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Mafia e politica: analisi teorica ed evidenza empirica sui contatti fra criminalità organizzata e istituzioni

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Indice

Considerazioni introduttive

5

I Capitolo - Cos’è la mafia? Le teorie sul fenomeno mafioso

1.1 Prospettive di analisi scientifiche nella definizione del concetto di mafia 7

1.2 L’evoluzione storica e sociale del fenomeno mafioso 11

1.3 Mafia ed economia: Gambetta e il paradigma della protezione privata 17

1.3.1 “L’economia mafiosa” di Centorrino 24

1.3.2 La mafia imprenditrice secondo le tesi di Arlacchi e Catanzaro 27

1.4 Mafia, politica e istituzioni 30

1.4.1 Il paradigma della complessità di Santino 34

II Capitolo - Il rapporto mafia-politica: fatti e personaggi

2.1 Vito Ciancimino e il “sacco di Palermo” 40

2.2 La politica mafiosa di Salvo Lima 44

2.3 Quegli uomini d’onore dei cugini Salvo 46

2.4 Il processo a Giulio Andreotti 48

2.5 Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi 53

2.6 Considerazioni sulla Relazione della Commissione parlamentare

antimafia del 1993 57

III Capitolo - La costruzione di un dataset sui contatti politico-mafiosi 63

3.1 Lo scambio elettorale politico-mafioso 64

3.2 Metodologia di ricerca 69

3.3 Risultati raggiunti 72

APPENDICE 1 - Dataset eventi 80

(2)

4

IV Capitolo - Analisi dei dati e studio di casi

4.1 Le operazioni Peronospera: i casi David Costa, Onofrio Fratello

e Pietro Pizzo 85

4.2 Operazione Gotha: il caso Giovanni Mercadante 91

4.3 Operazione Eos: il caso Antonello Antinoro 95

4.4 Operazione Eden: il caso Aldo Roberto Licata 97

4.5 Operazione Apocalisse: il caso Pietro Franzetti 99

Considerazioni conclusive

100

Riferimenti bibliografici

103

(3)

5

Considerazioni introduttive

La convivenza tra mafia e politica, da tempo una delle questioni centrali nel

dibattito pubblico italiano, rimane tutt’oggi un problema largamente diffuso e di

non facile risoluzione nonostante i diversi tentativi di contrasto messi in atto da

istituzioni e organizzazioni. Il presente lavoro di tesi, frutto del profondo

interesse personale nutrito per l’argomento, si propone di affrontare la tematica

dei contatti tra mafia e istituzioni sotto un duplice punto di vista: da una parte

utilizzando gli strumenti di analisi teorica e storica, dall’altra effettuando un

lavoro di ricerca sperimentale attraverso la realizzazione di un dataset basato

sulla elaborazione empirica dei dati raccolti e la successiva analisi più dettagliata

di alcuni tra i casi ottenuti.

Si è ritenuto opportuno innanzitutto tracciare una linea teorica e

scientifica del concetto di mafia analizzando le principali teorie (su tutte quelle di

Gambetta e Santino) sul fenomeno mafioso, osservato, per via della sua

multidimensionalità, nei numerosi paradigmi interpretativi e nelle sue diverse

componenti storiche, sociali, culturali, economiche e politiche. In seguito si è

fatto riferimento, soprattutto attraverso le informazioni procurate dalle sentenze

degli organi giurisdizionali, ai principali fatti storici e personaggi politici (da

Ciancimino e Lima ad Andreotti e Dell’Utri) che hanno messo in evidenza

l’esistenza e lo sviluppo degli organici rapporti intercorrenti tra mafiosi ed

esponenti delle istituzioni sia a livello nazionale che locale, e più propriamente in

Sicilia.

Nella seconda parte della tesi si è svolto, grazie alla preziosa opportunità

e assistenza fornita dai professori Alberto Vannucci e Salvatore Sberna, un lavoro

di ricerca nell’ambito del progetto ANTICORRP condotto dalla Commissione

Europea sui links tra corruzione politica e criminalità organizzata in cui si è

realizzato, in seguito alle fasi di ricerca e raccolta dati, un dataset di eventi

politico-mafiosi avvenuti in Italia negli ultimi vent’anni. Nella fattispecie, sono

stati considerati oggetto di interesse solo i casi in cui si è accertato (tramite

(4)

6

arresti, indagini o avvisi di garanzia) che un politico abbia ricevuto sostegno

elettorale da uomini appartenenti alle quattro principali associazioni mafiose

italiane (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corna Unita). Infine, tra i vari

casi raccolti nel dataset ne sono stati selezionati alcuni tra i più rilevanti ed

interessanti sulla base della territorialità (ovvero solo casi siciliani) analizzandoli

più in profondità ed evidenziando specialmente i meccanismi e le risorse

utilizzate nello scambio.

(5)

7

I Capitolo

Cos’è la mafia? Le teorie sul fenomeno mafioso

1.1 Prospettive di analisi scientifiche nella definizione del concetto di mafia

Le teorie sulla mafia si accrescono sempre più di nuove qualifiche, ma gli

approcci scientifici finora teorizzati non sono immuni dalla riproposizione di

semplici stereotipi e luoghi comuni o dall’utilizzo di paradigmi che inglobano solo

alcuni dei cospicui aspetti che strutturano il fenomeno mafioso.

L’idea di mafia fa parte della categoria dei concetti “sovradeterminati”,

vale a dire di quei concetti che raggruppano significati diversi e mutevoli a

seconda del periodo storico preso in considerazione. Esso indica, nel medesimo

tempo, una organizzazione criminale, una realtà storica, un codice culturale, una

struttura di potere che interagisce col sistema legale e le sue articolazioni

politico-istituzionali e socio-economiche. Il fenomeno mafioso si presenta come

un oggetto assai complesso per il cui studio, in virtù della sua

multidimensionalità, sono necessarie numerose prospettive disciplinari che ne

trattino contemporaneamente aspetti storici, antropologici, sociologici,

politologici, economici, criminologici e giuridici, per poter avere un esauriente

quadro di insieme.

La peculiare caratteristica della mafia quale fenomeno in continuo

mutamento evolutivo richiede inevitabilmente il costante tentativo di adattare

gli studi delle scienze sopra richiamate al fine di evitare che i paradigmi teorici

impiegati risultino essere già superati ancor prima che questi trovino il loro

indispensabile assestamento

1

. È per questo motivo che in sede teorica si è

percepita sempre di più la necessità di svolgere un esame critico incrociato dei

molteplici paradigmi interpretativi del fenomeno mafioso che tenga in

considerazione, oltre agli orientamenti teorici, anche i metodi analitici per

indagare la realtà in tutta la sua complessità. Sia i limiti del concetto di mafia,

1

G. Fiandaca - S. Costantino (a cura di), La mafia, le mafie. Tra vecchi e nuovi paradigmi, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. V

(6)

8

divenuti via via più estesi e flessibili, che le idee e le codificazioni della mafia,

spesso strumentalizzate volontariamente per interessi politici di parte, non

hanno di certo favorito una metodica comprensione delle effettive

caratteristiche della delinquenza mafiosa

2

.

Riguardo al fenomeno mafioso si prestano svariati e diversi punti di vista

tra loro concorrenti tant’è che nella letteratura specializzata non vi è ancora

accordo su che cosa sia realmente la mafia, se un’organizzazione criminale, una

mentalità culturale o un tipo sui generis di attività economica, ma sicuramente

ciascuno di questi aspetti contribuisce a darne una definizione più esaustiva

3

.

