori più piccoli i bambini abbiano

cercato di essere più fedeli al testo originale, ma che abbiano utilizzato anche altre parole per

cercare di spiegarlo (infatti in questo intervento i bambini utilizzano in media un numero maggiore

di sostantivi nuovi). Questa ipotesi è rafforzata dalle considerazioni che abbiamo fatto

precedentemente in relazione alla definizione di termini e alla verifica della comprensione della

storia durante la narrazione: durante il secondo intervento sono stati maggiori gli interventi in

questo senso (attuati da sei bambini su otto). Inoltre il dato che mostra che i sostantivi del testo base

(29)

utilizzati sono 112, evidenzia il fatto che vi sono state molte ripetizioni degli stessi sostantivi (43),

che potrebbe essere un segno della volontà di essere il più espliciti possibili con i bambini più

piccoli, al fine di rendere la storia maggiormente comprensibile. Quest'ipotesi potrebbe spiegare

anche i bassi valori dei risultati relativi alla narrazione a coetanei: identificandosi maggiormente

con il compagno non si sente la necessità di esplicitare tutto. Con gli adulti si osserva invece un

basso valore nell'uso di sostantivi diversi da quelli originali. Questo dato potrebbe essere un segnale

di un certo timore ad allontanarsi dal testo di base, o anche della volontà di restarvi il più fedele

possibile, magari per ottenere approvazione da parte degli adulti. Come abbiamo già visto, infatti, in

questo terzo intervento sembrerebbe instaurarsi una relazione del tipo "insegnante-allievo", in cui

l'alunno percepisce nel ruolo e negli inteventi dell'adulto un'intenzione valutativa.

Nella sede di Castel San Pietro assistiamo invece a un'inversione dei risultati: la frequenza

dell'uso dei sostantivi è minore quando l'interlocutore è un bambino piccolo piuttosto che quando è

un coetaneo o un adulto; la stessa cosa vale per la percentuale di sostantivi del testo di base

utilizzati. Si potrebbe in questo caso ipotizzare che i bambini abbiano cercato di essere

maggiormente fedeli alla fiaba originale con i loro coetanei, e che abbiano invece cercato di

adattarla a interlocutori con età differenti dalla loro, considerando diversa la loro capacità di

comprensione. Si spiegherebbe in questo senso il basso valore di fedeltà ai sostantivi del testo di

base nelle narrazioni ai bambini piccoli con l'elevato numero di sostantivi nuovi in sostituzione a

termini giudicati poco adatti alla bassa età dell'interlocutore. Con gli adulti sembrerebbe invece

valere lo stesso discorso fatto per Olivone (anche qui abbiamo il valore più basso, oltre a un

maggiore numero di ripetizioni degli stessi sostantivi del testo di base).

I risultati della sede di Bellinzona sono ancora differenti e presentano la terza possibilità: la

percentuale di sostantivi del testo di base utilizzati è maggiore quando l'interlocutore è un adulto,

come pure il numero di sostantivi e di parole. Con i bambini più piccoli si assiste invece a minor

numero di parole utilizzate. In questo caso si potrebbe ipotizzare che i bambini utilizzino i

sostantivi in proporzione all'età degli interlocutori: più sono piccoli meno sostantivi e parole si

utilizzano, secondo la logica che più il testo è corto e più è semplice e adatto a bambini piccoli. Il

dato relativo al grado di fedeltà al testo di base con gli adulti sembrerebbe inoltre confermare

quanto ipotizzato precedentemente sul timore, da parte dei bambini, nell'utilizzare altri sostantivi

oltre a quelli del testo di base. I dati potrebbero però essere influenzati dagli interventi degli adulti

stessi che con le loro domande hanno cercato di fare restare i bambini il più possibile fedeli al testo

originale.

