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La pericolosita sociale nella prospettiva della de-istituzionalizzazione

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I

DOPPIO BINARIO E PERICOLOSITA’ SOCIALE

1.1 Un sistema sanzionatorio in crisi?

1.1.2 Confronto tra le maggiori scuole di diritto penale: Scuola Classica, Scuola Positiva italiana e Moderne Schule. 1.2 Evoluzione del Doppio binario

1.2.1 Il Codice Rocco 1.2.2 Il testo costituzionale 1.3 Uno sguardo al presente 1.4 Pluralità di binari

1.5 L’accertamento della pericolosità sociale dell’infermo di mente in tre fasi: diagnosi, incidenza del disturbo sulla capacità, valutazione del giudice

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CAPITOLO II

NASCITA E SVILUPPO DELL’OSPEDALE

PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

2.1 Prima dell’OPG

2.1.1 Il manicomio criminale come istituto di pena speciale 2.1.2 Breve iter legislativo

2.1.3 Critica delle istituzioni totali – Goffman e Foucault 2.2 Nascita e sviluppo

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CAPITOLO III

CUSTODIRE O CURARE?

3.1 Il mutevole rapporto tra psichiatria e diritto

3.1.1 Perizia psichiatrica ed incidenza sulle fasi del processo penale 3.2 Il movimento anti-psichiatrico

3.2.1 Legge “Basaglia” n. 180 del 1978 e riflessi sugli OPG

3.3 Sentenza n. 139 del 1982 Corte Costituzionale e il bilanciamento tra cura e custodia

3.4 Categorie di internati

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CAPITOLO IV

SUPERAMENTO OPG E

DE-ISTITUZIONALIZZAZIONE

4.1 La Sentenza n. 253 del 2003 della Corte Costituzionale 4.2 La scossa della “Commissione d’inchiesta Marino” 4.3 Il superamento tra ritardi e proroghe – Le tappe legislative

4.3.1 Principali novità della Legge n. 81 del 2014 4.3.2 La magistratura difensiva

4.4 Le REMS - Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza 4.4.1 Valutazione dello stato di attuazione del superamento

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CAPITOLO V

IL CAMBIO DI PROSPETTIVA NELLA VALUTAZIONE

DELLA PERICOLOSITÀ

5.1 La Sentenza n. 186 del 2015 della Corte Costituzionale 5.1.2 La questione di legittimità costituzionale sollevata dal

Tribunale di Messina

5.1.3 Le argomentazioni dell’Avvocatura Generale dello Stato 5.1.4 L’ordinanza di rigetto

5.2 Un concetto di pericolosità sociale decontestualizzato e svuotato 5.3 Il sistema bifasico del doppio giudizio prognostico

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

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INTRODUZIONE

La tesi tratta della ri-definizione del concetto di pericolosità sociale e del suo peso nella comminazione della misura di sicurezza del ricovero in OPG ed oggi nelle REMS. Nell’ottica del tentativo di realizzare una de-istituzionalizzazione dei folli-rei, destinatari di tali misure di sicurezza, spesso internati in strutture che poco hanno di terapeutico e riabilitativo.

Nel primo capitolo, vengono elencate le tipologie di apparato sanzionatorio che le principali scuole di pensiero penale, Scuola Classica e Scuola Positiva o Moderne Schule, hanno nel tempo teorizzato nel tentativo di equilibrare due contrapposte esigenze, assicurare effettiva ed efficace tutela ai beni giuridici e rispettare i principi di garanzia del soggetto autore di reato, sottoposto a provvedimenti restrittivi della libertà personale. Esigenze che il Codice Rocco del 1930 cercò di coniugare basandosi sull’elaborazioni dottrinali della c.d. Terza Scuola, proponendo soluzioni nuove per il controllo ed il contenimento della criminalità tramite il sistema del doppio binario, che entrato comunque in crisi con la promulgazione della Carta Costituzionale, fino a trasformarsi in un sistema a binari plurimi.

Chiude il primo capitolo, il paragrafo dedicato all’accertamento della pericolosità sociale dell’infermo di mente scandita da tre fasi, diagnosi, incidenza del disturbo sulla capacità di intendere e di volere e valutazione del giudice.

Nel secondo capitolo, viene analizza la nascita e lo sviluppo dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tratteggiando, innanzitutto la situazione antecedente agli OPG nati nel 1975 con l’emanazione

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dell’ordinamento penitenziario che li disciplina, quindi i manicomi criminali del XIX secolo, fortemente voluti dai positivisti, che per prassi verranno successivamente definiti come manicomi giudiziari ed identificati come istituti di pena speciale, dopo l'apertura della prima Sezione per maniaci all’interno della casa di pena di Aversa nel 1876. Infine vengono definite, poi, le principali tappe dell’iter legislativo che porteranno alle svolte degli anni ’70 del XX secolo ed alla Legge 345 del 1975 istitutiva dell’Ordinamento Penitenziario.

Importante per comprendere i cambiamenti ideologici e legislativi di quegli anni, le critiche alle istituzioni totali elaborate dal sociologo Erving Goffman, padre della definizione “istituzione totale” e denunciatore del fallimento delle finalità rieducative e curative di tali strutture, e le considerazioni del filosofo francese Michel Foucaultche dedica i suoi studi alla follia, alla psichiatria e all’internamento psichiatrico, mosso dall’interesse nei confronti dei soggetti esclusi dalla società perché “diversi”.

Nel terzo capitolo, si illustra l’argomento del difficile equilibrio e contemperamento di due diverse esigenze, quella curativa e quella custodiale. L’una importante poiché alla base di tutte le pene, che devono tendere alla rieducazione e risocializzazione, dovendo esser nel caso specifico degli infermi anche terapeutiche, e l’altra rilevante in termini di sicurezza sociale. Nella ricerca di un punto d’incontro, entra in gioco anche il difficile e mutevole rapporto tra la psichiatria ed il diritto, che negli ultimi decenni si muovono in direzioni contrapposte. Importante il contributo di Franco Basaglia, capostipite del movimento anti-psichiatrico, che con le sue rimostranze solleciterà la sfera politica sino a spingere il legislatore all’emanazione della Legge 180 del 1978, che nonostante disciplini principalmente i manicomi civili e la loro chiusura, avrà importanti riflessi sugli OPG e sul trattamento degli

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internati, da ora in poi orientati in direzione più terapeutica che contenitiva e punitiva.

L’intero paragrafo 3.3, viene dedicato alla Sentenza n. 139 del 1982 della Corte Costituzionale, poiché in un contesto sociale e politico fortemente mutato la Corte inizia ad occuparsi del tema dei folli-rei, sostituendosi al legislatore. La Consulta dichiara l’illegittimità di alcuni articoli del codice penale (artt. 222 primo comma, 204 secondo comma e 205 secondo comma), che non prevedevano l’accertamento della persistenza della pericolosità sociale da parte del giudice, in caso di soggetto prosciolto per infermità psichica, cassando di fatto la presunzione di persistenza. Il capitolo termina con la classificazione dei soggetti per i quali il Codice Penale prevede il ricovero in OPG e nelle CCC (case di cura e custodia), mettendo in luce la forte eterogeneità degli internati, che necessitano quindi di percorsi differenziati ed individualizzati.

Il quarto capitolo tratta della fondamentale Sentenza n. 253 del 2003 della Corte Costituzionale. La Consulta dichiara l’incostituzionalità del rigido automatismo, che imponendo al giudice la prescrizione del ricovero in OPG, dell’infermo psichico autore di reato anche quando le misure alternative applicabili risulterebbero più adatte al trattamento terapeutico del soggetto, contrasta con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. La sentenza farà da base per la positivizzazione del principio di sussidiarietà nell’applicazione della misura dell’internamento realizzata dalla legge n. 81 del 2014, della quale evidenzio l’iter legislativo e le principali novità che introduce nel sistema.