Inoltre, sul terreno della ricerca scientifica, il concetto di mafia rappresenta un

campo in cui più paradigmi interpretativi si ritrovano a coincidere o a confliggere

tra loro dato che non tutti i modelli analitici sono orientati ad inserirsi

automaticamente all’interno di un quadro ricostruttivo unitario. La mafia è un

fenomeno multidimensionale pertanto ciascuna caratteristica determinata nelle

diverse spiegazioni analitiche assume importanza sia teorica che empirica nella

definizione più generale del concetto.

La mafia può essere analizzata come rete di organizzazioni criminali, come

fenomeno di società locale, come una particolare forma di industria della

protezione privata consistente nell’utilizzo della violenza, nell’uso di specifici

codici culturali tradizionali e nella alterazione dei rapporti socio-politici al fine di

ottenere cooperazione con gli attori sociali special modo se inseriti nelle cerchie

politico-istituzionali

4

. In merito al contrasto tra i diversi paradigmi interpretativi,

di seguito si evincerà che quello che si è maggiormente imposto è il paradigma

criminale, anche se questo non esclude interazioni con le altre scienze

concorrenti.

In generale, si possono individuare due principali filoni di interpretazione

del fenomeno mafioso: da un lato, la rappresentazione “organizzativa” che

considera il fatto mafioso in termini di criminalità organizzata la cui attività è

2

Ivi, p. VI

3

R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, 2009, p.6

(7)

9

finalizzata al conseguimento di guadagno, sicurezza e reputazione, dall’altro la

rappresentazione “culturalista” che riconduce invece la mafia alla cultura

presente negli ambienti in cui si è sviluppata, anche se non sono vanno

dimenticate le opinioni di quei studiosi che, più prudentemente, si sono posti in

una posizione intermedia tra le due prospettive più estreme

5

.

A favore dell’interpretazione organizzativa della mafia, Gambetta rifiuta la

generalizzata concezione dei comportamenti mafiosi in termini di valori

sottoculturali presenti in Sicilia dato che tale impostazione, oltre a presentarsi

semplicistica, non fa altro che prestarsi a facili stereotipi di matrice quasi razziale

del tipo “i siciliani hanno la mafia nel sangue

6

”. In tal modo determinate azioni

compiute da siciliani o calabresi vengono direttamente considerate “mafiose” se

invece sono realizzate da persone provenienti da altre regioni si traducono solo

in condotte illegali o disoneste

7

.

Sostenitore dell’approccio organizzativo è anche Pezzino il quale col

termine mafia intende e definisce un insieme di organizzazioni criminali e

delinquenziali dotato di una particolare caratura politica, cioè della capacità di

radicarsi in un territorio, di disporre di ingenti risorse economiche e di esercitare

forme di controllo sulla società locale imponendosi con l’utilizzazione di un

apparato militare. In un contesto simile la violenza viene adoperata dai mafiosi

per controllare risorse economiche, esercitare una estesa egemonia sociale e

proporsi sul mercato politico come forza sociale autonoma alla ricerca di

consenso elettorale

8

. Accanto a loro, autori quali Barone e Lupo screditano il

mito dell’eventuale passaggio da una vecchia mafia “buona” filantropica a una

nuova mafia “cattiva” criminale

9

. Infatti, sin dalle sue prime manifestazioni

ottocentesche a ridosso dell’Unità d’Italia, la mafia mostrava già le

caratteristiche tipiche di una vera e propria organizzazione criminale per via dei

5

Ivi, p. 19

6

D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino, 1992, p.XXI

7 Ivi, p. 106 8

P. Pezzino, Mafia, Stato e società nella Sicilia contemporanea: secoli XIX e XX, in La mafia, le

mafie, a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, p. 10

(8)

10

serrati contatti con i sistemi economici e politico-istituzionali. Questo assunto di

fondo contesta quelle tradizionali spiegazioni antropologico-culturali che

tendono a celare l’aspetto criminale della mafia a favore di una rappresentazione

estremizzata della cultura e dei valori siciliani, vale a dire di analisi che miravano

a identificare l’atteggiamento criminogeno e delinquenziale a tratti mentali e

antropologici tipici del carattere siciliano

10

. A queste spiegazioni si oppone la tesi

che nega la presenza di un collegamento specifico tra la cultura siciliana e il

sistema mafioso e che semmai è la mafia che fa un uso opportunistico dei

tradizionali valori siciliani, quali l’onore, la fedeltà e l’amicizia, con lo scopo di

conseguire e conservare il consenso sociale funzionale al raggiungimento di

obiettivi particolari

11

. In riferimento a ciò, rappresentative risultano essere le

parole pronunciate durante le elezioni amministrative palermitane del 1925 da

Vittorio Emanuele Orlando, convinto liberalista e presidente del Consiglio dal

1917 al 1919: “se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino

all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, la fedeltà

alle amicizie, se per mafia si intendono questi sentimenti, sia pure con i loro

eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana

e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo

12

”.

A fondamento dell’approccio culturalista, invece, vi è la spiegazione

dell’antropologo tedesco Henner Hess che ritiene la mafia non una

organizzazione criminale ma un comportamento corrispondente alla tipica

cultura della società locale traducibile in una assoluta conformità alle regole

dell’omertà. In opposizione a questa però, la rappresentazione della mafia come

fenomeno organizzato non tende a negare le relazioni con i caratteri culturali,

ma questi ultimi non vengono ritenuti determinanti nella definizione del

fenomeno. Il suo sviluppo geografico irregolare, infatti, evidenzia come il

fenomeno mafioso non sia esteso omogeneamente a tutto il meridione italiano,

10 P. Pezzino, op. cit., in op. cit., a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, p. 5 11

G. Fiandaca – S. Costantino (a cura di), op. cit., p. VIII

12

G. C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, De Donato, Bari, 1976, p.314

(9)

11

elemento difficilmente inquadrabile entro la tesi culturalista

13

. Esemplificativa

della tesi organizzativa è la relazione del 1993 su mafia e politica della

Commissione

parlamentare

antimafia,

che

definisce

Cosa

Nostra

un’organizzazione formale, dotata di regole e di capi, di un esercito armato, di

potenti circuiti finanziari e di una struttura unitaria, centralizzata e

gerarchizzata

14

, anche se esistono all’interno della stessa Sicilia altre

organizzazioni mafiose autonome attive esclusivamente nei locali territori di

competenza.

La questione della territorialità è fondamentale per quanto riguarda la

definizione di mafia come società locale. Essa, infatti, tradizionalmente si radica e

agisce in un preciso contesto territoriale nel quale si sviluppa attraverso l’uso di

capitale sociale e attività criminali, su tutte la protezione-estorsione,

indispensabile per la coordinazione della “signoria territoriale” della mafia a

livello locale. Il controllo del territorio è dunque una prerogativa imprescindibile

per la mafia poiché, se il ricorso alla violenza costituisce il prerequisito per

l’accesso alle risorse, il potere territoriale rappresenta la vera risorsa a

disposizione dei clan mafiosi tradotta in gestione degli appalti e dei racket

estorsivi

15

.

