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La navigazione fluviale in epoca romana. Il caso di Pisa e della valle dell'Arno

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La navigazione fluviale

in epoca romana.

Il caso di Pisa e della valle

dell'Arno

Introduzione

1. Premesse sulla definizione della disciplina...pp.4 2. Differenti tipi di navigazione...pp.6 3. Le fonti della disciplina...pp.8

Capitolo 1: La navigazione fluviale nel mondo

antico

1. L'origine della navigazione per fiumi e canali...pp.13 1. La navigazione fluviale nell'Età del Bronzo

in Italia settentrionale...pp.23 2. La navigazione fluviale in epoca romana...pp.29 1. La navigazione militare...pp.33 2. La navigazione civile...pp.38 3. Le navi di Nemi...pp.50 4. La scelta del legno...pp.57 3. La navigazione fluviale in epoca tardo-antica...pp.59

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Capitolo 2: La navigazione fluviale e il

commercio

1. Il commercio in età romana...pp.64 1. Modelli commerciali in età romana...pp.69 2. Il trasporto commerciale fluviale...pp.70 1. Il Tevere...pp.71 2. L'area alto-adratica...pp.76

3. I fiumi delle province imperiali...pp.82

Capitolo 3: La vita di bordo e la gestione

della navigazione fluviale

1. La vita di bordo...pp.85 1. L'attrezzatura navale...pp.89 2. Gli oggetti di bordo...pp.94 3. L'alimentazione e la pesca...pp.96 2. La gestione della navigazione fluviale...pp.99

Capitolo 4: Un caso di studio,

Pisa e l'Arno

1. Paleografia costiera e sistema portuale

dell'Etruria settentrionale...pp. 102 1. La costa versiliese e Isola Migliarino...pp.103 2. Pisa e Portus Pisanus...pp.104 3. Vada Volaterrana...pp.110 4. I legami tra il territorio pisano

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5. La costa da Populonia a Cosa...pp.113 2. La valle dell'Arno in età romana...pp.116 3. Pisa attraverso le fonti...pp.122 4. I traffici commerciali pisani...pp.131 5. Le navi antiche di Pisa...pp.137

1. Il contesto paleoambientale dello scavo...pp.139 2. Le alluvioni e i relitti...pp.142 3. Finiture e anfore...pp.147

Osservazioni conclusive

...pp.149

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Introduzione

1. Premesse sulla definizione della disciplina

Una delle prime problematiche da affrontare quando trattiamo le materie archeologiche che si occupano dello studio di strutture, depositi, relitti navali o materiali che giacciono sul fondo del mare o di acque interne è quella relativa alla terminologia da impiegare per definire la disciplina stessa.

Soprattutto in Italia sono state, e tuttora vengono, utilizzate indiscriminatamente numerose definizioni per indicare l'area disciplinare, come ad esempio archeologia subacquea, archeologia delle acque, archeologia marina, archeologia sottomarina e altre ancora. Questa incertezza terminologica alimenta confusione e ambiguità, le quali rendono complesso l'approccio alla materia.

Alcuni autori1 hanno tentato di conciliare le varie espressioni

circolanti in ambito archeologico specificando i contenuti e le differenze esistenti. In particolare, C. Beltrame ha proposto una teoria la quale si basa su una distinzione tra l'aspetto pratico e tecnico da un lato e la componente interpretativa e storica dall'altro. Egli ritiene che si debba utilizzare l'espressione “archeologia subacquea” per definire la componente squisitamente tecnica dell'archeologia, che si occupa di problematiche operative della ricerca e della salvaguardia del patrimonio archeologico sommerso. L'archeologo subacqueo è quindi colui in grado di operare in

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ambiente sommerso impiegando tecniche di ricerca, documentazione, scavo e recupero mutuate dall'archeologia di terra e adattate all'indagine subacquea. All'interno di questa disciplina si collocano numerosi settori di specializzazione che attengono alle diverse condizioni ambientali del sito. Il comune denominatore è l'acqua, ossia l'ambiente di giacitura, ma può variare tra fluviale, lacustre, lagunare, ipogeico e marino a seconda del contesto effettivo di ritrovamento.

Occorre sottolineare che alcuni studiosi ritengono che la dicitura “archeologia delle acque” sia da preferire rispetto a quella di “archeologia subacquea”, in quanto più attinente ai nuovi ambiti di espansione della disciplina stessa2; tuttavia

la seconda mantiene un forte retaggio storico che ne mantiene vivo l'utilizzo.

A questa componente tecnica si affianca e contrappone un nuovo campo accademico e professionale, il cui oggetto di interesse va individuato nella storia del rapporto tra l'uomo e l'acqua attraverso lo studio della cultura materiale. Questa disciplina viene chiamata da Beltrame (riprendendo la definizione già proposta da Muckelroy3) archeologia

marittima. Il suo campo di indagine è lo studio scientifico dei resti lasciati dall'uomo nel corso delle sue attività in mare e lungo le coste marine, ossia tutti gli aspetti di quella che si può definire come “cultura marittima”, cioè tutte le sfaccettature del rapporto uomo-mare: tecnico, sociale, economico, politico e religioso.

2 Si pensi, ad esempio, alle ricerche archeologiche nei siti dei porti urbani.

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L'archeologia marittima può essere definita una disciplina storica che non ha limiti cronologici. Il suo principale campo di studio è l'indagine di naufragi o affondamenti di imbarcazioni in mare, ma si occupa, altresì, degli aspetti legati alla navigazione, alla portualità,al commercio, alla costruzione navale e alla vita di bordo, non solo in ambiente marino ma anche in fiumi e lagune.

Il nome di questa disciplina evidenzia la preponderanza degli studi e delle ricerca in ambito marino rispetto a quelli negli altri contesti acquatici. Certamente questo campo di indagine è quello più sviluppato e approfondito, tanto da aver acquisito una autonomia accademica e di nomenclatura, nonostante sia una branca giovane nella storia dell'archeologia. Tuttavia in considerazione dell'ampliamento e dell'approfondimento che sta interessando anche gli altri contesti non marini, si dovrebbe attribuire la stessa dignità anche all'interpretazione storica delle indagine svolte in ambienti fluviali, lagunari, lacustri e ipogeici, magari modificando la terminologia utilizzata per indicare la disciplina così da ricomprendervi e valorizzare anche questi settori.

2. Differenti tipi di navigazione

Le tipologie di navigazione si distinguono, innanzitutto, in rapporto all'ambiente in cui sono praticate, dunque navigazione marittima e navigazione interna, che a loro volta comprendono ulteriori specifiche. Fanno parte della navigazione marittima quella oceanica e quella nei mari

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chiusi o interni. Una suddivisione interna alla navigazione marittima riguarda le modalità di navigazione, la tipologia e le dimensioni delle imbarcazioni; si ha così la navigazione di piccolo cabotaggio4, di grande cabotaggio5 e d'altura6.

Rientrano nella navigazione interna, invece, quelle che si svolgono nei fiumi o canali (n. fluviale), nei laghi (n. lacustre), nelle lagune (n. lagunare), nelle paludi e negli altri specchi d'acqua minori.

In quanto alle finalità della navigazione, queste erano molteplici: commerciale, militare, di esplorazione, di colonizzazione, per la pesca e altre forme. Nell'antichità non esisteva la navigazione passeggeri con ruolo autonomo per via mare, in quanto chi doveva affrontare un viaggio usufruiva del passaggio a bordo delle navi commerciali, lungo le rotte che queste praticavano normalmente per il trasporto delle mercanzie. Come vedremo7, parzialmente

diversa era la situazione sulle acque interne.

Venendo adesso alle tecniche di navigazione, occorre precisare che nell'antichità non vi erano le conoscenze

4 Il cabotaggio è la navigazione che si svolge con la terra in vista, letteralmente “da capo a capo”, senza lanciarsi in mare aperto. Il piccolo cabotaggio è svolto normalmente da imbarcazioni di piccole o medie dimensioni, che si spostano da porto a porto, lungo la costa. 5 Il grande cabotaggio è una navigazione con la terra in vista ma che si

svolge su lunghe distanze senza scalo, viaggiando giorno e notte per più giorni consecutivi, restando al largo per evitare i pericoli degli scogli e dei bassifondi, ma sufficientemente vicino ala costa per poter sfruttare le brezze di terra e di mare. Può essere praticato da imbarcazioni di medie o grandi dimensioni. Il grande cabotaggio prevede spesso dei tratti di navigazione d'altura.