Merita trattazione l’importante impulso dato dalle risultanze, della “Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Sistema Sanitario Nazionale” del 2011, Presidente Ignazio Marino,

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che tramite ispezioni a sorpresa porterà alla luce le pessime condizioni igieniche, strutturali, gestionali e trattamentali, in cui versavano gli OPG.

Chiudo il capitolo la descrizione delle nuove strutture di ricovero, ovvero le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), realizzate in previsione per l’appunto di una de-istituzionalizzazione dei folli-rei, internati non più in strutture detentive e contenitive, ma sanitarizzate e terapeutiche. Aggiungo delle brevi considerazioni circa lo stato di avanzamento del processo di superamento degli OPG, nel quale sono impegnate soprattutto le regioni, con l’aiuto delle Relazioni trimestrali del Ministero della Salute e della Giustizia.

Nel quinto ed ultimo capitolo, discute del cambio di prospettiva nella valutazione della pericolosità sociale, elemento alla base della comminazione delle misure di sicurezza dell’internamento.

Si inizia la trattazione con la fondamentale sentenza n. 186 del 2015 della Corte Costituzionale, scaturita dalla rimessione della questione di legittimità costituzionale del Tribunale di Messina del 16 Luglio 2014, nei confronti della modifica apportata all’art. 3 ter della legge n. 9 del 2012 dalla legge n. 81 del 2014, che esclude nel caso di accertamento della pericolosità sociale da parte del giudice, il ricorso alle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4 del c.p.. L’esclusione, in base a quanto sostenuto dal legislatore, tende ad evitare che le condizioni di abbandono e marginalità del soggetto assumano un ruolo determinante nell’attribuzione della qualifica di soggetto socialmente pericoloso, ed che l’internamento possa dipendere da disfunzioni organizzative dei Dipartimenti di Salute Mentale (DPS).

Il giudice a quo, di contro, lamenta una base del giudizio prognostico reso unifattoriale e decontestualizzato. Risulta un concetto di

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pericolosità, sganciato dal contesto sociale che di fatto circonda il soggetto e che necessariamente ne influenza la condotta, dando vita ad un sistema bifasico, caratterizzato da un doppio giudizio prognostico, nel quale le condizioni al numero 4 dell’art. 133 ter, rilevano solo nella fase di decisione del quantum della pena.

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CAPITOLO I

DOPPIO BINARIO E PERICOLOSITA’

SOCIALE

SOMMARIO: 1.1 Un sistema sanzionatorio in crisi? – 1.1.2 Confronto tra le maggiori scuole di diritto penale: Scuola classica, Scuola Positiva italiana e Moderne Schule – 1.2 Evoluzione del Doppio binario – 1.2.1 Il Codice Rocco – 1.2.2 Il testo costituzionale – 1.3 Uno sguardo al presente 1.4 Pluralità di binari – 1.5 L’accertamento della pericolosità sociale dell’infermo di mente in tre fasi: diagnosi, incidenza del disturbo sulla capacità, valutazione del giudice.

Da sempre, l’evoluzione storica della politica criminale si è trovata di fronte alla ricerca di un apparato sanzionatorio capace di equilibrare due diverse esigenze, quella di assicurare una tutela effettiva ed efficace ai beni giuridici e quella di rispettare i principi di garanzia dell’individuo destinatario dei provvedimenti restrittivi della libertà personale1.

Equilibrio delicato e mutevole poiché collegato al traballante rapporto tra potere statale che utilizza e disciplina lo strumento penale e le libertà individuali forti di un radicamento costituzionale. Questo difficile equilibrio diviene il centro del dibattito dottrinale italiano e tedesco alla fine del diciannovesimo secolo e vede contrapporsi, le teorie della

1 PELISSERO M., Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di

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Scuola Classica, propugnatrice della funzione retributiva della pena, e le teorie della Scuola Positiva o Moderne Schule, propugnatrice della funzione preventiva della sanzione penale, le due scuole perverranno a soluzioni opposte sul fondamento della pena e quindi sulla conseguente risposta sanzionatoria.

Negli anni trenta del XXI secolo irrompe sulla scena italiana il Codice Rocco, che ricerca il difficile equilibrio2, basandosi sull’elaborazioni dottrinali della c.d. Terza Scuola e sulle insistenze della politica autoritaria del regime fascista, proponendo soluzioni nuove per il controllo ed il contenimento della criminalità3.

1.1 Un sistema sanzionatorio in crisi?

Oggi, a più di un secolo dalla nascita delle misure di sicurezza, bisogna interrogarsi sullo stato di salute del doppio binario cercando di capire i motivi che ne hanno decretato un sostanziale fallimento. Non è di certo per caso fortuito che il sistema del doppio binario sia divenuto, in Italia, un residuo del sistema sanzionatorio sotto la spinta della prassi, dell’elaborazione dottrinale e dei progetti di riforma oramai orientati verso una logica di ridimensionamento del doppio binario per i soggetti non imputabili e di maggior attenzione ai bisogni di cura e recupero, obiettivi che si discostano totalmente dalla logica custodiale e sicuritaria del Codice Rocco.

2 PELISSERO M., Pericolosità sociale e doppio binario, cit., pag. 2 premessa. 3 Vedi infra cap. I, paragrafo 1.2.1

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Tuttavia, va osservato, come in altri paesi (Germania, Svizzera, Francia e Austria), si stia verificando un recupero ed una valorizzazione del sistema a doppio binario in una logica di maggior attenzione alla sicurezza sociale, tramite l’applicazione di misure custodialistiche e interdittive soprattutto nei confronti di soggetti/rei che manifestano specifiche forme di pericolosità sociale.

Già nel 1985 Gunther Kaiser si interrogava sulla funzionalità della pena con queste parole “le misure criminali sono in crisi?”4.

Interrogarsi nello specifico sui limiti del sistema a doppio binario comporta l’analisi di un campo più ampio che è quello del ruolo del sistema sanzionatorio e della pena come strumento di controllo e protezione sociale. Si parte dalle elaborazioni della scuola classica legata ad un rigido retribuzionismo per rendersi conto nel tempo dell’inefficienza di tale tipo di pena, incapace di contenere la pericolosità del reo ed assolvere il compito primario di difesa sociale. Le elaborazioni dottrinali, già prima dell’introduzione del Codice Rocco e soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione, oscillano tra il mantenimento del doppio binario ed il suo superamento per tramite di un sistema monistico in cui le esigenze di tutela vengono assolte o da provvedimenti di intervento o da varie tipologie di pena. Oggigiorno il dibattitto si inserisce in un contesto in cui si assiste ad una forte crisi del sistema penale ed in conseguenza del sistema sanzionatorio, percepito sempre più come inadeguato ed inefficacie, in cui è fortemente presente uno scollamento tra pena prevista, pena applicata e pena eseguita.

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1.1.2 Confronto tra le maggiori Scuole di diritto

penale – Scuola classica, Scuola positiva

italiana e Moderne schule.

In Italia, come in altri paesi europei, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, si confrontano due importanti scuole di diritto penale che getteranno le basi del diritto penale moderno e più specificatamente della funzione della pena e del sistema delle misure di sicurezza. Da un lato troviamo la scuola penalistica classica, sviluppatasi in pieno Illuminismo, come risposta alla situazione politica, sociale e giuridica europea, in un ambiente liberale ed illuminato che tuttavia conservava al suo interno anche idee spiritualistiche, cattoliche ed idealistiche. I “penalisti classici” si oppongono fermamente al sistema penale allora vigente caratterizzato dall'uso della tortura e da pene feroci ed inumane.

Alla base di questa dottrina vi erano tre principi:

1. il delinquente è un uomo uguale a tutti gli altri;

2. la condizione e la misura della pena sono determinate dall'esistenza e dal grado del libero arbitrio;

3. la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile5.

5CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, prefazione alla V edizione,

vol. I, Fratelli Cammelli, Firenze 1897, pag.10, reperibile in www.laltrodiritto.it - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità.

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Questa dottrina si sviluppa attorno al dogma del libero arbitrio, della libertà della volontà umana, facendo propria una visione metafisica del diritto; da questo concetto si svilupperà la concezione della responsabilità degli uomini per i loro comportamenti, che si tradurrà, nel campo del diritto penale, nel concetto di colpa, castigo e retribuzione6.