1.2 L’evoluzione storica e sociale del fenomeno mafioso

Per quanto riguarda l’origine storica della faccenda mafiosa, sulla base di

testimonianze e documentazioni storiche, Gambetta ha provato a ricostruirne le

origini. A suo dire la mafia è una forma storica particolare dell’industria della

protezione che nasce e si sviluppa in un contesto specifico, l’Italia meridionale,

ad eccezione di alcune zone della Sicilia orientale, di una parte della Calabria

settentrionale e della Puglia, e in un periodo determinato, generalmente intorno

13

R. Sciarrone, op. cit., p. 29

14 Commissione parlamentare antimafia, Mafia e politica. Relazione del 6 aprile 1993, Laterza,

Roma-Bari, 1993, p. 22

15

S. Lupo – R. Mangiameli, Mafia di ieri, mafia di oggi, rivista Meridiana, n° 7-8, gennaio 1990 p.36

(10)

12

alla formazione dell’Unità d’Italia (1860-61), anche se secondo altri studiosi è

possibile individuarne tracce persino in un periodo antecedente

16

. Il quadro può

essere a sua volta arricchito grazie alla formulazione di Franchetti, il quale spiega

che se nella Sicilia orientale la mafia non si è quasi mai affermata questo è

dovuto al fatto che “lì la classe abbiente ha saputo conservare preziosamente il

monopolio della forza impedendo che altri soggetti lo condividessero con lei. In

questo modo la classe dirigente della parte est dell’isola, più unita e meno

assenteista, riuscì a garantire una transizione meno violenta alla società

post-feudale, evitando in tal modo le tensioni sociali che scuotevano la parte

occidentale

17

”.

Gambetta sostiene che la causa per cui la mafia si sia sviluppata in queste

zone e non altrove è dovuta a una particolare situazione di sfiducia che

caratterizzò il Regno delle due Sicilie per cui la “fede pubblica”, ovvero la base di

ogni convivenza civile, venne distrutta dalla dominazione spagnola e sostituita

dalla “fede privata”, vale a dire l’ambito della famiglia e delle amicizie più strette

di cui ci si poteva fidare per scampare alle ingiustizie sociali dell’epoca. Il

deterioramento della fede pubblica generò l’incontrò tra domanda e offerta di

protezione specialmente nella zona occidentale dell’isola basata sul latifondo e

permise alla mafia di consolidarsi sopravvivendo all’affermazione dello Stato e

dell’economia di mercato

18

. Di sicuro la costante assenza di fiducia, seppur non

costituendo l’unica motivazione, è un primo elemento che spiega in generale

l’origine e lo sviluppo della mafia

19

.

Gambetta individua tre ipotesi sul come e sul perché la mafia sia sorta: la

lotta economica sulla appropriazione e gestione della terra e delle sue principali

risorse (grano, bestiame e manodopera a basso costo), la mobilità della ricchezza

grazie ai frequenti scambi possibili nelle zone costiere e nei mercati urbani, e la

16

D. Gambetta, op. cit., p. 90

17 L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, Donzelli, Roma, 1993 (ediz.

orig. 1877), p. 55

18

D. Gambetta, op. cit., p. 92

(11)

13

lotta politica tra gruppi locali

20

. La domanda di protezione fu alimentata nelle

campagne dalla rapida trasformazione dei diritti di proprietà delle terre e fu

auto-prodotta in quelle zone in cui i nuovi proprietari terrieri risultavano essere

uniti tra loro. Poco dopo, la stessa industria specializzata in protezione iniziò a

offrire i suoi servizi anche lungo le vie commerciali che collegavano le interne

campagne con i centri urbani costieri. La mafia dunque, a dire di Gambetta, non

si formò né nei latifondi né nelle città ma in un punto in cui questi due ambienti

si incontravano, “un mondo per metà povero e rurale e per metà facoltoso e

urbano che trasformò la mafia in un’industria

21

”.

Stando alla tesi di Pezzino, le origini della mafia siciliana si devono

principalmente a due fattori: la mancanza di una tradizione statualistica e

istituzionale e il processo di dissoluzione della società feudale. I presupposti

vantaggiosi per la nascita del fenomeno mafioso si ebbero già nella prima metà

del XIX secolo quando nel 1812 venne abolito, dal Parlamento siciliano

straordinario, il regime feudale. Questo evento diede vita a un’incertezza sul

controllo della forza-lavoro contadina, sui nuovi diritti di proprietà e sull’uso

delle risorse terriere, tanto da originare una società altamente conflittuale, ostile

verso gli esponenti dello Stato e caratterizzata da una scarsa legittimazione

sociale delle classi economicamente egemoni. Una simile situazione di

mutamento, in cui non riesce a imporsi una classe dominante, e la mancanza di

una tradizione statualistica e istituzionale resero particolarmente inefficace la

presenza dello Stato

22

.

Le tensioni sorte in una società in corso di modernizzazione non furono

risolte dalla logica delle forze di mercato bensì da mafiosi emersi dalla

disgregazione dei rapporti feudali che, approfittando dell’assenza di forti

strutture statali e del rapido e violento processo di modernizzazione in cui i diritti

di proprietà non erano ben definiti, si costituirono a fornitori esclusivi di

protezione. In tal modo la violenza assume forme organizzate nei ceti subalterni

20

Ivi, p. 102

21

Ivi, p. 126

(12)

14

che si stabiliscono sul territorio, avviano una serie di attività economiche e

vendono i propri “servizi” impiegando strutture idonee a progetti criminosi. Da

qui trae origine la mafia, in un contesto come quello siciliano del primo ‘800 in

cui la scarsa capacità dello Stato di regolamentare i conflitti e le tensioni sociali

emerse consente a una ristretta cerchia di violenti di origine popolare di

affermarsi attraverso l’uso continuo e organizzato della violenza

23

.

In seguito alla dissoluzione del potere feudale si ebbe un passaggio in cui

l’uso legale della violenza passò a essere monopolio esclusivo dello Stato e non

più di vari soggetti giuridici. In Sicilia però si assiste a un processo di

“democratizzazione” dell’uso della violenza, la quale non viene controllata né

dallo Stato né dalle classi dominanti bensì da ceti sociali, appartenenti alla classe

media e popolare, che prima non avevano accesso alla violenza

24

. All’interno di

questo quadro si inserisce la questione mafiosa dell’ingerenza del potere politico

sulle istituzioni statali, dell’incontro tra strutture delinquenziali organizzate

localmente e assetti politico-istituzionali, in sintesi del rapporto tra strutture

illegali e poteri legittimi. Sin dall’indomani dell’Unità d’Italia, specialmente nella

Sicilia occidentale, si diffuse l’abitudine di scendere a patti con la mafia, di

trovare collegamenti che potessero permettere, nell’impossibilità di sopprimerla,

di averne almeno un controllo nel tentativo di limitarne le attività criminali e

illegali. Nei decenni a seguire gli esponenti delle istituzioni politiche assunsero un

comportamento accondiscendente, se non addirittura collusivo, nei confronti

della criminalità mafiosa il che le garantì oltre all’impunità, risorsa di

fondamentale importanza per chi rischia lunghe pene detentive o addirittura

l’ergastolo, anche una forte legittimazione popolare in cambio del mantenimento

dell’ordine sociale

25

.