(30)

5.2.2. L'alterazione

La tabella 5 presenta la frequenza di sostantivi alterati nelle narrazioni dei bambini (per

approfondimento vedi allegato 9). In particolare essa indica:

- in colonna 1 la sede in cui si è registrato il parlato

- in colonna 2 la frequenza dell'alterazione quando l'interlocutore è un coetaneo

- in colonna 3 la frequenza dell'alterazione quando l'interlocutore è un bambino di I SE

- in colonna 4 la frequenza dell'alterazione quando l'interlocutore è un adulto

- in colonna 5 la frequenza media dell'alterazione

Tabella 5 – La frequenza dell'alterazione

Classe Ai coetanei Ai piccoli All'adulto Media

Olivone 0.5% 1.3% 0.6% 0.8%

Castel San

Pietro 0.1% 0.2% 1.1% 0.6%

Bellinzona

Semine 1.4% 0.8% 0.7% 1.0%

Osservando la tabella sovrastante, possiamo costatare che la sede dove il fenomeno

dell'alterazione è stato magiormente presente è Bellinzona, seguita da Olivone e infine da Castel

San Pietro. Possiamo quindi affermare che non sono i sostantivi alterati a incidere maggiormente

sul valore relativo ai sostantivi nuovi (tabella 4) perché in tal caso il dato di Castel San Pietro

dovrebbe essere il maggiore. L'unico dato rilevante in questo senso è quello di Olivone relativo

all'interlocutore più piccolo: in questo caso i sostantivi alterati potrebbero influire in modo

sostanziale sull'alto numero di sostantivi nuovi utilizzati.

Per quanto riguarda il variare dell'età dell'interlocutore, osserviamo infatti che a Olivone

abbiamo un considerevole aumento di frequenza del fenomeno dell'alterazione quando i bambini si

rivolgono agli alunni di I SE. Non osserviamo però lo stesso procedere a Castel San Pietro e a

Bellinzona. Nel primo caso, infatti, osserviamo un incremento della frequenza quando

l'interlocutore è un adulto, mentre nel secondo caso quando si tratta di un coetaneo. Risulta quindi

difficile formulare un'ipotesi di spiegazione generale sull'utilizzo del fenomeno dell'alterazione in

base all'età dell'interlocutore.

(31)

5.2.3. I sostantivi "tuttofare"

La tabella 6 presenta la frequenza di sostantivi "tuttofare" (cosa, cose). In particolare essa

indica:

- in colonna 1 la sede in cui si è registrato il parlato

- in colonna 2 la frequenza di sostantivi "tuttofare" quando l'interlocutore è un coetaneo

- in colonna 3 la frequenza di sostantivi "tuttofare" quando l'interlocutore è un bambino di I SE

- in colonna 4 la frequenza di sostantivi "tuttofare" quando l'interlocutore è un adulto

- in colonna 5 la frequenza media di sostantivi "tuttofare"

Tabella 6 – La frequenza di sostantivi "tutto fare"

Ai coetanei Ai piccoli All'adulto Media

Olivone 0.31% 0.09% 0.12% 0.15%

Castel San

pietro 0.27% 0.31% 0.08% 0.19%

Bellinzona

Semine 0.00% 0.00% 0.11% 0.05%

La prima costatazione che possiamo fare osservando la tabella è che la frequenza nell'uso di

sostantivi "tuttofare" è molto bassa (per un confronto vedi allegato 11). Una spiegazione di questo

dato potrebbe essere il fatto che i bambini avessero un testo su cui basarsi per la loro narrazione,

senza la necessità di inventare parti nuove.

Concentrandoci solamente su variazioni dei valori, osserviamo che a Olivone l'uso più frequente

di termini come "cosa" o "cose" si realizza quando l'interlocutore è un coetaneo. A Castel San

Pietro abbiamo invece un uso più frequente con i bambini più piccoli e con i coetanei (i valori sono

infatti molto vicini), mentre a Bellinzona con l'adulto. Anche in questo caso, quindi, risulta difficile

formulare un'ipotesi di spiegazione generale sull'utilizzo di sostantivi "tuttofare" in base all'età

dell'interlocutore.

5.2.4. L'uso marcato o sbagliato dei sostantivi

La tabella 7 presenta la frequenza di uso marcato o sbagliato dei sostantivi (per

approfondimento vedi allegato 10). In particolare essa indica:

(32)

- in colonna 2 la frequenza di uso marcato o sbagliato dei sostantivi quando l'interlocutore è un

coetaneo

- in colonna 3 la frequenza di uso marcato o sbagliato dei sostantivi quando l'interlocutore è un

bambino di I SE

- in colonna 4 la frequenza di uso marcato o sbagliato dei sostantivi quando l'interlocutore è un

adulto

- in colonna 5 la frequenza media di uso marcato o sbagliato dei sostantivi

Tabella 7 – La frequenza di uso marcato o sbagliato dei sostantivi

Ai coetanei Ai piccoli All'adulto Media

Olivone 1.4% 1.6% 0.8% 1.2%

Castel San

Pietro 0.4% 0.8% 0.5% 0.5%

Bellinzona

Semine 2.2% 0.9% 0.5% 1.0%

Osservando la tabella sovrastante possiamo notare che a Olivone si è verificato un maggiore uso

marcato o sbagliato dei sostantivi, seguito da Bellinzona e da ultimo da Castel San Pietro.