Si parte dalla considerazione di base, che il soggetto/reo abbia volontariamente e consapevolmente scelto di violare la norma e commettere il reato, nonostante abbia avuto la possibilità di sceglierne l’osservanza, approdandosi quindi ad una pena retributiva e punitiva (nella duplice accezione di retribuzione morale e retribuzione giuridica).

Pena che se da una parte è manifestazione dell’autorità statale, dall’altra ne costituisce una limitazione, in quanto la legge ne determina condizioni ed estensione. La Scuola classica si propose quindi di rivendicare e proteggere i diritti individuali contro gli abusi e i soprusi dell'autorità nell'amministrazione della giustizia penale. La visione della scuola classica entra in crisi all’inizio del XX secolo in conseguenza di diversi fattori, primo fra tutti il mutevole e crescente fenomeno di criminalità, che testimonia il fallimento della politica criminale fino ad allora adottata, ed ancora quello di relegare il diritto penale ed il reo nella sfera astratta di un diritto naturale razionalistico lontano dalla realtà individuale e sociale, ignorando i condizionamenti sull’ agire umano di fattori extra-volontari, endogeni ed esogeni, ed ancora aver considerato la pena come unico strumento di prevenzione generale e speciale tralasciando l’introduzione di altre misure neutralizzanti e risocializzanti, adattate ed adeguate alla personalità del soggetto-reo, ed infine l’aver totalmente trascurato la fase esecutiva,

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momento fondamentale per il recupero del soggetto, ritenendo chiuso il problema penale subito dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Queste criticità portarono allo sviluppo della Scuola positiva, alla cui base viene posto il principio di causalità, unico elemento in grado di spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali. In conseguenza a ciò, il delitto non è più il prodotto di una scelta volontaria, libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali.

Il reato viene considerato quindi come un fenomeno naturale e sociale, un fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. L’attenzione si sposta dal fatto criminoso alla personalità del delinquente in concreto, e si focalizza l’attenzione sull’analisi delle probabilità del soggetto di commettere/ricommettere fatti criminosi.

La critica più sferzante e celebre alla scuola classica ed alla pena retributiva, pervenne dal capostipite e fondatore della Moderne Schule (scuola moderna tedesca), Franz von Liszt; nel suo scritto critico, “Il programma di Marburgo”7, bocciò l’inadeguatezza della pena retributiva perché essa, riferita solo al passato, veniva connessa alla responsabilità del reo, mentre avrebbe dovuto guardare anche al futuro con lo scopo primario di proteggere la collettività.

Tuttavia non si fermò alla critica, ma elaborò un nuovo concetto di pena, la pena di scopo (Zweckstrafe), frutto dell’applicazione dell’idea di scopo al diritto penale, e del processo di obietivizzazione della pena; lo scrittore tedesco definì la pena primitiva come azione istintiva, vale a dire nel senso negativo di “reazione cieca, determinata ed adeguata

7 VON LISZT FRANZ, Il programma di Marburgo, “Der Zweckgedanke im

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soltanto agli istinti ed agli impulsi”, e nel senso positivo di “manifestazione della tendenza dell’individuo all’autoaffermazione, all’individuale autoconservazione e perciò forse sostanzialmente alla conservazione della specie”.

Ed è proprio in conseguenza di quest’accezione primitiva di pena che subentra il concetto di scopo: l’evoluzione dell’umanità si concretizza nel momento in cui si sostituisce alla primitiva azione guidata dall’istinto l’azione generata dalla volontà diretta al raggiungimento di uno scopo. Traslando ciò all’interno del sistema della pena si arriva ad una qualificazione della pena in termini di “azione istintiva conforme allo scopo”.

Passando dal piano teorico-filosofico a quello pratico, affinché la pena si liberi definitivamente del carattere vendicativo ed istintivo, serve un processo di “obietivizzazione”, consistente nel passaggio della competenza della funzione punitiva da singoli privati parziali ed interessati, a terzi imparziali ed identificare lo scopo della pena con la tutela dei beni giuridici.

Questa visione porta Von Liszt a cercare di concretizzare la pena, non ancorando la sua giustificazione ad elementi metafisici, ma elaborando una serie di finalità di tipo terreno, il cui raggiungimento sarebbe stato manifestazione dell’idea di scopo applicata alla pena. Si individua una delle finalità primarie, nella protezione della collettività per il cui raggiungimento, lo scrittore tedesco, mette a servizio lo strumento della coercizione. Si distingue la coercizione diretta, che consiste in un’espulsione temporanea o durevole dalla società, e coercizione psicologica che invece si presenta come tentativo di adattamento alla

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società, che offre al reo la possibilità del recupero distogliendolo dalla commissione di altri reati8.

Dalla differenziazione dei due tipi di coercizione, Franz von Liszt, passa alla categorizzazione dei rei/delinquenti, proponendo per ciascuna di essi reazioni statuali differenti e quindi pene differenti, e sottolineando che a queste tre categorie corrispondono i tre effetti della pena individuati, ovvero l’intimidazione, il miglioramento, e la predisposizione all’innocenza9.

1. Irrecuperabili: sono costituiti da tutta la delinquenza abituale (mendicanti, vagabondi, individui dediti alla prostituzione o allo sfruttamento di essa, soggetti dalla vita equivoca, disabili nel fisico e/o nello spirito). La società non può far altro che adottare misure di contenzione perpetua o a tempo indeterminato, da scontare in case di custodia o di lavoro;

2. Bisognevoli di risocializzazione: sono i “principianti della carriera del delitto” coloro che sono stati spinti al reato, ma la cui rieducazione e speranza di salvezza non è ancora perduta. Nei loro confronti è consigliato l’internamento in un istituto correzionale, ed essere escluse le pene detentivi brevi che risultano nocive e controproducenti;

3. Delinquenti occasionali: sono coloro che hanno commesso una singola azione, isolata e senza pericolo di recidiva, nei confronti dei quali un’accurata opera di rieducazione appare priva di scopo.

8 VON LISZT FRANZ, Il programma di Marburgo, cit. 9 VON LISZT FRANZ, Il programma di Marburgo, cit.

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Come la pena retributiva della scuola classica, anche la pena di scopo teorizzata da Von Liszt tende al fine di ultimo del diritto penale, consistente nel contenimento e controllo della criminalità e della conseguente protezione della collettività. Conseguentemente prese in considerazione il tema della “misura di sicurezza”, utile e primario strumento di diritto penale, che definì “misure statali tese allo scopo sia di integrare gli individui nella società, sia di eliminare dalla società gli inadattabili”10, sottolineando come il rapporto tra misure di sicurezza e pena debba configurarsi come rapporto di vicarietà, dovendo essere due manifestazioni complementari del potere statuale. Anche in Italia troviamo la scuola positiva con capostipite Cesare Lombroso, e tra gli altri Enrico Ferri e Raffaele Garofalo. Merito di questa Scuola, che portò alla formulazione del “Progetto Ferri del 1922”11, è stato l’aver focalizzato l’attenzione sul problema della personalità dell’autore di reato condizionata da elementi bio - psico – sociologici e di aver inserito il reo ed il reato nella realtà individuale e sociale che di fatto li circonda.

Tuttavia, vanno considerati anche i limiti della scuola positiva, tra i quali l’aver incentrato il diritto penale sulla pericolosità del soggetto, su tipologie criminologiche di autori di reato e su elementi tipicamente personali, mettendo a rischio le garanzie di legalità e certezza con difficoltà conquistate, ed ancora aver fatto un uso smodato di categorizzazioni e generalizzazioni che hanno portato ad una

10 VON LISTZ FRANZ, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, Berlino, 1911, pp. 251 e

ss.