Il fenomeno mafioso, seppur conservando le caratteristiche appena

tracciate, a partire dal secondo dopoguerra ha manifestato una forte

propensione a rafforzarsi e ad estendersi anche in aree della Sicilia orientale

23

Ivi, p. 16

24

L. Franchetti, op. cit., p. 95

(13)

15

solitamente meno coinvolte. A riguardo, numerose spiegazioni vengono fornite

dalla relazione finale stilata nel 1972 dall’on. Cattanei, presidente della

Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia della V legislazione

26

. In

questo documento si descrivono le caratteristiche e l’evoluzione del fenomeno

mafioso scomponendola in due fasi distinte, mettendo in evidenza come la Sicilia

rappresentasse, almeno in quei tempi, la culla dell’organizzazione. Le indagini

condotte dalla Commissione hanno sostenuto la tesi che fino agli anni ’50 la

mafia fosse un fatto esclusivamente legato al mondo agricolo e alla tutela dei

suoi interessi. La sua predominanza era legittimata al mantenimento di un

equilibrio socio-economico che le permettesse di poter condurre un’attività

parassitaria a fini non soltanto di lucro ma soprattutto di potere sul territorio. Da

qui si spiega il perché la mafia del tempo fosse favorevole alla conservazione

dello status quo agrario, opponendosi fermamente ad un’evoluzione della

società siciliana da agricola ad industriale, cosa che invece stava accadendo nel

resto d’Italia. Qualsiasi tentativo di ribellione o di rinnovamento veniva represso

a volte anche con l’uso della violenza, mezzo più diretto per ribadire il proprio

prestigio, senza che però si andasse troppo oltre certi limiti per evitare la

creazione di tensioni sociali o la reazione dei poteri istituzionali. In questo

quadro, inoltre, l’attività mafiosa venne facilitata dall’ambiente culturale tipico

della Sicilia e più in generale del Mezzogiorno italiano, in un contesto in cui, tra

paure e complicità tacite, si accettò il fenomeno mafioso come la migliore entità

capace di mantenere un reale ordine sociale.

La seconda fase, vale a dire a partire dagli anni ’60, coincide con la

variazione e il passaggio dell’attività mafiosa da strutture tipicamente

agrario-rurali a urbane-industriali. La disintegrazione della vecchia società feudale non

dava più quella supremazia e quella ricchezza prima assicurate ai proprietari

terrieri, garantite adesso da un generale processo di urbanizzazione e

industrializzazione del territorio che equivaleva a nuovi e più redditizi interessi

per la mafia. La Commissione sostiene che suddetto passaggio si sia realizzato

(14)

16

attraverso la monopolizzazione dei prodotti della terra e l’insediamento nel

settore edilizio, fermo restando l’utilizzo, ora più accentuato, dei tradizionali

mezzi di violenza. Lo spostamento nelle città e le conseguenti accresciute

possibilità di lucro, infatti, resero più complicata la suddivisione delle sfere di

influenza tra i vari gruppi mafiosi i quali, non avendo più un’area di riferimento

ben circoscritta, ricorrevano molto di più all’uso della violenza per assumere il

predominio delle zone strategiche, dando vita a vere e proprie guerre di mafia

contro i gruppi rivali. L’uso proporzionale della forza tipico della prima fase al fine

di scongiurare instabilità troppo marcate venne dunque meno durante la

seconda fase, nella quale prevarrà piuttosto una aperta sfida da parte dei nuovi

capi, sia contro i poteri pubblici che contro le altre famiglie palermitane, pur di

ottenere ricchezza e prestigio. In secondo luogo, a differenza della prima fase, la

mafia non mirò più alla tutela di certe posizioni di classe bensì iniziò a stringere

legami effettivi e duraturi con i poteri burocratici e politici, tanto è vero che

numerosi esponenti della mafia riuscirono a introdursi all’interno dei pubblici

affari, venendosi così a realizzare una vera e propria sovrapposizione di

appartenenza tra le amministrazioni politiche e l’organizzazione mafiosa. Infine,

ai due punti sopraddetti si aggiunge la posizione di rilievo che la mafia assunse, a

cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ‘70, nel traffico illecito

internazionale di droghe, un business che rappresentava una delle più innovative

e soprattutto profittevoli fonti di guadagno per l’organizzazione. La mafia

insomma, non più imbrigliata nei limitati confini regionali, si espanse a macchia

d’olio ed estese la propria influenza al di fuori dell’isola sia a livello nazionale che

mondiale, riuscendo a creare persino dei centri operativi nel centro-nord Italia, in

particolare nei grossi centri urbani, per sfuggire al rinvigorito controllo da parte

degli organi di polizia. Si ha a che fare dunque con una nuova mafia che muta in

continuazione la sua fisionomia a seconda degli interessi e dei contesti nei quali

opera, che tiene in conto le contemporanee trasformazioni politiche,

economiche e sociali del tempo, mostrando estrema elasticità nel sapersi

adeguare ad ambienti sempre più diversi rispetto a quelli in cui è nata.

(15)

17

L’evoluzione e la trasformazione del fenomeno mafioso riguardava la sua

struttura di base, sia per le finalità e i metodi utilizzati, sia per le ramificazioni

territoriali, confermando però come costanti le caratteristiche di

un’organizzazione criminale a scopo di lucro, da ottenere attraverso

comportamenti parassitari, che usa sistematicamente la violenza e che ricerca un

certo legame di connivenza con ogni forma di potere, in particolar modo quello

pubblico, per strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi al suo interno.

Proprio quest’ultimo punto, ovvero la ricerca continua di collegamenti coi poteri

pubblici, rappresenta la vera ragione di sopravvivenza della mafia, oltre che un

suo elemento distintivo rispetto ad altri poteri extra-legali.

È pertanto impossibile dare una descrizione completa e definitiva del

fenomeno mafioso poiché, per sua propria natura, esso è un fatto eterogeneo,

inafferrabile, che sfugge da qualsiasi tentativo di spiegazione univoca e che può

prestarsi esclusivamente a una indagine dinamica ed in continuo movimento,

tenendo costantemente in conto i diversi contesti spaziali e temporali in cui si è

mosso.

1.3 Mafia ed economia: Gambetta e il paradigma della protezione privata

L’enfatizzazione della struttura criminale della mafia pone non pochi problemi

agli studiosi che si occupano di indagarne l’aspetto economico, anche se

comunque molti di loro sono riusciti ad affrontare la sfera della “economia

mafiosa”. Già nel 1876 Leopoldo Franchetti definì la mafia non come semplice

delinquenza o comportamento ma come una “industria della violenza”, accettata

socialmente come mezzo di risoluzione dei conflitti e come strumento di ascesa

sociale e praticata da vari soggetti a prevalente appannaggio dei facinorosi della

classe media, la cui sussistenza e sviluppo andavano ricercati nella classe

dominante

27

.

(16)

18

All’interno di questo filone di ricerca sulla mafia-impresa, agli inizi degli

anni ’90 fu Diego Gambetta che rielaborò, sulla base delle teorie di scelta

razionale e del concetto di fiducia, un modello di interpretazione della mafia

come forma di industria secondo l’approccio teorico per cui la mafia sarebbe

“un’industria che produce, promuove e vende protezione privata” in un

ambiente sociale solitamente contraddistinto da mancanza di fiducia da parte dei

cittadini nei confronti sia delle regole del mercato che delle leggi statali

28

. In

questo modello, gli attori che operano nel mercato sono soggetti razionali che

interagiscono tra loro fidandosi l’uno dell’altro per poter portare a termine in

maniera soddisfacente i propri scambi commerciali, ma a differenza dei classici

attori economici, che vendono beni e servizi tradizionali, i “mafiosi razionali” si

sono “specializzati” nella vendita di un bene non tradizionale, la protezione,

riuscendo a creare un vero e proprio mercato della protezione frutto, secondo

l’autore, della mancanza di fiducia presente all’interno della società siciliana. Il

mondo in cui la protezione è effettivamente molto domandata è quello dei

traffici illeciti poiché, anche se lo Stato è efficiente, in ogni caso l’illegalità dei

traffici li estromette dalla sfera di protezione statale dei diritti di proprietà che

entrano in gioco negli scambi illeciti. Per tale motivo la protezione mafiosa, in

assenza di un’industria specializzata, diventa fondamentale per tutti coloro che

operano in mercati illegali e che quindi decideranno inevitabilmente di

diventarne clienti.