6 La navigazione d'altura è quella che si svolge in mare aperto senza la terra in vista; si affrontano le traversate dirette da porto a porto con la durata di più giorni. Essa veniva praticata con navi di grandi dimensioni.

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scientifiche e gli strumenti nautici sui quali oggi si basa la scienza nautica8; la navigazione era un'arte costituita da un

gigantesco complesso di conoscenze pratiche e metodologiche, basate sull'esperienza e su un sistema culturale collaudato e tramandato oralmente.

3. Le fonti della disciplina

Lo studio della navigazione fluviale e degli aspetti inerenti a tale attività nel mondo antico si basa sulla comparazione di tutte le fonti a nostra disposizione, in quanto, prese ognuna singolarmente, esse non ci permettono di giungere a conclusioni di carattere generale. Questa situazione di frammentarietà delle fonti caratterizza tutto il periodo antico e coinvolge una considerevole parte del Medioevo.

A tal proposito non possiamo escludere, per il nostro tema, le fonti relative alla navigazione marittima, le quali, per peculiari aspetti di studio (come la costruzione navale, l'attrezzatura di bordo, il commercio etc.), sono valide e utilizzabili anche per la navigazione fluviale, tramite una estensione analogica e comparativa. Si deve inoltre considerare che la navigazione marittima, per particolari ragioni storiche di cui si dirà successivamente, è stata quella più approfondita e studiata rispetto agli altri tipi.

Tra le fonti scritte, lo spazio più rilevante nel periodo

8 Nell'antichità non erano possibili né la navigazione stimata né la navigazione astronomica. Circa la navigazione stimata, mancavano infatti gli strumenti necessari a calcolare direzione, velocità e tempo in modo preciso, che sono fondamentali per tale tipo di navigazione; gli strumenti in questione sono, rispettivamente, bussola, solcometro e cronometro. Riguardo la navigazione astronomica, invece, mancavano altresì le conoscenze scientifiche e matematiche per capire, utilizzare e calcolare longitudine e latitudine.

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considerato è occupato dalle fonti letterarie. Numerose sono le opere che, in modo indiretto, ci informano sulla navigazione, sulla vita di bordo, sulle tipologie di navi e sui commerci nel mondo antico. Ciò accade in tutti i generi letterari, non solo nelle opere storiche e geografiche, ma anche in quelle poetiche e filosofiche, nella commedia e nel romanzo. Più considerevole è la letteratura greca, basti pensare all'Odissea, alle Argonautiche e ai Peripli9 che ci

sono giunti. Tuttavia, anche la letteratura latina è ricca di riferimenti alla navigazione in autori estremamente noti come Strabone, Plinio il Vecchio, o Vegezio. Il limite intrinseco di questo genere di fonti sta nella loro stessa natura: ciò che si è conservato riconduce sostanzialmente a riferimenti di carattere generale, con l'attenzione rivolta agli aspetti di genere, a quelli epici o drammatici, spesso stereotipati e trasformati in veri e propri cliché letterari. Fortunatamente, tra le righe, compaiono talvolta dei

9 Letteralmente il termine periplo indica la circumnavigazione, ma la parola ha assunto un significato più ampio. Nella definizione di peripli sono confluite diverse tipologie di documenti, da quelli prettamente geografici, che trattano la descrizione sistematica delle coste, ai resoconti dei viaggi di esplorazione. I tratti che accomunano tutti questi documenti sono: il presentare la geografia dei luoghi seguendo il procedere della navigazione lungo la costa e negli attraversamenti d'alto mare, secondo un principio descrittivo di tipo unidimensionale; la lingua greca; il sistema per definire le distanze in giornate di navigazione. Essi di basano sulle informazioni raccolte dai naviganti con la loro esperienza pratica, senza alcuna conoscenza scientifica di base; frequenti sono le notizie di carattere storico, mitologico, geopolitico e commerciale. I peripli antichi per tale motivo non possono essere assimilati a dei portolani. Unica eccezione è il cd. Stadiasmus Maris Magni, testo risalente alla metà del I sec d.C, diviso in 4 sezioni principali ( G.Uggeri, Stadiasmus Maris Magni : un contributo per la datazione, Africa romana XI 1996). Esso infatti, nonostante abbia le caratteristiche tipiche di un periplo antico, possiede degli elementi tecnici e delle informazioni omogenee e lineari che lo avvicinano a quelle che saranno le caratteristiche dei futuri portolani.

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riferimenti specifici, i quali però devono essere integrati e confrontati con le risultanze provenienti da altri tipi di fonti. Assai meno numerose sono, invece, le fonti documentarie per il periodo considerato. Non ci sono, infatti, giunti molti documenti archivistici dal periodo antico relativi al tema trattato. Allo stesso modo non esistevano o non ci sono giunti manuali tecnici in tema di tecniche di navigazione o di costruzione navale paragonabili a quella di Vitruvio sull'architettura. Per opere di queste genere si dovrà attendere il XV sec. Il motivo principale di questa carenza va imputato al fatto che le regole dell'ars navigandi e della costruzione di imbarcazioni erano affidate alla memoria dei naviganti e dei maestri d'ascia, ossia appartenevano fondamentalmente ad un bagaglio di conoscenze pratiche trasmesse oralmente e non codificate in forma scritta. Sulla base di alcuni riferimenti delle fonti, non si può comunque escludere che esistesse anche una letteratura tecnica che non si è conservata.

Una particolare tipologia di documenti è rappresentata dalle carte nautiche. Sebbene lo sviluppo degli studi geografici e cartografici nel mondo antico permise di giungere a risultati di grande rilievo e a una rappresentazione cartografica del mondo allora conosciuto estremamente precisa10, non

furono mai realizzate delle carte nautiche propriamente dette. Le carte nautiche servono per orientarsi in mare e guidare la nave con la navigazione stimata; esse sono strumenti pratici di cui la navigazione antica non necessitava

10 Si veda in tal proposito la cd. Tabula Peutingeriana. Essa è una copia del XII-XIII secolo di una carta romana delle metà del IV sec.d.C. che mostra le vie dell'Impero romano.

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in quanto non basata su quel tipo di navigazione.

Anche le fonti epigrafiche possono aiutarci nello studio della navigazione nel mondo antico, ed in particolare le iscrizioni di epoca romana che sono in grado di fornirci elementi utili per ricostruire la regolamentazione e l'organizzazione della navigazione fluviale.

Fonte estremamente rilevante per lo studio della navigazione, e in particolare per l'aspetto della costruzione navale, è l'iconografia. Immagini di navi, in tutte le epoche, sono state eseguite su ogni tipo di oggetto artistico e artigianale (vasellame, rilievi scultorei, mosaici).

L'iconografia bidimensionale è talvolta l'unica informazione disponibile riguardo alla forma delle navi e al loro aspetto esteriore al di sopra della linea di galleggiamento, alla velatura e alla timoneria. In conclusione, conosciamo l'aspetto delle navi antiche grazie a tali riproduzioni visive, che ci permettono di colmare i vuoti archeologici. Tuttavia queste immagini vanno interpretate con cura in quanto numerosi sono i rischi connessi a tali fonti. Ad esempio, gli esecutori potevano commettere errori di rappresentazione non essendo esperti in materia, oppure le raffigurazioni potevano essere deformate per esigenze artistiche o pratiche o ancora le rappresentazioni erano solo parziali11.

Un particolare tipo di rappresentazione iconografica è quello effettuato sulle monete. In particolare dalla fine della Repubblica, con le emissioni monetali di Pompeo e Ottaviano, cominciamo a trovare rappresentazioni di navi da guerra.

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Di grande aiuto all'archeologo navale può essere la fonte etnografica, ossia quel patrimonio costituito da imbarcazioni, cantieri, ricoveri per navi, carpentieri ecc, ancora presente o scomparso da pochi decenni, appartenente a una tradizione o cultura radicata nei secoli passati12. Si tratta di condizioni

presenti in località in cui sopravvivono piccole società non industrializzate, dove la conoscenza si è trasmessa per via orale e si sono mantenute forti tradizioni navali risalenti a molti decenni o secoli addietro. Questo tipo di fonte è estremamente utile per interpretare i periodi più antichi. Infine vi sono le fonti archeologiche che, essendo dirette, sono tra quelle più rilevanti, cioè i relitti.