11 Nel 1919 Enrico Ferri, professore di Diritto penale, tra i fondatori del Positivismo,

fu incaricato dall’allora guardasigilli, Ludovico Mortara, di redigere il nuovo codice penale. Con una commissione presentò il progetto per il codice, cosiddetto Progetto Ferri, nel 1919, tuttavia esso non ebbe seguito e rimase allo stadio di Progetto.

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deresponsabilizzazione dell’individuo, da ultimo incentrandosi il sistema sulla pericolosità del soggetto sorgeva il problema della teorica ma assurda contenzione preventiva dei soggetti predelinquenti, individui che pur non avendo commesso nessun reato risultavano socialmente pericolosi, mettendo in discussione il principio cardine del diritto penale “nulla poena sine delicto”.

1.2 Evoluzione del Doppio binario

Possiamo sinteticamente ripercorrere le tappe principali del sistema doppio binario, dalla presenza nel Codice Rocco all’introduzione della Costituzione con i conseguenti contributi della Corte Costituzionale, fino al lavoro del legislatore, anticipando fin da subito il progressivo cambiamento del concetto di pericolosità sociale base dell’applicazione delle misure di sicurezza.

1.2.1 Il Codice Rocco

Il Codice Rocco del 1930 propone un’impostazione in grado di trovare una sintesi tra le due maggiori scuole di pensiero del tempo, la Scuola Classica e la Scuola Positiva, entrambe sostenitrici di un sistema sanzionatorio monistico fondato sulla pena retributiva proporzionata (scuola classica) e su una sanzione indeterminata di difesa legale proporzionata alla pericolosità dell’autore di reato (scuola positiva).

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Sintesi, ritenuta da molti impossibile, ma che si rivelerà non solo capace di soddisfare entrambe le scuole, ma funzionale ed adatta alla linea autoritaria di politica criminale del regime12.

Il sistema a doppio binario, già ad una prima analisi, presentava profili sanzionatori molto rigorosi dati dalla presenza delle presunzioni di pericolosità sociale.

Teoricamente l’art. 202 conteneva la regola generale, in base alla quale l’applicazione delle misure di sicurezza scattava solo in presenza di accertate condizioni di pericolosità sociale del soggetto, ma nella pratica la presenza di numerose presunzioni di pericolosità, previste dalla stessa legge, rendevano l’art. 202 un residuo ideologico. Suddette presunzioni erano legate a status personali, gravità del reato commesso, reiterazione del reato; ad esempio, l’art. 222, prevedeva per il soggetto prosciolto per infermità di mente, intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti o per sordomutismo il ricovero in un manicomio giudiziario, condizionato alla commissione di reati non colposi puniti con la reclusione superiore nel massimo a due anni. Il dubbio sistema delle presunzioni era aggravato dalla previsione di termini minimi di durata delle misure di sicurezza che non permettevano, prima della scadenza, la possibilità di una verifica sulla sussistenza effettiva ed attuale dello stato di pericolosità del soggetto. Ciò assieme ad altri fattori produsse nel tempo, nello specifico caso delle misure di sicurezza presso i manicomi giudiziari, al fenomeno degli “ergastoli bianchi”, di cui meglio parlerò in seguito. Residuava solo la procedura straordinaria di cessazione della misura tramite decreto del Ministro della giustizia, come si può facilmente evincere, tale possibilità era solo teorizzata.

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La possibilità di tornare ad applicare la regola generale dell’art. 202 c.p., quindi l’accertamento in concreto della pericolosità sociale, avveniva esclusivamente in presenza di determinati decorsi temporali, qualora tra la sentenza di condanna o proscioglimento e la commissione del reato fossero trascorsi cinque anni in caso di soggetto imputabile o dieci anni in caso di soggetto con infermità di mente (artt. 219, secondo comma e 222, secondo comma, c.p.).

Per capire appieno la severità e vessatorietà del sistema delle presunzioni, bisogna fare una distinzione.

Da una parte i soggetti non imputabili, per i quali il sistema era di fatto monistico, producendo pene di durata maggiore rispetto a quelle che avrebbero potuto subire soggetti imputabili, dall’altra soggetti imputabili o semi-imputabili pericolosi, per i quali l’applicazione della misura di sicurezza obbligatoria e di durata minima prefissata, operava come pena aggiuntiva, incidendo pesantemente sul soggetto.

Inoltre, per quanto concerne l’infermo di mente, lo stereotipo criminale del “pazzo” giustificava, per questa categoria di soggetti, la presunzione di pericolosità, pericoloso per se stesso e per gli altri e massimamente pericoloso in caso di commissione di reati. A ciò va aggiunto che la misura minima poteva essere protratta senza limite massimo tramite riesami progressivi della pericolosità13.

Risulta ben chiaro come alla base dell’impostazione del Codice Rocco, perfettamente in linea con la politica di rigore del regime, fosse esaltata al massimo la tutela della difesa sociale a scapito della tutela della libertà personale dell’autore del reato, prima di tutto “persona” oltre che “reo”

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1.2.2 Il testo Costituzionale

Con l’entrata in vigore del testo Costituzionale va attenuandosi il rigore dell’apparato sanzionatorio disposto dal Codice Rocco, nell’evidente contrasto di questo con alcuni articoli della Costituzione; art. 25, terzo comma (“nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.”), che prevede la distinzione tra pene e misure di sicurezza, violato in quanto le presunzioni di pericolosità sono legate alla gravità del reato e non all’effettiva e sussistente pericolosità del soggetto, art. 3, primo comma (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”), per l’irragionevole equiparazione di situazioni diverse ed il pericolo che la pena incidesse su un soggetto non pericoloso, art. 27, primo comma (“la responsabilità penale è personale.”), la cui interpretazione vuole l’applicazione delle misure di sicurezza solo in presenza di un reale stato di pericolosità sociale.

In questo quadro risultò necessario l’intervento della Corte Costituzionale e del legislatore, che progressivamente ribaltarono l’originaria disciplina abbandonando la logica di base che esaltava la difesa sociale. Innanzitutto, tramite il passaggio dalla competenza del Ministro di Grazia e Giustizia alla competenza del Giudice di Sorveglianza (Sentenza n. 110 del 23 aprile 1974 della Corte Costituzionale), del potere di revoca della misura di sicurezza, viene dato un duro colpo alla logica repressiva ed alla previsione di termini minimi di durata della pena14.

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Importante cambiamento anche quello riguardante il requisito soggettivo della pericolosità sociale, condizione per l’applicazione della misura di sicurezza, non più ancorato a tipizzazioni e presunzioni, ma attribuito totalmente al potere decisionale del magistrato, al quale compete una valutazione concreta e reale della sussistenza dell’elemento che giustifica l’applicazione della misura di sicurezza. In conclusione, il presupposto per l’applicazione delle misure contenitive tornava finalmente ad essere l’accertamento in concreto della pericolosità, requisito già tipizzato ma di fatto non applicato dal Codice Rocco, declassando le fattispecie presuntive ad elementi indizianti15.

La progressiva attenuazione della severità dell’impianto sanzionatorio va di pari passo con il clima politico che si respira a partire dalla metà degli anni settanta in poi e che si caratterizza, nell’ambito delle misure di sicurezza, per l’estensione dei poteri discrezionali del magistrato nella determinazione in concreto della sanzione che si distacca, quindi, dalla previsione predeterminata in astratto dal legislatore e l’attuazione di misure alternative; si punta ad una sistema che preveda delle sanzioni differenziate, dei percorsi di pena adattabili al caso concreto, sia nei criteri di determinazione e commisurazione sia negli sviluppi della fase esecutiva, si ricerca la soddisfazione delle esigenze di difesa sociale non più solo nella contenzione fisica del reo ma all’interno della pena, oramai strumento flessibile e modulabile.

In questo approccio si esprime appieno il doppio binario.