Una mafia, dunque, a cui viene assegnata una funzione protettrice in

sostituzione di una protezione statale per tradizione insufficiente, in cui è proprio

l’elemento specifico della protezione che attribuisce al fenomeno mafioso la sua

vera identità. Tuttavia il bene a cui la mafia si è principalmente attaccata non è la

protezione bensì la violenza, tanto è vero che negli studi sul tema si parla di

“monopolio della violenza”, definizione con la quale si dimostra come lo Stato, a

differenza della mafia, non sia stato in grado di conquistare l’esclusivo controllo

dell’uso della forza nel sud Italia. Sulla base di ciò, il comportamento della mafia

(17)

19

è stato paragonato a quello dello Stato per via dei due beni da essi utilizzati,

come detto l’uso della forza e la protezione

29

.

Da questa prima analisi si può evincere come tanto lo Stato quanto la

criminalità organizzata operino con lo stesso criterio di fondo e con obiettivi e

interessi tra loro convergenti. Ad esempio, già nel 1918 il giurista siciliano Santi

Romano sostenne che al di sotto dello Stato vivono, spesso nell’ombra,

associazioni con una organizzazione assimilabile a quella dello Stato e aventi

autorità legislative ed esecutive, tribunali che giudicano controversie e

ordinamenti giuridici ben definiti, proprio come lo Stato

30

. Ciononostante,

Gambetta tende a precisare che in realtà il paragone tra mafia e Stato ha dei

chiari limiti e che è erroneo reputare la mafia un ordinamento giuridico, sia

perché essa non è un’entità centralizzata bensì un vero e proprio mercato

formato da molte imprese distinte, accomunate dalla stessa denominazione

commerciale e legate da un cartello, sia perché le norme da essa utilizzate sono

spesso manipolate e i criteri di uguaglianza e trasparenza sono del tutto

inconsistenti. Inoltre, aggiunge che il paragone diventa totalmente privo di senso

se si accosta la mafia a uno Stato costituzionale e democratico poiché la mafia

non è responsabile di fronte ai soggetti con cui interagisce, che tra l’altro non

possono essere definiti neanche cittadini ma al massimo clienti che ritengono

che farsi proteggere dalla mafia sia spesso solo il male minore

31

. Dunque, la tesi

sostanziale a cui giunge a Gambetta è che se si vuole paragonare la mafia a

qualcosa, questa deve essere un’industria, e non lo Stato

32

.

Assimilare la mafia a un’industria comporta che essa abbia un mercato

principale in cui offre i propri servizi e tale mercato è da cercare nel campo delle

transazioni instabili in cui la fiducia sull’affidabilità dei contraenti è fragile o

assente

33

. Un’industria con caratteristiche mafiose dipende dalla sostanziale

distinzione se essa produca e venda informazioni o garanzie. Se vende garanzie è

29 Ivi, pp. VIII-X 30 Ivi, p. XII 31 Ivi, p. IX 32 Ivi, pp. XV-XVI 33 Ivi, p. 8

(18)

20

probabile che si sviluppino atteggiamenti mafiosi, cosa che non succederebbe se

vendesse solo informazioni poiché ciò che è veramente in gioco nel caso della

mafia non è tanto la mancanza di informazioni quanto la mancanza di fiducia.

In merito al concetto di fiducia e di protezione si è creata una confusione

interpretativa nella misura in cui, secondo Gambetta, si è intesa letteralmente la

sua affermazione “la mafia vende fiducia”. L’autore a riguardo chiarisce che nelle

transazioni in cui la fiducia è assente, la protezione ne esprime solo un sostituto,

seppur nettamente peggiore perché, in primo luogo, rivolgersi a una terza parte

per trovare un accordo è più costoso che farlo da solo e, in secondo luogo,

affidarsi a dei protettori specializzati disincentiva la ricerca di metodi fiduciari più

efficaci gestiti direttamente dalle parti e fondate su conformi principi morali di

condotta. La posizione economica del mafioso è quella di proteggere i due

contraenti, acquirente e venditore, divenendo imprenditore di una merce

particolare, la protezione, elemento chiave che rende un mafioso tale per la sua

capacità di proteggere se stesso e gli altri da inganni e rivali. Da ciò si può

concludere che, se vi è scarsità di fiducia, le parti di una transazione possono

avere più di una motivazione razionale per pagare il servizio, sotto forma di

protezione, offerto dalla mafia che in tal modo non fa altro che estendersi e

divenire endogena al sistema

34

.

Non tutti i mafiosi hanno però le qualità necessarie per vendere con

successo garanzie e protezione. Come avviene per la produzione e la vendita di

qualsiasi bene, infatti, il ruolo richiede capacità particolari distinguibili in

condizionali, che dipendono dalle caratteristiche particolari del mercato

protetto, e in costanti, come la segretezza, lo spionaggio e l’omertà

35

. Per

convincere i clienti sulle proprie capacità di fornire protezione i mafiosi hanno

bisogno di forza, sia psicologica ma soprattutto fisica in quanto componente

essenziale per il mantenimento del ruolo di garante. Tuttavia, l’uso della violenza

nel mondo mafioso non è impiegata solo allo scopo di far rispettare i patti fra i

contraenti ma anche per via della concorrenza che viene a crearsi tra i protettori,

34

Ivi, p. 22

(19)

21

siano essi di imprese differenti o persino della stessa. La qualità della protezione,

infatti, si misura dalla maggior spietatezza di uno o dell’altro fornitore il quale da

un lato elimina i diretti rivali, dall’altro si garantisce un’ideale pubblicità nei

confronti dei clienti come soggetto sicuro e affidabile. Le ragioni intrinseche che

provocano i conflitti tra mafiosi sono riconducibili alla particolare natura della

merce venduta dai mafiosi, la quale fa sì che automaticamente la concorrenza si

colleghi alla violenza. Se infatti, come detto sopra, la spietatezza fa da misuratore

nel determinare la qualità della protezione, allora ci sarà da aspettarsi che un

mafioso più violento sarà considerato come un protettore più adeguato. La

durezza è una qualità senza sfumature, o si ha o non si ha, dunque la violenza va

considerata come una variabile dicotomica, a differenza delle merci tradizionali

che, invece, sono distribuite su diversi livelli di qualità. Da qui si comprende il

motivo per cui il mercato della protezione è di tipo monopolistico

36

.

Interpretando dunque la protezione come una vera e propria merce è possibile

spiegare come le attività mafiose quali lo spionaggio, la segretezza, la violenza, la

reputazione e addirittura le devozioni religiose non siano dei semplici codici

culturali arcaici e casuali ma delle vere e proprie risorse indispensabili al corretto

commercio della protezione. Tuttavia, per definire la mafia come un’impresa è

necessaria la presenza simultanea di tre componenti: i clienti, i proprietari e i

dipendenti

37

.