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Capitolo 1: La navigazione fluviale nel mondo

antico

1. L'origine della navigazione per fiumi e canali

Le prime testimonianze sulla navigazione sono relative a spostamenti su imbarcazioni lungo fiumi e canali. Esse provengono dalla Mesopotamia e risalgono già alla fine del V millennio a.C.

La prima forma di navigazione conosciuta è, quindi, proprio quella lungo il Tigri e l'Eufrate e i relativi canali. É infatti logico che i primi tentativi di navigazione si siano svolti sopra acque calme come quelle di fiumi e stagni.

La mancanza di resti archeologici di imbarcazioni, che si protrae fino alla metà III millennio a.C, è compensata da altri tipi di fonti che ci permettono di ricostruire i tipi di natanti usati, le modalità di navigazione e i principali scopi di utilizzo. Tra le fonti più importanti troviamo i modellini, principalmente in terracotta13, le raffigurazioni su vasi o

sigilli e i bassorilievi scolpiti nei palazzi. Dall'inizio del III millennio a.C, inoltre, la navigazione in Mesopotamia può essere ricostruita anche grazie alle prime testimonianze scritte: si tratta di documenti di tipo lessicale, economico, legale ma anche di testi letterari che forniscono un quadro della già complessa organizzazione della navigazione commerciale lungo le due grandi arterie fluviali.

13 Tra questi quello proveniente da Eridu e datato alla fine del V millennio è considerato il più antico. Tra i modellini in materiale diverso dalla terracotta si segnala un modellino in argento proveniente da Ur, datato al 2700-2600 a.C, che rappresenta una barca spinta da pagaie.

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Ciò che emerge è che la rete di navigazione interna era molto sviluppata grazie al Tigri e all'Eufrate, ai loro affluenti e ai vari canali artificiali di irrigazione, i quali permettevano di trasportare le merci14 in modo più sicuro, agevole ed

economico che via terra, poiché ogni città principale era servita da una via d'acqua. Dai documenti più tardi, risalenti al periodo paleo-babilonese (inizio del II millennio a.C.), ricaviamo che le vie fluviali erano costellate da punti di controllo che riscuotevano i diritti di passaggio. Le merci più comuni che si trasportavano erano cereali, vino e legname. Le barche fluviali utilizzate per il trasporto delle merci in Mesopotamia tra il V e il II millennio a.C. sono state identificate in due tipologie principali, la quffa e il kelek. La

quffa15 era una barca circolare simile a un catino con

14 Tra le merci più importanti che venivano trasportate si segnalano l'ossidiana del lago Van, il legno di cedro dai monti Amano, il bitume dal Medio Oriente, il marmo dai monti Taurus e il rame dalle coste meridionali del Mar Nero.

15 Troviamo una accurata descrizione della quffa in un testo molto più tardo ma estremamente affidabile e che ci mostra la continuità nell'utilizzo delle forme navali. Nel V sec a.C Erodoto scrive: “Ma ora parlerò di quella che a mio parere costituisce la meraviglia più grande di Babilonia, dopo la città naturalmente: possiedono imbarcazioni, di forma circolare e interamente di cuoio, che arrivano fino a Babilonia scendendo lungo la corrente del fiume. Nella regione d'Armenia , a nord dell'Assiria, essi fabbricano lo scafo con vimini tagliati opportunamente e vi distendono intorno delle pelli per ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la poppa e non modellano una prua più stretta; le fanno invece rotonde come uno scudo; poi ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di mercanzie e lasciano che sia il fiume a portarla; per lo più imbarcano recipienti fenici colmi di vino. Con due pertiche due uomini in piedi ne governano la direzione: mentre uno tira verso di sé la pertica l'altro la spinge in fuori. Imbarcazioni di questo tipo ne costruiscono di molto grandi e di piccole: le più grandi hanno una stazza di 5000 talenti. Su ogni battello viaggia un asino vivo, sulle barche più grandi ve n'è più d'uno; una volta arrivati a Babilonia scendendo lungo la corrente e , smerciato il carico, vendono lo scafo e tutte le canne al miglior offerente; le pelli invece le caricano sull'asino e se ne ritornano in Armenia. Infatti in nessun modo è possibile risalire il fiume in battello

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un'armatura di legno di vimini e canne coperta con pelli e impermeabilizzata con bitume. Il kelek era una grande zattera di legno attrezzata con sacche di pelle (otri) attaccate ai bordi dell'imbarcazione stessa che fungevano da galleggianti, permettendo il trasporto di pesi ingenti.

Dal IV millennio troviamo anche le prime raffigurazioni nautiche in Egitto. Le prime imbarcazioni egizie erano zattere di piccole dimensioni costruite con fasci di canne di papiro legati strettamente assieme con cavi e corde anch'essi di papiro. Queste piccole barche erano utilizzate per attraversare i fiumi o per percorrerli in senso longitudinale. Le loro estremità si rialzavano in larghe curve; questa peculiare forma, che ritroviamo dipinta sui vasi egizi o sulle pareti delle tombe, oppure rappresentata da modelli in terracotta o scolpita su avorio, ha portato ad indicare queste zattere con il nome di imbarcazioni

boomerang. Esse erano sospinte da pagaie che venivano

semplicemente tenute in mano e spinte dentro o fuori rispetto al fianco dell'imbarcazione per governarla. Queste imbarcazioni avevano una forma asimmetrica con una poppa più rialzata della prua ed erano caratterizzate da una serie di cordami che assicuravano compattezza dei fasci e che si trovavano su tutta la loro lunghezza16.

Le zattere di papiro venivano impiegate solo nella navigazione fluviale e avevano comunque una vita breve in

per via della corrente troppo forte; e questo è anche il motivo per cui non costruiscono imbarcazioni in legno bensì in pelli. Quando con i loro asini sono nuovamente tornati in Armenia si costruiscono altre imbarcazioni nella stessa maniera. Tali sono i loro mezzi per la navigazione fluviale”. Erodoto, Storie, 1, 194.

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considerazione del materiale altamente deperibile di cui erano fatte. Per lo stesso motivo, queste imbarcazioni non erano in grado di sopportare il peso di un unico albero impiantato sul piano diametrale, bensì, come vediamo dai modellini, avevano un albero bipode, ossia a base doppia, che permetteva di far gravare il peso sui due fianchi della nave.

L'invenzione della vela fu senza dubbio l'evento più importante nella storia dell'arte marinaresca. Ancora oggi è incerto il luogo e il periodo di invenzione delle vele. Secondo alcuni apparve verso il 3500 a.C nel Mar Rosso o nel Golfo Persico. Le prime vele della storia erano quasi certamente formate da grandi foglie di palma, dalle quali derivarono in seguito quelle fatte di foglie, probabilmente di cocco, intrecciate a stuoia. Un dato certo è che un dipinto su un vaso egizio datato al 3200 a.C mostra in modo chiaro una vela quadra munita di boma e pennone, che doveva ormai essere un elemento comune e diffuso17.

Le zattere di papiro furono usate durante tutta la storia egizia, sebbene esse furono quasi completamente soppiantate dalle barche in legno, che comparvero durante il III millennio a.C in Egitto, ossia durante l'Antico Regno (I-VIII Dinastia; 2920-2150 a.C). Dall'epoca dinastica la documentazione che riguarda le imbarcazioni egizie diventa, inoltre, più precisa e ci ha tramandato innumerevoli rilievi, dipinti e modelli di navi in miniatura.