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1.3 Uno sguardo al presente

Ritengo opportuno impegnare qualche riga per l’analisi della crescente richiesta di sicurezza sociale che investe il settore penale scaturente dalla nostra società, percepita oramai come una “società del rischio”. In un contesto postindustriale caratterizzato da migrazioni, disoccupazione, forti disuguaglianze sociali, scontri culturali, e situazioni di coesistenza forzata è fisiologico che si verifichino conflitti con episodi più o meno violenti, come sostiene Silva Sanchez Jesus M. “il primo fattore di rischio percepito è costituito dall’altro”16. Questi profili di insicurezza collettiva, dati non tanto “dall’intensità del rischio ma dalla sua pervasività e diffusività”17, incidono sulla percezione del crimine e della pericolosità sociale dell’autore del reato ed conseguentemente hanno un forte peso sulle scelte di politica criminale che in molti ordinamenti hanno influito sul sistema del doppio binario.

È emerso come in contesti sociali pervasi dal senso di insicurezza, più percepita che effettiva, le politiche penali tendano ad uno spiccato neoretribuzionismo della pena ed all’accentuazione della responsabilità in capo all’autore del reato, ad una pena neutralizzante ed incapacitante vista come “giusta punizione” a scapito di una pena rieducativa e risocializzante.

Ritornano sulla scena figure quali il “delinquente nato” di lombrosiana memoria e il “delinquente per tendenza” del Codice Rocco, che in forza di una rappresentazione dell’autore del reato come soggetto non

16 SILVA SANCHEZ JESUS M., L’espansione del diritto penale. Aspetti della

politica criminale nelle società postindustriale, Milano, Giuffrè, 2004.

17 PELISSERO M., Pericolosità sociale e doppio binario – Vecchi e nuovi modelli di

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recuperabile, in quanto naturalmente propenso a commettere crimini, giustificano la rinuncia ai programmi riabilitativi prospettando come unica soluzione la neutralizzazione del reo tramite l’incapacitazione fisica carceraria.

La prospettiva neoretributiva utilizza il carcere come strumento di controllo della criminalità tramite il contenimento e l’isolamento del reo, sottovalutando i rischi insiti nell’istituzione carceraria come la forte desocializzazione, la spersonalizzazione e l’esclusione del soggetto/reo che una volta tornato in libertà non riesce a trovare un suo posto in una società spesso etichettatrice ed emarginalista.

Sostiene per l’appunto Antonio Pagliaro che “il finalismo rieducativo della pena lascia il posto ad una spiccata prevenzione speciale negativa, che accentua la funzione di neutralizzazione (o incapacitazione) della sanzione, al fine di prevenire la commissione di ulteriori reati attraverso l’esclusione dell’autore del reato dalla società”18.

La riscoperta di politiche basate sull’ideologia retribuzionista e di esaltazione della pena carceraria risultano alla lunga essere sterili e insufficienti, sono quindi manovre politiche populiste e di sicuro impatto, che appagano le istanze punitive e regalano alla collettività quel senso di sicurezza dato dall’incapacitazione dei soggetti pericolosi, reclusi in edifici sicuri ed isolati.

Tuttavia va sottolineato che la sicurezza reale non aumenta in quanto la scelta segregazionista e neutralizzatrice dell’autore di reato non riesce ad individuare e frenare i fattori che stanno alla base della genesi criminale. È forte il pericolo che la politica criminale si trasformi in

18 PAGLIARO A., Trattato di Diritto Penale. Parte generale - Vol. II: il reato,

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politica penale che nella necessità di procacciarsi consenso basi le proprie scelte non sul diritto ma sull’istinto populista.

1.4 Pluralità di binari

La crisi del doppio binario non ha portato al tramonto della pena preventiva e retributiva, creando invece un sistema caratterizzato da una pluralità di binari sorti nell’ottica del contenimento e controllo del soggetto autore di reato pericoloso e di conseguenza definiti “binari preventivi”.

Sottolineare la formazione di una pluralità di binari mette in luce la peculiare situazione italiana in cui ad una riduzione dell’utilizzo delle misure di sicurezza ha fatto riscontro un potenziamento del controllo del soggetto autore di reato pericoloso attraverso molteplici forme di prevenzione della pericolosità.

Alcuni di questi binari si collocano “prima della pena”, come ad esempio la custodia cautelare in carcere19, misura di evidente matrice preventiva, altri “al di fuori della pena” come le misure di prevenzione personali, fondate sulla pericolosità sociale del soggetto e comminate a prescindere dalla commissione di un reato.

19 Art. 275 c.p.p.: La custodia cautelare in carcere può essere applicata solo come

extrema ratio, quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate e solo in presenza di particolari ipotesi e condizioni: pericolo di fuga concreto ed attuale con conseguente sottrazione al processo e alla eventuale pena, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di inquinamento delle prove e delle indagini.

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Altri di essi, quelli che più ci interessano, sono collocati “all’interno della pena” attraverso una differenziazione dei percorsi penitenziari basata sulla natura del reato commesso e quindi sulla pericolosità del reo, come ad esempio, i percorsi previsti per gli autori di reati sessuali o di reati legati alla criminalità organizzata, ciascuno con finalità diverse e specifiche.

Ed è proprio la specificità dei diversi percorsi ed il conseguente peso e spessore che essi conferiscono alla pena detentiva che ci permette di utilizzare la definizione di “binari plurimi”.

1.5 L’accertamento della pericolosità sociale

dell’infermo di mente in tre fasi: diagnosi,

incidenza del disturbo sulla capacità,

valutazione del giudice

Strumento primario ed insostituibile, la perizia psichiatrica, volta all’accertamento della pericolosità sociale dell’autore di reato, è stata ed è tutt’ora sottoposta a dura critiche sia da parte della dottrina che degli esperti del settore medico-psichiatrico, in primis per la mancanza di una metodologia standardizzata di indagine.

La perizia consta di tre fasi, rispetto alle prime due le critiche si sono parzialmente attenuate, in ragione degli sforzi compiuti.

La prima fase, consistente nella diagnosi del disturbo psichico, è stata sottoposta a canoni più stringenti e rigorosi, anche sulla scia di

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importanti suggerimenti provenienti dalle Corti americane con le Sentenze Daubert del 1993 e Kuhmo del 1999 20, i quali prevedono il controllo della comunità scientifica, la verificabilità empirica, l’indicazione del tasso di errore ed in via sussidiaria, la generale accettazione della comunità, in relazione ad ogni contributo degli psichiatri forensi, così da fondare il giudizio su ipotesi dotate di un grado maggiore di affidabilità scientifica.

Si impone, dunque un modello definito “paradigma integrato”, che pone alla base del disturbo psichico una multiformità di fattori, non solo di tipo biologico, ma anche di tipo extra biologico, e dunque psicologici, situazionali e socioculturali, a differenza di quanto avveniva in base ai paradigmi monocausali21, sostenuto anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Penali nella Sentenza Raso n. 9163 del 2005.

La seconda fase, riguardante la valutazione dell’incidenza del disturbo psichico sulla capacità di intendere e di volere dell’autore di reato, nonostante per anni si sia ritenuta di esclusiva competenza del giudice, gli orientamenti più recenti, anche alla luce degli sviluppi della scienza psichiatrica e della scienza criminologica, fanno protendere per un’analisi effettuata da periti competenti in materia, capaci quindi di una valutazione globale della personalità del reo22.

La terza fase, relativa alla valutazione della pericolosità sociale, è quella che desta maggiori problemi, innanzitutto basti pensare alla

20 Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579, 589, 1993; Kumho

Tire Co. v. Carmichael, 526 U.S. 137, 1999.

21 FORNARI U., Temperamento, delitto e follia, Rivista Diritto e Procedura Penale,

2001, pp. 521 e ss.

22 COLLICA M.T., La crisi del concetto di autore non imputabile pericoloso, in

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poca chiarezza del concetto stesso di pericolosità sociale, di cui tanto si parla ma dai contorni ancora ben poco definiti.

Ad esempio, in ambito di dottrina specialistica, si possono individuare due nozioni ben diverse, chi sostiene che si tratti di una caratteristica dell’autore di reato non necessaria ma eventuale quindi non permanente e della quale viene previsto un riesame periodico per valutarne la sussistenza o meno23, e chi invece la definisce come un’elevata possibilità che si verifichi un evento dannoso in conseguenza di un comportamento violento24.