Confrontando questi dati con quelli presenti in tabella 3, si può osservare che vi è un maggiore uso

sbagliato o marcato dove vi è una maggiore presenza di bambini che a casa parlano dialetto. Al

secondo posto abbiamo invece la classe dove vi è una maggior presenza di bambini che in famiglia

parlano una lingua straniera (Bellinzona), mentre all'ultimo quella dove la maggior parte della

classe parla italiano (Castel San Pietro).

Per quanto riguarda l'età dell'interlocutore, possiamo costatare che a Olivone e Castel San Pietro

si è realizzata una maggiore frequenza di uso marcato o sbagliato con i bambini piccoli, mentre a

Bellinzona con i coetanei. Per Olivone e Bellinzona i valori più bassi sono registrati con

l'interlocutore adulto, mentre per Castel San Pietro con i coetanei. I valori di quest'ultimo relativi

all'interlocutore adulto sono però molto vicini a quelli relativi all'interlocutore della stessa età.

Potremmo quindi affermare che con gli interlocutori adulti si assiste a una diminuzione di frequenza

di uso marcato o sbagliato dei sostantivi. Occorre però anche prestare attenzione al fatto che

l'attività svolta con gli adulti si è realizzata in seguito alle altre, e che quindi i bambini hanno avuto

la possibilità di esercitarsi maggiormente a raccontare la storia, diminuendo così il rischio di errori.

(33)

6. Risposte agli interrogativi di ricerca

D1)

Dopo aver analizzato i dati relativi alle attività realizzate in classe, possiamo dire che la nostra

ipotesi iniziale non ha trovato pienamente conferma.

Per quanto riguarda i sostantivi, cambiando l'età dell'interlocutore abbiamo osservato che vi

sono delle differenze nel parlato dei bambini, a livello di quantità di sostantivi utilizzati in generale,

ma anche a livello di sostantivi del testo di base utilizzati. I differenti risultati ottenuti nelle tre sedi

non permettono però di trarre una regola generale sull'uso dei sostantivi legata al variare dell'età

dell'interlocutore. Lo stesso discorso vale per l'utilizzo di nomi "tuttofare".

Per quanto riguarda la frequenza dei verbi "tuttofare" (fare, dire, andare, esser(ci), vedere), mi

rifaccio all'analisi del mio collega Roellin (2010-2011), i cui risultati sono sintetizzati nella

seguente tabella. In particolare essa indica:

- in colonna 1 la sede in cui si è registrato il parlato

- in colonna 2 la frequenza di verbi "tuttofare" quando l'interlocutore è un coetaneo

- in colonna 3 la frequenza di verbi "tuttofare" quando l'interlocutore è un bambino di I SE

- in colonna 4 la frequenza di verbi "tuttofare" quando l'interlocutore è un adulto

- in colonna 5 la frequenza media di verbi "tuttofare"

Tabella 8 – La frequenza di verbi "tuttofare"

Ai coetanei Ai piccoli All'adulto Media

Olivone 35.5% 52.6% 41.3% 43.1%

Castel San

Pietro 32.3% 36.1% 28.0% 32.1%

Bellinzona

Semine 46.6% 46.7% 52.9% 48.7%

Osservando la tabella sovrastante possiamo costatare che anche per quanto riguarda i verbi

"tuttofare" vi sono delle differenze relative all'età dell'interlocutore. I differenti risultati (una

maggiore frequenza di verbi "tuttofare" con i bambini più piccoli a Olivone e Castel San Pietro,

mentre con gli adulti a Bellinzona) non permettono però di trarre una regola generale sull'uso di

questi verbi.