Le prime barche egizie in legno ebbero la forma delle zattere di papiro, riprendendo il modello ormai consolidato a profilo

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lunato e con le estremità fortemente rialzate. Nonostante la mancanza di alberi d'alto fusto, alberi di acacia e di fico sicomoro crescevano spontanei nella regione e furono impiegati nella costruzione delle prime barche di legno. Da tali alberi era però possibile ricavare delle tavole di piccole dimensioni e Erodoto ci testimonia che questi battelli erano composti da tavole lunghe due braccia che venivano unite come dei mattoni18. Si trattava, quindi, di una specie di

collage di piccole tavole di legno incastrate e tenute insieme

da lunghi cavicchi molto ravvicinati tra loro. Queste prime imbarcazioni in legno, costruite senza chiglia, senza corsi di fasciame continui e senza ordinate, avevano uno scafo debole e inadatto ad una navigazione non fluviale. Erano barche molto larghe con fondo piatto e di poco pescaggio; per evitare l'inarcamento dello scafo e conferire una maggiore robustezza longitudinale la prora e la poppa dell'imbarcazione furono tenute probabilmente insieme mediante un robusto cavo sostenuto da una serie di forcelle e tenuto in tensione da un tenditore, ossia un bastone infilato e girato tra i legnuoli del cavo. A cavallo del cavo doveva trovarsi l'albero ancora bipode, come per le zattere di papiro, abbattibile e trattenuto da stragli. La vela, costruita probabilmente in tessuto, era inferita ad un solo

18 Cfr. Erodoto, V sec a.C., Storie, Libro II,2 : “Le loro navi, con le quali essi (gli egizi) trafficano molto bene, sono costruite con legno di acacia, che nel suo aspetto ha molto del loto di Cirene, che dà la gomma, traendo tavole che sono lunghe due cubiti. Dispongono queste tavole una sopra l’altra come si fa con i mattoni incastrando l’una con l’altra, poi alzano le traverse. Non usano corbe, calafatano col papiro le giunture nel lato interno, adoperano un solo remo timone sistemato lungo l’asse della carena. Alzano un albero di legno di pruno con vela di “byblos” ( arbusto di papiro)”.

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pennone e in assenza di vento veniva abbassata con l'albero per procedere con le pagaie o con i primi remi.

La apparentemente semplice invenzione del remo permise in realtà di poter aumentare notevolmente la stazza delle imbarcazioni, che altrimenti non potevano essere sospinte con le più rudimentali pagaie. I remi erano inizialmente appoggiati liberi sulla fiancata dello scafo e solo successivamente furono fissati alle fiancate per mezzo di attacchi su falchette, realizzando dei veri e propri banchi da rematori. I remi venivano usati anche per direzionare l'imbarcazione (remo-timone). Successivamente si sviluppò il cosiddetto remo da bratto, ossia un comune remo usato da un solo vogatore appoggiato ad una speciale scalmiera o forcola, immerso sempre nell'acqua, che serviva per manovrare la barca. Infine si passò all'uso di due grossi remi posti in modo libero sui due lati della poppa. Tuttavia questo metodo non doveva essere molto efficace, come attestano le fonti iconografiche, le quali mostrano che le navi più grandi avevano due, tre o talvolta fino a cinque timoni per fianco della poppa.

Un fattore determinate per lo sviluppo delle imbarcazioni in termini di grandezza, resistenza e complessità costruttiva fu l'inizio dell'importazione di legname dai paesi della costa orientale del Mediterraneo ed in particolare del legno di cedro dal Libano. La prima fonte scritta che documenta una navigazione commerciale marittima è proprio il testo di uno scriba del faraone Snefru, risalente al 2650 a.C, il quale ci informa della spedizione di quaranta navi, ognuna della

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lunghezza di circa 56 metri, dall'Egitto verso la foresta di cedri della costa fenicia per importare tronchi a fusto lungo. La disponibilità del nuovo materiale, che cominciò a essere importato già prima del regno di Snefru, determinò lo sviluppo di una nuova tecnica costruttiva e la realizzazione di vere e proprie navi di legno, non più legate al modello della zattera.

I più antichi resti di imbarcazione risalgono proprio al periodo dinastico. Datati al 2800-2700 a.C, più precisamente durante il regno dell'ultimo faraone della II Dinastia, Khasekhemui, i resti di 14 scafi di legno furono rinvenuti tra il 1988 e il 1991 nella necropoli di Abydos, all'interno di tumuli di mattoni crudi interrati a forma di bulbo. La ricerca condotta dall'Università della Pennsylvania ha permesso di ricavare alcuni dati importanti dai fragili resti. Le imbarcazioni avevano uno scafo a fondo piatto costituito da tavole di fasciame spesse 6 cm e lunghe presumibilmente 22 m. Le assi erano probabilmente unite tra di loro per mezzo di legature passate trasversalmente allo scafo, tra tavola e tavola. Si tratta, quindi, di lunghe barche fluviali formate da spesse tavole di fasciame unite da legature.

Tuttavia il reperto certamente più rilevante, considerando anche il perfetto stato di conservazione, è la cd. nave (o barca solare) di Cheope (o Khufu), figlio e diretto discendente al trono del faraone Snefru, colui che secondo le fonti organizzava spedizioni navali per importare il legno di cedro dal Libano. Si tratta di una grande imbarcazione

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reale funeraria, che fu sepolta completamente smontata, intorno al 2500 a.C, lungo il lato sud della famosa piramide di Cheope, come parte del corredo funebre del faraone omonimo19.

La scoperta avvenne durante una campagna di scavo nel 1954. Ad essere rinvenute furono in realtà due barche smontate, ma solo la meglio conservata venne recuperata e rimontata all'interno di un apposito museo.

A essere ricostruito fu uno scafo ad uso fluviale lungo 42,3 m e largo 5,66 m per 1,8 m di altezza. Esso era costituito da tavole di cedro lunghe fino a 23 m e spesse fino a 15 cm formanti un guscio con fondo piatto composto da tre tavole centrali. Assente era dunque la chiglia. I corsi di fasciame erano costituiti da singole tavole unite per mezzo di giunzioni a S che miglioravano la tenuta, aumentando la superficie di contatto tra le teste delle assi. Una volta formato il guscio, alcuni madieri20 rinforzavano lo scafo

dall'interno, mentre dei bagli21 bloccavano la sezione. Sui

bagli erano posate le tavole per formare il ponte della barca. Si tratta quindi della cosiddetta costruzione a “guscio” (o shell first) dello scafo, che prevede prima l'assemblaggio del fasciame autoportante e poi l'inserimento di strutture interne di sostegno22.

Altro elemento interessante dell'imbarcazione è il sistema di giunzione delle tavole lungo i bordi. La tecnica usata è

19 Cfr. M. Bonino, 2005

20 Si definiscono madiere le costole simmetriche posate sopra l'asse della barca.

21 Si definiscono bagli le assi posate da bordo a bordo dei fianchi dello scafo.

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quella a mortase e tenoni23, con il bloccaggio mediante

cucitura con fibre vegetali.

I timoni laterali24 della navi di Cheope sono la prima

testimonianza archeologica sulla forma degli organi di governo, sebbene essi siano stati rappresentati in molti dipinti egizi già in periodi precedenti, come già evidenziato25.

Ancora ad uso limitato ad acque interne dovevano essere anche destinate le cinque barche gemelle trovate nel 1894 ai piedi della piramide di Senwosret III a Dashur e datate al 1850 a.C.26. Attualmente sono oggetto di nuovi studi che

stanno permettendo di rivedere l'interpretazione del sistema costruttivo, avvicinandolo a quello della nave di Cheope, rispetto alla precedente e maldestra ricostruzione.

Recenti scoperte fatte lungo le rive del Mar Rosso, unite all'imbarcazione di Cheope, ci permettono di concludere che per gli Egizi fosse normale trasportare via terra imbarcazioni assemblabili e smontabili all'occorrenza. Le imbarcazioni disassemblate lungo il Mar Rosso sono datate al 2000 a.C e alla metà del II millennio a.C. Esse testimoniano il passaggio dalla tradizionale navigazione fluviale a una prima forma di carpenteria navale marittima, grazie ad opportune modifiche

23 La tecnica a mortase e tenoni è un tipo di incastro composto da un maschio o linguetta (tenone) e dall'alloggio corrispondente (mortasa); il tenone viene inserito nella mortasa a formare una cerniera che viene successivamente bloccata con legature o cavicchi impedendo che la chiusura si sganci. Le tavole di legno venivano montate “ a paro” ossia collocate in successione e non sovrapposte. 24 L'evoluzione dei cd. remi-timoni, ossia dei remi liberi appoggiati sulla

fiancata dello scafo e usati come mezzi per direzionare la nave, furono i timoni laterali, ossia i due (o più) grossi remi vennero fissati in modo stabile ai lati della poppa.

25 Cfr. M. Bonino, 2005 26 Cfr. D. Arnold, 1992

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finalizzate all'irrobustimento della struttura dello scafo27.

Tra le principali novità vi furono: le tolde di comando e avvistamento a prua e poppa della nave, a sbalzo rispetto alle dimensioni trasversali di carena; gli scalmi irrobustiti per poter sollevare i remi nel caso di navigazione a vela; l'albero con vela quadra irrigidito da un sistema di tiranti in corda; un'ancora elementare costituita da una grossa pietra legata ad una corda; una stazza di 60-80 tonnellate.