La protezione privata, anche se di per sé non è illegale, comporta però

una certa quantità di illegalità nel modo in cui viene concessa o venduta, ad

esempio in mercati illegali o in affari di corruzione. Ne consegue che il mercato

della protezione convive con le incertezze e i rischi derivanti per l’appunto

dall’illegalità di tale pratica che porta alla formazione, e affermazione, di rapporti

organici con un numero limitato di clienti tenuti sotto controllo per evitare la

possibilità di defezione. Questo aspetto della protezione è importante poiché

36

Ivi, pp. 42-43

(20)

22

l’esistenza di rapporti organici e durevoli con i clienti permette ai mafiosi di

eludere la legge

38

.

In sintesi, apporre un marchio di protezione definitivo rivela essere meno

costoso e complicato sia per il mafioso che per il cliente in quanto entrambi

hanno un interesse razionale nell’accordarsi su un contratto di durata indefinita

che, detto in termini economici, “internalizza” i clienti inglobandoli

permanentemente all’interno dell’impresa e trasformandoli praticamente in

proprietà. Questa è la base economica su cui si radicano legami simbolici come

l’amicizia o l’iniziazione integranti del rapporto mafioso di protezione, anche se è

il contratto di protezione il principale quadro strutturale entro il quale si

sviluppano i legami organici tra protettori e clienti. Legami sicuramente diffusi

nell’Italia meridionale dove anche il linguaggio stesso, ad esempio attraverso i

termini “famiglia” e “appartenenza”, rivela il divenire parte di qualcosa, per la

precisione di una proprietà, di una organizzazione

39

.

Possedere un’impresa di protezione vuol dire soprattutto essere

proprietari di una reputazione e avere fama di fornitore credibile di protezione.

In molti casi la proprietà della reputazione di un capomafia viene trasmessa al

figlio o ad altra persona fidata, non diversamente da quanto accade in

un’impresa normale, ed è proprio questo carattere “ereditario” della reputazione

che avvalora la tesi dell’esistenza della proprietà in ogni impresa mafiosa.

40

L’elemento fondamentale in comune tra le famiglie mafiose non è una

struttura centralizzata né una organizzazione permanente, bensì un’identità

commerciale di fornitori di protezione dove la mafia rappresenta un marchio

specifico dell’industria della protezione. Diventare parte della mafia significa

sottoscrivere un contratto di appartenenza con una sola determinata famiglia

poiché al di sopra della singola famiglia non vi è alcuna struttura superiore a cui

si debba prestare fedeltà. L’unico vero interesse che condividono le famiglie

38 Ivi, pp. 64-66 39 Ivi, p. 68 40 Ivi, pp. 71-72

(21)

23

mafiose consiste nel mantenimento e controllo di questo marchio sotto il quale

trarre benefici dal rispetto e timore a esso accostati

41

.

La tesi di Gambetta è stata criticata da Umberto Santino, che ne

sottolinea i limiti in termini di evidenza empirica e nell’affrontare il tema della

protezione esclusivamente come conseguenza della mancanza di fiducia

presente nella società siciliana. In opposizione a questo ragionamento, Santino

sostiene che l’idea di Mezzogiorno alla base di questa visione sia uno stereotipo

e che i movimenti di massa sorti in Sicilia, dal movimento contadino a quello

antimafia, sono una prova di un modello socialmente diffuso di cooperazione con

alla base un rapporto di fiducia tra coloro che vi partecipano. Aggiunge inoltre

che gli insuccessi dei movimenti, l’isolamento dei magistrati e il disfacimento del

pool antimafia si devono a motivazioni che nulla hanno a che vedere con

Palermo e con la Sicilia e di certo non vanno ricercate nella mancanza di fiducia e

cooperazione dei siciliani

42

.

Nel caso della ricostruzione di Gambetta si è inoltre rilevato come il

paradigma della protezione non considera la complessità storica e sociale delle

realtà analizzate e che quindi non è sufficiente a dare una spiegazione esauriente

ed univoca di tutti quegli aspetti che caratterizzano il fenomeno mafioso nella

società siciliana

43

. Così facendo lo studioso riduce la mafia all’esercizio di

un’unica attività non riuscendo a comprendere l’importanza che la mafia, nel

secondo dopoguerra, ha ricoperto nell’esercizio di svariate attività, dai

movimenti di denaro pubblico all’intensificazione degli appalti nel settore

dell’edilizia, senza dimenticare il ruolo centrale esercitato nell’organizzazione

degli equilibri politici regionali e nazionali. Da ciò ne deriva che la particolarità

della mafia siciliana va ricercata nell’insieme degli elementi che la costituiscono,

evidenziando ad esempio quelle componenti politiche, culturali e normative che

Gambetta nel suo studio pone in un ruolo secondario

44

.

41

Ivi, p. 216

42 U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli,

1995, pp. 57-58

43

G. Fiandaca – S. Costantino, op. cit., p. IX

(22)

24

In ragione di questi aspetti, l’attribuzione economica del paradigma

dell’industria della protezione teorizzata da Gambetta risulta essere parziale e

riduttiva tanto più se si considera, come tratto tipico della mafia siciliana, il suo

porsi come struttura di potere o ordinamento autonomo alternativo allo Stato

legale a cui contende, se non addirittura sottrae, il controllo del territorio e il

monopolio dell’uso della violenza legittima. Tali caratteristiche della mafia

siciliana accrescono il suo ruolo di soggetto politico volto maggiormente ad

obiettivi di potere piuttosto che a vantaggi economici

45

. Inoltre, gran parte della

letteratura specialistica concorda nel definire ogni criminalità organizzata come

un’impresa che offre “un particolare tipo di servizio, il servizio della

protezione

46

”, dunque, se così è, l’elemento specifico della mafia siciliana non

può essere individuato esclusivamente nella funzione della protezione dato che,

come appena detto, essa costituisce più generalmente un attributo comune a

tutte le forme di criminalità organizzata.

Infine, sempre in merito al paradigma della protezione, va sottolineato

che la mafia, oltre a essere produttrice di protezione verso l’esterno, è al

contempo consumatrice e beneficiaria della stessa, assumendo talvolta il ruolo di

cliente della protezione che le viene assicurata dai politici di turno. Si ha a che

fare quindi con una rete biunivoca di protezione in cui il sottosistema mafioso

funge da centro sia di produzione che di consumo.

1.3.1 “L’economia mafiosa” di Centorrino

Nell’ambito del rapporto tra mafia e sviluppo economico locale, rilevanti sono le

riflessioni sviluppate dall’economista Mario Centorrino. Lo studioso, rifiutando

l’impostazione classica che lega il concetto di mafia alla povertà e al

sottosviluppo, afferma che la mafia non va considerata esclusivamente come

fenomeno di criminalità ma come struttura di potere che opera stabilmente in

connessione con l’articolazione del sistema socio-politico per cui il cambiamento

45

Ivi, p. XI

(23)

25

più importante avvenuto nella struttura del potere mafioso è consistito nel

passaggio da un ruolo passivo di mediazione ad un ruolo attivo di accumulazione

del capitale al cui centro vi sarebbero gli appalti di opere pubbliche.