Nessun chiarimento arriva dal versante normativo il quale all’art. 203 c.p. definisce così la pericolosità sociale: “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”, l’utilizzo per l’appunto del termine “probabile” conferisce alla norma un certo grado di genericità, lasciando agli addetti un grado di discrezionalità elevato e dai margini indefiniti.

Va inoltre segnalata l’assenza di un elencazione di elementi effettivamente sintomatici della probabile commissione o reiterazione di futuri reati, sui quali basare il giudizio di pericolosità utile ai fini della comminazione della misura di sicurezza adeguata. Non basta a tal fine il generico richiamo dell’art. 203, secondo comma c.p., all’art.133 c.p., che non permette di far emergere dati certi indicativi della presenza di pericolosità, situazione resa ancor più complicata dalle

23 CALABRIA A., Digesto delle Discipline Penalistiche, voce Pericolosità, vol. IX,

Torino, Utet, 1995.

24 BRUNO F., La pericolosità sociale psichiatrica, Trattato di Criminologia, Medicina

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modifiche, in merito alla valutazione della pericolosità sociale, apportate dalla Legge n. 186 del 2015, di cui meglio parlerò in seguito.

CAPITOLO II

NASCITA E SVILUPPO DELL’OSPEDALE

PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

SOMMARIO: 2.1 Prima dell’OPG - 2.1.1 Il manicomio criminale come istituto di pena speciale – 2.1.2 Breve iter legislativo - 2.1.3 Critica delle istituzioni totali: Goffman e Foucault – 2.2 Nascita e sviluppo dell’istituzione - 2.2.3 Legge n. 345 del 1975

Stando al dato normativo gli OPG sono delle strutture finalizzate all’esecuzione delle misure di sicurezza restrittive della libertà personale, per gli autori di reato prosciolti per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcol o stupefacenti, o per sordomutismo non curato (art. 222 c.p.).

Tuttavia, scavando più a fondo, troviamo una realtà spesso taciuta e sottovalutata tornata prepotentemente sulla scena del dibattito politico

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e sociale durante l’ultimo decennio, che ha visto operare Commissioni parlamentari d’inchiesta (prima fra tutte la Commissione Marino del 201125), volte a far chiarezza su questi istituti di contenzione ed anche l’impegno di associazioni, quali StopOPG, L’altro diritto, Associazione Antigone ed altri, che ne hanno denunciato gli aspetti critici e le contraddizioni. La sollecitazione della Commissione ha sortito i suoi effetti, circa un anno dopo nel Febbraio 2012, in sede di conversione del Decreto Legge n. 211 del 201126, è stato inserito l'art. 3 ter che stabilisce un termine per il definitivo superamento degli OPG entro il 31 marzo 2013, la data non è stata rispettata tra rinvii e ripensamenti27.

Per avere una visione chiara e quanto più possibile esaustiva dell’istituzione in esame, occorre fare un passo indietro, delineando il contesto storico, sociale e legislativo che ha dato vita e che successivamente ha decretato il tramonto, o meglio la sostituzione con le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

A partire dagli anni '70 del XIX secolo furono inaugurati i primi manicomi giudiziari italiani. Prendevano vita in un contesto normativo già delineato, come istituti di pena speciali presso i quali inviare i detenuti impazziti. Nei decenni successivi furono approvate importanti riforme: nel 1889 vide la luce il Codice penale Zanardelli, due anni dopo fu approvato il Regolamento Generale delle carceri e a queste riforme seguì - nei primi anni del XX secolo - la Legge sui manicomi e gli alienati.

25 Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Sistema

Sanitario Nazionale del 2011, Presidente Ignazio Marino. Per approfondimento vedi infra par.4.2, cap. IV.

26 Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal

sovraffollamento delle carceri.

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2.1 Prima dell’OPG

Come già detto, per comprendere a fondo la natura e la funzione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, occorre innanzitutto ripercorrere, seppur brevemente, le tappe che hanno portato alla nascita dell’istituzione e la realtà precedente, ovvero conoscere i luoghi in cui venivano reclusi i “folli rei” e i “rei folli”.

Gli odierni OPG, non sono altro che il seguito dei manicomi criminali, immaginati e fortemente voluti dalla Scuola Positiva negli anni ’70 del XIX Secolo.

In periodi e contesti sociali e storici differenti la stessa struttura verrà definita in modo diverso, anche se nella sostanza poco o nulla cambierà. Avremo quindi l’utilizzo dell’accezione “manicomio criminale” coniata dai criminologi Positivisti, durante il XIX secolo, la definizione di “manicomio giudiziario” nata per prassi dopo l'apertura della prima Sezione per maniaci all’interno della già esistente casa di pena di Aversa nel 1876, per approdare infine alla terminologia odierna di “Ospedali Psichiatrici Giudiziari”, dal 1975, data in cui è entrato in vigore il primo ordinamento penitenziario28.

Ma facciamo un passo indietro cercando di comprendere il contesto storico e culturale all’interno del quale collochiamo la materia d’interesse.

28 BORZACCHIELLO A., Alle origini del manicomio criminale, in G. Pugliese e G.

Giorgini (a cura di), Mi firmo per tutti. Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari, un'inchiesta e una proposta, Roma, Datanews, 1997, pp. 71 e ss.; CANOSA R., Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979.

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Innanzitutto l'Italia era unita, ciò costituiva l'occasione per aprire una discussione su tutti i campi e i settori nei quali si era posta l'esigenza di un'uniformazione normativa. Per ciò che a noi interessa, nel campo del diritto penale, il codice penale e la legge sui manicomi.

Per quanto riguarda il codice penale, occorre premettere che non esisteva una codice unitario e che venne esteso a quasi tutta la penisola il Codice penale sardo del 1859 che ci permette di analizzare quanto previsto in materia di responsabilità, imputabilità e conseguenze del proscioglimento dell'incapace. Nelle ipotesi di commissione di un reato in condizioni di «assoluta imbecillità, pazzia o morboso furore»29, era esclusa la configurazione di un reato, pertanto nei confronti dell'imputato era emesso un giudizio di proscioglimento, lo stesso codice prevedeva anche una forma di responsabilità intermedia.

Per quanto riguarda le conseguenze del proscioglimento il codice non disponeva niente, colui che era stato ritenuto versare in una delle condizioni previste dalla norma, al momento della commissione del fatto, oppure aveva agito in virtù di una forza irresistibile, fuoriusciva dal circuito penale. Il non imputabile era lasciato in libertà, poteva però accadere che l'autorità amministrativa disponesse il ricovero in un asilo, questa possibilità eventuale, era tuttavia la stessa che per qualsiasi altro alienato non essendo in alcun modo conseguenza diretta del processo penale.

Il paradosso del folle reo, che nonostante autore di reato veniva lasciato in libertà, è conseguenza della visione illuminista, ripresa e sviluppata successivamente dalla Scuola Classica, di un sistema penale rigidamente dicotomico, nel quale un individuo era giudicato a prescindere dalla condizione sociale o dalla sua capacità di

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comprendere la legge penale e definito folle oppure responsabile delle proprie azioni.

Per usare le parole esaustive di David Garland, (professore e ricercatore di sociologia della New York University),” […] gli individui che apparivano di fronte alle corti, per quanto fossero incapaci, incompetenti o socialmente svantaggiati, venivano trattati come se corrispondessero al prototipo illuminista, essendo la sola categoria legale alternativa esistente a quella degli sconvolti, dei pazzi, dei non soggetti [...]”30.

Tale concezione del reo perdurerà fino alla fine del XIX secolo, momento in cui irromperà sulla scena la figura del reo divenuto folle innescando una serie di innovazioni ideologiche in campo penale, come, l'emersione della pericolosità sociale, l'intreccio tra psichiatria e giustizia, l'individualizzazione dell'istanza punitiva, l'affermazione di una rete carcerocentrica di istituzioni disciplinari, che caratterizzeranno l’epoca di affermazione dello Stato Moderno.