Queste novità vennero applicate in particolare alle navi militari da guerra che cominciarono a solcare i mari, differenziandosi dalle tipiche imbarcazioni fluviali. Si deve tuttavia ritenere che per la navigazione fluviale le imbarcazioni mantennero una struttura semplificata28.

Il culmine dell'espansione egizia, sia territoriale che commerciale su mare e acque interne, si ebbe con l'epoca del faraone Thutmose III (1500 a.C). Da questo periodo in poi cominciò il declino dell'arte della costruzione navale egizia: le navi commerciali divennero più fragili e veloci, con un raggio d'azione assai limitato e principalmente su acque interne.

I padroni del commercio marittimo nel Mediterraneo e i nuovi maestri nella costruzione navale divennero i Fenici. Tuttavia le imbarcazioni fenice, di cui possediamo fonti di documentazione, sono tutte marittime, da guerra, commerciali o di esplorazione.

27 Cfr. C. Beltrame, 2012

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1.1. La navigazione fluviale nell'Età del Bronzo in Italia settentrionale

Guardando altrove rispetto all'area finora osservata, dove si ebbero le prime grandi civiltà della storia umana, ma considerando sempre il solito arco temporale, possiamo vedere come uno dei primi tipi di imbarcazione realizzati presso varie civiltà antiche fu la piroga, assieme alla già vista zattera. La piroga monossile è realizzata semplicemente scavando il tronco di un albero ad alto fusto. Proprio la facilità di realizzazione e di reperimento dei materiali di costruzione resero la piroga un modello di natante estremamente diffuso per la navigazione fluviale in certe zone29.

La piroga monossile tradizionalmente è stata associata all'idea dei primi insediamenti stabili, soprattutto palafitticoli e quindi per molto tempo si datavano gli eventuali reperti alla preistoria o alla protostoria, in assenza di una datazione assoluta determinata con l'archeometria. In realtà, grazie agli studi sui numerosi reperti rinvenuti in varie località dell'Europa, è stato possibile ricostruire un quadro dell'evoluzione di queste imbarcazioni che ci permette di collocarne l'uso dal Neolitico al Medioevo, con una particolare presenza durante l'Età del Bronzo30.

Numerosi esempi ci provengono dall'Italia, ed in particolare dalle regioni di Piemonte, Lombardia e Veneto. La particolare ricchezza di bacini lacustri e di corsi d'acqua, nonché di alberi ad alto fusto sono i principali motivi che

29 Cfr. M. Bonino, 2005

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hanno favorito la navigazione sulle acque interne e la realizzazione e l'utilizzo di piroghe monossili.

Purtroppo l'estesa area considerata è stata trascurata dal punto di vista dell'indagine archeologica. Le ricerche sistematiche sul campo e gli studi specialistici di settore si sono svolti principalmente tra gli anni Settanta e gli Ottanta dello scorso secolo, per poi venire affrontati solo con sporadici interventi volti a reinterpretare e sistematizzare i dati già raccolti31.

Nel Veneto le segnalazioni ed i recuperi sono cominciati già dalla seconda metà dell'Ottocento e avvenivano soprattutto in modo casuale a seguito di lavori di sterro o durante prelievi di ghiaie o sabbie dal fondo dei fiumi. Dal secondo dopo guerra i rinvenimenti cominciarono ad essere effettuati da appassionati subacquei. Tutti i rinvenimenti noti sono racchiusi in un'area triangolare con 25 chilometri di raggio che ha come vertici Vicenza, Mestre e Chioggia, ed al centro ha Padova. I ritrovamenti sono avvenuti in particolare lungo il corso del fiume Bacchiglione, del fiume Brenta e nelle torbiere attorno al laghetto Fimon, in provincia di Vicenza. Unica eccezione è il peculiare manufatto rinvenuto nel 1893 a Lova32. Purtroppo dei numerosi rinvenimenti solo

pochissime piroghe sono state recuperate e conservate in

31 Cfr. L. Fozzati – R. Nisbet 1982

32 La piroga monossile conservata presso il Museo Civico di Storia Naturale di Venezia fu rinvenuta nel 1893 a Lova, ai margini della Laguna di Venezia, durante i lavori di sistemazione di un canale chiamato "Scolo Vecchio Cornio". Essa è lunga ben 6 m. La datazione radiometrica col C14 ha fornito per l'imbarcazione, interamente scavata in un tronco di quercia caducifoglia, una datazione al 1004 -1032 d.C.

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modo scientificamente corretto; gran parte così sono andate disperse o si sono deteriorate in modo definitivo33. Numerosi

sono i ritrovamenti almeno parzialmente documentati di cui, per fortuna, conserviamo disegni o appunti. Purtroppo è quasi sempre assente lo studio stratigrafico del sito.

Per quanto riguarda il Piemonte34, l'interesse per la ricerca

archeologica nelle zone umide è nato nell'inverno del 1853-1854, allorché un clima fortemente secco portò all'abbassamento notevole del livello della acque di molti laghi. L'esposizione dei fondali più bassi permise il ritrovamento di una serie di cosiddetti “campi di pali” che ben presto furono interpretati come insediamenti su palafitte. La scoperta della prima palafitta in Piemonte coincise con l'inizio di un periodo di sfruttamento industriale della torba (1855-1870). Tra i rinvenimenti casuali che avvenivano durante i lavori di scavo e i ritrovamenti ad opera di cultori della storia e dell'archeologia, furono numerosi i reperti recuperati. Tuttavia quasi tutte le evidenze archeologiche andarono distrutte o disperse; del tutto assente fu l'opera di ricerca scientifica e di documentazione. Agli inizi del Novecento l'iniziale fervore legato alle scoperte nelle zone piemontesi svanì e con esso la ricerca.

33 Attualmente sono conservate presso il Museo del fiume Bacchiglione, a Cervarese Santa Croce, le sole due piroghe trattate e consolidate con tecniche di conservazione scientifiche, nonché i reperti sopravvissuti relativi agli altri ritrovamenti. Presso il Museo di Storia naturale di Venezia, invece, si conserva il già citato reperto di Lova, il quale, parzialmente interessato da un processo di carbonizzazione naturale, si è essiccato senza decomporsi, nonostante un deterioramento che ha causato ingenti danni ben visibili. Cfr. A. Rosso, 1983

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L'inizio di un secondo periodo di intensa ricerca sul territorio piemontese si ebbe nel 1966 grazie all'opera di Guido Giolitto, il quale intraprese una serie di esplorazione sistematiche nella acque del lago di Viverone, utilizzando le allora innovative metodologie di ricerca. Nel decennio successivo la ricerca, basata su un programma di archeologia lacustre e fluviale supportato dalla Soprintendenza archeologica del Piemonte, si estese a tutto il Piemonte. I risultati furono studiati e pubblicati, sebbene dopo gli anni Ottanta l'interesse scemò. Su ventuno piroghe monossili rinvenute, solamente cinque si sono conservate, provenienti da quattro località35.

Non molto dissimile è la storia dei ritrovamenti di piroghe monossili in Lombardia. Il dato significato è l'elevato numero di reperti proveniente da questa regione e di località di provenienza36. Una delle scoperte sicuramente più rilevanti,

considerando anche la base scientifica e metodologica usata nell'operazione di recupero, fu quella che permise il recupero di undici piroghe, oggi conservate presso il Museo civico di Crema, ritrovate tra il 1972 e il 1976 nei fiumi Adda, Oglio e Po. Questi tre fiumi sono i principali luoghi di ritrovamento per quanto riguarda la Bassa pianura lombarda, tuttavia numerosi reperti provengono anche dalle province di Varese e Brescia37.

35 Le quattro località di rinvenimento dei cinque reperti tuttora conservati sono: il lago di Bertignano (2 piroghe sopravvissute), il lago Viverone, Motta di Costigliole d'Asti (sul Tanaro) e Perosini di Antiganno (sul Tanaro). Cfr. L. Fozzati, R. Nisbet, 1982

36 Si tratta di trentatre reperti provenienti da 22 località. Cfr. O. Cornaggia Castiglioni, G. Calegari, 1978

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Uno degli studi sistematici più completo e approfondito in tema di piroghe monossili italiane è opera di Cornaggia Castiglioni, il quale tra il 1967 e il 1978 ha eseguito un inventario dei reperti rinvenuti, corredandolo di un tentativo di tassonomia generale, di uno studio geografico e cronologico nonché di un tentativo di individuare lo scopo di utilizzo delle piroghe stesse38.