(34)

D2)

I dati raccolti sul fenomeno dell'alterazione dei sostantivi e dei nomi "tuttofare" non permettono

di trarre delle conclusioni sul loro utilizzo diversificato a dipendenza dell'interlocutore da parte dei

bambini. Si può però affermare che vi sia una tendenza, per quanto riguarda l'uso dei sostantivi, a

cercare di definire quelli che non si ritengono adatti all'età dell'interlocutore (almeno a Olivone e

Castel San Pietro). In questo senso sembrerebbe emergere una maggiore cura espositiva con i

bambini più piccoli. Abbiamo infatti osservato che con essi è più frequente la verifica della

comprensione, l'utilizzo di oggetti per accompagnare la narrazione e in due casi vi è pure stato il

tentativo di variare il tono di voce dei personaggi del racconto.

Con gli adulti emerge invece un basso uso di sostantivi differenti da quelli del testo di base.

Sembrerebbe quindi di assistere ad un certo timore ad allontanarsi dal racconto originale, o la

volontà di restarvi il più fedeli possibili per dimostrare di sapere la storia ed essere valutati

positivamente dall'adulto-insegnante. Quest'ipotesi sarebbe però da confermare con nuove ricerche.

D3)

Osservando i dati relativi all'uso marcato o sbagliato dei sostantivi e confrontandoli con quelli

della tabella 3 (lingua parlata in famiglia), possiamo considerare confermata la nostra ipotesi

iniziale: abbiamo un maggiore uso marcato o sbagliato dei sostantivi nelle sedi dove il dialetto o il

multilinguismo prevalgono sull'uso dell'italiano (in famiglia). In particolare abbiamo potuto

costatare che il primo caso (del dialetto) è quello che presenta una maggiore frequenza di questi usi.

Questo dato si potrebbe spiegare col fatto che chi parla dialetto confonde maggiormente le forme

corrette e quelle sbagliate, a causa della somiglianza tra le due lingue.

(35)

7. Conclusioni e sviluppi

In questa ricerca si è innanzitutto voluto mettere in evidenza il parlato dei bambini (in

particolare l'uso dei sostantivi) e una sua eventuale modifica in relazione a una variazione dell'età

dell'interlocutore. Quello che emerge dai risultati è che vi sono diverse modalità di variazione. La

più significativa è quella relativa alla definizione di alcuni termini, maggiormente frequente quando

l'interlocutore è un bambino piccolo. In queste condizioni, inoltre, i bambini si sono preoccupati

maggiormente di verificare la comprensione della storia.

Un'altra variazione che sembrerebbe emergere da questa ricerca, è il ruolo che il bambino

narratore assume al variare dell'interlocutore. Sembrerebbe infatti che con bambini della stessa età o

più piccoli, il narratore sia in una posizione di controllo dell'atto comunicativo, mentre con l'adulto

le posizioni siano invertite.

Con questa ricerca si è inoltre voluto valutare se a livello regionale l'uso dei sostantivi sia

differente. Anche in questo caso abbiamo assistito a diverse modalità di variazione. La più

significativa è quella relativa all'uso marcato o sbagliato dei sostantivi: gli "errori" risultano più

frequenti nelle regioni dove il dialetto è maggiormente presente, seguite da quelle dove vi è una

prevalenza di uso di altre lingue.

Interessante per noi è osservare l'importanza del lavoro di équipe per ottenere questi risultati. È

infatti solamente grazie a un maggiore numero di dati che certe ipotesi sono potute essere verificate.

Se avessimo per esempio analizzato unicamente i dati di Olivone, avremmo potuto affermare che il

fenomeno dell'alterazione è maggiormente presente quando l'interlocutore è un bambino piccolo.

Abbiamo invece potuto costatare che così non è per Castel San Pietro e Bellinzona. Un valore

aggiunto è inoltre quello dato dalla possibilità di avere visioni differenti dello stesso fenomeno che

ne permettono una migliore conoscenza. Un punto invece a sfavore di questa modalità di lavoro è la

possibilità che i dati risultino falsati da eventuali differenze di gestione dell'attività da parte dei tre

ricercatori. Ritengo però che, organizzando bene gli interventi, gli aspetti positivi del lavoro

d'équipe superino in larga misura quelli negativi.

La grande massa di dati ottenuta da questa ricerca è stata da noi analizzata secondo differenti

punti di vista (dei sostantivi, dei verbi e degli aggettivi), ma potrebbe essere soggetta ad analisi

ulteriori. Si potrebbe infatti analizzare il parlato dei bambini in base ad altre parti del discorso

(pronomi, avverbi, congiunzioni,…).

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