La storia italiana dell’internamento istituzionalmente previsto, inizia nel settore dei manicomi civili, nel 1865, sotto la spinta delle tesi Positiviste, che mettono in primo piano l’esigenza di difesa della società da soggetti doppiamente pericolosi in quanto sia rei che folli. Basti rilevare il dato numerico dei ricoverati nei manicomi italiani, erano circa 7.700, nel 1874 arrivano a 12.210, solo sette anni più tardi, nel 1881, gli internati saranno più di 18.000. Nel 1898 i ricoverati diventeranno ben 36.873. Nel 1914 arriveremo all'esorbitante cifra di

30 GARLAND D., Punishment and modern society: A study in Social Theory, Oxford,

Clarendon Press, 1990, tr. it., in SANTORO E., Carcere e società liberale.,Torino, Giappichelli, 2004, pp. 341-342.

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54.31131. Numeri impressionanti se ad essi viene aggiunta l’ulteriore considerazione che il numero dei detenuti in carcere diminuiva all’accrescere del numero degli internati in manicomio, rendendo di fatto carcere e manicomio due istituti perfettamente fungibili. Inoltre la psichiatria con l’elaborazione delle categorie nosografiche offriva un ampia base giustificativa alla necessità dell’internamento per quei soggetti categorizzabili.

Ovviamente per far fronte a tale incremento del numero di soggetti da internare e trattare, si aumentò il numero degli istituti presenti sul territorio, grazie ad un attivismo del finanziamento sia pubblico che privato e di una solerzia ed efficienza operativa, del sistema, davvero rara nelle istituzioni politiche ed amministrative italiane.

Nel 1898 l'Italia arrivò ad avere 40 manicomi provinciali, 32 case di salute per malati mentali, 16 cliniche psichiatriche universitarie e, molto prima che il codice Rocco li legittimasse nel 1930, ben 3 manicomi giudiziari32.

2.1.1 Il manicomio criminale come istituto di pena

speciale

Di “manicomio criminale”, si inizia a parlare, nel 1876, con l’apertura della prima Sezione per maniaci, che ospiterà inizialmente solo 19

31 GILLIO M., La popolazione manicomiale in Italia dall'Unità alla Grande Guerra in

Lombroso cento anni dopo, pag. 100.

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individui, all’interno della già esistente casa di pena per invalidi di Aversa, da parte del Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Martino Beltrani Scalia33.

Il Codice penale vigente era ancora quello sardo del 1859, dunque per i prosciolti folli non era disposto nessun particolare provvedimento. La sezione per maniaci nasceva per ospitare, come istituto speciale di pena, solo i rei-folli, ovvero autori di reato condannati alla pena detentiva in carcere, e ivi divenuti folli34.

Occorre sottolineare, come un passo così importante e rilevante nell’ambito delle misure limitative della libertà personale, viene compiuto attraverso un provvedimento amministrativo, fonte secondaria e del tutto estranea al dibattito parlamentare. Lo stesso Cesare Lombroso, sostenitore della necessità del cambio di passo, non mancò di far notare che la più grande riforma del settore di quel tempo, avvenne, sue testuali parole, alla “chetichella”35, attraverso regolamenti amministrativi, fortemente influenzati dalle nuove teorie elaborate dalla freniatria e dalla Scuola positiva.

La sezione di Aversa rimase per anni l’unica struttura del genere e si rivelò ben presto, come già accennato, insufficiente ad accogliere tutti i rei-folli del territorio nazionale nonché comportare ingenti costi per i trasferimenti, si decise quindi di istituire un nuovo manicomio giudiziario da collocare nelle aree del centro Italia, in una zona che fosse salubre e isolata. Nel 1886, sempre in assenza di una legge che li regolasse stabilendone funzioni e limiti, si aprì la nuova struttura, trasformando in manicomio giudiziario la Casa di pena

33 BORZACCHIELLO A., Alle origini del manicomio criminale, cit., pp. 8 e ss. 34 CANOSA R.,Storia del manicomio in Italia dall'Unità a oggi, Feltrinelli, Milano,

pag. 147.

35 ROSSO R., FORNARI U., Il trattamento del prosciolto nella psichiatria positivista

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dell'Ambrogiana presso Montelupo Fiorentino, primo vero e proprio manicomio giudiziario36.

Il numero dei manicomi era destinato a crescere, difatti, nel 1892 venne istituito il manicomio giudiziario di Reggio Emilia, ospitato all'interno di un convento del XVII secolo. Prima riservato ai soli soggetti affetti da vizio parziale di mente e poi aperto a tutti gli infermi di mente37.

2.1.2 Breve iter legislativo

Diversi progetti di legge si susseguiranno tra la metà dell'800 e i primi anni del ‘900, alcuni dei quali faranno esplicito riferimento anche ai manicomi criminali, ad esempio il “Progetto Nicotera” del 1877, prevedeva sezioni speciali presenti in ciascun manicomio, tra cui una sezione per alienati criminali inviati in manicomio in osservazione, benché si introducessero sezioni criminali all'interno dei manicomi civili non si contemplava il ricovero in queste strutture anche dei prosciolti folli38.

Va segnalato altresì, nel 1881, il progetto di legge manicomiale presentato, dall’allora Ministro dell’Interno Agostino De Pretis, dal quale emerge chiaramente anche dal titolo, “Sugli alienati e sui

36 VANNI D., OPG: un inquadramento storico, in Atti della Fondazione Giorgio

Ronchi, 59, 2004, 4, pp. 567 e ss.

37 BORZACCHIELLO A., I luoghi della follia. L'invenzione del manicomio criminale,

reperibile in www.museocriminologico.it, pag. 10.

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manicomi pubblici, privati e criminali”, l’intento di istituire dei manicomi criminali. Istituti destinati alla contenzione di coloro che fossero impazziti durante la detenzione ed anche ai folli rei. Questi ultimi avrebbero potuto esservi ricoverati solamente con ordine del tribunale e dopo la perizia di almeno due alienisti dalle quali risultasse la pericolosità sociale39.

Il progetto benché non discusso in sede parlamentare ed anzi ostacolato, fu ben accolto dai positivisti, lo stesso Lombroso manifestò il suo favore nei confronti di un proposta ritenuta di “buonsenso”40. L’iter parlamentare del progetto De Pretis, si rivelò difficoltosa perché concomitante all’imminente approvazione del nuovo codice Penale, il Codice Zanardelli del 1889, che rinviò di fatto la discussione sui manicomi criminali alla stessa sede.

Proprio nel codice in questione si affronta il tema dell’imputabilità penale, presupposto dell’istituto manicomiale per gli autori di reato infermi o semi-infermi.

Inizialmente sembrarono prevalere le istanze Positiviste, soprattutto tramite l'art. 46, voluto dallo stesso Zanardelli, che prevedeva la possibilità per il giudice penale di ordinare il ricovero nei manicomi, civili o giudiziari già istituiti, per chi fosse stato giudicato non punibile per una "deficienza od una morbosa alterazione della mente", ma con la discussione alla Camera dei Deputati e la bocciatura della norma in questione, risultò subito chiara la prevalenza della visione della Scuola classica, chiare le parole del deputato Pellegrini in aula :”Non è istituto

39 COLAO F., Un'«esistenza mezza legale e mezza no». Il manicomio giudiziario

nell'Italia liberale, in COLAO F., Perpetue appendici e codicilli alle leggi italiane, Macerata, EUM, 2011, pag. 445.

40 LOMBROSO C., La proposta di legge sui manicomi criminali, in Archivio di

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per uomini di toga sentenziare sulla patologia dei loro contemporanei. Questo è ufficio dell'arte sanitaria"41.

Non si riconosce quindi alla modernità positivista la possibilità di mutare il ruolo del giudice e la natura del suo giudizio.