Ciò che emerge dai dati recuperati dai vari ritrovamenti è che il legno usato per la realizzazione delle monossili finora rinvenute è stato quasi sempre di quercia o castagno. La lunghezza media delle piroghe rinvenute oscilla tra i 3 e i 5 m, con l'eccezione di quelle più tarde che raggiungono anche i 9 m39.

La datazione delle varie piroghe conservatesi coprono un arco temporale molto ampio che va dagli inizi della Civiltà del Bronzo (il reperto più antico, una monossile del lago di Fimon, risale al 2630 a.C) e giunge fino all'XI sec d.C.40.

L'arte di fabbricare piroghe e di usarle sulle acque lacustri e fluviali dell'Italia settentrionale, e non solo41, ha

caratterizzato, quindi, senza grandi innovazioni, un periodo molto lungo della storia, assorbendo completamente l'arco di nostro interesse ai fini di questo esame.

Sul problema dell'effettiva utilizzazione delle monossili

38 Cfr. O. Cornaggia Castiglioni- G. Calegari, 1978 39 Cfr. O. Cornaggia Castiglioni- G. Calegari, 1978 40 Cfr. O. Cornaggia Castiglioni- G. Calegari, 1978

41 Piroghe monossili sono state recuperate anche in Emilia (due), Toscana (tre), Umbria (una) e Lazio (una). Cfr. O. Cornaggia Castiglioni- G. Calegari, 1978

Di recente (2014) altre due piroghe monossili sono state rinvenute nella Valle Pega, in provincia di Ferrara. Esse risalirebbero al V-VI sec d.C

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italiane si sono interrogati ed espressi i principali studiosi del tema. L'opinione prevalente, per il periodo dall'Età del Bronzo, è che queste imbarcazioni “potessero essere state utilizzate specificatamente per raccogliere, in seno alle acque stesse, delle specie botaniche commestibili e soprattutto canne e falaschi per la copertura delle capanne”42.

Non sarebbe quindi casuale che la maggior parte delle piroghe rinvenute provenga da torbiere, sebbene si deve sottolineare che tale ambiente permette maggiormente la conservazione dei reperti lignei. Altro elemento a sostegno di questa ricostruzione sarebbero le cd. “piroghe doppie”43.

Tuttavia non si deve escludere che le piroghe fossero utilizzate anche per scopi ulteriori, essendo state esse funzionali ai commerci e agli spostamenti degli abitanti degli insediamenti lungo le rive dei fiumi e dei laghi considerati. Quanto alle grandi monossili recuperate nelle alluvioni rivierasche o in seno agli alvei dei fiumi della Bassa pianura lombarda, databili tra tardo-antico e 'Alto Medioevo, si deve ritenere che fossero invece destinate a traghettare uomini e cose da una riva all'altra dei fiumi stessi.

Fra questi reperti, un cenno particolare merita quello di Casalmoro, la cui morfologia, con prua rialzata e vano escavato con imboccatura estremamente stretta, fa pensare

42 Cfr. Cornaggia Castiglioni, 1967 pp. 23

43 Con il termine piroghe doppie si indicano delle imbarcazioni realizzate attraverso l'accoppiamento di due scafi monossili appositamente predisposti per l'impiego nell'area padana al fine di raccogliere particolari specie vegetali, quali Phragmites, Phalaris e Molinie, le quali crescono direttamente in seno alle acque degli stagni, lungo le cui rive sorgevano gli insediamenti della civiltà del Bronzo padana.

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ad un galleggiante destinato alla costruzione di un vero e proprio “ponte di barche”44.

2. La navigazione fluviale nella penisola italica

Al contrario di quanto accadde in Grecia, praticamente priva di grandi fiumi navigabili, la navigazione sulle acque interne fu una tipologia di collegamento e trasporto molto importante nella penisola italica, al pari di quella marittima. Fin dalla protostoria, come abbiamo visto, e in modo sempre più crescente, in diretta relazione con l'espansione romana, la navigazione su fiumi e canali artificiali fu indispensabile sia per esigenze militari che commerciali. Ad esempio sappiamo che le popolazioni d’origine celto-ligure percorrevano fiumi e laghi dell'Italia settentrionale a bordo di zattere o barche evolutesi strettamente da questo tipo di natante45.

Lo storico patavino Tito Livio ci dà menzione dell’utilizzo di zattere da parte di altre popolazioni celtiche, questa volta non autoctone, narrando l’invasione dei Boi del nord Italia e il loro successivo insediamento nell’attuale Emilia Romagna: egli espressamente fa menzione dell’attraversamento del fiume Po con delle zattere46.

È attestato che gli etruschi sfruttarono la navigazione dei principali fiumi dell'area toscana per spostarsi verso l'entroterra, i quali garantivano maggiore sicurezza, velocità e capacità di carico rispetto alle vie di terra47. Grazie a un

44 Cfr. O. Cornaggia Castiglioni - G. Calegari, 1978 45 Cfr. G.Fasoli, 1978

46 Vedi in proposito Tito Livio, Ab Urbe Condita, libro V, 35 47 Cfr. M. Bergamini, 1991

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periodo più piovoso di quello odierno, al ristagno delle acque e alla mancanza di bonifiche significative, infatti, i fiumi principali erano tutti navigabili e di portata più costante. In particolare lo era l'Arno, sicuramente fino all'altezza di Firenze, ma secondo alcune fonti addirittura fino ad Arezzo, oltre ad alcuni suoi affluenti48. Le paludi e i laghi della piana

toscana consentivano la navigazione dall'Arno fino alla piana di Lucca e fino all'altezza delle odierne Altopascio e Monsummano. Le imbarcazioni erano principalmente delle zattere e in alcuni casi erano le stesse che facevano piccolo cabotaggio lungo la costa. Diversi studi49 assicurano che era

navigabile anche il Clanis, il fiume oggi perduto che scorreva nella Valdichiana e la concentrazione di insediamenti etruschi in quell'area (Arezzo, Chiusi, Cortona etc) ne sarebbe una prova.

Inoltre, nella fase di espansione “coloniale” verso la Pianura Padana (VI sec a.C), gli etruschi sfruttarono il ricco bacino idrico della valle del Po per creare un fluente commercio con le aree a nord del suddetto fiume e con i greci tramite i porti di Adria e Spina che si affacciavano sull'Adriatico50.

48 Cfr. M. Bergamini, 1991 49 Cfr. S.Quilici Gigli, 2007

50 L'origine dei due centri insediativi di Adria e Spina e dei loro porti è invero un tema molto dibattuto. Pare ormai certa la fondazione originale di matrice veneta, prima ancora dell'arrivo di greci e etruschi. Adria e Spina furono raggiunte dal commercio greco già nella prima metà del VI sec. a.C. come ci testimoniano le ceramiche attiche a vernice nera provenienti da Atene e da Rodi, databili al 570/560 a.C. Nella seconda metà del V sec.a.C. Adria avrebbe subito la concorrenza di Spina che la sostituì anche come centro di rifornimento dall’entroterra. Cfr. S. Quilici Gigli, 2007

La ricerca di uno sbocco commerciale sull'Adriatico, passando da Felsina, spinse gli etruschi verso i due insediamenti, i quali erano già inseriti nel circuito commerciale con greci e siracusani. Gli etruschi rifondarono i due centri o aggiunsero un nuovo insediamento accanto

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Particolarmente rilevante pare essere stato anche il Mincio e la relativa area bresciana, dove sono stati infatti rinvenute monumentali banchine fluviali di epoca etrusca51.

I Romani, quindi, si inseriscono in una tradizione di navigazione su acque interne molto diffusa nella penisola italiana. Il primo e fondamentale corso d’acqua utilizzato dai Romani fu naturalmente il Tevere, che permetteva il collegamento con il mare52. La navigazione sul fiume non

venne, però, limitata al tratto a valle di Roma, poiché esso era navigabile anche per un discreto tratto a monte, perlomeno fino all’altezza di Orte53.