L’intreccio tra l’economia mafiosa e quella siciliana genera effetti negativi

soprattutto sull’ambito della cosiddetta imprenditorialità mafiosa. Sia che gli

imprenditori risultino essere vittime di Cosa Nostra sia che risultino essere collusi

o addirittura membri di essa, assistiamo a degli effetti depressivi e scoraggianti

sugli investimenti a causa degli alti costi di transazione che rappresentano delle

barriere all’ingresso nel mercato e quindi delle difficoltà nella costituzione di

nuove imprese. Inoltre, altra proprietà dell’imprenditorialità mafiosa è la

trasgressione delle regole sotto forma di violenza, in riferimento ai rapporti

economici, e di corruzione, in relazione a quelli politico-istituzionali, al fine di

disgregare tutti quei collegamenti che porterebbero invece alla formazione di

una economia sana e legale. Tali meccanismi di tipo mafioso ricadono

negativamente sia sui produttori, per via della minor efficienza produttiva, che

sui consumatori, che dovranno fronteggiare prezzi maggiori

47

. In questo modo

Centorrino tenta di dimostrare che non è il particolare tipo di sistema economico

siciliano che crea la mafia ma, viceversa, è l’esistenza della mafia stessa che lo

condiziona.

L’essenza del potere mafioso non starebbe dunque nella sua capacità di

stabilire rapporti d’interesse con le altre sfere dell’economia, della società e della

politica, quanto nell’esercizio di vere e proprie funzioni imprenditoriali in settori

industriali e nella distribuzione di beni e servizi, attività non di copertura bensì

sbocchi fondamentali finalizzati a consolidarne le posizioni e ad allargarne la

scala di rendimento

48

. In appoggio a tale argomentazione, Centorrino chiama in

causa il modello di Hess. Questi ipotizza che la mafia non sia un’organizzazione

ma un metodo, consistente nella violenza fisica o nella minaccia, attraverso il

quale il mafioso agisce per procurarsi profitti materiali e prestigio da conseguire

47

M. Centorrino, Mafia ed economie locali: un approfondimento dei tradizionali modelli d’analisi, in op. cit., a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, pp. 250-252

(24)

26

o con attività illegali (rapina, furto, estorsione) o con una regolare attività

economica tendente però, attraverso la violenza e la minaccia, ad escludere dal

mercato gli eventuali concorrenti

49

.

Le correlazioni tra l’estendersi del potere mafioso e la mancata

realizzazione di un concreto processo di industrializzazione in Sicilia sono state

uno dei temi preferiti dalla letteratura meridionalista, la quale trasse la

conclusione che mafia e sviluppo industriale fossero incompatibili tra loro. Quello

che emerge dalla relazione tradizionale mafia-industria è dunque il ruolo

“ritardante” del potere mafioso, la sua tendenza a sconvolgere razionalità

economiche e strategie produttive, la sua valenza sostanzialmente anti-sviluppo.

La capacità di ricerca di questo modello è però assai limitata. L’industrializzazione

senza sviluppo siciliana ha alla base ragioni più complesse della semplice

compresenza di un’organizzazione mafiosa

50

.

C’è, inoltre, un approccio all’economia della mafia che insiste molto sulle

connessioni tra potere mafioso, attività edilizie e finanziamenti bancari. In Sicilia,

nel corso degli anni ’50, la borghesia agraria mafiosa si trasforma in borghesia

urbana imprenditoriale, grazie ad una complicità di fondo che fa delle banche

uno strumento portante per gli interventi imprenditoriali dei gruppi mafiosi. A

dimostrazione di un rapporto di cointeresse tra banche ed attività mafiosa vi fu

l’incremento enorme della presenza bancaria che si registrò in quegli anni nel

territorio siciliano. Il modello proposto è dunque quello di un’attività economica

della mafia sostanzialmente ancorata al settore delle opere pubbliche e

strettamente collegata, per il necessario sostegno finanziario, ad un settore

bancario creato ad hoc su cui confluirebbero i proventi delle attività illecite

51

.

In merito invece agli intrecci tra l’azione della mafia, finalizzata

all’accumulazione del denaro, e l’economia del territorio, l’economia mafiosa

siciliana si è poggiata su tre meccanismi tra loro interrelati: la destinazione di

fondi reperiti con azioni criminose (sequestri, estorsioni) a ulteriori attività

49 Ivi, pp. 14-15 50 Ivi, pp. 15-17 51 Ivi, pp. 18-19

(25)

27

illecite (traffico di stupefacenti) o a attività formalmente lecite avviate con la

copertura di società controllate da persone di fiducia; l’uso delle banche come

strumenti per il funzionamento dei loro livelli di attività; l’inserimento nel settore

edile con conseguente controllo degli appalti pubblici oltre che l’approvazione di

ampi flussi di spesa pubblica. Questi tre meccanismi concorrono al processo di

sviluppo dell’economia mafiosa, ma sicuramente quello per cui la mafia non può

prescindere è il sistema bancario, indispensabile per riciclare il denaro sporco,

per occultare arricchimenti improvvisi e per fungere da polmone finanziario

all’intera organizzazione

52

.

1.3.2 La mafia imprenditrice secondo le tesi di Arlacchi e Catanzaro

Altri studiosi hanno formulato metodi approfonditi basati fondamentalmente sul

ruolo imprenditoriale della mafia, su tutti Pino Arlacchi e Raimondo Catanzaro.

Dalle ricerche svolte da Arlacchi emerge principalmente l’idea

dell’impresa mafiosa

53

, vale a dire una criminalità organizzata che nel corso della

sua fase di sviluppo ed evoluzione, soprattutto durante il processo di

industrializzazione, ha iniziato ad occuparsi di attività imprenditoriali

allontanandosi sempre più dal primitivo ambiente agrario. Attività quali traffici

illeciti di stupefacenti e riciclaggio di denaro sporco, infatti, necessitano di una

struttura organizzativa paragonabile a una vera e propria impresa

multinazionale, divisa per settori specializzati e distribuita sistematicamente sul

territorio. Su queste basi, Arlacchi constata che tale fase imprenditoriale ha

prodotto un taglio netto con la “vecchia” mafia, una trasformazione totale e

strutturale delle sue strategie, adesso principalmente incentrate sull’uso

costante e spregiudicato della violenza.

L’impresa mafiosa costituisce un tipo di impresa la cui superiorità

economica sulle altre imprese viene garantita da tre elementi specifici che

52

Ivi, pp. 25-31

53

P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 108

(26)

28

costituiscono vantaggi competitivi rispetto ad una impresa “normale”: la

creazione di un ombrello protezionistico intorno al mercato di pertinenza

dell’impresa mafiosa tramite lo scoraggiamento della concorrenza conseguito

con attività di intimidazione

54

; la compressione salariale (evasione dai contributi

previdenziali e assicurativi, non pagamento degli straordinari) e la maggiore

fluidità della manodopera in essa occupata

55

; la maggiore disponibilità di risorse

finanziarie rispetto ad una normale piccola e media impresa industriale, oltre a

un accesso privilegiato al circuito bancario legale che permette all’impresa

mafiosa di disporre di liquidità con una facilità sconosciuta a qualunque altro

imprenditore

56

.

La crescita della mafia imprenditrice non ha avuto luogo all’interno di un

generalizzato processo di sviluppo economico dato che le zone siciliane e

calabresi in cui essa si è radicata con eccezionale veemenza non risultano tra le

aree di maggior crescita della produzione e degli investimenti. L’espansione delle

imprese mafiose non si è quindi realizzata in corrispondenza di uno sviluppo

delle imprese già esistenti ma è consistito in un processo di sostituzione delle

prime con le seconde, in nuove aziende che, invece di incorporarsi nelle vecchie,

hanno iniziato a produrre in concorrenza con quest’ultime

57

.