La vittoria della Scuola classica sarà però solo parziale, infatti, anche se l'art. 46, del nuovo codice al primo comma ribadisce la concezione classica dell'imputabilità affermando che: "non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di mente de togliergli la coscienza dei propri atti"; il secondo comma genericamente statuisce che il giudice può ordinare con il proscioglimento la "consegna all'autorità competente per i provvedimenti di legge" nel caso in cui ritenesse il non imputabile pericoloso.

Se dunque il codice prevedeva un sistema sanzionatorio di tipo monistico retributivo ponendo il non imputabile al di fuori del circuito carcerario, lo destinava tuttavia ad un sistema di neutralizzazione ed incapacitazione più afflittivo di quello penale42.

Per i soggetti semi imputabili (minori e semi infermi), l’art. 47 prevedeva che il giudice potesse far scontare la pena in un apposito istituto: la casa di custodia, quindi, una particolare modalità di espiazione della pena detentiva. Il ricovero doveva essere determinato nella durata massima ed alla decorrenza del termine il soggetto avrebbe riacquistato la libertà "quand'anche perdurerà il pericolo inerente alla sua infermità mentale"43.

41 CANOSA R., cit., pag. 144.

42 PELISSERO M., Pericolosità sociale e doppio binario, cit., pag. 83.

43 CRIVELLARI, Il codice Penale, vol. III, in MUSCO E., La misura di sicurezza

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Riepilogando il codice Zanardelli prevedeva per i prosciolti o folli rei, non imputabili per vizio di mente, la remissione in libertà o il ricovero in un manicomio provinciale per l’osservazione provvisoria, in vista del provvedimento del Tribunale che ne disponesse o la liberazione o il ricovero definitivi, quest’ultimo revocabile dalla medesima autorità. La pena si trasforma per il soggetto assolto per vizio di mente in un trattamento neutralizzativo, e non avrà limiti legislativamente prestabiliti, anche conseguenzialmente al clima culturale dell'epoca che aveva stabilito una naturale equazione tra malattia mentale e pericolosità44.

Per i rei folli, che manifestavano squilibri psichiatrici durante la detenzione, il regime era ancor più duro, essi restavano in carcere in regime di stretta sorveglianza.

Opportuno citare l’intervento legislativo emanante il nuovo Regolamento per gli stabilimenti carcerari, tramite Regio Decreto n. 260 del 1891, in breve gli artt. 469 e 480 stabilivano: per gli alienati criminali condannati a pene superiori ad un anno, già detenuti, il ricovero in manicomio criminale su previsione del medico dell’istituto e per i condannati detenuti con pene inferiori ad un anno, colpiti da alienazione mentale o altri disturbi, che non presentassero elementi di pericolosità comportamentale, la continuazione della pena presso lo stabilimento carcerario ordinario; per gli accusati o imputati prosciolti, per i quali il Tribunale avesse previsto il ricovero definitivo in manicomio, il trasferimento nelle Sezioni separate dei manicomi giudiziari, definiti così dal 1890 fino a quando la Riforma penitenziaria del 1975 cambierà la definizione in OPG.

44 GAROFALO R., Alienazione mentale voce in Enciclopedia Giuridica Italiana, vol.

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La direzione dei manicomi giudiziari era affidata a medici chirurghi alienisti con il titolo di Direttori sanitari, alle dipendenze dei Direttori carcerari, le relazioni tra le cariche verranno definite da regolamenti interni45.

L’apertura dei manicomi giudiziari non risultò una soluzione definitiva per il problema dei rei folli, lo dimostra il fatto che nel 1904, a trent’anni dall’apertura della Sezione per maniaci di Aversa, la situazione era molto critica, lo si evince chiaramente dalle affermazioni di Filippo Saporito:” […] i manicomi criminali erano pessime carceri […] una specie di casa di rigore elevata alla massima potenza […]”46. Il Direttore generale delle carceri Alessandro Doria, cerca di correre ai ripari, affidando la direzione autonoma dei manicomi giudiziari ai medici alienisti (Regio Decreto n. 5 del 1904), iniziando così un percorso di diversificazione tra direzione medica e direzione carceraria.

Il 1904 è un anno decisivo per l’assetto legislativo manicomiale, viene emanata la Legge n. 36 del 1904 (legge sui manicomi e gli alienati), cosiddetta legge Giolitti, la quale si compone di solo 8 articoli, definendo all’art. 1 le condizioni per le quali si dispone l'internamento in manicomio: la ormai consolidata categoria della pericolosità sociale ed il suo precipitato moralistico, di costume: il pubblico scandalo. La morale diviene imperativo giuridico. Categorie inverificabili in alcun giudizio sebbene, anche in questo caso, la competenza relativa alla decisione definitiva sull'internamento viene affidata al Tribunale in camera di consiglio su istanza del Pubblico Ministero (art. 2).

45 BORZACCHIELLO A., I luoghi della follia, cit., pp. 12-13.

46 SAPORITO F., il manicomio criminale e i suoi inquilini, in Rivista di discipline

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Nonostante le dure critiche, anche in sede di discussione parlamentare, la legge venne celermente approvata, divenendo la prima legge regolatrice dei manicomi in Italia47.

Per far fronte all’esiguità della legge, che ne aveva permesso una rapida approvazione, cinque anni dopo, verrà promulgato un regolamento di esecuzione di 93 articoli redatto interamente da tecnici. L'impianto complessivo inequivocabilmente privilegerà le esigenze di custodia a quelle di cura.

Ultimo e definitivo passo importante, prima degli interventi degli anni ’70 del XX secolo, è senza dubbio la legislazione del Codice Rocco del 1930, caratterizzato dal sistema del doppio binario48.

Viene esteso il principio di presunzione di pericolosità dell’art. 222 c.p. ai soggetti non imputabili per infermità di mente e viene introdotto il ricovero in manicomio giudiziario tra le misure di sicurezza comminabili. Destinatari delle misure di sicurezza sono i soggetti imputabili, semi imputabili e non imputabili.

Nello specifico per la categoria degli infermi di mente viene previsto, in via obbligatoria ed automatica, la misura di sicurezza del ricovero a tempo indeterminato in manicomio giudiziario, mentre per i semi-infermi l’assegnazione in casa di cura e custodia. Entrambe misure che si affiancano alla pena applicata, in aggiunta o sostituzione.

Proprio il presupposto della pericolosità viene utilizzato per giustificare l’applicazione delle nuove misure di sicurezza “amministrative”, definite tali proprio dal Codice per poterle così sganciare dalla colpevolezza e legarle esclusivamente al requisito della

47 CANOSA R., cit., pag. 116. 48 Vedi infra par. 1.2.1 cap. II.

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pericolosità del soggetto49, in ossequio alla loro natura special-preventiva.

Fino alle svolte epocali degli anni ’70 del XX secolo, la normativa resta sostanzialmente invariata. Si possono citare norme del Codice Civile del 1942, che prevedevano l’applicazione degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione anche per l’infermo di mente e nello specifico l’art. 420 c.c., per i ricoverati in manicomio, che statuiva la nomina di un tutore per l’internato, con il medesimo provvedimento con il quale si stabiliva il ricovero50. Si aggiunga quanto previsto dall’art.3 del D.P.R n. 223 del 1967, ovvero la sospensione del diritto di voto per il ricoverato in istituto psichiatrico, tutto ciò fissava quasi un automatismo tra internamento ed interdizione.

2.1.3 Critica delle istituzioni totali – Goffman e

Foucault

Per una comprensione del processo culturale, sociale e politico che ha portato in Italia alla rivoluzionaria Legge Basaglia, sui manicomi civili, base di riflessioni parlamentari che porteranno al tramonto degli OPG, bisogna seppur brevemente accennare alle teorie sociologiche

49 SPURI D., Della natura giuridica delle misure di sicurezza, in Cassazione Penale,

10, 2012, pag. 3417 e ss.

50 La normativa in tema di limitazione alla capacità d’agire è stata modificata solo nel

2004 con la legge n. 6/2004, che introduce una nuova forma di tutela per l’incapace più attenuata. In merito si veda VECCHIARUTTI A., Amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione dopo la Legge 6/2004, reperibile in www.altalex.it

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