Oltre al Tevere, quando i domini di Roma raggiunsero la massima espansione, tutti i fiumi principali dell’Impero furono solcati dalle navi romane, sia per i trasporti commerciali, sia per esigenze militari, a partire da quelli nella penisola italica, già sfruttati dalle popolazioni preromane, fino a quelli germanici. Si possono citare: in Spagna l’Ebro, per raggiungere Cesarea Augusta (Saragozza) e Calagurri (Calahorra), il Beti (Guadalquivir), per recarsi ad Italica (Santiponce) e Cordova, ed il Tago che bagnava Felicitas Iulia (Lisbona); in Gallia la Senna, sulla cui riva destra sorgeva Lutetia Parisiorum (Parigi), la Loira, per

a quello veneto, che divenne il futuro centro del nucleo urbano. Anche la storiografia romana, con Livio, Plinio e Varrone ci informa che Adria e Spina furono centri etruschi di notevolissima importanza, ma non ne attribuiscono mai le origini al popolo etrusco.

51 Cfr. G. Bonora, 1990

52 Gli effetti benefici del collegamento al mare tramite il Tevere indusse i Romani ad attribuire al loro fiume un’essenza soprannaturale: era il Dio Tevere, rappresentato semisdraiato, come tutte le divinità fluviali, con in braccio un remo, simbolo della navigazione, o una cornucopia, simbolo di abbondanza.

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raggiungere la Civitas Turonorum (Tours), la Garonna, che bagnava Tolosa, ed il Rodano, per navigare dal Mediterraneo ad Arelate (Arles), Arausio (Orange), Vienna (Vienne) e Lugduno (Lione), capitale della provincia Lugdunense; in Britannia, il Tamigi, per approdare a Londinium (Londra); in Germania, l’Elba, utilizzato dalla flotta di Tiberio per intimorire i nemici, il Reno, lungo il quale sorgevano pressoché tutte le città della provincia romana, da Argentorato (Strasburgo) a Mogontiaco (Magonza), Bonna (Bonn), Colonia Agrippina (Colonia) e Colonia Traiana (Kellen); la Mosa e la Mosella, per raggiungere Augusta Treverorum (Treviri). Un ruolo certamente particolare venne assolto dai quattro fiumi maggiori dell’Impero: il Reno, il Danubio, l’Eufrate ed il Nilo.

Fra le vie d’acqua interne vanno infine ricordati i molti canali navigabili che i Romani vollero scavare per agevolare la navigazione. Fra questi canali, chiamati fosse secondo la terminologia latina, alcune ebbero una particolare rilevanza. Tra queste si possono ricordare la Fossa Mariana, canale navigabile scavato da Caio Mario quale ramo orientale del delta del Rodano, fra Arelate ed il mare; la Fossa Giulia, canale navigabile e di bonifica delle paludi Pontine, chiamato Decennovio nel Medio Evo e poi “Linea Pio VI”; la Fossa

Augusta, canale navigabile del porto di Ravenna; la Fossa Drusiana, canale navigabile fra il Reno e l’antico mare

interno dei Paesi Bassi; la Fossa di Corbulone, canale navigabile fra il Reno e la Mosa; due Fosse di Nerone non completate, in quanto abbandonate alla morte

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dell’imperatore, ovvero il canale di Corinto, scavato per un terzo, ed un canale navigabile fra la Campania ed Ostia, appena iniziato; le due Fosse Traiane che furono integrali rifacimenti romani dei molto più antichi canali navigabili fra il Nilo ed il Mar Rosso e fra il Tigri e l'Eufrate.

2.1 La navigazione militare

La marina militare romana nacque nell'età repubblicana quando Roma, dopo aver conquistato la penisola dagli Appennini tosco-emiliani alla Calabria, cominciò a espandere i propri domini oltre il territorio italico, iniziando una serie di scontri via mare con le allora principali forze del Mediterraneo. Punto di svolta per la crescita della flotta navale romana fu la prima guerra punica (264-241 a.C). I Romani appresero dai Cartaginesi e dai Greci le tecniche costruttive navali e non sorprende quindi che le navi militari romane fossero le stesse triremi tipiche della Grecia classica54. In verità alcune fonti ci parlano anche di navi

quinquiremi, così come le fonti ellenistiche ci descrivevano le cd. poliremi, ma la totale assenza di fonti archeologiche rende, di fatto, a tutt'oggi, pressoché impossibile la ricostruzione teorica precisa di tali imbarcazioni. Le guerre e le battaglie navali di età repubblicana, quindi, si svolsero tutte sui mari, finché Roma non conquistò tutte le aree costiere e dominò il Mediterraneo.

Fu solo con l'avvento del principato di Augusto55 che le

54 Cfr. C. Beltrame 2012

55 Fu Augusto che, dopo Azio ritenendo ormai superato il sistema di Caio Mario, decise di compiere una radicale riforma militare. Anche la flotta navale fu riorganizzata e alle tre flotte Praetoriae (rimaste poi solo

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nuove conquiste territoriali, ai margini dell'impero già esistente, spinsero i combattimenti nell'entroterra. La necessità di spostarsi velocemente, di attraversare i più grandi fiumi dell'Europa orientale e dell'area egiziana e del Vicino Oriente, di dare supporto logistico alle truppe di terra anche in questi conflitti e di pattugliare i nuovi confini portò i Romani a creare delle flotte navali da impiegare sui corsi d'acqua interni.

Per quanto riguarda l'area dell'Europa continentale orientale, le navi militari furono usate principalmente per l'occupazione della Germania sui fiumi Elba e Reno e durante le conquiste della Dacia sul fiume Danubio. Il Reno e il Danubio assunsero anche il ruolo di confine dell'impero e pertanto, anche dopo la fine dei combattimenti, furono costantemente oggetto di pattugliamenti sistematici da parte delle navi da guerra. Qui furono istituite tre flotte imperiali: la flotta Germanica, per la vigilanza sul confine renano e sulle acque del mare del Nord in prossimità della foce; la flotta Pannonica, operante sull'alto corso del Danubio e sugli affluenti Drava e Sava; la flotta Mesica, responsabile del controllo del basso corso del Danubio e del suo delta sul mar Nero56.

Nell'area del Vicino Oriente e dell'Egitto invece i principali fiumi presso cui i romani navigarono con delle imbarcazioni militari furono il Tigri e l'Eufrate durante le campagne contro i Parti e il Nilo. L’Eufrate segnò il confine dell’Impero solo nei periodi in cui Roma mantenne la sovranità sulla provincia di

due durante la dinastia giulio-claudia) furono affiancate tutta una serie di flotte provinciali. Cfr. L. Keppie, 1998

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Mesopotamia. In tali circostanze l’esigenza di difesa verso il deserto d’Arabia era abbastanza limitata. Per contro, nei ricorrenti periodi di conflitto contro i Parti e poi contro i Persiani, l’Eufrate venne sfruttato molto efficacemente come via di penetrazione veloce verso il nemico. A tal fine, i Romani costituirono sul fiume una loro forza navale, la flotta

Mesopotamica, utilizzata per l’assalto alle città fortificate e

per il sostegno logistico delle legioni.

Per quanto riguarda il Nilo, le fonti ci tramandano che il primo Romano ad effettuare una crociera sul Nilo fu Giulio Cesare che, dopo aver felicemente portato a termine la guerra Alessandrina e rimesso la giovanissima Cleopatra VII sul trono d’Egitto, risalì il fiume accompagnandosi con la stessa regina a bordo del panfilo reale, scortato da ben 400 navi da guerra. Quando poi l’Egitto divenne una provincia romana, il Nilo continuò ad essere meta di crociere di piacere e di intensi traffici commerciali, soprattutto granari, sotto la vigilanza di una forza navale romana permanente, la

flotta Augusta Alessandrina. Con questa flotta i Romani

effettuarono anche delle operazioni militari di un certo rilievo, quali, ad esempio, una spedizione navale vittoriosamente condotta durante il principato di Augusto contro la regina nubiana Candace, rea di aver attaccato di sorpresa la guarnigione romana di Assuan, e una missione navale inviata da Nerone per esplorare l’alto corso del Nilo e tentare di individuarne le sorgenti57.

Il ricco repertorio iconografico proveniente dalle monete, dai

57 Tale missione, secondo la storiografia, giunse fino ad un’area di “paludi immense”, probabilmente quella bagnata dagli affluenti orientali del Nilo Bianco, a circa 1500 km a sud di Assuan.