Il modello teorico costruito da Arlacchi sottolinea l’esistenza

contemporanea all’interno dell’organizzazione mafiosa di due forme di

accumulazione: una “violenta” e l’altra “pulita”. L’accumulazione violenta punta

sostanzialmente a consumi non legalizzati (droga, prostituzione, sequestri) con la

funzione di procacciare liquidità. Tale liquidità proveniente dal “sommerso”

serve alla mafia innanzitutto per autofinanziare l’ulteriore espansione, per

proteggere la manovalanza impiegata e infine per nutrire l’accumulazione

“pulita”

58

.

54 Ivi, p. 109 55 Ivi, p. 115 56 Ivi, pp. 120-124 57 Ivi, p. 131

(27)

29

La sua tesi riesce a cogliere le attività mafiose nella loro completezza

senza rimanere imbrigliata nello schema interpretativo gambettiano della

protezione ma le critiche ad essa rivolte riguardano il fatto che l’autore intende

la natura imprenditoriale della mafia come suo unico tratto caratterizzante,

mentre Santino sottolinea come questa sia un suo elemento qualificante sin dalle

origini, così come il ricorso all’uso della forza.

Catanzaro propone una più scrupolosa e completa valutazione delle

attività gestite dall’organizzazione mafiosa in base alla loro relazione con il

potere economico, politico e militare del territorio in cui operano. Lo studioso,

servendosi della classificazione compiuta nel 1980 dal criminologo Alan Block nel

suo studio sul crimine organizzato a New York, divide le attività in due distinte

tipologie definendo la mafia come “enterprise syndicate” se questa svolge

attività economiche volte in primis alla programmazione di traffici illegali,

caratterizzandola come impresa, oppure come “power syndicate” se invece attua

un comportamento di controllo militare del territorio da cui deriva il suo potere e

agire politico

59

. In merito a quest’ultima descrizione, le organizzazioni mafiose

operano nell’ambito della protezione e per ottenerne il monopolio si pongono

violentemente in competizione con lo Stato e non, come sostiene Gambetta, in

sua assenza. In questo caso i mafiosi, oltre ad essere imprenditori della

protezione privata, devono essere soprattutto imprenditori della protezione

violenta, il cui utilizzo è strumentale per stabilire un rapporto di protezione che

sia anche un rapporto di estorsione

60

. Catanzaro afferma che la mafia nasce

come “power syndicate” per poi inserirsi all’interno dell’enterprise syndicate.

59

R. Catanzaro, La mafia, in La criminalità in Italia, a cura di U. Gatti e M. Barbagli, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 25

(28)

30

1.4 Mafia, politica e istituzioni

Da sempre la mafia siciliana si contraddistingue per lo stretto legame che

intercorre tra essa e la politica, un rapporto che si è andato evolvendo nel corso

del tempo e che negli ultimi anni si è arricchito di elementi oscuri e ambigui. Le

connessioni con il sistema politico, storicamente, hanno rappresentato un punto

di forza delle associazioni mafiose e un elemento di impulso alla loro diffusione. Il

punto di domanda è capire se alla base di queste relazioni sia presente una forte

logica sistemica tra i due poteri tale da creare una convergenza di interessi che in

seguito possa tradursi in accordi strategici non occasionali volti a conseguire

obiettivi reciproci. Un secondo interrogativo riguarda l’eventuale raggiungimento

di una autonomia politica da parte della mafia, nell’ipotesi che Cosa Nostra sia in

grado di formulare una propria e autonoma strategia politica, anche senza

l’intervento di forze e soggetti esterni.

Per via della reale sovranità che le cosche mafiose esercitano sul

territorio, queste hanno il potere di gestire blocchi di voti da promettere ai

politici che, avendo diretta accessibilità alle istituzioni e alle risorse pubbliche,

contraccambiano il “favore” con vantaggi, quali l’ottenimento dell’impunità o di

affari nel settore degli appalti, fondamentali ai mafiosi per continuare ad

esercitare la propria egemonia su quel determinato territorio. Nelle aree di

insediamento tradizionale (Sicilia, Campania, Calabria), il controllo del territorio e

la ricerca del potere politico prevalgono sugli obiettivi economici e pur di

mantenerli la mafia è disposta a farsi carico di costi più elevati e rinunciare

all’espansione degli affari e all’accumulazione di ricchezze

61

. A riguardo il giudice

Ayala, in seguito ai risultati acquisiti dalle indagini giudiziarie relative al

maxiprocesso contro Cosa Nostra, ha sostenuto la tesi che il rapporto con il

potere politico non è organico da un punto di vista strutturale bensì in funzione

delle concrete finalità da raggiungere, che chi prende voti dalla mafia ne è

assolutamente cosciente e non vuole perderli, quindi finché Cosa Nostra

(29)

31

continuerà a rappresentare una affidabile forza elettorale la messa in pratica di

tale comportamento non sarà mai prossima allo zero

62

.

Un rapporto tra mafia e politica che si presenta dunque come uno

scambio di beni nel particolare mercato della protezione teorizzato, come

precedentemente esaminato, da Gambetta la cui tesi però andrebbe rivisitata

poiché come si è visto la mafia non solo vende protezione, ma a sua volta la

riceve da parte di legittimi poteri istituzionali che, per ottenere consenso,

garantiscono l’attuazione di funzioni pubbliche sensibili agli interessi

dell’organizzazione mafiosa

63

.

Stando alla tesi di Galasso, il sistema mafioso, di cui Cosa Nostra è

soltanto una componente, è un sistema complesso ed esteso che ha i suoi

referenti nelle istituzioni e nei partiti. Egli sostiene che la questione non vada

basata sull’esistenza di rapporti tra mafia e politica, bensì su una politica che

diventa letteralmente mafiosa per cui non esisterebbe alcuna distinzione tra le

due entità

64

. In opposizione a tale spiegazione, il giudice Falcone, riferendosi ai

delitti politici, scrisse che l’idea del “terzo livello”, indicando con tale definizione

una struttura sovraordinata a Cosa Nostra in cui risiedono personaggi politici ed

esponenti dello Stato che impartiscono ordini alla cupola, è del tutto infondata e

ingannevole poiché non esiste alcuna dimostrazione che accerti la presenza di un

superiore vertice direttivo che si serva della mafia, al di fuori del suo controllo,

come terminale di decisioni politiche

65

. Opinione appoggiata anche dalla

Commissione parlamentare antimafia la quale, nella relazione del 6 aprile 1993,

sottolineò che è erroneo identificare il rapporto tra mafia e politica come un

qualcosa di totalizzante che assorbe tutte le attività dei due soggetti in quanto

Cosa Nostra ha una propria strategia non mutuata da altri, bensì imposta agli

altri con la corruzione e la violenza. Al corrente delle sfaccettate manifestazioni

politiche della mafia e per anni impegnato nel penetrarne le radici al fine di

combatterla organicamente, era anche l’allora colonnello dei Carabinieri Carlo

62 G. Ayala, La lobby mafiosa, rivista Micromega, n° 4, 1988, pp.15-18 63

P. Pezzino, op. cit., in op. cit., a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, p. 23

64

A. Galasso, La mafia politica, Baldini & Castoldi, Milano, 1993, pp. 10-12

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