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mosaici, dagli affreschi ma soprattutto dai rilievi scultorei ha permesso lo studio delle navi militari romane. Di particolare rilevanza per lo studio delle imbarcazioni militari ad uso fluviale è la Colonna Traiana, su cui è ritratta la flotta pannonica impegnata durante la guerra dacica. Lo studioso Morrison58 ha interpretato le navi rappresentate come le

cosiddette liburne, ossia le agili imbarcazioni di piccola dimensione a doppio ordine di remi e rostrate, spesso citate dalle fonti storiografiche romane. Molti studiosi sostengono che la liburna sostituì, forse, nella metà del I sec a.C., il precedente lembos. Quest'ultimo è stato riconosciuto da Höckman59 nelle raffigurazioni navali presenti nella

monetazione del popolo illirico dei Daorsi. Si tratterebbe di una piccola e veloce imbarcazione menzionata da numerosi autori, tra cui Livio e Polibio60, utilizzata inizialmente dai

pirati illirici. Questo scafo era spinto da vogatori, da un minimo di sedici a un massimo di cinquanta, disposti in uno o due ordini di remi. Lo scafo doveva avere i lembi rostrati. I Romani, dunque, avrebbero usato per le operazioni militari nelle acque interne, come è logico che fosse, delle imbarcazioni con poco pescaggio e più piccole e veloci rispetto alle classiche triremi usate sui mari. Queste navi riprendevano le caratteristiche di quelle utilizzate dai pirati operanti sul Mediterraneo e garantivano una elevata velocità e una ottima maneggevolezza.

Le uniche fonti archeologiche pervenuteci sono le cinque imbarcazioni militari fluviali rinvenute lungo il limes romano

58 Cfr. Morrison, 1996 59 Cfr. Höckman, 1997

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del fiume Reno presso l'insediamento di Mogontiacum61.

Queste sono state datate, tramite dendrocronologia, tutte al IV sec d.C e grazie, agli studi, sono state classificate come navi militari. Si tratta di vascelli piccoli e adatti alla navigazione interna, con pescaggio limitato. Questo ritrovamento confermerebbe quanto ricostruito tramite le fonti scritte circa la tipologia di navi militari usate lungo i corsi d'acqua interni.

La particolarità di queste imbarcazioni risiede nel fatto che, pur avendo come scopo comune la destinazione alla perlustrazione lungo il confine renano della Germania superiore, esse hanno caratteristiche diverse tra loro. Le navi 1, 2, 4 e 5 sono state catalogate come “tipo A”, ossia come navi lunghe e strette a fondo piatto per il trasporto delle truppe, mentre la nave 3 è stata classificata come “tipo B”, ossia come vascello da perlustrazione multifunzionale. La nave 1 è dotata di una vela e di due file di banchi idonei per 32 rematori; in questo modo si assicurava una elevata velocità di spostamento. Le altre tre navi della stessa

61 La scoperta fu fatta durante gli scavi per l’ampliamento di un hotel nella attuale città di Mainz, lungo la riva destra del fiume Reno, nel dicembre del 1981. Ad essere rinvenuti furono, a circa 7,5 m di profondità, i resti di cinque navi di epoca tardo-imperiale: questa scoperta costituì la base per la creazione di un centro di ricerca il quale, istituito all’interno di un’antica officina per locomotive, in un primo momento studiò i reperti in qualità di sezione del Roman Germanic Central Museum. Successivamente vi fu la trasformazione in Museo indipendente e specifico, chiamato Museo della navigazione antica, che avvenne alla fine del 1994, con l’obiettivo di offrire al pubblico uno sguardo d’insieme su diversi aspetti legati al mondo navale dell’antica Roma: tradizionali tecniche costruttive, riferimenti iconografici, strutture gerarchiche ed organizzative. Il fulcro dell’esposizione è costituito proprio dalle cinque navi rinvenute che, secondo l’analisi dei rispettivi scafi, sono state classificate come navi militari.

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tipologia sono molto simili, sebbene la numero 4 sia più larga e pesante rispetto alle altre.

La nave 3 invece è l'unico relitto che permette di ricostruire la categorie “tipo B”. Si tratta di una imbarcazione più corta e tozza, con una velocità nettamente inferiore rispetto a quelle appartenenti all'altra categoria. Questa nave compatta era inoltre munita di catapulta per lanciare pietre.

2.2 La navigazione civile

La stragrande maggioranza dei rinvenimenti archeologici finora effettuati, nonché una buona parte dell'iconografia, riguarda le navi marittime da carico, ossia le navi tonde, chiamate onerarie62, che solcavano i mari dell'Impero

romano a fini commerciali. Queste imbarcazioni potevano avere dimensione e tonnellaggio variabile; certamente le più studiate e ricostruite sono le grandi onerarie impegnate nei traffici annonaria.

Tuttavia, non meno importanti nella vita quotidiana dei Romani erano le imbarcazioni fluviali, lacustri e lagunari che venivano impiegate per gli spostamenti di persone, per il trasporto di merci e materie prime e per la pesca nella acque interne. Sebbene l'argomento sia ancora poco approfondito, alcuni importanti ritrovamenti di queste imbarcazioni permettono di ricostruire il quadro generale della navigazione sui corsi d'acqua dell'Impero.

62 Esse sono così chiamate per distinguerle dalle tipiche navi lunghe a remi ad uso militare. Le navi tonde Le navi onerarie erano più corte e più larghe rispetto a quelle da guerra; di aspetto tondeggiante, la loro lunghezza corrispondeva a circa tre volte la loro larghezza, che era a sua volta il doppio del pescaggio. Esse usavano come mezzo di propulsione le vele.

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Come già anticipato, fin dall'Età del Bronzo, lo spostamento tramite fiumi, laghi e lagune è stato considerato estremamente più sicuro, economico e veloce rispetto a quello via terra da tutte le popolazioni che risiedevano in zone con un ricco bacino idrico. Non di meno questo avvenne anche in epoca romana, come ci dimostrano le fonti scritte e quelle archeologiche. I principali fiumi navigabili del territorio italico, e successivamente anche di quello imperiale, dovevano essere attrezzati in punti specifici con piccoli attracchi o banchine; in alcuni casi si può parlare di veri e propri porti fluviali dotati delle infrastrutture necessarie al loro funzionamento, come i magazzini di stoccaggio delle merci. Imbarcazioni di varie dimensioni e tipologie venivano impiegate per spostarsi lungo i corsi d'acqua e per trasportare merci e materie prime in ambe due le direzioni, come si vedrà successivamente.

In questa sede si vedranno alcuni esempi di fiumi e la relativa navigazione, in relazione ai principali ritrovamenti archeologici, ritenendo di poter allargare i risultati ottenuti a buona parte dei territori dell'Impero.

Partendo dal fiume romano per antonomasia, il Tevere fu navigato fin dalle origini della civiltà romana. Come già detto, esso permetteva il collegamento sia al mare, e in particolare con Ostia e Portus, che all'entroterra, fino a raggiungere quasi i territori umbri. Tralasciando per il momento la funzione economica del trasporto via fiume delle merci a Roma, ciò che preme qui sottolineare sono le peculiari condizioni geografiche della valle e della foce del

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Tevere e le conseguenti ripercussioni che esse ebbero sulla navigazione fluviale.

Il Tevere garantiva un lungo ramo di fiume navigabile per imbarcazioni di dimensioni ridotte in ogni stagione dell'anno, anche senza la necessità di particolari opere di canalizzazione63. Tuttavia la conformazione del corso del

fiume rendeva pressoché impossibile la navigazione su imbarcazioni a remi o a vela, quanto meno in modo celere e sicuro, che sono le condizioni necessarie per la navigazione commerciale. Infatti il corso estremamente sinuoso del Tevere impediva di risalire il fiume a vela, non essendo possibile usare la direzione costante del vento, e l'elevata ripidità del fiume non consentiva l'uso dei remi, in quanto la corrente che si creava era troppo forte per consentire il controllo della nave64. Queste difficoltà furono superate

ricorrendo a una peculiare tecnica di navigazione, la quale non fu comunque esclusiva del fiume Tevere, bensì veniva utilizzata anche prima dei Romani e fu utilizzata dai essi stessi su altri fiumi dell'Impero. La tecnica in questione è quella dell'alaggio, ossia l'utilizzo come motore propulsivo della nave della forza umana o animale, i quali da terra, lungo la riva del fiume, trainavano la barca mediante l'uso di una fune legata alla nave. Queste imbarcazioni vengono chiamate dalle fonti naves caudicariae e servirono in particolare per il trasporto a Roma dei prodotti commerciali di cui la città necessitava.

Esse ci sono note non solo tramite gli scritti antichi e i

63 Cfr. J.R. Rodriguez, 2013 64 Cfr. A.A. Martin, 2013

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